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Racconti Erotici Etero

L’isba

By 10 Marzo 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Non ce la facevo più.
Inutile proseguire.
Prima o poi sarei caduto, a faccia avanti.
Mi avrebbero scavalcato, superato, forse anche calpestato.
Eravamo tutti mortalmente deboli, la mente annebbiata dal freddo dalla stanchezza.
L’unica cosa che ricordavo era che i carri russi erano passati, travolgendoci o ignorandoci. Cos’ pure le truppe al loro seguito.
Dove andavamo?
Non lo sapeva nessuno.
Camminavamo, senza meta, senza scopo, senza rifornimenti, senza guida.
Poco distante, a destra, c’era un cumulo di neve più alto degli altri.
Mi trascinai faticosamente, lo raggiunsi, sedetti poggiandomi ad esso con la schiena.
La mano affondò nella neve, incontro qualcosa di meno freddo.
Paglia, fieno, Non so dirlo.
Allora, piano piano mi girai un poco, scavai, tolsi della neve. Seguitai a scavare, si formò come un angolo, mi intrufolai, la schiena sentiva meno il gelo.
Sarebbe divenuto il mio letto di morte.
Istintivamente, la mano, avvolta in resti di guanti e in bende arrangiate alla meglio, riuscì ad afferrare il ‘piastrino’: Giovanni Meli, sottotenente, e il numero di matricola!
^^^
Quando, dopo tanti tentativi, riuscii a socchiudere gli occhi, ero convinto che stavo delirando o, forse, che era vero che esiste un aldilà. Io c’ero.
Sentivo di essere sdraiato.
Non avevo freddo.
Non doveva essere l’inferno, c’era solo un certo tepore.
Piacevole.
Allora era il purgatorio.
Abbastanza buio, intorno.
Di fronte, non lontana, una visione.
Un lumicino, fioco, rischiarava una immagine.
Io la conoscevo, l’avevo studiato in storia dell’arte, era la Madonna di Vladimir.
Ne dedussi che stavo nel purgatorio russo.
Mi toccai addosso.
Potevo toccarmi.
Le mani non erano avvolte nei soliti stracci.
La barba era lunga ma pulita, liscia.
I piedi erano caldi, ma non stretti negli scarponi ricoperti di pezze di lana.
Indossavo qualcosa di pesante, ruvido, caldo.
Una specie di casacca.
Pantaloni della stessa stoffa, slacciati, aperti sul davanti.
Cominciai a percepire qualche rumore, come un bisbigliare, la ripetizione di frasi, una litania lenta e infinita.
Non riuscivo a comprendere una sola parola.
Gli occhi cominciavano a distinguere qualcosa.
Seduta, vicino all’icona, una figura femminile che seguitando a biascicare sottovoce, con una mano faceva dondolare una specie di cassetta. Compresi che era una culla.
Respiravo abbastanza bene.
Mi raschiai la gola.
Cercai di parlare.
Dissi una sola parola, conosciuta in quasi tutto il mondo.
‘Mama!’
Quella specie di ombra prese corpo.
Si alzò, si avvicinò a me, si curvò su me.
Il volto di una donna giovane, col caratteristico fazzoletto sul capo, e qualche filo d’oro che vi sfuggiva.
Viso regolare, dolce, bianco e rosso.
Mi disse qualcosa che non compresi.
Risposi.
‘Spassìbo, grazie!’
Seguitò a parlare, ma seguitavo a non capirla.
Si allontanò un momento, andò verso un angolo del vano, tornò con una ciotola. La depose sul tavolo, venne ad aiutarmi per farmi mettere seduto.
Mi abbracciò, mi tirò su, mi assestò la coperta.
Accostò la ciotola alle mie labbra.
Conteneva latte caldo.
Ottimo.
La donna mi guardava e sorrideva.
Per quello che si poteva scorgere, era molto giovane e bella.
Puntai il dito sul mio petto.
‘Giovanni! Ivan!’
Mi guardò sorpresa.
‘Ivan? Niet Ivan’ niet”
Fece un gesto con la mano, per indicarmi che Ivan era lontano.
Scossi il capo.
Tornai a puntarmi il dito sul petto.
‘Ivan.. dà’Ivan!’
Poi volsi il dito verso lei.
Mi guardò fisso.
‘Iel&egravena.’
Annuì col capo.
Le presi la mano.
Era abbastanza curata, dita sottili.
‘Spassìbo Iel&egravena.’
Le baciai la mano.
Mi carezzò il volto, i capelli.
Mi guardava teneramente.
‘Ivan’ Ivan”
In quel momento, dalla culla si udì una vocina.
La donna andò a prendere un fagottino che si muoveva, lo portò verso me.
Il visetto bellissimo di una bambina. Da quello che si vedeva, poteva avere circa un anno.
Iel&egravena sedette sullo sgabello vicino al mio letto, si sbottonò il vestito, estrasse una turgida mammella, rosea, con venuzze azzurre. Una tetta meravigliosa, florida, rigogliosa. La piccola vi si avventò, avida.
Era decisamente molto giovane.
Seguitai a guardarla, allungai la mano per prendere quella che aveva in grembo. Me la tese. Strinse la mia. Mi sorrise.
Con l’altra mano mi indicai nuovamente e aprii le dita per cinque volte consecutive. Speravo che comprendesse che io avevo venticinque anni.
Lo capì benissimo, perché lasciò la stretta, per un momento, e aprì quattro volte le dita. Aveva venti anni.
Poi, indicò la bimba, e alzò un solo dito.
‘Liuba!’
Cercò di nuovo la mia mano.
La bambina s’era staccata dal seno.
Dal capezzolo rosa scuro stillava una goccia di latte.
Mi venne in mente, alzando insieme le nostre mani sempre intrecciate, di raccoglierla su un dito e portarla alle mie labbra.
Iel&egravena seguì il tutto, incuriosita, sorridendo.
Ora Liuba era seduta sulle ginocchia della mamma, mi guardava, sorrideva.
La visone della affascinante prosperità di quel seno era eccitante.
Malgrado tutto quanto m’era capitato ‘e ancora non lo sapevo bene- la mia età e la lunga astinenza prevalevano su ogni altra considerazione.
Era veramente una bella tetta.
La carezzai, strinsi il capezzolo, uscì ancora un po’ di latte, lo raccolsi di nuovo, ciucciai il dito.
Iel&egravena andò a mettere nuovamente Liuba nella culla, sistemò il seno, si abbottonò. Si avvicinò a un rozzo mobile, dov’era uno specchio, tolse il fazzoletto, e lasciò cadere sulle spalle i capelli biondo chiaro.
Accese un lume.
Potei comprendere, allora, di essere in un ampio vano, attrezzato modestamente.
Ero su un giaciglio, posto vicino alla grande stufa calda, fatto di semplici assi e tavole sulle quali c’erano delle pelli. Accanto, un altro letto, più grande. Sicuramente quello matrimoniale.
Come ero capitato lì? Da quanto tempo stavo lì? Chi mi aveva curato?
Provai a scendere da quella specie di randa.
Misi i piedi per terra, cercai di alzarmi.
Barcollai visibilmente.
Iel&egravena corse subito vicino a me, mi sorresse. Mi appoggiai a lei.
Era abbastanza alta e la pesantezza dei vestiti non riusciva a nascondere la sua avvenenza.
Scosse la testa, sorridendomi.
Le grosse brache che indossavano, non fermate in vita, caddero per terra. In pratica ero coperto solo dalla casacca.
Si chinò, prese i calzoni, li tirò su, sollevò la casacca, ne legò il cordoncino.
Durante quella operazione, il mio fallo, non del tutto insensibile, era rimasto fuori dai pantaloni. Iel&egravena lo prese delicatamente e lo rimise a posto.
Mi guardò ancora, e col dito fece un gesto di rimprovero.
Mi accompagnò sullo sgabello vicino al tavolo, mi coprì le spalle con una coperta di lana.
Girando lo sguardo, notai che sul mobile dov’era lo specchio c’era il mio orologio da polso.
Volevo alzarmi in piedi, Iel&egravena lo capì e tornò a sorreggermi. Volevo avviarmi verso quel comò, lei, invece, mi spinse dolcemente verso la icona, si fermò di fronte all’immagine, prese la mia destra e la accompagnò per farmi il segno della croce, secondo il rito ortodosso, prima sulla spalla destra e poi sulla sinistra. Mi accompagnò vicino allo specchio.
Barba lunghissima.
Mi ero raso solo il giorno prima della disfatta, del caos.
Quanto tempo era passato?
L’orologio segnava le sei.
Sicuramente della sera.
Da quanto ero in quella casa?
Erano i primi di dicembre quando mi ero appoggiato al pagliaio, per morire.
In che giorno vivevo?
Iel&egravena mi aveva riaccompagnato al tavolo.
Prese due scodelle, le riempì di qualcosa che stava in una pentola sul focolare, e tornò vicino a me, anche con due cucchiai di legno.
Una zuppa di verdure abbastanza calda. Piacevole.
Del pane, un po’ duro e scuro, un pezzo di carne secca, certamente di maiale.
Per trattarsi così, durante quel periodo infernale, significava che erano riusciti a sfuggire alle razzie. Dei loro connazionali. Perché gli Italiani non erano soliti farne.
Iel&egravena mi guardò.
‘Talianski?’
‘Da!’
D’un tratto, divenne pensierosa.
Si levò in piedi, andò verso la culla, si chinò a guardare la figlia. Poi si avvicinò allo specchio, si fermò a guardarsi, prese l’orologio, lo portò all’orecchio, lo caricò, lo rimise al posto di prima.
Dinanzi all’icona si fermò, silenziosa e concentrata, si segnò tre volte, si accertò che il lumicino avesse abbastanza per seguitare a illuminare l’immagine. Da una cassa, vicina alla stufa, trasse un lenzuolo bianco, di tela pesante, che andò a stendere sul suo letto, lo rimboccò sotto le pelli, aggiustò la pesante coperta.
Andai alla piccola finestra, guardai fuori.
Non c’era l’ininterrotta coltre di neve, anche se se ne vedeva abbastanza intorno.
Iel&egravena abbassò la luce del lume. Aggiunse legna alla stufa, andò vicino al letto, si spogliò, nuda, si stese sul lenzuolo, seguitava a guardarmi con un’espressione infantile.
Quella visione mi eccitava infinitamente.
Anche se non fosse stata così bella e attraente, vedere una femmina nuda, dopo tanto tempo, mi faceva fremere, scalpitare.
Iel&egravena, per di più, era seducente, chiaramente invitante.
Sembrava che le forze mi fossero tornate improvvise, vigorose e prepotenti.
Tolsi i rozzi e pesanti indumenti, non tentai nemmeno di nascondere l’evidenza del mio irrefrenabile desiderio, e fui accanto a lei.
Mi carezzò dolcemente, mi baciò.
Mi misi tra le sue gambe, la sollevai, inarcò il bacino, e mi accolse fremente, con un crescendo voluttuoso che sottolineava con gemiti, con parole che non comprendevo.
Mi stringeva a sé, con prepotenza, sembrava volesse svellermi il sesso, strapparlo, conservarlo in se.
Mugolava, girava la testa a destra e manca, si irrigidì nel momento in cui un orgasmo indescrivibile la travolse, la squassò, la sconvolse.
La sentii rilassarsi, lentamente, e poi contrarsi ancora per mungermi voracemente per spremere fino all’ultima goccia la pur esuberante invasione del mio seme.
E giacemmo, così, io sopra a lei.
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Dal giorno della mia sortita dalla confusione in cui ero vissuto a lungo, &egrave trascorso più di un anno.
Liuba gironzola per casa.
Iel&egravena, ora, allatta Talski, come ha voluto battezzare il nostro bambino, malgrado le eccezioni del Pope.
Iel&egravena ha rapidamente appreso l’italiano, ed io solo poche parole della sua lingua.
Mi ha raccontato che lei e un’amica mi avevano trovato, svenuto e assiderato, nell’anfratto che avevo creato nel pagliaio. Mi avevano messo sulla slitta, portato a casa, spogliato, immerso nell’acqua calda, lavato, asciugato, nutrito con latte e miele, posto sulla branda nella quale m’ero risvegliato.
Ogni mattina, Iel&egravena mi aveva lavato, pettinato, curato in tutto e per tutto, come un neonato che aveva bisogno di ogni attenzione, nessuna esclusa.
Era sicura del silenzio complice della sua amica, delle poche persone che sapevano della mia esistenza.
Mi curava e pregava dinanzi all’icona.
Quando, nudo, mi lavava amorevolmente, restava a guardarmi.
Ero più giovane del suo Ivan.
Ero di capelli scuri, mentre Ivan era biondo.
Aveva nascosto il mio piastrino in un vaso di terracotta, aveva gettato via miei stracci.
Quella sua dedizione era durata più di quattro mesi.
Quando mi permise di uscire fuori, all’aperto, c’era ancora un po’ di neve, a terra. Gli alberi avevano sfumature rossastre.
La nostra vita insieme era cominciata la stessa sera della mia uscita dal tunnel dell’incoscienza.
L’aiutavo come potevo.
Le donne che venivano a coltivarne la terra, a curare gli animali, erano tutte affettuose.
Mi chiamavano Ivan, e sorridevano quando io pronunciavo il loro nome.
Dell’altro Ivan, il marito di Iel&egravena, non si parlava mai.
Tutte erano convinte che non sarebbe tornato mai più.
La guerra era finita, per loro, ma poco distante c’erano rovine. Dovunque.
Un giorno, col carro tirato da due cavalli, ci spingemmo fino a quella che una volta era la stazione ferroviaria.
Un groviglio di binari sconvolti e di vagoni sventrati.
Qui aveva combattuto anche il reparto che comandavo.
Piccole armi contro potenti carri armati.
Pochi superstiti.
Chissà dove erano.
Quella notte Iel&egravena fu più affettuosa e passionale che mai. Certo aveva letto nei miei occhi lo sgomento, il dolore, il tormento per la mia sorte, e voleva dimostrarmi che non dovevo sentirmi solo, non lo ero.
Dopo che ci fummo amati, ardentemente, si alzò, nuda com’era, prese Talski e lo mise tra noi.
Il piccolo dormiva beatamente.
Mi era venuto in mente di scrivere una lettera e di cercare qualcuno che potesse farla giungere a un ufficio postale.
Era diretta alla Croce Rossa Internazionale.
Iel&egravena mi guardò, spaventata.
Quella lettera poteva significare la mia cattura. Se tutto andava bene il mio internamento in un campo di prigionia. Comunque, il definitivo distacco da lei, da mio figlio.
Aveva ragione.
Dovevo aspettare.
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Amore, dedizione, generosità, tenerezza.
Passione, desiderio, slancio, frenesia, foga, voluttà.
Preveniva ogni mio desiderio.
Una donna deliziosa, dei bambini graziosi, belli, buoni.
Cosa poteva mancarmi?
Non so.
Devo confessare che, ormai, pensavo poco o nulla alla mia ragazza lasciata in Patria.
Ero addolorato per la mia famiglia che non aveva mie notizie da tempo immemorabile. Certo io figuravo tra i tantissimi dispersi. Gente di cui non si aveva notizia.
Sarei tornato?
Anche tra le incantevoli braccia di Iel&egravena, non potevo dimenticare il passato.
Ma ci volle un’eternità, dieci anni, prima che, dopo peripezie e ostacoli, grazie alla nostra rappresentanza diplomatica, riuscii a tornare a casa mia, con Iel&egravena, Liuba, Talski e Katia.
I miei genitori, mio fratello, sua moglie che non conoscevo, i suoi figli, non speravano più di riabbracciarmi.
La vera eroina, però, era Iel&egravena.
Era lei che mi aveva messo al mondo, la seconda volta.
Dalla Russia abbiamo portato solo l’icona della madonna di Vladimir, la foto della vecchia isba, del carro, delle sue amiche.
E i ricordi delle ore trascorse nel luogo della mia seconda vita.
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