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Né più mai scorderò la prima volta che ti vidi. Già prima di vedere te, il tuo nome sull’invito a comparire in qualità di consulente tecnico d’ufficio, mi aveva intrigato. Nome di origine araba derivante da Al-Marwa. Profumata come una pianta aromatica, calda come la scintilla di una pietra focaia e sacra come la collina che sorge vicino alla Mecca.

L’atmosfera nella sala d’udienza 708 del Tribunale Commerciale di Vienna è tesa e soffocante. Sono mesi che le controparti tentano di ammazzarsi a suon di memorie, allegati, istanze e anche i toni non sempre sono stati signorili. Il valore del contenzioso superiore ai due milioni di euro di certo non aiuta a distendere gli animi. E anche tu sei sul sentiero di guerra, decisa a non farti sommergere dal numero sempre crescente di scartoffie, e a tenere al guinzaglio avvocati, parti, e i vari testimoni. Vuoi che siano precisi, brevi e che non ti facciano perdere tempo. Io sono ben felice che non ci sia spazio per alcuna distrazione, altrimenti rischierei di iniziare a sognare a occhi aperti come spesso sono solito.

Sento il mio battito accelerare quando per caso il mio sguardo si posa sui tuoi piedi nudi – forse per il caldo ti sei sfilata le scarpe – perfettamente curati che strofini con regale disinvoltura sentendoti al riparo da sguardi indiscreti. Ti senti forse protetta dalla gigantesca scrivania che ci separa dal resto della sala. Ma io posso vedere il rosso acceso che adorna le tue estremità, in forte contrasto con lo smalto trasparente, solo leggermente lucido che hai scelto per le mani, molto più sobrie, non vistose, volutamente professionali. Un comportamento non proprio in linea con l’etiquette giudiziale come altri tuoi commenti spontanei che denotano la tua giovane età – forse troppo giovane per una causa del genere, ma sinora non c’è niente da appuntare. La dirigi e guidi con maestria.
Nella pausa del mezzogiorno ti vedo sfilarti con noncuranza il Talar coi lembi di stoffa blu di Persia che mettono in risalto il tuo viso chiaro e i capelli neri. Mi sveli la tua statura minuta, ben mascherata in aula dal palco sopraelevato che presiedi, solamente in corridoio dove ti incrocio. Mi dedichi un sorriso di cortesia, forse addirittura imbarazzato. Il sorriso di chi s’incontra al di fuori dell’ambito circoscritto delle interazioni precedentemente avute e si sente conseguentemente fuori luogo. Non sapendo far meglio ricambio con un mero sorriso circostanziale ma sincero. Difficile trovare sul momento parole che non siano inopportune per una sensazione vaga e ineffabile. E meglio che restar bloccati in un interminabile “ehm.” No, meglio soprassedere. Un bel tacer non fu mai scritto.

L’istruzione probatoria volge finalmente al termine. Abbiamo abbondantemente sforato gli orari previsti: più di nove ore d’udienza con solo le pause strettamente necessarie. In breve l’aula è deserta. Scendo i setti piani a piedi, per evitare lo smalltalk di rito dinanzi all’ascensore. Attraversata la Marxergasse con pochi passi mi tuffo nella massa che affolla il centro commerciale antistante, in essa mi perdo, indosso la maschera dell’anonimità che solo ella offre e riemergo sulla Landsstraßer Hauptstraße. Mi dirigo verso il Vapiano ivi sito. Ho bisogno di cibo, di staccare, d’inserire un qualche altro evento nella giornata che altrimenti in retrospettiva mi sembrerà infinitamente corta. Un respiro profondo. In pochi minuti siedo a un lungo tavolo su uno sgabello con mezzo litro di acqua frizzante e un calice di vino. Mi perdo nel mondo di bits e bytes dietro lo schermo nero del coltellino svizzero del nuovo millennio in attesa che il gingillo digitale affibbiatomi vibri per segnalarmi che la cena è pronta.
Il locale è praticamente deserto, quindi potrete immaginare la mia sorpresa quando intravedo una borsetta posarsi dinanzi a me. Alzo lo sguardo e mi ritrovo a contemplare Marwa.
È quasi tascabile. Compressa in massimo 160 cm di pura bellezza. Occhi scuri e capelli lisci che le incoronano il viso chiaro, simmetrico, accentuato da quegli occhiali con la montatura grande e tonda che le danno ulteriore risalto. Corpo tonico dalle curve leggere che le si addicono molto. Mi immagino che frequenti John Harris. Marwa sorride stavolta, ma è un sorriso diverso, lucente. Di certo mi ha chiesto qualcosa, mi guarda con l’aria di chi si aspetta una risposta. Ed è difficile rispondere non conoscendo la domanda.

Spazio teatralmente il locale con lo sguardo e poi sorridendo le dico: “Se vuole accomodarsi faccia pure Signora Giudice, non sarò certo io a negarLe l’ultimo posto libero.” – “Ti prego, dammi del tu. Pensavo che avrei concluso questa giornata in modo meno patetico del solito se non avessi cenato da sola, ma non ho nessuna voglia di formalità, di smalltalk sul tempo, di superficialità e di chiacchere di lavoro. Quindi questa è l’offerta o prendere o lasciare.” Rinnega insomma in una sola frase l’intero bon ton dell’élite viennese cui, mi pare più nolente che volente, ormai appartiene. Le porgo la mano e in segno d’intesa dicendo: “It’s a deal.” La stringe compiaciuta ed è il nostro primo contatto fisico.

Mi è difficile capire perché una ragazza di 35 anni, e forse meno, con un dottorato di ricerca che ha già raggiunto la vetta nella sua professione, si possa sentire patetica. Ma ci sono tante cose che non capisco. Nello spirito dell’accordo appena raggiunto glielo chiedo direttamente.

Oltre che bellissima è spontanea. Mi racconta di sé e della sua famiglia. Figlia d’immigrati di seconda generazione e di due culture che per vari aspetti cozzano ora non si sente né carne né pesce. A parole sue non è occidentale, anche se si autodefinisce viennese, ma di certo non è araba e soffre delle limitazioni che in particolare sua madre le imponeva – troppo restrittive per chi ha visto la vita anche da un altro lato. Dice di essere parecchio liberale ma d’aver la sensazione, oggi più che mai, che a tanta gente “qualcuno abbia cagato nel cervello.”

La serata prosegue molto allegra, anche se lei non tocca alcol ed io mi limito al mio ottavo. C’è intimità e sintonia. Ridiamo parecchio e mi dimentico, brevemente, delle mie preoccupazioni. Mi chiede se per caso sono interessato alla sua collana di volumi di diritto commerciale e a dei Baklava come dessert. Sorrido. “Non so se accettare sinceramente. Non fraintendermi, non è che non voglia e non voglio sembrarti troppo paternalista ma non penso che sia saggio tentare di riempire un vuoto esistenziale con del sesso casuale.”

Marwa sorride scuotendo la testa. “l’accento sul ‘troppo’.” Ora è in piedi, si avvicina e mi si accosta all’orecchio sussurrando: “Non ti sto chiedendo di riempire un vuoto esistenziale. Ti sto chiedendo di riempirmi il sottoventre. Violentemente e ritmicamente. In tutte le posizioni che conosci. Il rapporto sessuale libera ossitocina e dopamina che hanno funzioni antidepressive. Se sei preoccupato che sia depressa ora non puoi proprio tirarti indietro. O forse hai paura, anche se non capisco bene di cosa …? La colazione è inclusa nel prezzo se non mi dai motivo di sbatterti fuori prima.”

Tre chilometri, nove euro e dodici minuti dopo scendiamo nella Porzellangasse. Non ha senso mettersi a dibattere chi dibatteva per professione. Anche se è benissimo possibile stravincere un argomento pur avendo torto marcio. E più dell’ostentata sicurezza mi impressionava la fluidità dell’argomento. Forse provato e riprovato allo specchio? E per convincere chi poi?

Marwa preferisce chiamare l’ascensore invece di affrontare tre piani di scale. Schiaccia il bottone e quando la porta si richiude la sbatto contro la parete metallica e la bacio intensamente. La sollevo di peso e lei mi avviluppa con le gambe. Ci baciamo ancora. “Questa è la punizione per chi viaggia in ascensore” le dico. “Dovrei farlo più spesso”, ribatte lei, “certo forse non nel Palazzo di Giustizia …” Ridiamo. Insisto per portarla in braccio in appartamento e con qualche acrobazia per aprire la porta entriamo.

“Benvenuto nella mia reggia” mi dice mentre gesticolando regalmente mi mostra il suo piccolo appartamento. Piccolo, ma accogliente e ben arredato. Si è ricavata anche una stanza adibita a ufficio. “Qui di solito mi porto il lavoro a casa, oggi invece ho portato te.” Sparisce in bagno per “rinfrescarsi” e mi lascia ad attenderla con un drink di mia scelta (acqua frizzante giusto per esagerare). Mi guarderei volentieri intorno ma resisto alla pulsione di ficcanasare. Mi tolgo la giacca e la cravatta, finalmente. Disfo con cura il nodo Windsor e ripongo il tutto sullo schienale di una sedia. Respiro profondamente e mi apro il primo bottone della camicia. Fisso lo sguardo sul fondo del bicchiere cercandovi verità imperscrutabili e penso che la vita è strana e piena di sorpresa. La luce soffusa delle lampade dimmerate è piacevole e dalla Soundbar echeggia un sottofondo di musica da ballo.

Marwa ricompare a passi di danza sensuali. Indossa un babydoll di seta rosa semitrasparente ornato con vari pizzi a fantasia floreale che le copre stentatamente il sesso. Ad ogni movimento di danza esso si scosta ora a destra e ora a sinistra lasciandomi intravedere la sua intimità giacché altro non indossa. Due fiocchetti contornano l’incontro delle spalline col corpo e un terzo incorona il punto più profondo della scollatura. Marwa inscena un microfono immaginario avvicinandosi e si muove sempre più provocantemente con la musica.

Cause I’m good, yeah, I’m feelin’ alright
Baby, I’ma have the best fuckin’ night of my life
And wherever it takes me, I’m down for the ride
Baby, don’t you know I’m good, yeah, I’m feelin’ alright

Riesco a mettere in salvo il bicchiere prima mi che salti in braccio e mi trascini di slancio supino sul divano. Sento il calore della sua pelle bruciare attraverso i vestiti, le sue mani scorrono frenetiche a strapparmi la camicia, sento le sue labbra sul trapezio, sul collo e su tutto il petto.

Il ritornello risuona ovattato nella stanza e nella mia testa

I’ma have the best fuckin’ night of my life
And wherever it takes me, I’m down for the ride

Ci stiamo baciando intensamente e Marwa dopo avermi aperto la cintura sta armeggiando per aprirmi la patta. Va troppo di fretta la ragazza. La rigiro di peso sul divano con grande facilità e ora è lei sotto. “Ruaydan ruaydan, habibi” le dico “che fretta c’è?” La trascino a me e la sollevo con un braccio solo, con l’altro prendo un cuscino. La appoggio delicatamente sul tavolo attiguo alla parete con il cuscino ad inarcarle il bacino, il babydoll scivola docilmente all’indietro lasciandomi campo libero. Mi inginocchio al bordo del tavolo e affondo senza tergiversare la mia bocca nella sua femminilità. La sento gemere mentre le sue gambe si accomodano sulla mia schiena e la sua mano destra mi stringe i capelli. Le accarezzo le labbra con la lingua esercitando ora una pressione più forte ora più debole mentre le mie mani esplorano il suo corpo. Marwa si dimena dal piacere, dirige la mia mano destra sul seno e si fa stringere forte, mentre mi strofina il bacino sul viso secondo le sue voglie. Quando sento i suoi gemiti farsi più intensi e il respiro più piatto assalto il suo clitoride succhiandolo come se ne dipendesse la mia vita. Sento l’orgasmo diffondersi in tutto il suo corpo sotto forma di tremiti e scariche elettriche.

Marwa sembra assente ed estraniata, catapultata al settimo cielo dall’intensità orgasmica. Con calma mi spoglio, le sposto il cuscino sotto la testa per farla stare più comoda. Prendendola dalle gambe la trascino di forza verso l’estremità del tavolo finché il suo sedere non raggiunge il bordo. Accomodo le sue gambe lungo il mio petto e le appoggio alle spalle. Finisco di srotolare il manto sintetico protettivo lungo il fallo e con la destra lo guido verso la sua apertura mentre la accarezzo con la sinistra. Lo strofino dolcemente contro le sue labbra dissimulando a volte la penetrazione ma sempre interrompendola. Lei freme e mi chiede di prenderla.

“Da quanto non fai sesso?” Marwa sembra non volermi rispondere. Lascia cadere la domanda nel vuoto. “Non te lo metto dentro finché non me lo dici, sai?” le dico continuando a torturarla. Marwa malvolentieri mugugna qualcosa di poco comprensibile “chett’importa? Saranno un paio di mesi …” – “Saranno? Quindi, non lo sai? Sarebbe grave.” Ovviamente non le credo e inserisco lentamente il glande muovendolo avanti e indietro ma senza andare oltre. “È più di un anno …” Apprezzo la sincerità anche se non immediata. “Non vuoi chiedermi di scoparti selvaggiamente? È difficile che un desiderio inespresso si avveri …” Marwa ora è pensierosa, anche se è impossibile non notare anche il piacere sul suo volto. La sua fica è fradicia e desiderosa e credo che se mettesse in parole quello che il suo corpo sta urlando se lo godrebbe molto di più ma non voglio forzarla.

“Scopami, sbattimi, fottimi. Prendimi come e dove vuoi. Non ti dirò di fermarti. Trattami come una puttana di strada e come un escort di lusso, come la ex che ti scopi in un misto di odio, passione e disprezzo e come se fossi la tua prima volta. Fammi sentire desiderio e passione e ti prego fammi godere.” Conclude la frase quasi urlando perché sono entrato in lei completamente. Marwa realizza lo spessore del mio membro quando lo sente spingere e pulsare contro le pareti della sua vagina. La sua espressione è mista di sorpresa e piacere e forse di leggero dolore. Si copre il viso portandovi sopra un braccio inarcato e si lascia andare alle ondate che originano dai colpi del mio bacino contro il suo e che la pervadono in ogni fibra del suo essere. Onde d’energia e di piacere che originano nel primo chakra e da qui si diffondono attraverso il plesso pudendo, lombare e sacrale.

I’ma have the best fuckin’ night of my life
And wherever it takes me, I’m down for the ride

Dal tavolo ci spostiamo su di una sedia in un movimento fluido e all’unisono. Mentre ci muoviamo per la stanza percepisco un senso d’ebbrezza e di leggerezza come se galleggiassi nello spazio. Getta il babydoll sul pavimento e mi cavalca ora con dolcezza e ora violentemente come un’amazzone sul sentiero di guerra che cavalca a pelo la sua giumenta. È una visione celestiale. I suoi capelli ondeggiano. Il suo corpo è solcato di gocce sudore che si rincorrono e i suoi seni madidi sanno di salato. Le sue unghie lasciano una scia di desideri reconditi incisi nella mia schiena. Il tempo sembra essersi fermato. Marwa viene, ancora, impetuosamente e mi stringe forte tra i suoi piccoli seni.

Le concedo una breve pausa ma nessuna tregua. La faccio accomodare sul divano a carponi. Ora ondeggia provocatrice il suo sedere e mi godo la vista mentre mi preparo a prenderla con violenza. Una serie di colpi a mano aperta serviranno a dare un miglior colore al suo didietro. Marwa urla dapprima, forse sorpresa dalla forza dell’impatto, poi mugugna ma non si lamenta. Si è completamente lasciata andare. La prendo con foga animalesca, voglio che senta la rabbia e il desiderio. Sento la frustrazione dei tempi passati lasciarmi lentamente mentre consumo le mie ultime energie strattonandola con forza tenendole il bacino e lanciando un ultimo assalto forsennato. Il chak chak ritmico del mio bacino che cozza contro di lei e dei nostri sessi che si confondono è sempre più incalzante. Stimolo il clitoride di Marwa da dietro con una mano mentre continuo a martellarla imperterrito e mi si accascia sul membro in un ennesimo orgasmo. La vedo quasi esanime ed io mi sento prosciugato.

Riesco a trascinare lei e me stesso sul tappeto del pavimento. Mi inerpico sul suo corpo, cercando di penetrarla nella posizione del missionario. “Ancora?” chiede Marwa scuotendo la testa. “Non dobbiamo fare tutto oggi, raggio di sole. Domani è ancora un giorno …” La bacio dolcemente ovunque, sull’ombelico, sul ventre, sui seni, sul collo, sulle labbra e le sussurro all’orecchio “Stavolta lentamente e dolcemente, voglio venire dentro di te guardandoti negli occhi.” Marwa mi bacia intensamente. “Te lo sei meritato.” I nostri corpi sudati si sfregano in un ultimo dolce abbraccio mentre mi muovo lentamente dentro di lei in sincronia col suo respiro. Sento le vampate di calore montare. Marwa sotto di me geme a bassa voce. Sono prossimo a venire …

La stanza, la musica, le luci soffuse svaniscono allontanate da urla di bambini e della madre che cerca di ripristinare l’ordine dicendo loro di andare a sedersi additando in direzione di due sedie. Poi si volta con un sorriso un po’ imbarazzato. “Mi scusi, sa come sono i bambini … ” e riprende la sua borsetta già voltandomi le spalle. Ecco l’ho fatto di nuovo. Mi sono perso in una fantasia. Sembrava così reale che quasi mi pizzico per capire se sono veramente qui. Magari mi sono addormentato nel suo appartamento e questo è un sogno?

Ancora scuotendo la testa raccatto le mie due cose, ripulisco il tavolo, striscio la carta per pagare e mi avvio all’uscita. Quanto piace al mondo è breve sogno. Con l’uscio ancora in mano mi balza il cuore nel petto quando dall’altro lato, all’ingresso, vedo nient’altri che la maravigliosa Marwa in tutta la sua minuta bellezza. Le apro la porta e facendo cenno con la mano dico “Prego Signora Giudice! E buon appetito.” È strano dover tornare a dare del Lei a qualcuno con cui sino a qualche istante prima si è condivisa la più profonda intimità. Il verbo biblico “conoscere” usato per descrivere la consumazione di un rapporto carnale di certo non è una strana coincidenza. È una sacra verità. Marwa sorride, mi ringrazia distintamente. “È un peccato che abbia finito, avremmo potuto cenare insieme altrimenti. Spero sia stato di Suo gradimento.” Commento assolutamente impeccabile e conforme all’etichetta elitaria Viennese. Le auguro una buona serata e o per un attimo seguo con lo sguardo i suoi passi prima che si perda nel locale.

Ho sempre pensato che la città sia strana. Costringe perfetti sconosciuti a vivere gli uni accanto agli altri. A tollerarsi, vedersi, udirsi, ignorarsi – e di certo nell’U-Bahn nell’ora di punta a odorarsi e toccarsi a vicenda nolenti. Un episodio fortuito e magari dell’alcol fanno di due sconosciuti rapidamente due amanti, due partner e forse due compagni. Ma il più delle volte tornano ad essere perfetti sconosciuti in grado di rimuoversi chirurgicamente dalla vita dell’altro senza lasciare traccia. La Marwa che ho conosciuto nei miei deliri ha poco niente a che fare, come ne ho appena avuto riprova, con la persona di cui condivide le fattezze fisiche, così lascio che continui ad esistere almeno tra le righe di questo racconto.

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