Osservavo la situazione. Uomini e donne dell’alta società di Dumadronea, città delle Insulae Britannicae ricca e prospera.
Banchettavano. Era ormai da ore che andavano avanti. Io e gli altri tre membri della Sicurezza eravamo in silenzio, composti. Uno straordinario contrasto con il loro essere chiassosi e ciarlieri.
Il più giovane degli invitati avrà avuto quarantacinque anni, a essere generosi. Il più vecchio, settanta.
I servitori portavano i piatti senza fiatare, un andirivieni di gente che portava piatti colmi, ritirando quelli vuoti con una sincronia che trovavo coreografica, ma l’intuiva la loro stanchezza. Il banchetto era iniziato alle 19.00 ed erano ormai le 21.49, secondo il cronografo che avevo al polso.
Quel banchetto era il festeggiamento per l’inaugurazione del nuovo impianto minerario della città. Casualmente, tutti i presenti avevano investito qualcosa in quel consorzio.
E altrettanto casualmente, sarebbero divenuti tutti schifosamente ricchi, più di quanto già lo fossero, beninteso.
Una delle donne al tavolo rise, sguiata. Palesemente alticcia, la bionda Venere guardò verso la mia direzione e si chinò a mormorare qualcosa all’orecchio di un uomo che, a sua volta, ridacchiò divertito.
Non me ne curai. Il mio compito era proteggerli. Proteggerli da qualunque minaccia, anche solo supposta, anche solo apparente. Il mio dovere era quello. E loro lo sapevano. C’era altro che non sapevano.
Tipo che non ero arrivato sino a lì per caso. O che avevo passato anni a lavorare il legno, le materie dure, per poi apprendere altre notioni, sino a quel momento. E che essere lì era… schifoso.
Quella gente era la punta di diamante della nuova era della Pace di Licanes, ed erano delle sanguisughe.
Nessuno di loro aveva brandito una lama in vita propria, o mai davvero temuto per la propria vita.
Nessuno di loro aveva conosciuto la fame, la vera fame, quella che ti tiene sveglio la notte, che ti fa sentire come se lo stomaco ti si rivoltasse come una calza. Nessuno di loro era stato braccato…
E tutti loro erano ricchi, già prima di quella cena e del progetto che aveva portato a quella celebrazione, erano ricchi sfondati. Opulenti.
Scambiai uno sguardo con uno dei colleghi. Lui annuì appena. Tutto tranquillo. Nulla da segnalare. Lasciai roteare lo sguardo lungo la sala, sino a fissare un punto vuoto. Socchiusi gli occhi, alleviando i sintomi di un mal di testa enorme che stava montando.
Altre risate chiocche. Un servitore incespicò con i piatti, riuscendo a evitare di cadere per divina intercessione. Le luci della sala si abbassarono appena. Regolazione programmata in base all’orario.
-Un brindisi! Alla prosperità! Alla ricchezza che la nuova miniera porterà a Dumadronea!-, esclamò una donna.
Africana, o almeno la pelle scura così la classificava, seni piccoli, capelli neri lunghi tenuti in quello che a inizio serata doveva essere stato un ordine perfetto e che ora, dopo ore di baldoria, cedeva lento il passo a increspature di entropia. Occhi grigi. Rari. Notai il suo sguardo. Mi fissò di rimando con un sorrisetto. Furbo? Forse.
Sapevo chi era. Sapevo chi erano tutti loro. Lei era Camelia Arminsia Dusia, onorevole (forse) direttrice per lo sviluppo minerario. In terra africana era nata ed aveva fatto carriera dopo un primo impiego presso le zone di Numidea ed Aegyptus. Nulla da dire: un soggetto notevole. A quarantasei anni aveva un fisico magro, snello. Piacevole a vedersi.
E una mente che le aveva permesso di arrivare sin lì, al vertice della catena alimentare degli Ipseviri, gli uomini che si fanno da sé…
Il suo vicino sorrise: grosso e pasciuto, Urmio Cansio Maio era il prototipo di Romaneo d’altri tempi. Grassoccio e dal viso abbondante, pareva proprio il genere di persona che amava oziare. Era adagiato mollemente sulla sedia, che pareva aver scelto solo perché da un lato c’era Camelia e dall’altro una nobildonna chiamata Laetitia Prisca Orla, la quale invece dimostrava un contegno arcigno, occhi blu penetranti e capelli biondi. Le ascendenze nordiche erano visibili, ma a stupirmi era il contrasto con Camelia. Il giorno e la notte, a livello d’aspetto.
Mi concentrai nuovamente sull’insieme. Nulla da segnalare. Un servitore incespicò. Impossibile stavolta sovvertire il fato: il piatto, con posate e tutto, cadde atterrando sul pavimento dove s’infranse in tre parti bene o male distinte e una miriade di schegge.
-Incapace!-, tuonò il padrone di casa. Amrano Clavio Umido era un despota grasso e pasciuto quanto Urmio, ma dal temperamento collerico e nervoso, -Servo inetto! Cosa ti tengo al mio servizio a fare?!-, ringhiò.
Il servo, genuflesso, si prostrò implorando perdono.
-Ti dovrei licenziare!-, gridò Clavio, alzandosi dallo scranno mentre la bionda alticcia che aveva accanto rideva come un’oca imitata prontamente da alcuni dei suoi commensali forse speranzosi di qualche approccio.
-Mio signore…-, mormorò il poveretto ancora prostrato, tremebondo, -La prego di perdonarmi…-.
Amrano sorrise, benevolmente.
-Portami del vino. E non fare altri casini. Per questo piatto ti sarà dedotto il valore corrispettivo dalla paga. Non verrai licenziato, poiché sono un uomo generoso e magnanimo, ma un altro errore ti vedrà in strada prima che il sole sorga!-, sentenziò. Applausi da diversi commensali. Non così da Camelia, notai. La donna osservava, senza reale interesse.
-Grazie, signore! Grazie infinite!-, esclamò il servo. Io notai che però delle lacrime solcavano il suo viso.
Non erano di gioia: quella suppellettile costava almeno tre suoi stipendi. Amrano aveva condannato quell’uomo a dover pagare con i suoi prossimi tre mesi di lavoro.
Decisi. Feci un cenno all’altra guardia. L’uomo, un iberico con cui avevo avuto modo di parlare, mi sorrise appena. Si mosse coprendo la mia posizione mentre uscivo dalla sala.
Intercettai il servo nel disimpegno del corridoio. L’uomo, i resti della suppellettile raccolti con una spazzola, mi fissò.
Estrassi la moneta dalla tasca e gliela diedi. Una moneta d’argento. Complessivamente, valutai doveva valere almeno uno stipedio mensile.
-Signore… cosa?-, chiese lui, stupito e inebetito.
-Prendila e basta. Non esiste che io permetta questo.-, dissi io.
-Mio signore, io… non posso.-, rispose lui con sdegno. Gli chiusi il pugno sulla moneta.
-Non posso io, permettere che un uomo viva come un animale.-, dissi.
-Mio signore… grazie… ma… voi… qual’é il vostro nome?-, chiese.
-Il mio nome…-, dissi io, -È scritto nel vento.-.
Mi volsi e tornai in sala.
Non era accaduto molto: il baccanale era andato avanti. Altro vino. Altre chiacchere. Uno dei conviviali aveva dovuto rigurgitare per poter riprendere a ingozzarsi con la nuova portata.
Io attendevo, calmo. Le altre guardie, ai lati opposti della sala, erano altrettanto immobili. Erano un uomo e una donna, entrambi gonfi di muscoli e grossi tanto da apparire ipertrofici sotto le vesti viola forniteci dall’anfitrione.
Camelia Arminsia Dusia si alzò. Necessità fisica, lo vedevo. L’abito verde ramato che portava valorizzava il fisico, ed era sopravvissuto indenne all’interezza del baccanale, a differenza delle vesti di molti conviviali. Camminò rapida sui tacchi sino alla porta. Poi mise un piede in fallo. L’equilibrio compromesso, cercò di riguadagnare stabilità senza successo. Sarebbe caduta. Se non l’avessi sorretta. La presi con un braccio, bloccando la caduta, sentendo sotto la mano i muscoli del suo braccio. Definiti, ma non eccelsi. Frutto di un moderato esercizio fisico volto all’estetica.
-Grazie.-, disse lei mentre staccavo la mano. Sorrisi.
-Dovere, mia signora.-, dissi.
-Nulla da segnalare, deduco.-, la sua voce aveva un timbro roco, sensuale.
-Nulla.-, confermai io.
-Per caso, potresti indicarmi dove sono i licaetes?-, chiese usando la parola altolocata per “servizi igenici”.
-Certamente, mia signora. Ma ciò impedirebbe l’esercizio delle mie funzioni.-, risposi, composto.
-Oh, perdonami. È che… potrei inciampare nuovamente. Mi sentirei molto più sicura se tu vegliassi sul mio cammino.-, insistette Camelia. Se era un tentativo di approccio, era quantomeno sfacciato. Sorrisi con un ghigno.
-Naturalmente, mia signora. Voglia seguirmi.-, dissi.
Feci segno alla guardia di sostituirmi.
Scortai Camelia Arminsia Dusia verso l’uscita della sala.
-La tenuta di Amrano è oltremodo vasta. Un vero labirinto, concordi?-, chiese.
-Un autentico dedalos, mia signora.-, dissi io, composto. Camelia non pareva aver fretta di arrivare a espletare i propri bisogni e io non l’affrettavo. Non che quella donna non fosse bella, ma il suo approcciarmi pareva un mix di caso e premeditazione. Perché? Semplice noia? Eccitazione dovuta al successo in attesa di uno sfogo fisico e/o emotivo?
O pura e semplice stravaganza? Magari c’era nel suo animo il desiderio di trasgredire…
-Quante camere da letto avrà?-, chiese l’africana mentre avanzavamo oltre le cucine.
-Almeno quattro.-, risposi, -Di cui due inutilizzate.-, mi permisi.
-Uhm.-, fece lei con un sogghigno, -Stai suggerendo un uso alternativo di simili locali?-.
-Forse.-, ammisi io, -Ma non mi permetterei mai di inoltrare tale domanda senza seguire la procedura vigente.-.
Lei sorrise. Sapeva, come sapevo io, che era una battuta rivolta al suo impiego. Ricollocamento di risorse, autorizzazioni per la riconversioni di lotti incolti o da coltivazione in lotti da costruzione, perizie, clausule, tutta roba che passava per le mani di Camelia. L’africana sorrise mostrando denti bianchi e gengive più scure delle mie.
-La procedura potrebbe venire accorciata, in modo estremo… Solo per quest’eccezionale circostanza…-, paventò.
-Mi sento lusingato… ma non vorrei che rischiaste di avere problemi con i Praefectii.-, dissi. Lei fece per andare a destra. Direzione sbagliata. Le presi il polso guidandola verso sinistra. Non lasciai la presa.
-I Praefectii… spesso vedono solo ciò che gli si dice di vedere…-, sussurrò lei. Eravamo vicini. Il suo profumo era un mix del suo odore naturale, assolutamente piacevole, e di un essenza ricercata che non colsi.
-Lacuna giuridica?-, chiesi. I nostri visi erano così vicini. Sarebbe bastato poco, pochissimo.
-Intenzionale divisione.-, corresse lei. Altri centimetri si annullarono. Le mie labbra potevano quasi toccare le sue.
Lo fecero. Piano. Lentamente. Il mio sesso era rigido e il cuore mi batteva più forte mentre sentivo Camelia contro di me, la morbidezza del suo corpo contro il mio. Sorrisi quando si staccò dopo un bacio sicuramente casto, ma nient’affatto breve o cerimoniale. Era evidente il mio desiderio e anche il suo non doveva esser celato.
-Propongo di tornare a considerare quel ricollocamento…-, disse Camelia.
-Una deviazione quantomai interessante dalla procedura iniziale.-, risposi. Non stavo dicendo “no”.
Camelia sorrise, indubbiamente con malizia.
-Magari è una deviazione più consuetudinaria di quanto tu creda…-, disse.
-Oh, in tal caso…-, dissi io, -Tuttavia mi pareva che l’intento iniziale fosse un altro…-.
-L’intento iniziale ha subito una riduzione di priorità.-, mi rassicurò lei. Sensuale, ma ferma. I suoi occhi erano quelli di una donna che voleva il sesso. Mi domandai fugacemente quanti altri uomini avesse guardato così.
E mi accorsi che non aveva molta importanza. Sorrisi.
-Propongo di procedere secondo una nuova metodologia. Una in cui, se permettete, passerei a una forma confidenziale.-, dissi.
-Per poterlo fare, mi occorrerebbe conoscere il tuo nome. Il mio ti é noto.-, disse lei.
-Il mio nome è scritto nel vuoto.-, risposi io. Camelia ammiccò. Non capì. Non insistette neppure.
Sorrise. E sorrisi anche io. Le presi il polso.
-Vieni.-, dissi. E stavolta non era un suggerimento.
Una sovversione dell’ordine: una ricca dignitaria dello Stato che seguiva un guardaspalle. In un bagno.
Una latrina, come l’avrebbero chiamata i ceti meno abbienti. Pulita, linda, immacolata, con pareti in marmo che da sole valevano più di tutto il mio stipendio per i prossimi otto mesi, ma pur sempre una latrina.
Camelia entrò chiudendo la porta. Mi spinse contro la parete baciandomi. Aggressiva. Non ero solito subire, ma glielo lasciai fare mentre la sua gamba destra mi si strofinava contro il sesso in erezione.
-Era questo che avevi in mente?-, chiese staccandosi dopo un bacio in cui le nostre lingue avevano danzato.
-Non ne hai idea.-, dissi io. Nessuna formalità. Nessun galateo. In quel momento e in quel luogo, qualunque differenziazione tra noi era venuta meno. Le artigliai la nuca portandola a baciarmi di nuovo mentre la sua mano mi s’infilava sotto la veste, accarezzandomi il petto. La mia lingua le entrò in bocca, alfiere della nuova conquista.
La nera parve rilassarsi, o forse godere. Emetteva ansimi, mugolii. Bramava me. E io lei.
La presi per le spalle, spingendola contro la parete, a lato del lavabum. Si staccò, gli occhi accesi di lussuria.
-Bastardo!-, sibilò. Una fiera. La bloccai contro il muro, baciandole labbra e collo. Sfilai le spalline del’abito.
L’abito verderame scivolò lungo il corpo della nera come una cascata di tessuto. Sotto, i seni erano avvolti da una fascia e solo un intimo minimale celava il sesso. La contemplai un istante. Era bella.
-Forse, vorresti la sicurezza che eventuali altri ospiti non ci colgano in questa situazione?-, chiesi. la sua risposta fu un bacio aggressivo quanto gli altri mentre la sua mano mi affondava tra le gambe, oltre i tessuti sino a impugnare ed estrarre il mio sesso. Lo manipolò piano, lentamente.
-Non credo che ciò sia minimamente un problema, al momento.-, rispose sottolineando quasi ogni parola con un movimento della mano.
-Allora, con il tuo permesso, procederei alla verifica di un sito idoneo alla trivellazione…-, dissi io. Lei mi baciò, prendendomi una mano e piazzandola tra le gambe. Sotto il tessuto c’era un umidore muschiato. Camelia non stava mentendo: era eccitata, forse persino dalla consapevolezza che se qualcuno ci avesse sorpresi le conseguenze sarebbero state devastanti per entrambi. Accarezzai l’intimità di lei attraverso il tessuto sentendola gemere. Di riflesso, mi strinse il pene. Abbassai quell’ultima difesa con una mano e lei mi respinse ma solo il tempo necessario ad abbassarla definitivamente, finché non la bloccò all’altezza di una caviglia.
Le mie dita accarezzarono piano il suo sesso. La nera gemette con voce roca mentre le guidava ad accarezzare la protuberanza del clitoride che spiccava, roseo sulla carne d’ebano e poi ad affondare tra le roride e umide pieghe del sesso in apertura. Mi masturbò, piano. Non voleva farmi godere, almeno non subito.
Affondai un dito in lei. Lo girai dentro di lei. Camelia emise un gridolino strozzato che tacitai con un bacio.
Lei abbassò appena la fascia, esponendo i seni, piccoli e un po’ cadenti, com’era di natura presso certe etnie d’Africa.
-Leccameli!-, ordinò. Obbedii sentendoli ergersi mentre lei mi teneva la testa per godersi quel trattamento.
Infine, mi strappai al suo controllo. La sollevai sul lavabum, facendola sedere sull’orlo e puntai il sesso all’imboccatura della sua vagina. Camelia mi accolse con un gemito prolungato che terminò in un esclamazione di godimento.
Sentii la sua vagina accogliermi. Le sue profondità erano roride e frementi, mi stringeva con muscoli che controllava con il puro istinto. La fissai.
-Procedo alla trivellazione, allora.-, dissi. Lei mi avvinghiò con le gambe e con le braccia, graffiandomi la nuca nel processo. Spinsi contro di lei e poi mi ritrassi. A ogni colpo, la sentivo gemere e mormorare.
La mia lucidità rischiò di venire disciolta in quel godurioso oblio. La sentii dire qualcosa.
-Nome… il tuo nome…-, mormorò ad ansiti lei al mio orecchio prima di cercare nuovamente la mia bocca.
Strinsi un suo seno con foga. Ero vicino al limite. Non intendevo trattenermi, né pareva volerlo lei.
-Il mio nome…-, mormorai io, -Ti guida nel fuoco.-. Lei ringhiò mentre la sentivo stringersi in uno spasmo di piacere.
-Il tuo nome…-, insistette la nera, cercando di aumentare il ritmo.
L’odore del suo piacere, del mio, mescolati, erano inebrianti. Camelia Amrinsia Dusia era travolta dal piacere. La sentivo così prossima al godimento da poter intuire che anche io non ne fossi distante.
-Il mio nome…-, dissi stringendola e affondano appieno in quella nera figlia d’Africa.
-Siiii-, mugolò mentre mi baciava il collo, in attesa.
-È alle radici della terra.-, completai. Disappunto sul suo viso, durò una frazione di secondo. Affondai ancora, cancellandolo, vedendolo rimpiazzato dall’estasi del piacere.
-Dolcemente… ora…-, mormorò lei. Eseguii. Colpi superficiali, pochi, rapidi, poco profondi.
-Il tuo nome…-, osò ancora, mentre le vezzeggiavo i seni con la lungua. Affondai una mano tra le sue cosce, uscendo da lei e introducendo un dito per tutta la sua lunghezza fino alla nocca nella rovente intimità di Camelia. Lo sfilai e lo leccai. I nostri umori mischiati avevano un gusto e un’odore che annientarono momentaneamente il mio presente.
Camelia succhiò quel dito come fosse stato un sesso mentre tornavo dentro di lei con il mio. Smise dopo alcuni secondi.
-Godo… godo…-, esalò mentre stantuffavo, ero vicino anche io. Sentivo il sesso pulsare, il mio intero essere teso in quell’atto, come un’arco nel tiro.
-Il tuo nome!-, esclamò lei. Ora c’era rabbia. Stantuffai ancora. Tre colpi, poi altri tre superficiali, poi altri tre.
-Il mio nome…-, dissi fissandola. Lei emise un sibilo, o un ringhio, che pareva quello di una fiera, -Fluisce con l’acqua.-.
-Bastardo…-, sibilò lei. Si sfilò quasi. Spinsi impalandola. Fremette. Il marmo sotto di noi era divenuto caldo al contatto coi nostri corpi, lordato dei nostri succhi.
-E ora… mi godrai dentro, vero?-, chiese Camelia con un ghigno lascivo.
Non risposi. Aumentai il ritmo, vertiginosamente. La sentii collassare: la sua vulva parve subire uno smottamento mentre le pareti delle mucose sospinte dai muscoli sottostanti si chiudevano sul mio sesso che pulsava sempre più, sino a… a paventare quell’attimo, fulmineo, in cui la scelta era tra godere o no, tra chiudere la diga e sublimare o meno.
Non sarei riuscito a trattenermi se non scegliendo di farlo in quel preciso istante, ma perché farlo?
Sentii l’esplosione giungere. Potevo immaginare gli schizzi di sperma colpire le mucose della nera, invaderne l’intimo vestibolo, correre a perdersi in lei. Non avrebbero dato frutto, lo sapevo: Camelia Arminsia Dusia non si sarebbe mai permessa una gravidanza indesiderata da parte di un oscuro amante.
Paradossalmente, era stata disposta a correre l’immane rischio di venire scoperti, ma non intendeva permettere al mio seme di germinare nel suo ventre.
-Aaaahh.-, si abbandonò contro di me, rilassata, completamente, come una predatrice sazia della preda.
La lasciai riprendere fiato, come me.
-Non mi hai… neanche detto… il tuo nome.-, sussurrò.
-Il mio nome…-, mormorai io. Il cuore pareva una bestia autonoma pronta a balzare dal petto, il respiro era rado, -È nella luce dell’alba.-. Lei sorrise appena, fissandomi. Lentamente, si staccò da me.
-“La fredda luce dell’alba nell’ora tersa del mattino.”-, disse mentre mi fissava, -Olbio Flacco. Terzo secolo dell’Impero.-.
-“Che non porti al mondo rimasugli di oscura crudeltà ma lieta gioia della nuova era che si apre come superna ostrica che reca in dono la perla del fato”.-, continuai io, a memoria. Lo stupore sul suo volto non era dissimulato.
-Disciplinato, bravo a eseguire… trivellazioni, e anche acculturato.-, disse, -Potrei avere un lavoro per te. Uno che potrebbe rendere questi nostri incontri molto più che una fugace eccezione alle procedure…-, ventilò l’ipotesi con casualità. Io sorrisi.
-Ci penserò.-, dissi, -Ma ora ritengo che entrambi si debba tornare ai nostri posti.-. Lei annuì. Prese a rivestirsi, esaminando con occhio clinico il vestito che, abbandonato al suolo, poteva magari essersi sporcato.
Apparentemente, la Dea della Fortuna anticamente venerata, o qualche nume tutelare, aveva evitato quella sventura.
-Vado prima io.-, dissi. Ero già pronto.
Uscii dal bagno. E fu lÌ che accadde. Percezione del pericolo. Una corrente fredda.
Mi attraversò, annichilendo i rimasugli di piacere, strappandomi al terso oblio del piacere ottenuto.
E giunse, sulle ali di quella, un suono. Al mio orecchio sinistro. Un vox minimale, da sicurezza.
-Rispondi.-, disse una voce. La conoscevo.
-Ci sono.-, dissi in conferma premendo la ricezione. Scivolai verso destra, verso le camere e l’ala privata della residenza.
-Il codice è Hecates.-, disse la voce.
-Hecates. Ricevuto.-, risposi. Eccolo. Era giunto come avevo previsto, l’inevitabile termine della serena serata,
-Richiedo info.-, dissi, seguendo la procedura.
-Stanza tre.-, rispose la voce. Seguii l’indicazione. Stanza tre. Buia. Letto, suppellettili pacchiane, affreschi e un terminale dati, acceso. Acceso per me.
-Ci sono.-, dissi. Benedissi la mia prudenza: aver condotto Camelia ai servizi igienici invece che aver optato per una stanza mi aveva realisticamente salvato. Inserii la parola-codice per accedere ai dati. C’era un solo file. Lo aprii con un tocco sullo schermo. E altri dati ora mi filtravano davanti. Assorbii. Fissai. Per un lungo istante.
Poi lo chiesi.
-Quanto sono accurati?-, chiesi.
-Totalmente. Rilevazione quadruplice.-, disse la Voce.
-Ricevuto.-, dissi. Non c’era scelta. Se non una. La sola possibile.
Il baccanale continuava. Spiccava, tra i nobili, l’assenza di Camelia. La nera bellezza non era ancora tornata dal bagno? Forse. Oppure… oppure tra tutti loro, lei aveva presagito qualcosa? Improbabile.
-Alla buon’ora!-, esclamò il padrone di casa.
-Perdonatemi, signore. Un allarme di livello uno ha rischiesto la mia attenzione.-, dissi.
-E la nostra graziosa direttrice?-, berciò Urmio Maio, il calice sollevato con un accenno d’incertezza.
-Ancora ai servizi igienici, temo. Non sarebbe buon costume da parte mia indagare in un momento tanto intimo.-, dissi.
Impeccabile. La risata chiocca della bionda mise a tacere tutti quanti e la cena riprese.
Feci due segnali. Uno e uno al microfono. Appena dei fruscii.
-Ricevuto.-, disse una voce. Diversa dalla Voce.
-Miei signori!-, esclamò l’anfitrione, Amrano Clavio Umido in posa da trionfo, mentre i sevitori portavano un proiettore OculumTerrae di ultima generazione e lo attivavano proiettando una riproduzione olografica 3D della futura miniera,
-Osservate! Questo è ciò che celebriamo!-. Applausi, vari. Anche i miei, composti e ammantati di scherno consapevole.
-Un vero trionfo!-, esclamai con voce sufficiente. Amrano si volse verso di me, furente.
-Un autentico capolavoro… Di certo supportato con eccezionali investimenti da molti dei presenti…-, continuai.
-Ricorda il tuo posto, guardia.-, sibilò Amrano, -Temo tu abbia indugiato in cucina, tra anfore di vino.-.
-Oh, io temo voi abbiate indugiato tra luoghi oscuri, dove la mente si piega alla brama.-, risposi freddo.
-Che diavolo significa?-, chiese Laetitia Prisca Orla, l’espressione sgomenta.
-Significa la più turpe delle macchinazioni, elevata allo stato dell’arte da una manovra che oserei definire macchiavellica.-, dissi citando in causa un uomo morto eoni prima ma ancora noto per l’acume politico.
E per la spregevole capacità di scendere a compromessi con la moralità sin quasi a perderla.
-Guardie! È palese che il nostro Amaltius è vittima di un raptus di follia! Intervenite!-, esclamò Amrano.
Movimenti. La guardia accanto alla porta avanzò verso di me, sincronica con gli altri. Attesi. Non mi mossi.
Fino a che non fui certo dell’attacco. Uscii diagonalmente dalla traiettoria. Mi riposizionai. Sette metri di balzo. Estrassi la mia arma, recuperata dalla stanza tre e nascosta sotto l’abito. Deposito abusvio, non controllato per quell’occasione. Puntai l’arma a proiettili solidi sulle guardie, tutte. Sicura tolta, colpo in canna e dito sul ponticello.
Armati di storditori elettrici e manganelli, non erano pronti a una simile minaccia. La stasi delle guardie si trasmise a tutti gli altri. Io feci loro un cenno. Obbedirono schierandosi contro la parete di fondo, dopo aver gettato a terra le “armi”. Presero posizione senza osare protestare.
-Tu sei pazzo. Completamente pazzo, Amaltius.-, disse Laetitia.
-E voi siete putridi.-, risposi io, pacato. Mi avvicinai al proiettore, estraendo una piccola periferica dati. La inserii.
-Le vostre scansioni sono molto accurate. Giacimenti massicci, ottanta percento di rendimento già dal primo mese.-, dissi con totale calma gettando di tanto in tanto uno sguardo ai bodyguard, -Quali magnifiche condizioni per questo nuovo sodalizio! Posso solo immaginare quanti lavoratori staranno preparandosi a trasferirsi in zona, quanti appalti, quanti movimenti finanziari… E tutta questa ricchezza, signori, a fronte di un investimento minuscolo.-.
-Partiamo dal nostro solerte e draconiano anfitrione. Centoventitrémila Calus? Una cifra irrisoria per dei nababbi.-, dissi mentre fissavo il gruppo, -Una cifra compensata ampiamente dalle entrate per gli appalti, dai diritti di sfruttamento… E poco importa se quei diritti si basano su scansioni che potrebbero essere modificate, no? Sono solo affari!-.
-Tu andrai a fondo, Amaltius! Ti faccio sparire!-, minacciò apertamente Amrano Clavio, Umido di nome e di fatto vista la sudorazione che mostrava, -Tu l’alba di domani non la vedi!-. Ora in lui non c’era più nulla di nobiliare.
-Ah, quella fredda luce rivelatrice… Ma passiamo alla nostra assente Camelia. Chi se non lei avrebbe potuto avallare dei dati… incompleti? Fallaci? Scegliete voi il termine. Chi se non lei avrebbe potuto farlo? E chi avrebbe avuto motivo? Beh, in fin dei conti, è un modo per ripagare i debiti. Come il massiccio debito fatto da lei ed estinto grazie a un versamento anonimo in valuta digitale!-, esclamai, -E chi avrebbe potuto rendere la finzione verità se non lei?-.
-Tutte balle! Sono tutte balle!-, strepitò Laetitia.
-Ah, sicuro. Come balle sono le vostre casse piene.-, dissi io, -Nevvero? Non è forse vero che tu Laetitia Prisca, hai uno scoperto di quarantamila Calus?-. La bionda sussultò manco fosse stata colta da una scudisciata.
-Siete tutti sul lastrico.-, dissi mentre udivo i passi dei Praefectii in arrivo, -Ma piuttosto che accettare, avete voluto l’avidità. Avete preferito il miraggio. Avete nutrito l’illusione e la rapacità. Avete nutrito il demone.-.
I Prraefectii entrarono. Falange d’attacco, armi puntate. Non su di me, su di loro.
La proiezione ora mostrava una mappa quasi uguale, solo priva dei giacimenti.
-Non c’é niente lì. Nessun minerale prezioso, niente.-, conclusi, -Non c’è mai stato.-.
Caos. Puro. Proteste, intimazioni, minacce si levarono dagli accusati mentre i Praefectii stringevano il cerchio su di loro e, con metodo e senza troppi riguardi, li ammanettavano.
I guardaspalle furono ignorati. Tutti. Non erano importanti. Due dei Praefectii si fermarono davanti a me.
-Ottimo lavoro.-, disse soltanto.
-Era il mio dovere.-, risposi. Era vero. L’altro annuì.
-Confesso che noi avremmo preferito evitare di lavorare con te, ma i tuoi… alleati hanno portato prove molto convincenti. Mi dispiace solo che quella donna, Carmelia…-
-Camelia.-, corressi io.
-Quella, sia sfuggita.-, disse il Praefectus. Era un giovane di trentacinque, forse trentasette anni. Buona forma fisica, sguardo luminoso. Era uno che ci credeva, o lo sembrava.
-Non potrà andare lontano.-, dissi io. Dentro di me, avevo il presentimento che l’avrei rivista, presto.
La notte era quieta, e correva. Era mezzanotte? O la una? La una, dovendo dare retta al mio orologio biologico. Gli arrestati erano stati portati via. Potevano parlare di connessioni quanto volevano, ma con le prove schiaccianti che avevo portato non avrebbero potuto difendersi in nessun caso. Le pene sarebbero state oltremodo severe.
Era stato l’unico modo: un Justicar generalmente non operava così, ma quella gente era stata inarrivabile. Da solo, non ce l’avrei fatta. Vederli dietro le sbarre o ai lavori forzati ab vitam sarebbe dovuto bastare. Eppure, l’unica cosa che incrinava un successo, era Camelia.
Sentii sulle dita il suo odore, ancora. Scossi il capo. Anche quei momenti si sarebbero dissolti nel vuoto. Era così che doveva essere, un ricordo piacevole, ma passato. Irreplicabile.
I due Praefectii mi sorrisero. Uno più apertamente e sinceramente dell’altro.
-Il tuo lavoro qui è finito, Justicar.-, disse l’altro, secco. Era un ufficiale di medio rango.
-Sì. Penso sia ora che io vada per la mia strada.-, dissi io. Che altro c’era da dire?
Mi piaceva credere che quell’alleanza avrebbe potuto portare la gente a chiedersi se davvero i Justicarii erano i nemici che temevano, ma la verità era che non stava a me. Avevo svolto il mio compito, la mia parte lì. Avevo reso quella città un posto migliore. Doveva bastarmi.
Mi voltai, verso la strada. I due Praefectii fecero qualche passo, non molti.
Idealmente, parevano volermi scortare, forse. O forse sorvegliarmi.
Non fecero nessuna delle due cose. Non ne ebbero il tempo.
Il primo sparo giunse da destra. Seguendo un riflesso condizionato mi buttai a terra.
Il Praefectus giovane, quello che era parso idealista, si portò le mani al viso leso.
Non completò il movimento: un secondo colpo lo centrò al collo mentre cadeva. Esecuzione quasi perfetta. L’altro fece per attivare lo scudo, dotazione di base dei Praefectii. Riuscì a colpirlo per attivarlo ma il proiettile successivo lo centrò al collo uscendo dalla nuca. Colpo letale. Estrassi l’arma e sparai. Tre volte. Niente. Mi riposizionai. Mai restare fermo!
Presi copertura dietro un vaso. Uno sparo staccò un pezzo d’intonaco dal muro grande come la mia mano destra. Sparai di risposta. Nulla.
I due Praefectii erano morti, e la via era deserta. La notte avanzava lenta. Se anche qualcuno avesse chiamato i soccorsi, ci avrebbero messo un sacco ad arrivare.
Lasciando a chiunque fosse il mio assalitore (perché ero convinto che se fossero stati di più di uno mi avrebbero già accerchiato o ucciso) il tempo di finire il lavoro.
Attesi. Mi lanciai a destra, rompendo copertura. Sparai tre colpi. Poi lo sentii.
Il peso della pistola me lo disse, prima del cane che batteva a vuoto.
“Questo potrebbe essere un problema.”, pensai mentre posavo l’arma.
-Un vero peccato, finire le munizioni così.-, disse una voce roca, nota.
Camelia Amrinsia Dusia uscì dalle felci. L’abito in verderame era sparito, sostituito da un giustacuore nero e da calzoni (abbigliamento tipico di alcuni popoli non licanei) dello stesso colore. Tutta roba che pareva l’esatto opposto dell’abbigliamento di prima. Ma fu l’ultimo dettaglio a colpirmi. E a chiarirmi tutto e il contrario di tutto.
Un Tantō. Come il mio. In mano alla donna che fino a poco prima avevo posseduto.
-Sei una Justicar! Come me!-, esclamai alzandomi ed estraendo la mia lama.
-Ero.-, rispose lei correggendomi, -Ero una Justicar.-.
-Hai tradito i giuramenti…-, dissi, sconvolto.
-Anche tu li avresti traditi!-, ringhiò lei. Era il ringhio di una pantera ferita.
-Mi hanno torturata per ore. Senza cibo, acqua… Mi hanno drogata.-, sibilò.
-Eri più forte di così!-, esclamai.
-No! Non lo ero! Non lo siamo! Io sono… solo questa. Una donna. Che ha voluto non essere più una mendicante! Dimmi che non è così per te: dimmi che questa vita raminga e impietosa ti piace!-, esclamò con rabbia la nera.
-E così ti sei venduta. Hai venduto la tua lama… Una mercenaria, ecco cosa sei!-, sputai con sdegno.
-No. Ho venduto solo degli ideali desueti e abbandonati. Il mondo non vuole i Justicarii. Non gli serviamo più. Hanno vinto loro, non lo vedi? Anche quello che hai fatto oggi non servirà a nulla…-, disse. Avevamo preso a girare in cerchio. Lentamente. Senza fretta. Passi misurati senza alzare quasi i piedi da terra, le lame in pugno.
-Io non mi sono ancora arreso. Forse è vero, arriveranno sempre altri. E gli ricorderemo sempre che non possono prevalere.-, dissi.
-Sei un tale idiota. Hai una vaga idea di quanto pagherebbero certe persone per conoscere quello che noi conosciamo? Per le nostre capacità? Possiedi la chiave di una ricchezza, ma non la usi.-, mi derise Camelia, posto che quello fosse il suo nome.
-I soldi per me non significano niente.-, risposi io.
-Ah! Ma la considerazione, invece? Il saperti accettato da una società che ti odia per ciò che sei?-, domandò lei, -Quello t’interessa.-. Non era una domanda. Io la fissai.
Respinsi l’idea. Consegnare ad altri la conoscenza dei Justicarii avrebbe significato cedere un potere immane. Scossi il capo.
-Non a questo prezzo.-, dissi, -E non l’hai fatto neppure tu.-.
-No, infatti.-, sorrise Camelia mentre fendeva l’aria. Le braccia nude erano costellate di piccoli punti, li notavo solo ora. Segni della droga, vestigia del dolore.
-Allora, un po’ di onore ti è rimasto.-, dissi. Lei ghignò.
-Se speri di distrarmi ti conviene provare altro.-, disse, -Tu mi sembravi alquanto distratto, però. Non ti sei davvero accorto di nulla?-, chiese.
Durante il nostro amplesso, intendeva. In effetti avevo notato qualcosa. Il modo in cui si era mossa, i suoi muscoli sotto la mia mano quando l’avevo soccorsa…
Migliaia di particolari a cui non avevo dato il giusto peso mi apparvero chiari.
Ero stato cieco. Cieco e stupido. Espirai piano, inspirando subito dopo.
-I Praefectii capiranno cos’è accaduto qui. Non te la caverai.-, dissi.
-I Praefectii capiranno solo ciò che vogliono capire. E io darò loro moltissimi motivi per non capire nulla.-, rispose Camelia. Annuii. Avevamo detto tutto. Non c’era altro.
-Per l’onore di tutto il nostro Ordine, devo fermarti. Possa la tua lama scheggiarsi e spezzarsi.-.
Pronunciai quelle parole con calma, anche se ero teso come la corda di un arco.
-L’Ordine è un residuo del passato.-, ribatté la nera, -Possa la tua lama scheggiarsi e spezzarsi.-.
Inspirammo entrambi, un momento di mutua vulnerabilità, poi espirammo. E attaccai.
Evitò il mio fendente scartando, mentre cercava di entrare nella mia guardia per pugnalarmi appena sotto le costole. La scansai con un calcio corto, fulmineo, che non la rallentò.
Era brava. Più di quanto avessi creduto. A tutti noi Justicarii viene insegnato a batterci con le armi da fuoco e le lame, ma le seconde hanno sempre rivestito un ruolo peculiare nella nostra storia. Noi non le usiamo a cuor leggero, né come selvaggi, siamo precisi.
Camelia usava la sua come una selvaggia avvolta dalla perizia del Justicar: alternava colpi corti a ganci e calci, affondi a controblocchi. Insisteva per chiudere il combattimento a una distanza cortissima, in modo che le sue tecniche non ortodosse le guadagnassero il vantaggio necessario. Il peggio però era il fatto che, essendo stata una Justicar, conosceva alla perfezione tutto ciò che sapevo io. Conosceva le nostre tecniche. Sapeva rispondere ad esse.
Fintò a destra e a sinistra, per poi colpire a sinistra sul ritorno. Incespicai fuori dall’attacco sentendo la lama ledere la carne. Il mio zigomo destro. Una ferita più estetica che altro.
-Ti ho tagliato!-, esclamò lei con un verso feroce. L’aveva fatto. Avrebbe potuto uccidermi?
Espirai appena. Inspirai. E lei attaccò. Sutemi. Attaccare sull’inspiro avversario per spezzarne il ritmo. Aveva imparato bene le nostre vie. Quello scontro era un eventualità che nessuno nell’Ordine, nessuno mai, aveva voluto contemplare, un’oscenità. Una blasfemia contro il nostro credo e contro tutto ciò per cui combattevamo, la perversione del nostro stesso essere. Si lanciò verso di me con un fendente diagonale discendente che interruppe trasformandolo in una stoccata, salvo vedermi preparato: evasi a sinistra, accompagnandomi con la lama. La sentii gemere. Taglio dappoco lungo il fianco. Sorrisi.
-Parità.-, dissi. Il suo viso non esprimeva più alcuna gioia. La notte scivolava via come le forze.
Un duello di lama è una scienza inesatta, una danza letale in cui il primo che sbaglia muore.
Ogni fendente a bersaglio può essere l’ultimo e anche se non lo è, può inabilitare.
Gli errori uccidono. Pensare equivale a errare. E allora, il combattimento con le lame è puro istinto. Sfugge a ogni considerazione logico-strategica, a ogni ragionamento.
Semplicemente, una volta iniziato, non concepisce la possibilità di interferenze del pensiero.
La attaccai io: fendente basso ascendente, verticale discendente e puntata al collo, il tutto concluso da una spazzata alle caviglie. Evitò il primo, parò il secondo e deviò la terza, prima di balzare e atterrare due metri indietro rispetto a me. Entrambi respiravamo come mantici.
Poi si lanciò verso di me. Pura tattica da selvaggi: usò il corpo come un’ariete a dispetto della parità a livello di stazza e fisico. Il fendente che sferrò servì solo a distrarmi. Mentre lo paravo mi afferrava la mano armata e imprimeva una torsione che mi costrinse ad aprire la presa.
Nel mentre, la mia mano sinistra afferrava il suo mignolo e tirava nella direzione opposta sino a sentire il distinto rumore delle ossa. Urla. Mie e sue. Una sua ginocchiata mi colse all’inguine. Annaspai mentre il fuoco del dolore al calor bianco mi accecava.
Risposi con una testata. La centrai, ma non bene come avrei voluto. Cercò di sgambettarmi. Avvinghiati nella lotta, le lame erano quasi inutili. La mia cadde, e anche la sua.
Non ci badammo. La nera cercò di mordermi il collo. Colpii corto verso la sua gola. Centrai il mento. Proteggeva la trachea, come me. La allontanai. Non era più un duello, era una rissa.
Mi misi in guardia. Chugamae, scuola dimenticata di lande cancellate dalle apocalissi del passato. Camelia sorrise appena. Sputò qualcosa di rossastro.
E si mise in una guardia diversa, da rissa. Pugni sollevati al viso.
Attaccai. Mae Geri, calcio basso. Mirai al ginocchio della gamba d’appoggio. Lei uscì. Mi tirò un gancio. Parai a schiaffo con il braccio sinistro mentre cercavo di esercitare una leva. Lei usò la mano lesa per allontanarmi. La vidi stringere i denti. Soffriva per il dito rotto. Poi colpì con un calcio a girare. Jun-Wu-Ryu. Scuola basata sui calci. L’impatto mi strappò il fiato dai polmoni. Il dolore sciabolò lungo il mio fianco destro.
“Almeno una costola incrinata…”, pensai. Se non peggio. Tacitai la paura della sconfitta e della morte. Lei sfruttò l’appoggio per saltare e colpire. Calcio alto. Parai in un guardia mentre le sferravo una spallata allontanandola. Girò di pochi gradi prima di contrattaccare. Una raffica di colpi precisi, intervallati da piccole grida di furia che servivano a scandire il ritmo.
Parai, la maggior parte, quantomeno. Era una tempesta di attacchi capace di paralizzarmi, ma non poteva durare a lungo: anche Camelia era fiaccata dalle ferite e dalla stanchezza.
Ma lo ero anche io. E lei possedeva capacità che io non avevo. Mossi un passo indietro.
L’attacco arrivò all’improvviso, un calcio volante rovesciato. Mancò. Sferrai il mio calcio. Colpii all’addome. Lei espirò l’aria con un gemito. Mi afferrò per la veste, spazzandomi le caviglie. Proiezione del Ju-do. Mi scagliò a terra. Tentai di rialzarmi inarcando la schiena per centrarla con un calcio. Fallii, ma la costrinsi ad allontanarsi.
La nera mi attaccò di nuovo. Era furiosa, o disperata. Pericolosissima, ma anche cieca.
Io rotolai all’indietro, ignorando il dolore al fianco della costola incrinata.
Ushiro ukemi, antica tecnica per muoversi alla svelta e rialzarsi.
Lei si lanciò in avanti, con un grido da fiera, decisa a finirla.
E io attaccai. Protesi la lama. La sua.
Avevo incassato numerosi attacchi solo per portarmi in quella posizione e raccolto la sua arma quando avevo eseguito la caduta all’indietro.
Camelia intuì la minaccia, ma rallentare non le era più possibile. Trascinata dallo slancio, semplicemente le fu impossibile impedire l’inevitabile.
La lama, la sua lama, entrò. Fianco destro, penetrazione completa, sino all’elsa.
Colpo non letale, ma avrebbe potuto diventarlo. Il grido di dolore della nera fu anche di rabbia, di perdita. Di sconfitta. Aveva perso. Perso completamente. Sfilai la lama, allontanandola con un calcio. La mia avversaria cadde a terra. Non riuscì a rialzarsi.
-Maledetto!-, ringhiò tenendosi il fianco leso.
Il canto del cigno di una predatrice divenuta preda.
Mi chinai a raccogliere l’altra lama, la mia, prima che lei vi arrivasse trascinandovisi.
-È finita.-, dissi soltanto. Era finita. E io avevo vinto.
-Allora? Cosa aspetti?-, chiese Camelia Amrinsia Dusia, sprezzante sino all’ultimo, -Avanti, Justicar! Fai quel che sai fare meglio!-, protese il collo verso di me, il capo reclinato a destra, come a esporre la giugulare. Io mi avvicinai, piano, la lama in pugno, saldamente stretta.
-Vedi? Siamo solo questo, alla fine. Assassini. Non siamo migliori dei nostri nemici.-, sibilò lei.
Ogni passo era una stilettata, ogni parola era un affondo. Camelia sputava sentenze come fossero stati proiettili, per distruggermi, o forse, più probabilmente, solo per prendersi quell’ultima soddisfazione prima di morire.
Alzò la mano destra, le dita rosse del sangue che le colava dal fianco leso.
-Questo è rosso per tutti, Justicar. Il mio e il tuo sangue sono uguali. Tu avresti potuto essere me, a parti invertite.-, disse soltanto, -Solo il fato o gli Dei o chi per loro ti hanno indirizzato su una via più che su un’altra. E tu ancora credi di essere libero? Sei prigioniero delle usanze dell’Ordine. Vagare raminghi, non esigere ricompense, combattere il male… Io muoio ora, ma ho avuto una vita degna del nome. Ho conosciuto miseria, sì, ma anche gloria e ricchezza, seppur acquisite al prezzo di compromessi con la morale. Ho avuto cibi succulenti e letti di seta, laddove tu hai avuto e avrai solo cibi dappoco e giacigli scomodi. Ho avuto la stima e l’accettazione, il riverente rispetto di pari e inferiori e tu invece solo il disprezzo che quest’evo ci riserva.-, sorrise, scoprendo i denti bianchi con un ghigno, -Non offro scuse. Ho avuto questa vita, fatto scelte che almeno sono state mie, e mi va bene così.-.
Inspirò ed espirò, piano. Si rizzò a sedere sulle ginocchia, con dolore e sforzo evidenti. Seiza.
Posizione del guerriero da tempo immemore. Mi fissò, in attesa del colpo.
-Nessuna assoluzione.-, dissi. Erano parole che non avrei dovuto dire. Come non avrei dovuto esitare. Avrei dovuto colpirla. Estrassi qualcosa dalla tunica. Un fazzoletto. Era pulito.
-Tranne quella che decidiamo di meritare.-, dissi. Glielo ficcai in mano.
Mi fissò, con stupore. Con meraviglia che non poté dissimulare mentre usava il panno per tamponare la ferita.
-Nessuna redenzione… Se non quella che la vita permette di concederci.-, dissi.
-Pensi che finirà così? Ti darò la caccia! Scoprirò il tuo nome!-, ringhiò la nera con odio rinnovato nonostante il dolore che pativa, -La tua misericordia è un insulto a me!-.
-Il mio nome…-, dissi avvicinandomi a lei. Le appoggiai la lama al collo.
-È Murder.-, dissi. La aiutai a rialzarsi, di forza. Soffocò un grido ma riuscì a restare in piedi.
-Perché?-, chiese la nera. Strappai la fiasca alla mia cintura. Gleila offrii rinfoderando la mia arma. Fine della lotta. E del sangue.
-Perché essere un Justicar non significa solo uccidere o punire. Non è solo questo che siamo. Non siamo solo lame. Siamo scudi. Siamo protettori.-, dissi. Lei bevve.
-Avresti dovuto uccidermi, Murder. Ora io ucciderò te. Il nostro prossimo incontro vedrà uno di noi due andre incontro a Yneas.-, replicò. Scossi il capo.
-Non credo, Camelia.-, dissi, -Io ho visto il tuo vero viso. Non ti aspettavi la mia pietà, eppure ce l’hai.-, dissi, -L’occasione di una redenzione.-.
-L’Ordine non mi riaccoglierà. Lo sai. Non esiste perdono.-, disse lei.
-Esiste espiazione e il perdono che tu scegli di concederti.-, risposi, -E come hai visto, anche le nostre vie cambiano, devono adattarsi. Su questo avevi ragione, in un certo senso.-.
-E quindi, cosa dovrei fare? Seguirti?-, chiese Camelia, perplessa e sprezzante ad un tempo.
L’ironia le riusciva con tale acidità da strapparmi un sorrisetto.
-No. Tu dovrai forgiare la tua strada.-, dissi, -Come io forgerò la mia.-.
-Ti odio…-, sibilò la nera con rabbia impotente. Mi odiava, e allo stesso tempo sapeva di essermi debitrice della vita, la sua nuova vita. L’occasione di ricominciare.
-Se mi odi…-, dissi mettendo a terra con lentezza la sua lama e allontanandomi, -Allora finisci ciò che ritieni di non poter veder interrotto.-.
Lei si chinò, piano. Prese la lama. Mi fissò. La fissai. Non estrassi. Emise un verso frustrato.
-Dannazione a te, Murder!-, esclamò, -Di tutte le persone…-. Rinfoderò la sua arma.
Annuii. La guardai girarsi e zoppicare via. Non avevo idea di se ci saremmo rivisti.
Non m’importava neppure. Avevo concesso a Camelia una perla preziosissima.
Il beneficio del dubbio.
Forse Camelia avrebbe sprecato quell’occasione. Forse avrebbe scelto l’avidità, ripreso a nutrire il demone. E forse, a quel punto, io o qualcun altro sarebbe intervenuto.
Oppure, magari Camelia avrebbe riconsiderato le sue vedute, scelto un’altra strada. Magari non sarebbe tornata una Justicar, ma avrebbe trascorso una vita diversa, lontano dall’infame miraggio dell’avidità e dall’ombra della cupidigia.
Non potevo saperlo. Sapevo però di aver fatto la mia scelta. Mi sedetti, in attesa. Non ci volle molto: un mezzo dei Praefectii giunse appena venti minuti dopo.
-Che diavolo è successo?-, chiese l’ufficiale, un tizio panciuto e tarchiato.
-Un imboscata.-, risposi io, flemmatico e stanco.
-E tu sei ancora vivo.- disse lui con tono sospettoso.
-Sì. Pare che l’aggressore volesse uccidere solo i suoi uomini. Forse per far ricadere la colpa su di me e sui Justicarii.-, mi limitai a dire. Lui aggrottò la fronte.
-Voi corvacci siete delle calamità ambulanti!-, esclamò. Mi voltai, calmo.
-Forse. O forse invece siamo quelli di cui voi avete bisogno. La tua città è libera dai parassiti, magister praefectorum. TI suggerisco di vegliare affinché non ritornino.-, dissi.
Non attesi risposta. Marciai verso la strada. L’ufficiale non mi seguì. Solo gli spettri lo fecero.
Mamma mia ruben, mamma mia... Ti prego, scrivimi a gioiliad1985[at]gmail.com , mi piacerebbe condividere con te le mie esperienze…
ciao ruben, mi puoi scrivere a gioiliad1985[at]gmail.com ? mi piacerebbe condividere con te le mie esperienze...
Davvero incredibilmente eccitante, avrei qualche domanda da farvi..se vi andasse mi trovate a questa email grossgiulio@yahoo.com
certoo, contattami qui Asiadu01er@gmail.com
le tue storie mi eccitano tantissimo ma avrei una curiosità che vorrei chiederti in privato: è possibile scriverti via mail?