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Erano arrivati al velivolo. Il pilota di Ferelea era un licaneo basso e grassoccio, poco loquache ma sapeva il fatto suo.
Ferelea era rimasta a terra, insieme a Svalok. Aveva dato a Marduk nuovi dati di un altro palmare, promettendo di raggiungerli in seguito.
Hawo si era addormentata poco dopo il decollo, Saida infine aveva guardo Marduk, in attesa.
Lui aveva annuito, piano. Era giusto che lei sapesse.
-Non è una bella storia.-, avvisò.
-Non lo è quasi mai.-, riconobbe lei. Marduk annuì. Chiuse un istante gli occhi.
-Cominciò tutto quando avevo dodici anni. I miei genitori furono per lungo tempo amici di un Justicar. Lui mi addestrò. Lo fece bene, con impegno. Ci misi quasi dieci anni, ma alla fine divenni uno di loro a pieno titolo. Lui mi spiegò che presto l’Ordine si sarebbe ritirato dall’Impero, sostenendo che il nostro compito fosse un altro. Fosse pazientare. Per tempi che ancora dovevano venire. Un’epoca in cui i vivi avrebbero invidiato i morti.-, raccontò.
-Io non ero d’accordo: a cosa serviva essere un Justicar se non si agiva contro l’ingiustizia? Cos’era stato del nostro impegno? Eravamo davvero disposti a eclissarci? A voltare le spalle alle grida degli ultimi?-.
-Tu non lo fosti.-, intuì l’africana.
-No. Non lo fui. Il mio maestro aveva addestrato anche un’altra Justicar.-, disse Marduk.
-Sho-Mi.-, annuì Saida. Lui confermò con un cenno di assenso.
-Sì. Lei era determinata a restare. Insieme continuammo la nostra opera, sino all’inizio della guerra tra Chin e Licanes.-, mormorò l’uomo.
-Una guerra che iniziò con l’Incidente di Lah Khong.-, ricordò Saida.
-Non si sa chi sparò il primo colpo. Ma lì cominciò. Quando iniziò, io e Sho ci dividemmo. Lei sosteneva che la guerra non riguardasse i Justicarii e io invece ritenevo che fosse esattamente per quella guerra che mi ero preparato. Mi arruolai volontario. Fui assegnato al fronte-.
Marduk fece una pausa, non studiata. Le emozioni erano tante, forti.
– Zhoughanzuou?-, chiese la nera. Marduk scosse il capo.
-Quello viene dopo. Doc Thiem, Ap Bac, Song Ie. E poi… Chin.-, disse lui, -Avevamo privato Chin di alleati poco validi, ma avevamo perso truppe, molte. La spallata finale doveva riuscire, a ogni costo. La Confederatio usò armi come i Mixillia Obliterantes. Cancellarono Zhongloon dalle mappe.-.
-Fu lì che iniziò il dubbio?-, chiese Saida. Marduk annuì piano.
-Due millioni di vite cancellate in un istante. Dai nostri, Saida. Non dai loro.-, sussurrò.
-Ti dissero che era necessario.-, dedusse lei. Lui tacque.
-Dissero che le forze nemiche si stavano adunando là. Non era vero. A Zhongloon c’erano in maggioranza feriti e invalidi, una guarnigione solo simbolica. E cittadini. Civili.-, sussurrò.
L’orrore strisciava parola per parola. Marduk avvertì lo sconforto di Saida, il suo sconvolgimento a quella verità atroce.
-I Chin avevano giocato d’astuzia. Usarono le loro armi per bombardare la baia di Nong Tho. Affondarono parte della Terza Flotta Federale. Soprattutto, privarono le nostre forze sul campo di rinforzi e rifornimenti. Catturammo Wungyon, riuscendo a garantirci supporto.
Eravamo poco più di tremila uomini sugli iniziali tredicimila. E il comando ci diede un’ordine. Perentorio. Assoluto. Prendere Zhoughanzuou. All’epoca era una città minore, meno difesa di altre, ma rivestiva importanza per il suo significato storico culturale. E noi obbedimmo.-, disse Marduk, -Prendemmo quella fottuta città in duemiladuecento uomini. Poi però il comando ci negò i rinforzi. Li dirottò su Mons Vetera.-.
-Mons Vetera, anche noto come il Massiccio di Shaosi.-, annuì Saida, -Teatro dello scontro finale. Della vittoria di Licanes.-.
-Quella vittoria fu largamente dovuta al nostro sacrificio. Trattenemmo due dvisioni di tremila uomini l’una. Noi dentro, sempre più stretti in difesa, loro fuori, a bombardarci a ogni ora del giorno e della notte, a lanciare assalti sempre più difficili da respingere. Saremmo stati annientati, Saida, almeno questo ci era chiaro. Come ci era chiaro che il comando non ci avrebbe mai concesso rinforzi. Il nostro ufficiale, Ignatius, negò qualunque richiesta di esfiltrazione. Mons Vetera bruciò e noi… noi fummo l’accelerante per il rogo.-, mormorò l’uomo. Saida annuì. Nei suoi occhi, Marduk vide un’ombra di empatia.
Lentamente, come in un sogno, la mano della donna seduta accanto a lui si posò sulla sua.
-Così negoziasti?-, chiese. Lui annuì appena.
-L’ufficiale a capo dei Chin era Chien Lie. Non era un generale, era un sottufficiale. Il nostro ultimo etnarca era morto e il sottufficiale diretto era incosciente per via di una ferita. Mi offrii di negoziare. I soldati approvarono. Quattrocentosessantadue uomini mi chiesero di salvare loro la vita. E io lo feci. Zhoughanzuou in cambio della nostra libertà. E dove ci trovammo poche ore dopo? A Mons Vetera, dove fummo recuperati dai nostri e riportati a casa.-, disse.
L’amarezza in quella frase pareva infinita, una notte senza traccia dell’alba.
-È stato dopo che ho capito. Dopo che ci siamo resi conto. Ci hanno usati, Saida. Ci hanno sfruttati per essere la loro arma, una lancia avvelenata nel cuore della Confederatio Licanea…-, ora non c’era più amarezza, solo dolore, nella voce di Marduk.
-Marduk… Cosa intendi?-, chiese la nera. Lui strinse la mano di lei, e tossì.
Colpi di tosse forti. Parvero squassare l’uomo sotto lo sguardo preoccupato della donna.
-Stai… stai bene?-, chiese lei. Marduk annuì, a fatica.
-È il mio male.-, disse. Saida gli porse un fazzoletto. L’uomo declinò.
-Il tuo male?-, chiese lei. Lui annuì di nuovo.
-Tornammo nella Confederatio. E dopo poco tempo, mesi dopo, iniziò il morbo. Costrinse la Confederatio a imporre la quarantena a intere province. Nessun avviso, niente. Di colpo intere regioni si trovarono isolate, in preda al timore. Ma funzionò. L’epidemia durò relativamente poco. Ma fece vittime, anche se meno rispetto a quelle che la Nonia, il regno di Chin, avrebbe voluto.. Inizialmente io pensai a una fatalità, tutti lo pensarono, ma poi…-, disse Marduk interrompendosi, -Poi la verità venne a galla. Lo fece quando mi confrontai con alcuni vecchi commilitoni. Tutti loro erano stati tra i primi a mostrare sintomi.-.
-Vi hanno rilasciati di proposito, vero?-, chiese Saida, -Per infettare i vostri…-.
-Già. Ovviamente il nostro governo negò qualunque legame tra il nostro rilascio e la malattia e chi denunciò la cosa fu ritenuto un complottista, quando non un vero e proprio traditore della patria…-,annuì l’uomo. La nera tacque. La sua mano accarezzò appena il dorso di quella di Marduk. Un gesto umano, volto ad annullare il senso di gelo che quelle parole avevano creato.
-E fu lì che smisi. Con tutto. Essere un Justicar mi aveva forgiato, vederli abbandonare Licanes mi ha incrinato, la guerra mi ha scalfito, ma la malattia… Quella mi ha spezzato del tutto.-.
Lo sguardo di Saida incrociò quello di Marduk.
-Poi hai incontrato Minah Ahn. E hai sentito di doverla proteggere, vero?-, chiese.
-Sì. Perché era debole, una preda circondata da lupi, e per dimostrare a me stesso che valevo ancora qualcosa nonostante tutta l’agonia quotidiana.-, mormorò lui.
Rimasero in silenzio per un lungo istante.

-Sono stata addestrata molto presto. A quattordici anni. Per me è stata quasi una fortuna, un modo per sottrarmi alla vita prevista dalla Legge del Libro.-, disse la nera all’improvviso, -Mio padre lavorava per l’Unio Africae come reclutatore. Hawo e io fummo spediti là dopo il nostro quattordicesimo compleanno.-. I ricordi sgorgavano da dentro, con le emozioni.
-L’addestramento non era facile. Era brutale. Fisicamente io ero… scarsa. Era Hawo quella atletica. Passava i test come respirava. Io faticavo. Gli esaminatori stavano pensando di tenermi come seconda scelta. L’Unio Africae è molto selettivo verso i suoi membri. Esige la qualità, non la quantità.-, spiegò Saida. Marduk annuì. Non interruppe.
-Al nostro sedicesimo anno di età, io mi ero già dimostrata molto più sveglia di tanti altri. Così fui destinata a un’altra branca del programma. Dove la selezione era anche peggiore. Sfide d’intelletto, problemi logici, matematica… Ci riempivano di sapere, solo per poi verificare se avessimo davvero appreso.-, continuò l’africana. Ricordava bene quel tempo.
-Poco cibo, molto esercizio fisico e moltissimo mentale. Quasi nessun contatto con compagni o parenti. Una scuola durissima. E Hawo… Hawo verso i diciassette anni sviluppò quellla sua sensualità potente, magnetica. Gli istruttori le facevano visita la sera…-, mormorò.
-Avresti voluto essere con lei? Siete state separate?-, chiese Marduk. Saida scosse il capo.
La mano di Marduk strinse la sua. Un segno di comunanza.
-Eravamo separate perché io dormivo, e mi addestravo quando lei dormiva… Anche se era raro. La sentivo, sai? Quando passavo via dalla sua stanza…-, sussurrò la nera.
-Sentivi… che faceva sesso?-, chiese Marduk. Lei sospirò, stancamente. Sorrise senza gioia.
-Fa ridere, vero? Una di noi ha un intelletto mostruoso e l’altra no… Ma solo per una volta, vorrei essere come lei, Marduk. Vorrei non dovermi sentire tutti i giorni quanto ci si aspetta da me, vorrei non dovermi chinare su enigmi e intrighi. E sì, vorrei anche solo per una volta essere amata da qualcuno per come sono… Invece no: Hawo è la dea dell’Eros, la vostra Aphros. Io sono la dea della mente, la vostra Erasmus.-.
-Tu sei bella quanto lei…-, mormorò Marduk. Saida scosse il capo, piano.
-No. Sono come lei, fisicamente, ma finisce lì. Hawo ha una sicurezza di sé, una spigliatezza, un carisma che a me manca!-, esclamò infine, -E mi mancherà per sempre.-.
-Saida… tu hai capacità che molti neanche osano sognare!-, esclamò l’uomo.
-Capacità che sono fardelli, Marduk! Siamo condannate, Hawo e io, ma lei vive con gaia lietezza la sua condanna, mentre io no. I nostri genitori sono morti in un esecuzione di presunti collaborazionisti dell’Unio Africae. Fu la nostra prima missione, vendicarli. Pianificai l’agguato con spietata precisione, ma fu Hawo a premere il grilletto di quel fucile. Fu lei a giustiziare gli assassini. E io… guardai.-, mormorò l’africana, -Io guardo e basta…-.
Lacrime. C’erano lacrime nei suoi occhi. Lacrime di chi è stufo di essere sempre una mente.
-Io guardo, Marduk. Guardo ogni giorno, a ogni ora del giorno. Hawo deve intrattenere un cliente? Io guardo. Ha un nuovo amante? Io guardo. Deve infiltrare una struttura? E io guardo. Io… sono una parassita che vive di scampoli di vita altrui…-, sussurrò. Singhiozzò.
Poi la sentì. La mano di Marduk Atbash.
L’uomo le stava accarezzando la guancia, tergendo le lacrime dal viso.
-Non sei una parassita. Sei speciale, certo. E vivi questo tuo essere come un peso. Ma senza di te, noi ora non saremmo qui, non avremmo trovato Minah.-, mormorò lui.
Saida si abbandonò contro la mano. Un gesto che Marduk non rifiutò, ma di cui non approfittò neppure. Dentro di sé, la nera sentì qualcosa. Sicurezza, rifugio. Marduk offriva quello.
E offriva accettazione, comunione, reciproca condivisione dei loro fardelli.
Respirò piano. E sentì il peso che aveva nel petto sciogliersi lentamente.
-Marduk… Grazie.-, mormorò infine. Lui sorrise.
-E di cosa? Ci sosteniamo a vicenda.-, sussurrò lui.
Rimasero in silenzio, in un luogo dove le parole non occorrevano più.

-Hai fatto un buon lavoro.-, disse la figura in nero.
Ferelea annuì. Non fu sorpresa di vederla sbucare dalle tenebre, il passo felpato.
-Sai che ora le cose si complicano, vero?-, chiese.
-Sì. Ma fa parte del piano. Piuttosto…-, la figura fece una pausa, studiata, -Ti è piaciuto?-.
-Cosa?-, chiese Ferelea.
-Non mentire. Hai fatto sesso con Marduk, e con quell’africana.-, non c’era rabbia nella voce.
Il tono restava gelidamente pacato. L’informatrice sorrise.
-È stato… notevole. Oh, ma anche tu quando mi hai… dato piacere…-, disse, rendendosi conto della possibile svista e tentando di rimediare.
-Di ciô che pensi e della scala dei tuoi gradimenti m’importa assai poco. Molto più rilevante è che tu non perda di vista il tuo ruolo e lo scopo di tutto questo.-, replicò l’individuo in nero.
-Con Chien e Licanes in guerra?-, chiese la donna, -Ovvio che so cosa devo fare.-.
-E saprai farlo? Quando arriverà il momento, non esiterai?-, la domanda era calcata, pesante.
La figura in nero voleva quella conferma. Ferelea chiuse gli occhi. Rivide per un istante le evoluzioni erotiche di quella notte. Hawo impalata su Marduk, lei che la baciava, venerando quella dea d’ebano prima che fosse lei ad accogliere il sesso dell’uomo in sé con l’africana che, stimolata dalla lingua di Marduk, godeva baciandola…
Ripose quell’immagine, quell’intera esperienza in un recesso della mente.
-Sì. So cosa devo fare e lo farò. Sarò io stessa a farlo.-, disse. La sua voce non tremava.
La figura la fissò, parve farlo per l’eternità. E Ferelea sostenne il suo sguardo. Decisa.
-Bene.-, annuì infine l’individuo velato. Poi le luci si spensero.
Quando si riaccesero era svanito. Come non fosse mai stato lì.

Gannicus bevve un sorso d’acqua. La temperatura si era fatta rovente.
In realtà, la sala era acclimatata, e in altri casi piacevole, ma in quello specifico frangente, l’uomo poteva avvertire di star sudando.
Non era solo per il fatto che Licius fosse stato “promosso”, ma anche per la consapevolezza che lui e quell’uomo condividevano un segreto.
Entrambi sapevano chi aveva sparato a Minah Ahn.
-Quell’individuo in nero va fermato.-, esordì Licius.
-E Marduk Atbash va trovato. Sicuramente si sta recando dagli altri membri del gruppo di Minah.-, chiarì Gannicus.
-Senza dubbio. Il problema è che non sappiamo con esattezza dove. Fortunatamente ho avuto modo di scorpire la posizione di un laboratorium di particolare segretezza. Un sito secondario.-, disse Licius, -Sarà lì che cominceremo a muoverci.-.
L’agente annuì. -Parto subito.-, disse.
-Non proprio. Prima dobbiamo fare visita alla nostra ospite, e in più non andrai da solo. Avrai con te una squadra. Massima discrezione e massima libertà d’azione. Ti suona accettabile?-, chiese l’ufficiale. Gannicus annuì. La temperatura nella sala era ancora calda. Era a causa sua. Era l’adrenalina che provava a farlo sudare. Perché alla fine voleva quel conflitto.
Voleva quella caccia. Voleva trovare Marduk Atbash. Non solo per vendicarsi. Anche e soprattutto perché erano anni che, nel mondo della guerra ombra, nessuno lo sfidava a quel modo. Marduk e quella figura in nero, posto che non fossero la medesima persona, erano divenuti delle autentiche ossessioni. Sfide.
E poi c’erano quelli dell’Unio Africae. Se Atbash era ancora con loro, dovevano certamente essere alla ricerca degli altri membri del gruppo di Minah.
Vendetta, un trionfo per Licanes e una caccia all’uomo come non gliene erano mai capitate.
L’agente si scoprì a star sorridendo. Seguì Licius verso l’esterno.

Stava sognando. Nel suo sogno, ferri incandescenti le passavano sulla pelle, piano. Cavalli la tiravano in quattro direzioni, tendendo corde legate agli arti. Il dolore e latensione si facevano intollerabili. Sentì le giunture prossime a strapparsi.
“Hanno fatto tutto questo a qualcun altro…”.
Aprì gli occhi. Un soffitto bianco le si stampò nella retina. Bianco, come la morte.
“Sono… morta? No.”, si disse. Inspirò ed espirò cercando di ricomporre i propri passi.
Ricordava l’attacco. I Licanei che cadevano abbattuti. Poi…
Poi un mezzo che sopraggiungeva. Aveva sparato. Ed era stata colpita.
Pacuvio? Che fine aveva fatto? Era riuscito a trovare la Ahn? E lei…
Si guardò attorno. Strumentazione medica a cui era collegata emetteva suoni ritmici, la stanza era asettica, c’era solo il suo letto. Non era chiaramente un ospedale di Chin, quindi…
“Catturata.”, concluse, “Mi devono aver catturata e presto m’interrogheranno…”.
Era previsto. Maledì fugacemene il Celeste e il suo piano. Li aveva usati per i suoi scopi.
L’aveva usata. Come Chien, come tutti da quando aveva memoria.
Quand’era stato che lei aveva fatto qualcosa per sé?
La domanda le affondò dentro, come un macigno.
Quando vide la porta aprirsi, sospirò.
-Siete qui per interrogarmi, vero?-, chiese.
-Il nome è Gannicus Vaian.-, disse l’uomo che entrò. Licaneo. Anche lui. Emanava disprezzo.
-Immagino tu voglia sapere tutto.-, mormorò lei. Si sentiva stranamente calma.
-Sì. E sarebbe molto meglio per te se non opponessi resistenza. Ho tutta l’intenzione di ottenere ogni informazione che puoi darmi, indipendentemente dai mezzi che mi obbligherai a usare.-, sibilò. Lie sorrise, un sorriso triste.
-Già. Solita manfrina. Così prevedibile.-, disse in dialetto dello Tzsechun.
-Forse questo di annoierà meno.-, rispose l’uomo. Stesso idioma. Ottima pronuncia.
Suo malgrado, la Chin fu sorpresa, oltremodo stupita che qualche abitante al di fuori del suo paese conoscesse quell’idioma. La sua espressione di stupore dovette palesarsi molto chiaramente perché il suo interlocutore sorrise.
-Dato che parliamo la stessa lingua, penso che tu capisca senza problemi.-, continuò, -Non tentare trucchetti con me. Sai, Licanes e Chin sono di nuovo in guerra e, secondo le nostre leggi, tu sei una prigioniera di guerra, nello specifico un agente nemico ai sensi della Costitutio Defensiva Patriae.-. Era passato nuovamente all’eloquio di Licanes, ma il significato era cristallino. La Costitutio Defensiva sanciva che ogni agente nemico venisse consegnato ai Servizi di Sicurezza, dove i suoi dirtti potevano essere rispettati secondo il grado di collaborazione esibito dall’agente.
Lie Nu non si faceva illusioni: il Celeste non aveva pronta una squadra per salvarla, e realisticamente non avrebbe neppure ammesso la sua cattura presso i suoi pari.
Per lui, era molto più conveniente pensare che lei fosse morta. E questo voleva dire che lei lo era, per Chin, per la sua famiglia… Cosa le restava?
Strinse i pugni, ignorando il fatto che si sentisse ancora debole.
-Allora?-, chiese l’uomo.
-Collaborerò con voi. Chin mi ha abbandonata. Non ho motivo di continuare a servire dei padroni indegni.-, disse infine. Stavolta fu l’uomo a palesare un vago stupore, subito celato.

Gannicus si era aspettato una vaga resa, qualche titubante cedimento, non un’offerta tanto diretta. Fu tentato di considerarla una trappola, ma si sforzò di non parlare, di rfilettere.
“Può sicuramente essere un agente doppio, ma potrebbe anche essere l’opposto.”, pensò.
-Se collaborerai come dici, provvederemo affinché tu abbia documenti e un vitalizio che…-, iniziò a dire. Lei lo interruppe. C’era qualcosa in quella barbara, una rabbia appena pecettibile, ma presente, ed era qualcosa di decisamente atipico. I Chin non mostravano le emozioni con tanta trasparenza, di solito.
-Questo non m’interessa. Voglio una cosa sola. Vendetta. Su Chin, certo. Ma anche su un altro uomo. Uno di voi. Un Licaneo chiamato Marduk Atbash.-.
Quando la Chin disse quelle parole, Gannicus annuì. Tacque un istante. Non poteva fare promesse ma sembrava, e sembrava solo perché non aveva prove del contrario, che le motivazioni di quella giovane fossero proprio quelle. La vendetta su Marduk e su Chin.
“Non poi così lontana dalla mia priorità.”, pensò.
-Non ho l’autorità per decidere. Consulterò il mio superiore. Parleremo nuovamente.-, disse.
La donna annuì. Lo fissò ancora, quasi avesse voluto trapassarlo.
-Il nome è Lie Nu.-, disse infine.
-Lie Nu.-, annuì lui ripetendolo. Fece un vago saluto e uscì.
Fuori, Licius annuì. Aveva sentito tutto, ma le parti in Chin per lui erano ininfluenti e incomprensibili. Gannicus tradusse il resto.

Licius sospirò appena, come emettendo il sibilo di un rettile.
Non era raro che i Chin infiltrassero doppi agenti presso Licanes, era già accaduto, ma molti di loro avevano addotto a motivazioni molto più credibili per essere accolti. Povertà personale, minacce ai propri danni, desiderio di vivere presso Licanes e di sfuggire ai regimi detti oppressivi di Chin. Moltissimi di quei doppi agenti non si erano rivelati chissà che agenti da infiltrazione. Avevano però consegnato informazioni false.
Licius ricordava. La disfatta del passo di An Khe. Informazioni date da un disertore ritenuto affidabile. Solo un migliaio di uomini sul passo, avevano detto. Soldataglia poco motivata.
I gruppi d’assalto della Confederatio avevano trovato posizioni sotterranee fortificate, un dedalo di labirinti scavati nella roccia e nella terra, protetti da truppe ben più che motivate e in numero almeno triplo rispetto alle informazioni. C’erano voluti sei giorni per prendere An Khe, e quasi diecimila tra morti e feriti.
La motivazione di Lie Nu era molto meno credibile. Quale uomo odia a tal punto il proprio paese da vendersi al nemico? Eppure… Aveva senso proprio perché sembrava totalmente irrazionale. Una scusa progettata ad arte sarebbe stata diversa, più appetibile, meno fantasiosa. Non poteva dirsi sicurissimo ma…
Ma c’erano possibilità. Annuì a Gannicus. -Ci muoviamo.-, decretò.

La figura in nero sospirò. Licanes non cambiava mai. Le metropoli erano tutte uguali, erette in verticale, alveari dove fuchi s’illudevano di corteggiare regine che credevano di regnare per l’eternità, illusioni che il fuoco e il dolore avrebbero sfaldato molto in breve.
“È tutto pronto.”, pensò. Alzò il binocolo. Inquadrò la guardia.
Pretoriani a guardia di Onestracio Darvaneo, Legatus Consularis dell’Asia Minore.
Insomma, l’uomo che stringeva in mano il potere militare in Asia Minore.
Ciò includeva le Insulae Giudecca, la Siria, parte della Sarmatia, ampie frange dei Foederatii Arabici.
La figura sparò. La guardia neanche si rese conto di morire. L’occhio destro fu trapassato dal proiettile. Arma silenziata a proiettili solidi. Una garanzia.
La guardia 2 girò l’angolo. Spalancò la bocca facendo un passo prima di crollare schiantato contro il muro dal secondo colpo.
Non c’erano pittocamere, le aveva disattivate poco prima. L’illusione della sicurezza, della pace. Un’illusione facile da disgregare, bastava un respiro.
Neanche la porta fu realmente un ostacolo. La aprì in pochi minuti. I suoi passi non si sentivano neppure. La terza guardia, sopraggiunta evidentemente per sincerarsi che il vento freddo che sentiva non fosse dovuto a qualche finestra lasciata aperta o anche peggio (come infatti era) si beccò un proiettile in faccia.
La figura salì le scale. Trovò la camera da letto. Onestracio dormiva da solo.
-Buonasera, Legatus.-, disse.
Onestracio si destò. Nel terrore. Si rizzò a sedere tremando di paura, balbettando interrogativi a cui non avrebbe avuto risposta. La figura alzò un dito perpendicolare alle labbra.
-Shh, Onestracio. Non faccia il codardo, non qui. Sia coraggioso, come lo è stato massacrando i guerriglieri dell’Omandiato.-, disse.
-Io… Erano nemci…-, ansimò lui.
-Certo. E che dire dei privilegi che hanno portato a lei? Notevoli! Almeno duecento millioni di Calus in bottino magicamente svanito. Molto comodo, non crede?-, chiese la figura.
-Sei qui per giustiziarmi? Non la farai franca. Ho amici… Potenti. Ti troveranno. Ti strapperanno quella maschera che hai lì… E ti mangeranno il cuore!-, ringhiò l’uomo.
La figura lo fissò. Era patetico. Un grassone in pigiama prossimo a morire.
-No, Onestracio. Nessuno mi troverà.-, disse. Gli piantò una pallottola nel petto. Due colpi, per sicurezza. Era quasi finita.
Posò la borsa. Preparò l’esplosivo, armò la bomba e attivò i contatti.
Poi uscì, come uno spettro. Quando la bomba esplose annichilendo la domus, l’intera città di Tirius, Insula Cyrenica, poté solo ammutolire.

Quell’attacco gettò nel caos l’intera regione. Il Legatus era morto, ma soprattutto, il clima politico non suggeriva una rapida sostituzione.
Presto, il Senatus della Confederatio e i Servizi ebbero qualcosa di molto più grave di cui preoccuparsi rispetto a un gruppo di profughi che varcavano il loro confine verso Oriente.

Dar eh Salaan era un villaggio dappoco. Un luogo povero di risorse, fuori dai confini della Confederatio.
Marduk, Saida e Hawo vi arrivarono dopo che il velivolo li ebbe posati là. Ripartì rapido.
-Dar eh Salaan.-, disse Saida, -Circa quattrocento abitanti. Poca o nessuna tecnologia. Il punto perfetto per sparire.-. Si rivolse a una donna infagottata in vesti lunghe che vendeva tessuti. Parlò nella sua lingua. Contrattò rapidamente alcuni abiti.
-Tenete.-, disse a Marduk e Hawo passandoglieli.
-Coprono parecchio.-, osservò lei mettendosi il proprio.
-Eviteranno le scottature.-, disse l’uomo indossando l’abito. Saida pagò con un braccialetto dorato che la donna fissò con occhi languidi. Una successiva contrattazione con un uomo conesse loro un passaggio sino alla città di Medhina al-Mahdi.
-Ferelea ci attenderà laggiù.-, disse Marduk.
-Sì. Se tutto va secondo i piani.-, annuì Saida.
-E in caso contrario? Che facciamo?-, chiese Hawo.
-Potremmo venderti ai cammellieri per raggiungere un terminale di comunicazione decente.-, paventò la sorella. La risata di Marduk fu omerica, e fu presto accompagnata da quella di Saida e di Hawo stessa.
-Spero almeno che apprezzino…-, disse quest’ultima, -Bardate così, le loro donne paiono castigate. È per via della religione, lo so, ma… Mi pare strano.-.
-Anche a me, ma non curartene, siamo di passaggio.-, replicò Saida, secca.
In realtà neanche a lei piaceva quell’usanza, ma non potevano permettersi di attirare l’attenzione. Dovevano proseguire verso Medhina.

L’Arabia a seguito della guerra tra Licanes e Chin aveva beneficiato di relativa pace.
Relativa, perché di fatto stava già finendo prima. Esuli, emarginati, gruppi di dissidenti, disertori dell’una o dell’altra parte, c’era tutto questo là.
Eppure, Medhina era rimasta una delle città più sacre e importanti per i popoli del deserto.
Marduk bevve un sorso dalla fiasca. L’acqua sapeva di cuoio ed era quasi calda. Il calore lo faceva sudare e il dolore alla testa che sentiva pareva un colpo di maglio ripetuto più volte.
Il suo male, sicuro. Ci avrebbe scommesso.
-Marduk?-, Hawo. Lui si voltò. Inquadrò l’africana avvolta da una veste scura da cui sbucavano solo gli occhi.
-Dimmi pure.-, disse.
-Non sembri triste ad aver lasciato Licanes.-, osservò.
-Dovrei esserlo? Non era più casa… da molto.-, ammise lui.
-Saida mi ha raccontato. È per questo che hai rifiutato quell’onoreficenza, vero?-, chiese lei.
Marduk annuì appena. Certo. Ovviamente il governo della Confederatio aveva voluto premiare lui e gli altri, mostrare loro gratitudine per una resistenza a oltranza superba.
Peccato che fosse stato solo un bieco modo di congedarli senza curarsi troppo della realtà.
La verità era che tutta la sua unità era stata lasciata a morire per perseguire obiettivi strategici, ma soprattutto, tatticamente un espediente molto valido, ma non corretto verso di loro. Spesso Marduk si era chiesto cosa sarebbe costato ai comandanti licanei distaccare una forza d’intervento. C’era la possibilità di farlo. C’era stata. C’era stata persino la sicurezza che non sarebbero stati intercettati dai velivoli di Chin.
E ovviamente non l’avevano fatto.
-Un governo che manda i suoi uomini a morire in questo modo non merita uomini come quelli che sono caduti per esso.-, mormorò infine l’uomo. Hawo annuì piano, solenne.
-Hai pensato al dopo?-, chiese all’improvviso.
-Stai provando a reclutarmi?-, chiese lui.
-Più a capire se c’è qualche possibilità di rivederci finito questo incarico.-, ammise lei.
Lui tacque. Non considerava il dopo. Non poteva considerarlo.
-Nessuno sa cosa porterà la prossima alba, Hawo.-, disse infine, -Però ora sono qui. E intendo restarci, non aver dubbi su questo.-.
-Un vero peccato che siamo ancora in viaggio su questi…- disse l’africana.
Viaggiavano a dorso di cammello. Bestie lente, tutt’altro che selvagge. Sotto il caldo e con l’usta degli animali, era quasi una tortura. Saida, poco più avanti, non proferiva parola.
-Già. Ma è quel che potevamo permetterci. E non danno nell’occhio.-, riconobbe lui.
-Sì, ma capisci che se fossimo su un mezzo… Staremmo più comodi.-, il tono di Hawo era allusione pura. Marduk sorrise, sapendo che lei non poteva vederlo.
-Avremo modo di trovare una sistemazione comoda.-, disse, ben conoscio dei sottointesi.
-Non vedo l’ora!-, esclamò Hawo. Marduk sorrise di nuovo.

-Il velivolo era sconosciuto, ma i codici corrispondevano.-, commentò l’ufficiale addetto al controllo del traffico aereo, -Non l’abbiamo fermato.-.
-Capisco.-, annuì Licius, -Avete tracciato il volo?-, chiese.
-Sino alle province esterne, signore. Al confine con i barbari arabi.-, riferì solerte l’uomo.
Era sulla sessantina, prossimo al pensionamento ed evidentemente intenzionato ad arrivarci senza brutte sorprese, ma era stato scrupoloso e capace, più di altri. Aveva subito segnalato l’irregolarità nel traffico aereo.
-Immagino che li abbiate seguiti fin dove possibile.-, commentò Licius.
-Sì, fino a quando il rilevamento si poteva fare senza dover distaccare velivoli.-, annuì l’uomo.
Gannicus, poco distante, taceva. Era palese ed evidente che avevano la loro traccia.
Qualcuno aveva lasciato la Confederatio, molto in fretta. E le ricerche dei Prefectii circa Marduk Atbash e Ferelea avevano dato esito nullo. I due erano spariti nel nulla.
Una coincidenza tutt’altro che confortante.
-Lei può contare su una mentio valoris civica.-, disse infine Licius, -Ora ci serve un trasporto.-.

Il Celeste ascoltava il vento. Qualcosa stava muovendosi. Qualcosa si era già mosso.
Durante il primo giorno di scontri, le forze di Licanes avevano attaccato in Indocina attraverso la Sarmatia. Una mossa prevista che era stata respinta, ma solo una diversione: sotto la copertura di quell’assalto, una forza d’attacco nemica aveva avuto modo di sbarcare nella penisola di Corea. Una pessima notizia che aveva visto il comando di Chin ordinare un contrattacco. La sera seguente, il cielo del Khazar, regno autonomo slegato sia da Chin che da Licanes ma noto per il suo supporto ai secondi, si era tinto di rosso.
Le forze di Chin avevano annichilito la debole resistenza delle forze locali andando a schiantarsi sulle divisioni licanee presenti. Nel mentre, altre forze colpivano verso l’Europa ed eventualmente persino oltre.
Il conflitto era puro caos. Tutti cercavano una breccia, un punto dove colpire un nervo scoperto. Era come un duello di spade, solo su scala più vasta.
I fendenti erano mosse di truppe e flotte, le parate ridispiegamenti e gli affondi, spietate offensive lampo. Forse, nella sua violenza sfrenata, sarebbe stata una guerra breve.
Tutto ciò non riguardava il Celeste.
Il Concilio di Beijing aveva deciso: le armi del gruppo di Minah Ahn avrebbero permesso la vittoria, sarebbero stare utilizzate a tal fine, per porre fine a quella guerra e a tutte le altre.
Il Celeste non era certo che tale decisione fosse corretta. Tutto in lui si ribellava all’idea del mondo che sarebbe potuto esistere dopo una simile azione. Un mondo in corsa verso la fine.
Con gli occhi della mente aveva potuto immaginare. Il pianeta ci avrebbe messo anni, secoli, a riprendersi. Neppure la vittoria di Chin poteva valere un simile prezzo.
-Mio signore?-, chiese una voce. Hon Fo, uno dei suoi agenti, lo fissava mentre lui osservava un punto indefinito nello spazio davanti a sé, apparentemente incurante della reale situazione.
“Hon Kon. Sono ancora soltanto a Hon Kon.”, si concesse di ricordare il Celeste.
Poco importava. Con Lie Nu fuori dai giochi, non aveva più un agente veramente suo. Il Concilio non si basava sulla fiducia cieca. Esigeva risultati, e lui ne aveva pochi da portare.
Con la situazione attuale non era il migliore dei presupposti.
Aveva un solo vantaggio. Il solo per cui non era stato ancora sostituito.
Lui aveva conosciuto personalmente uno dei membri del progetto.
E aveva una ragionevole idea di dove fosse.
Sebater Tigus, un licaneo semplicemente geniale, un ricercatore puro, un uomo che si era spesso definito troppo intelligente per il proprio bene, aveva cercato asilo in Asia per una ragione: sapeva che nell’eventualità di una guerra, Chin non l’avrebbe cercato sul proprio territorio e la Confederatio Licanea avrebbe avuto difficoltà a operare in zona nemica con la discrezione necessaria. La condizione ideale per svanire senza lasciare traccia.
A parte che almeno una traccia, per labile che fosse, il Celeste l’aveva. Si voltò verso Hon Fo.
-La squadra è pronta?-, chiese. Lui era uno stratega, muoveva i pezzi. Hon e i suoi erano pedine, da usare, da sacrificare all’occorrenza.
Era giusto così. Quando il giovane annuì, il Celeste sorrise.

L’intera sezione era nel caos. Licius ebbe non poche difficoltà a reperire anche solo un velivolo e degli uomini. La morte di Onestracio Darvaneo aveva gettato nel caos l’organizzazione di gran parte dell’Asia Minore. Lo stesso sostituto Legatus, Onario Varo, pareva incapace di organizzare le proprie risorse oltre le più basiche delle necessità operative, figurarsi lanciare un’operazione in un territorio tecnicamente non controllato da Licanes.
“Questo è il prezzo della pace, l’indecisione e il lassismo.”, pensò Licius.
Una fortuna che i gruppi di livello Secutor fossero operativi in quella zona. Respinsero un assalto di alcuni banditi barbari appena oltre la parte licanea del limes.
Licius e Gannicus li raggiunsero al Castra Damascus, il principale complesso militare di Licanes nella regione. Con loro c’era anche Lie Nu. La Chin era sotto scorta armata di uno degli uomini di Licius, con un collare esplosivo al collo. Misure di estrema sicurezza.
Sino a lì non aveva tentato mosse false. Il che avvalorava la sua promessa di collaborare.
Licius però non intendeva concederle libertà di movimento. Non ancora, quantomeno.
E sicuramente non nel breve periodo. La squadra che li aspettava era composta da una decina di elementi, a cui se ne sarebbero aggiunti atlri venti. Un totale di tre manipula.
L’unità base delle Legioni dell’epoca dell’Impero, tale misura era rimasta nelle forze di pace della Confederatio.
Erano già nella sala. Gannicus e Lie presero posto e Licius attese che l’ufficiale lo introducesse. Fece attivare il proiettore di pittoimmagini mostrando una foto di Minah Ahn, morta.
-Signori. Come ben sapete siamo in guerra.-, iniziò. Nessuno fiatò.
-Le guerre si vincono in due modi. Sui campi di battaglia o con azioni risolutive al di fuori di essi. Minah Ahn, era una studiosa, un’esperta di biochimica, bioingenieria e biologia. Una ricercatrice volta allo sviluppo di armi non convenzionali. Deterrenti da usare in caso di minaccia di un nuovo conflitto tra Chin e Licanes. Ora è morta. I suoi colleghi hanno quelle formule e Licanes necessita di quelle formule, per garantire che Chin non possa mai più minacciare la Pax Licanea.-, disse. Altra foto. Gannicus, al proiettore pareva una statua.
-Minah Ahn non era sola. I suoi colleghi sono Sebater Tigus ed Halmann Rebis. Con sua morte, quei due sono gli ultimi depositari delle formule che hanno sviluppato.-, continuò, -È imperativo acquisirli e alla svelta. I Chin stanno procedendo in tal senso, e anche un altro servizio è attivo in tal senso. Preparatevi alla partenza, tempo dieci minuti. Direzione: Dakah.-.
Il briefing era durato meno di cinque minuti ma nessuno, assolutamente nessuno osò lamentarsi o fare domande. Tutti gli operatori capivano cosa c’era in ballo.
La loro missione poteva porre fine alla guerra. Poteva realisticamente scrivere la Storia.
Nessuno di loro si sarebbe fatto illusioni sul peso del loro incarico, né sulla necessità di totale concentrazione, Licius lo sapeva. D’altronde la stessa pressione la subiva lui.
“Ovviamente la posta si è alzata notevolmente. Ferelea non si rende conto di cosa ha scatenato. Marduk è un cane sciolto, un bastardo pericoloso, specie ora che è con l’Unio Africae.”, pensò, “Ma Tigus è l’unico che non ha mai celato il suo interesse per l’Asia. Abbiamo margine di manovra…”.

Medhina era esattamente come Marduk aveva immaginato. Caotica, antica, popolosa.
Entrarono in città dopo aver pagato una gabella a uno dei posti di blocco. Soldati armati di spade, sì, ma anche pochi con vecchi fucili che parevano risalire a Nimandeo Feral.
Superate le mura, la città era un caos di gente, il bazar pareva un universo a parte dove figure bardate da vesti pesanti arricchite di decorazioni contrattavano sino allo sfinimento i prezzi di questo o quell’articolo, avvolti dall’odore delle spezie o del cibo cotto poco distante.
Il gruppo attraversò rapidamente il bazar sino a una struttura. Una casa.
-È questa.-, disse Saida. Entrarono sotto lo sguardo vigile di un uomo grosso, molto grosso.
Uno che avevano già visto. Marduk annuì.
-Svalok. Come te la passi?-, salutò.
-Esattamente come appare. Uno schifo! Niente alcool, niente donne, niente gioco d’azzardo… Questo popolo si deve voler male.-, disse l’omaccione, -Ma il capo è già dentro.-.
All’interno, oltre l’atrio c’erano due stanze. Una era una cucina, e la seconda era un bagno. Un Hammam che, pur ridotto, offriva le giuste comodità.
-Benvenuti.-, disse Ferelea scendendo le scale. Era vestita alla maniera locale, uno stupefacente esempio di mimesi, -Confido non ci siano stati problemi.-.
La veste lunga lasciava scoperto il viso, ma non i capelli, avvolti in un velo. Una concessione alle usanze del posto, e un modo per evitare contrasti.
-Non ce ne sono stati.-, annuì Marduk.
-Bene, perché Licanes è ufficialmente in guerra con Chin.-, disse Ferelea, -E questo complica la situazione. In più il Legatus per l’Asia Minore è stato ucciso qualche ora fa.-.
-Ecco perché nessuno ci ha intercettato.-, mormorò Saida, -Una coincidenza notevole.-.
“Quasi troppo.”, pensò Marduk. Sembrava semplicemente troppo bello che la suprema autorità di Licanes in quelle terre fosse stata minata proprio mentre loro vi giungevano!
“Potremmo avere un alleato. Qualcuno che sa di noi.”, pensò. Ricordò che non era la prima volta che gli eventi inspiegabilmente si muovevano per favorirlo. E non poteva più parlare di mero disegno del fato. No, doveva esserci la mano di qualcuno. Ma perché?
Inoltre c’era Minah Ahn. Qualcuno aveva voluto che morisse, aveva preteso che loro vedessero quella morte. Perché? Perché non spararle al collo, o al petto, o alla testa?
No, l’assassino aveva scelto, consapevolmente scelto, un punto sì vitale, ma che non causasse una morte immediata. Aveva concesso a Minah le ultime parole.
Come se qualcuno avesse voluto che loro sentissero, come se avesse preteso che loro continuassero la corsa.
E a questo punto, la domanda più schiacciante si palesò, in tutta la sua gloriosa angoscia.
“Questo qualcuno ha voluto una nuova guerra?”.
Una dimensione parallela parve avviluppare Marduk, come se il tocco di quel pensiero l’avesse portato a sdoppiarsi. Sebbene fosse lì, in quella stanza, in piedi, una parte di lui venne risucchiata verso il passato, all’epoca in cui aveva deciso di servire Licanes sotto le armi. Una scelta dettata dall’imperativo morale di venire in aiuto di un popolo incapace di comprendere la magnitude del proprio gesto, e le immani sofferenze che sarebbero giunte.
Si sentiva come se tutto fosse nuovamente a quel punto, lui ancora sulla breccia e il mondo lanciato verso l’annientamento. Espirò piano, cercando di placare le emozioni.
-Ferelea. Dov’è Sho-Mi?-, chiese infine, rientrando al presente.
-Non è ancora arrivata. Sono sicura che ci raggiungerà presto, o strada facendo.-, rispose l’informatrice. Saida scosse il capo.
-Non abbiamo tempo di aspettare. La guerra tra Chin e Licanes significa che chiunque non sarà dalla parte di uno sceglierà l’altro. È un conflitto che potrebbe divenire di fatto intercontinentale…-, lasciò che quella parola affondasse nelle loro menti, un incubo composto da dolori ancora a venire, -Minah Ahn avrebbe voluto evitarla. Per farlo, ci serve trovare Sebater Tigus. Forse, se riuscissimo a impedire che quelle formule cadano in mano all’una o all’altra parte… Rimuoveremmo l’elemento finale di una bomba terrificante.-.
-Esatto.-, annuì Ferelea con un sorriso, -E io mi sono già permessa di fare alcune ricerche, ma su Tigus sappiamo ben poco. Cinquanta, forse sessant’anni. Un autentico genio. Ha rifiutato più di un premio e un incarico pagato più che profumatamente per continuare le sue ricerche.-.
-Che vertevano su armi di sterminio?-, chiese Hawo. Con un cenno l’informatrice li fece avvicinare a uno schermo. Immagini su quello schermo, vettori e altro.
-Propulsione, di vario tipo. Sebater era un genio della meccanica, della balistica ed eventualmente anche della mente umana. Suggerì i bersagli, i siti di lancio, progettò e costruì motori capaci di muovere i missili a una velocità tale da rendere obsoleti i sistemi di difesa.-, spiegò Ferelea. Saida annuì. Capiva.
-Le formule le ha lui.-, ricordò Hawo.
-Sì. Perché era quello che non le avrebbe mai cedute. Chi più di lui e Minah potevano sapere cos’avrebbero scatenato sul mondo? E con Minah dispersa nella Confederatio, Sebater si dirige da un’altra parte, proprio in mezzo al territorio nemico. Una dicotomia perfetta, non trovate?-, chiese Marduk, -Lei, un’asiatica, si nasconde presso Licanes, lui, un licaneo, presso le comunità dell’Asia.-. Saida parve riflettere, come tutti loro.
-Ma Minah sapeva di essere seguita. Non è stata così capace nel nascondersi.-, notò.
-Perché credo volesse essere trovata. Non ha resistito all’orrore. Una parte di lei voleva solo che finisse.-, mormorò l’agente, -E alla fine è finita. Per mano di quel cecchino.-.
-Queste sono ipotesi, Marduk.-, gli fece notare Ferelea, seduta su un pouf.
-Queste sono ipotesi suggellate da fatti.-, ribatté lui, -E mi sembra chiaro che se siamo qui è perché sappiamo, tutti quanti, che né Chin né Licanes si faranno scrupolo a usare quelle armi qualora riuscissero a trovarle.-.
-Quello è evidente.-, annuì Hawo.
-Il nostro compito è impedirlo. È per questo che siamo qui. È il nostro destino.-, disse Marduk. Si sentiva come se tutto avesse acquisito un senso, una prospettiva a lungo cercata.
I pezzi di un mosaico si erano allineati perfettamente, restituendogli l’immagine di una figura chiara, cristallina, una mappa tracciata verso il domani, ormai libera dalle tenebre fosche dell’incerto. Saida lo fissò.
-Credo sia quel che direbbe un Justicar.-, disse con studiata lentezza.
-Togli il “credo”. Lo è.-, disse Ferelea, -Quella gente ha un fuoco dentro che neanche la morte pare riuscire a soffocare. Anche quando sono a pezzi vanno avanti.-.
-Già.-, mormorò Marduk. Poi, improvvisamente, tossì, piegandosi sulle ginocchia, scosso da un rantolo. Sentì la mano di Saida sulla schiena, si fece forza, si rialzò.
-Merda…-, mormorò. Ferelea annuì.
-Per oggi ci fermiamo. Riposeremo e procederemo a organizarci. Domani decideremo come agire.-, ordinò. Si rivolse all’agente.
-Tu hai bisogno di un medico, altro che no.-, disse a muso duro. Lui fece per ribattere mai lei lo fissò, dura. Immagini del loro amplesso con Hawo gli balenarono in mente.
“Come ho potuto illudermi che nulla sarebbe cambiato?”.
-Ferelea, non…-, iniziò. Un nuovo colpo di tosse seguito da altri tre lo fece tacere.
-Lo è.-, chiuse il capitolo lei chiamando un inserviente. Era un vecchio ma, a dispetto della figura gracile pareva ancora sapere il fatto suo. Uscì rapidamente.
-Ora riposa. Avrai tempo per crepare ma non è adesso. E mi assicurerò che non sia neppure tra troppo poco.-, gli impose l’informatrice. Marduk sospirò, chinando il capo. Vinto.
-Davvero una donna da sposare, eh?-, chiese Hawo. Nei suoi occhi però c’era un’ombra di preoccupazione.

Clavus Uzbea.
La figura in nero vi era giunta rapidamente, osservava quel luogo senza provare altro che un senso di profonda soddisfazione.
Le pedine erano in movimento. Tutto stava andando esattamente come previsto.
Anche Ferelea stava procedendo nel fare la sua parte.
Presto tutto si sarebbe concluso. Sganciò la maschera. L’aria fredda assalì la pelle esposta.
Camminò tra le rovine, chinandosi su corpi di esseri bruciati, corpi inumanti, alterati, deformati, disgregati. Osservò il complesso.
Sventrato, distrutto, bruciato. Era lì. Li era cominciata la fuga di Ahn e degli altri tre.
E lì qualcos’altro aveva avuto inizio.
Col tempo, tutti l’avrebbero capito. La figura passò la mano sul muro del rudere.
La terra attorno allo stabilimento era cinerea. Un deserto semplicemente grigio, sterile, privo della più elementare forma di vita vegetale.
Ne raccolse un pugno. Sfregò le mani guantate. Annusò la sabbia. Odore strano, metallico, innaturale. L’odore del vuoto. Sorrise.

– Clavus Uzbea.-, Licius menzionò quella parola con reverenziale timore. Forse era un luogo mitologico, o lo sembrava. Invece era schifosamente, orribilmente reale.
Era un luogo oscuro. Celato. Gelosamente scagliato nel dimenticatoio dalla brucorazia di Licanes. Perché? Perché era all’origine di tutto il male, di ogni errore, di ogni orrore.
-Cosa c’è laggiù?-, Gannicus aveva osato spezzare il silenzio. Licius annuì. Mostrò a loro altre pittoimmagini. Edifici sventrati da esplosioni, anneriti da bruciature.
-Resti. Rovine.-, sbuffò uno degli operativi, una donna. Lui sapeva che si chiamava Armisa.
-Già. Ma non rovine qualsiasi.-, annuì Gannicus. Stava fissando la pittoimmagine, come ipnotizzato. O forse accattivato. Sicuramente intuiva qualcosa.
-Non ho mai sentito parlare di questo posto, prima.-, a parlare era stato l’esperto armi pesanti della squadra, un bestione chiamato Octavius.
-Chiaramente. Non era menzionato nei rapporti. Ufficialmente, non esiste. Come noi.-, chiarì Gannicus. Licius annuì, ora toccava a lui spiegare.
-Pochi mesi dopo la prima guerra tra Licanes e la Nonia (anche detta Regno di Chin) diversi esponenti di ambo le potenze si resero conto che un secondo conflitto sarebbe stato devastante. Non era tollerabile che avvenisse.-, spiegò.
-Così si sviluppò un progetto congiunto, un gruppo ristretto di ricercatori. Avrebbero sviluppato armi. Deterrenti. Immaginate per un istante armamenti capaci di compiere devastazioni talmente orribili da scoraggiare persino un eventuale vincitore a prendere possesso del territorio preso. Armi definitive, forgiate per inculcare nell’umanità la consapevolezza dell’atrocità della guerra, in modo che nessuno potesse più turbare la Pax Licanea.-, concluse.
-Il quadro cade quando?-, chiese Armisa. Era una degli operatori d’assalto. Lo sguardo bovino che aveva non pareva particolarmente brullante. Licius annuì appena.
-Cade quando, dopo alcuni esperimenti, Minah Ahn, Sebater Tigus e un terzo membro del gruppo si sono dati alla macchia, insieme a un quarto elemento.-, disse.
-Come hanno fatto a sparire?-, domandò Utricius, l’uomo della punta, il primo incursore.
Era un ottimo elemento, tre anni sul fronte mediorientale, poi due missioni classificate nella Sarmatia profonda. Un uomo di cui fidarsi. Un pedone capace.
-Esattamente quello che molti altri si chiedono. La risposta logica è che siano fuggiti di loro volontà, sfruttando la fiducia che i nostri governi, Chin e Licanes, hanno tributato loro. Sono sgusciati tra le maglie del sistema. Astuti, capaci, e molto, molto bravi.-, rispose.
-Non sono rimasti insieme, questo lo potete ben immaginare. Ho ragione di credere che non siano neppure rimasti in contatto.-, continuò Licius, -Minah Ahn ha scelto di rifugiarsi nella Confederatio, perché nei territori di Chin era nota. Sebater Tigus ha fatto l’opposto. Gli altri due… non lo sappiamo con esattezza.-.
-Come sappiamo che Sebater non è nella Confederatio? Hai fonti per asserire questo?-, chiese Seleucinea, la tiratrice scelta del gruppo. Era una bella donna, viso piacevole, corporatura snella e capelli neri, incarnato piacevolmente olivastro, dovuto a qualche antenata del Kelreas realisticamente. Era intelligente, e gli occhi verderame esprimevano determinazione. Per un solo istante, l’uomo la vide come una donna.
Una bella donna. Una che si sarebbe fatto più che volentieri!
-Ho delle info di prima mano, da elementi affidabili.-, disse.
-E non ci dirai chi sono.-, commentò Gannicus. Non era una domanda, e non c’era rabbia in quella frase. Era una mera costatazione di fatto.
-No. Vi basti sapere che Clavus Uzbea è la nostra prossima tappa.-, disse Licius.
-Perché?-, chiese infine Armisa, -Cosa c’è laggiù, davvero?-.
-Il memento. Ciò che vincola gli uomini. Ciò che ha vincolato Tigus. E anche altri…-.

Gannicus annuì. Clavis Uzbea. Un luogo di incubi.
Un luogo da cui forse nessuno dei tre ricercatori era mai davvero fuggito.
-Pensi che Sebater Tigus sia ancora lì.-, disse. Licius non negò.
-Forse. In ogni caso, quel punto è il nostro miglior punto di partenza. Era lì che lavorava.-.
-Il governo di Chin avrà messo a soqquadro l’intera struttura.-, ragionò Seleucinea.
-Il governo di Chin non vi ha messo piede.-, disse Lie Nu. Era vestita con una divisa, ma il collare esplosivo era visibilissimo. Poteva partecipare a quella riunione solo perché conosceva almeno in parte le possibili mosse di Chin, -Per loro ê una zona proibita.-.
-E dovremmo crederci perché lo dici tu, troietta con gli occhi a mandorla?-, chiese Octavius.
-No. Ci crederete perché lo dico io.-, sibilò Licius. Parve una folata di blizzard, un vento gelido, come se Yneas si fosse scocciato di quegli uomini e avesse inviato loro un tetro presagio.
La temperatura nella sala calò sensibilmente, come il chiacchericcio.
-Signore?-, chiese Utricius.
-Non mi baso solo sulle confessioni della qui presente rinnegata di Chin, che comunque sembra salda nella sua decisione di tradire, ma anche sulla mia personale esperienza e sulle eventuali fonti informative interne ai Servizi di Licanes. Quel luogo è segnato. Per tutti. Nessuno ci va.-, chiarì l’uomo. Gannicus annuì appena. Andava bene.
-Se nessuno ci va…-, ragionò Armisa, -Potrebbe essere perfetto per Tigus, per sparire.-.
-Forse non vuole sparire.-, osservò Gannicus, -Vuole ricordare.-.
-Perché?-, chiese Octavius, confuso.
-Per la colpa. La colpa degli uomini.-, mormorò Lie Nu.
-L’ordine rimane. È li che ci dirigiamo.-, commentò Licius.
-È ben oltre le linee alleate. Sappiamo di movimenti. Truppe Chin in zona, o loro alleati. E non avremo modo di chiaamre rinforzi.-, disse Utricius.
-Questo non sarà un problema.-, commentò Lie. Gannicus la osservò. Era atrocemente pacata. Se stava per tradirli…
-Ovviamente. Ci penserai tu a farci filtrare, vero?-, il tono di Octavius grondava veleno.
-Sì.-, ribatté lei, -E che mi crediate o meno, voglio quello che volete voi. La vendetta su Chin.-.
-Perché? Dacci un solo motivo per crederti!-, la sfidò Octavius. L’asiatica sorrise.
Era un sorriso triste, mesto. Gannicus la fissò, analitico.
-Ho dedicato gran parte della mia vita a Chin. Sacrifici, scelte, rischi, tutto. Come voi. Cos’accadrebbe, mi chiedo, se domani Licanes vi lasciasse in mano al nemico, senza supporto, senza aiuti, senza niente? Non vi sentireste traditi, mi chiedo?-, chiese.
-Resisteremmo!-, rispose Armisa, -Combatteremmo! È questo che significa essere Licanei!-.
-Certo! E morireste. Per Chin e Licanes, siamo risorse spendibili. Niente più. La differenza, è che Chin ha abusato della mia fedeltà una volta di troppo.-, replicò l’altra.
-In ogni caso è inutile discutere. I miei ordini restano. Lie Nu apre insieme ad Utricius e Armisa. Noi seguiamo.-, concluse Licius.
-Chiedo di affiancarmi al primo gruppo di penetrazione, signore.-, disse Gannicus. Silenzio.
-Concesso.-, annuì infine l’ufficiale, -Potete andare. Partenza alle 21.00. Congedati.-.

Il medico arabo aveva parlato di cataplasmi, di balsami, soprattutto aveva suggerito calore.
Per Marduk la risposta era stata chiara. L’Hammam.
Si diresse nella sauna dopo essersi spogliato nella saletta adiacente. Sedette su una delle panche in pietra liscia, distendendosi infine, cullato dal caldo tepore dei vapori. Sudava e lo sapeva. Socchiuse gli occhi. Sì, ora la tosse era passata. Per quel momento, almeno. Altri dolori in agguato gli ricordavano che era solo una tregua momentanea.
“Avrà fine solo con la mia morte. Quei bastardi l’hanno pensata proprio bene.”, pensò.
-Stai meglio?-, Ferelea. Marduk sospirò.
-Sì. Più o meno.-, ammise. In realtà non stava proprio benissimo. Si sentiva stanco.
-Bene. Senti, dobbiamo parlare. Io… questa cosa è sfuggita alle regole.-, disse lei sedendosi.
Marduk non la guardò, non subito. Erano su due panche ai lati opposti della stanzetta.
-Ferelea. Io non mi pento di ciò che abbiamo fatto…-, disse.
-Neppure io, dannazione! Non è di quello che sto parlando! Noi… Noi ci siamo bruciati i ponti alle spalle, lo capisci? Se anche domani questa cosa finisse e riuscisse a tornare la pace, noi non ritorneremo nella Confederatio.-, disse lei. Lui la guardò. Sembrava agitata, disperata.
-Pensavo che le Amazzoni non si perdessero d’animo tanto in fretta.-, disse con un sorrisetto.
L’informatrice parve recepire, incassò, anzi.
-Ho bisogno di una garanzia di stabilità.-, riconobbe lei. Gli parve vulnerabile, di colpo.
Lui si alzò. Si avvicinò piano, lentamente.
-Ferelea, la stabilità è un mito. Anche in tempo di pace, è una chimera.-, sussurrò.
-Ci dev’essere qualcosa…-, iniziò lei.
-E c’é. Ma non è ciò che tu credi.-, ribatté lui, la voce pacata, quasi dolce.
Il silenzio li sommerse. Poi Ferelea parlò.
-Io credo che Saida non si fidi di me.-, disse.
-Sua sorella non mi sembra altrettanto diffidente.-, osservò Marduk. Quella frase fece brevemente sorridere la donna che tornò seria dopo un istante.
-Crede che io possa essere una traditrice. Mi domando con chi potrei tradirvi, visto che sicuramente ai piani alti di Licanes sanno che vi ho seguiti. Ci ho provato a occultare le mie tracce, al meglio che potevo, ma non posso essere certa che tornando nella Confederatio non mi aspetti un fucile puntato.-, mormorò.
-Saida è un’operativa di un certo livello. Quando fai questa vita, la paranoia è normale.-, disse l’uomo, -Ti tiene in vita.-. Ferelea gli scoccò uno sguardo curioso.
-E cos’è che ti mantiene sano?-, chiese. Lui si chinò su di lei, lei non si allontanò.
Erano entrambi nudi. I seni di Ferelea restavano orgogliosamente retti, sfidando lo scorrere del tempo e la gravità. La donna rispose al suo bacio, piano. Marduk si sdraiò sopra di lei. Ferelea aprì le gambe, piano mentre lui le baciava le labbra, il collo e i seni. Lo avvinghiò a sé.
-Scopami.-, sibilò. Un’ordine, non una preghiera, ma l’uomo poté sentire il suo desiderio, il suo bisogno, la necessità di una tregua dai dubbi, dall’angoscia, dal futuro. La voleva.
Marduk fece forza contro il sesso di lei, scivolando in un intimità più pronta di quanto avesse creduto possibile. Ferelea lo baciò con avidità. I movimenti divennero sincopati, rapidi.

Saida sospirò. Mettere delle pittocamere era stato complesso, ma aveva richiesto solo un pagamento sottobanco ad alcuni intermediari arabi. Fondi spesi dall’Unio. Spesi bene.
La scena che si stava consumando nell’Hammam era piacevole a vedersi, certo, ma lei s’interrogò un istante sulla situazione. Ferelea sapeva dei suoi sospetti, l’aveva reso chiaro.
“Il che la rende molto più difificile da smascherare, se effettivamente è una doppiogiochista.”.
Anche la loro fuga era sospetta. Era andato tutto bene, un importante ufficiale delle forze di sicurezza della Confederatio era morto, guardacaso proprio quando era servito a loro per defilarsi senza farsi notare.
“Troppe coincidenze.”, pensò Saida. Distolse lo sguardo dall’amplesso dove Marduk, disteso su Ferelea, procedeva a penetrarla mentre lei sussurrava cose all’orecchio di lui.
Una fortuna che Hawo non fosse presente (e Saida si chiedeva onestamente se tale pensiero fosse dovuto all’ultimo triangolo amoroso a cui aveva assistito o se invece il suo timore fosse che Hawo avrebbe mal sopportato l’iniziativa di Ferelea), ma tutto ciò non risolveva l’interrogativo. La loro fuga dalla Confederatio Licanea era stata semplicemente perfetta. Nessun problema, nessun ritardo, e nessun tracciamento.
E poi c’era lei. Anche Ferelea era riuscita a sganciarsi rapidamente e abilmente dal territorio di Licanes. Ma con lei non era arrivata la Justicar di cui avevano parlato.
Quindi dov’era finita quella donna? Era stata lei ad abbattere Onestracio? I canali dei licanei erano pieni zeppi di indiscrezioni. Il panico aveva portato molti a richiedere misure forti, interdicendo il diritto di transito ai mercanti e invocando una legge marziale che non vedeva applicazione da almeno trecento anni in quella regione.
C’era davvero troppo che non quadrava, e Saida si concesse di rivisitare gli eventi precedenti.
A detta di Marduk, chi aveva sparato a Minah Ahn non era di Licanes.
Poteva essere lei? Sho-Mi? Poteva essere quella Justicar? Perché?
Perché uccidere una dei tre uomini in grado di assicurare la pace?
Non era forse quello l’obiettivo dei Justicar? I guerrieri in nero erano giustizieri, uomini e donne votate a combattere i corrotti e le loro manovre. Secondo le dicerie, erano eroi.
O mostri. D’altronde, la differenza tra i due era spesso determinata da chi osservava.
“Mostri eroici che fanno ciò che altri non possono. Per impedire il trionfo del male.”, pensò.
E poi c’era Chin. Due suoi agenti rinvenuti sul territorio di Licanes, palese prova del loro coinvolgimento. Inutile dire che ciò aveva innescato il conflitto. Le fasi di apertura della guerra si erano consumate con scontri di confine, bombardamenti tattici su obbiettivi ritenuti legittimi secondo la Conventio Vetera (che sanciva quali fossero i giusti obiettivi in un conflitto). Non sarebbe durata, l’africana lo sapeva. Non poteva durare.
Presto sarebbe stata troppo grande, da una parte o dall’altra, la tentazione di colpire il ventre molle del nemico, di dilaniare l’avversario, di distruggerlo. Di superare i confini.
Era per evitare tutto ciò che Minah Ahn e i suoi avevano lavorato, ma a un certo punto avevano capito che il male minore non era semplicemente accettabile.
Non era un compromesso che potessero accettare. Era semplice da capire.
Minah e i suoi si erano eclissati, erano scomparsi dai radar. Ferelea aveva introdotto Marduk nell’equazione, gli aveva dato modo di trasformare un incontro casuale in un incarico a pieno titolo, forse anche sapendo ciò che c’era in ballo. E ora… Ora erano lì, in quella casa.
“E lei sta lamentandosi della poca stabilità.”, pensò Saida. Eppure, Ferelea non era una che giocava sicuro, era un’informatrice, trafficava in dati, in opportunità.
Cosa c’era di meno stabile? Stava veramente temendo per il futuro? Lei?
Era qualcosa a cui Saida aveva difficoltà a credere. Molta.
Era ora di capire qualcosa di più. Si alzò dalla scrivania.

Hawo sospirò. Quella città non le piaceva affatto. La gente era ricoperta da vesti spesse e lunghe, tutti sembravano quasi spaventati da qualcosa e palravano poco, molto poco.
Il mercato era, di contro, un caos. La nera si trovò presto stretta in una ressa. Diversi la guardarono male. Quando infine si fermò a comprare qualcosa, il mercante, un uomo untuoso con una barbetta caprina poco curata e gli occhi che parevano spilli nel viso ottuso, sembrò squadrarla come si squadrava una bestia da acquistare.
-Straniera, vero?-, chiese. Lei annuì. Prese alcune cose. Cibo. Pagò dopo poche trattative.
-Voi straniere siete tutte così indecenti! Uscire senza un uomo accanto!-, esclamò lui.
-Io non sono sposata.-, sibilò lei. La cosa non le piaceva. Era vero che tutte le donne che sin lì erano state viste da lei erano sempre in compagnia di un uomo.
-Questo è…-, iniziò il venditore scattando in piedi, paonazzo.
-Questo è il suo modo di fare.-, disse un uomo. Era un nero, un individuo alto e denocciolato, fiero. Superava di tutta la testa il mercante, -E io sono suo cugino, Osman Zebedi. Salaam.-, aggiunse presentandosi con un cenno del capo.
-Salaam, Osman Zebedi, la pace sia con te.-, rispose il venditore, -E possa tu educare tua cugina secondo le vie del Profeta.-.
-Provvederò a farlo.-, disse lui con cenno di saluto. Hawo lo seguì. Era furiosa.
-Ma ti rendi conto?-, chiese in Amara, passando alla lingua che entrambi padroneggiavano.
-Sì. Hanno usanze diverse dalle nostre. Comunque, non sembrano esserci problemi. Ho avuto modo di individuare due informatori. Gente di Chin sicuro. State lontani dalla zona del suk, a est di qui.-, disse lui nello stesso idioma.
-I mezzi che mia sorella ha chiesto?-, chiese. Osman scosse il capo.
-Domani. O dopo al più tardi.-, disse.
-Dobbiamo sbrigarci. I nostri avversari sicuramente non stanno fermi.-, replicò Hawo, secca.
-Farò il possibile. Tu torna a casa, e riposa.-, disse lui. Hawo sospirò.
Era giusto però. Cominciava a far tardi, anche il mercato stava chiudendo.

Il Celeste leggeva i rapporti. C’era qualcosa che non andava.
Le forze di Licanes a Jienchan, nella penisola di Corea, avevano opposto una resistenza solo simbolica prima di cedere terreno alle forze di Chin. Anche Dahong era stata evacuata senza quasi sparare un colpo. Le unità di Chin comandate dai generali Wien e Lo-han stavano avanzando a pieno ritmo. Oltre Dahong c’era la piana dello Zuingzho e oltre ancora, Sogndo.
Songdo. Il principale snodo logistico della regione. Era folle non aspettarsi resistenza dalle forze di Licanes là. Eppure, se ben tre eserciti di quasi duemila uomini l’uno avevano ripiegato dopo pochissime perdite, il Celeste aveva motivo di credere che ci fosse una ragione.
Due possibilità: o non erano interessati a opporre resistenza lì e perferivano combattere per quei luoghi realmente rilevanti… Oppure non avevano modo di resistere.
Ma c’era anche una terza opzione. Una più inquietante.
Se il nemico ripiega ad est, è perché si prepara ad attaccare ad ovest.
“Tutta l’arte della guerra si basa sull’inganno”, pensò il Celeste bevendo il thé.
Si stava muovendo verso l’Indocina. Aveva la netta percezione che Tigus fosse là, in uno dei monasteri lamaisti presenti sul territorio.
Un tempo aveva parlato con lui. Avevano discusso della politica di Chin verso le vedute religiose lamaiste (considerate seclusive ed esoteriche, oltre che fonte d’inquietudine e possibili covi di rivolte). Sebater aveva espresso il suo personale disaccordo sulla questione, sostenendo che fosse assurdo pensare che individui votati al percorso dei Bikkhu, i monaci, quindi nonvoiolenti e pacifici potessero farsi complici di ribelli e nemici dello stato Chin.
Il Celeste annuì. Era largamente possibile fosse laggiù.

Gannicus espirò. Il fiato parve condensarsi in una nuvola acquea spazzata dal vento.
Erano distesi a terra, nero su nero, corpi tra le dune spoglie di un deserto.
Aspettavano, silenti, in perfetta quiete, talmente immobili da sembrare morti a occhi distratti.
In realtà erano in febbrile attesa, ma la disciplina prevaleva sull’inquietudine. Sul dubbio.
Lie Nu era più avanti rispetto a loro, molto. Loro erano la seconda ondata.
Un gruppo d’attacco. Punta di penetrazione aggressiva all’avanguardia di una forza di più vaste proporzioni. L’attacco sarebbe iniziato molto presto.
Controllò l’orologio. Le 21.45. Stando a Lie Nu, la pattuglia nemica sarebbe passata tra pochi istanti. Questo significava che presto avrebbe dovuto muoversi. O morire.
Il fato della rinnegata di Chin non lo riguardava, in realtà, ma una parte di lui era rimasta colpita al pensiero del fatto che quella giovane volesse la vendetta sui suoi ex compatrioti.
Non poteva fare a meno di pensare a lei come a un suo doppio: un’agente ottimamente addestrato, fedele, tradito. Scacciò quel pensiero. No, a lui non sarebbe accaduto, mai!
Strinse il fucile con rabbia all’idea di tradire Licanes in modo tanto abbietto.
-Contatto. Pattuglia nemica.-, la voce di Lie tagliò letteralmente il silenzio. Pompò adrenalina nelle vene. Gannicus attese. Si obbligò ad aspettare.
-Confermato. Ore tre.-, disse Armisa, -Tre uomini. Nessun ufficiale.-.
-Ingaggiare.-, la voce di Licius nell’intercom suonava metallica, quasi inumana.

-Primo bersaglio, retroguardia.-, comunicò Lie. Inquadrò l’uomo. Viso piatto, tratti che parevano tagliati con l’accetta, da montanaro. Aveva più o meno la sua età.
Non aveva alcuna difficoltà a immaginarlo coltivare riso nello Szechuan.
Invece era lì, al centro del suo mirino e prossimo a morire senza neppure saperlo.
“Potremmo comodamente scambiarci i ruoli.”, pensò.
Si preparò a sparare. Il calcio del fucile contro la spalla gli dava una sensazione di solidità.
Una solidità che sentiva così manchevole: era una traditrice della sua patria, ammantata nelle uniformi di un esercito nemico, disconosciuta dai suoi superiori e forse pure condannata per il solo crimine di essere stata catturata.
-Ripensamenti?-, chiese Armisa. Come lei impugnava un fucile Lancea, arma lunga, da tiratori scelti con mirino di precisione. Roba da ricognizione. Come lei indossava una mimetica idonea al deserto e il corsetto Hamata antiproiettile con relative tasche per caricatori e altro. La sola differenza tra loro in quel senso era il collare esplosivo di Lie Nu.
-Ingaggio.-, la sua stessa voce suonò impersonale alle orecchie dell’asiatica. Come se non fosse stata lei a parlare, come se non fosse lei ad agire.
-Ordine d’ingaggio?-, chiese Amrisa. Riconobbe il tono di un’altra sfida.
-Io prendo la retroguardia e il mediano. Tu abbatti il primo.-, decise.
-Non mi sembra tu sia al comando…-, commentò l’altra, -Comunque, sicura di farcela?-.
Lie non risposte. Collimò. Sparò. Fu appena un puff. Un suono inudibile a settantasei metri più in là. Il montanaro dello Szechuan incassò al viso crollando nella sabbia.
Il suo compagno davanti a lui alzò il fucile. Lie sparò di nuovo. L’uomo ruzzolò a terra schizzando rosso. Colpo letale al collo.
L’ultimo puntò verso di loro. Il colpo finale di Armisa lo abbatté.
-Pattuglia nemica eliminata.-, riferì Armisa. E nella sua voce, ora, non c’era proprio alcun accenno di emozione. Solo la professionalità dei soldati professionisti, o degli assassini.

-Ricevuto.-, disse Licius. Aveva visto le immagini dalla pittocamera-spia piazzata sulle uniformi delle due. Lie aveva sparato. Senza esitare e senza pietà. Perfetto.
-Vedetta nemica abbattuta.-, riferì Seleucinea. Il gruppo di Gannicus avanzò. Come un’orda di scorpioni all’attacco. Verso l’avamposto nemico. Il punto dove aprire la breccia.

Gannicus scivolò tra le ombre delle difese. Aveva superato sbarramenti nemici e aveva raggiunto il camminamento di quella sorta di vallo. Impugnò il coltello. Il fante di Chin ebbe solo una lieve percezione del movimento. Troppo poco e troppo tardi: Gannicus gli passò un braccio attorno alla gola e pugnalò alle reni. Tagliò doppio mentre gli tappava la bocca. Altri del suo gruppo stavano facendo lo stesso in altri punti dell’avamposto.
-Armi pesanti fuori gioco.-, riferì.
-Ricevuto.-, disse Lie Nu. Gannicus la vide rialzarsi dal corpo di un nemico.
Sin lì non aveva rallentato, o mostrato esitazioni.
-Gli auspex nemici sono andati.-, riferì Armisa.
-Ripiegare.-, ordinò Licinius. L’unità ripiegò rapidamente sino a una distanza di sicurezza.
Poi lo udirono. I velivoli d’attacco al suolo di licanes lanciarono. Le esplosioni al suolo annichilirono uomini e mezzi. Le difese erano paralizzate, inermi. I velivoli passarono oltre.
Dietro di loro venivano i trasporti Galea e Mirmillionis, velivoli più lenti che portavano truppe.
-Il nostro lavoro qui è finito.-, disse Gannicus, -Torniamo alla base.-. Gli altri, tutti gli altri, annuirono, tranne Lie.
-Aspetta. Voglio vederli bruciare.-, disse con sguardo duro. Gannicus la fissò, era sorpreso.
Nella sua voce udiva qualcosa, un emozione grezza, una volontà pura, vera.
Il desiderio profondo di vendetta. Difficile potesse mentire…
-Comandante, io…-, Armisa iniziò. Gannicus scosse il capo. Decise.
-Non serve. Resto io con lei. Vi raggiungiamo tra breve.-.
E a quel punto, Gannicus Vaian fece una cosa che non aveva mai fatto. Mai in tutta la sua vita.
Si sedette accanto alla barbara e guardò le forze di Chin arrancare, tentare di difendere la posizione. E fallire.
Lie Nu non staccò gli occhi un istante, non parlò, non disse nulla. Non tremò.
Parve persino smettere di respirare, come se fosse stata in attesa del finire di quella devastazione per ricordarsi dov’era e cosa doveva fare. Solo quando le truppe di Licanes confermarono l’avvenuta presa della posizione, la mascella della Chin si rilassò, il respiro riprese e si alzò, lentamente, senza parlare.
Docilmente, seguì Gannicus verso il campo base.

Marduk si svegliò. Di soprassalto. Stava accadendo qualcosa. Lo sentiva. Non avrebbe mai saputo spiegarlo, ma sentiva che era così.
Hawo emise un verso inarticolato prima di riprendere a dormire. Condividevano quel letto perché lei ci si era infilata dentro poche ore prima, di nascosto. Ovviamente non aveva desistito dal proposito di un amplesso, e Marduk non l’aveva dissuasa. Avevano finito con lei che l’aveva cavalcato selvaggiamente sino a un orgasmo che aveva lasciato entrambi soddisfatti. Senza svegliarla, Marduk si alzò. Qualcosa non andava.
C’era qualcosa. Era accaduto qualcosa. Non sapeva come ne dove, ma era successo.
Haragei. Percezione oltre la percezione. Il suo mentore l’aveva chiamata così e lui aveva tentato di esercitarla. Camminô verso la porta. Poi lo vide, anzi, lo sentì sotto la mano.
Appeso alla maniglia della porta. Un medaglione. Una catenella con una targhetta.
Conosceva quel monile. Lo conosceva da anni.
“Sho-Mi.”, pensò. Era stata lì. Era stata in grado di violare il loro rifugio.
Era un modo per dirgli che era al suo fianco. Non a quello di Saida, o di Ferelea. Il suo.
Soltanto il suo. Strinse il monile. Un pegno di un patto fatto anni, decadi prima.
Quando erano stati apprendisti, Justicarii in formazione. Un’alleanza scritta nella sofferenza dell’addestramento, con il sangue versato. Il loro o quello di coloro che per mano loro erano caduti. Quel memento era il loro. Il loro vincolo.
Lo infilò nei suoi vestiti. Si rimise a letto. Hawo, quasi automaticamente, si girò. Lui sospirò.
Avrebbe dovuto almeno tentare di dormire.
Accarezzò piano la schiena della nera, scendendo sino alle reni. “Cosa ti mantiene sano?”, aveva chiesto Ferelea. Almeno due cose. Una l’aveva resa palese, la seconda…
La seconda era il memento. Il ricordo del suo ideale. La decisione di non venirvi meno. Mai.
Neppure al costo di voltare le spalle a sé stesso.

Il rientro alla base non fu festeggiato: per Lie Nu non c’era da festeggiare.
Ciò che aveva fatto l’aveva lasciata in uno stato mentale confuso, in cui le emozioni le si accavallavano dentro, sino a non riuscire a trovare un modo per emergere all’esterno.
Rabbia, ecco la prima emozione. Verso Licanes, verso Chin, verso Pacuvio per esser morto, verso il Celeste per averlo permesso, verso sé stessa per essere viva, verso… tutti. E tutto.
E soprattutto verso Marduk Atbash. L’ira di chi non ha più altro, se non la vendetta.
“Vivere cinquecento vite appare accettabile, a patto di veder bruciare il mondo.”, pensò.
Dolore, al ricordo dei suoi genitori, sicuramente ignari della verità e condannati all’infamia di una figlia traditrice. Al ricordo del suo orgoglio, distrutto e stracciato dalle conclusioni tratte dai suoi superiori. Un’intera vita perduta, annientata, cancellata.
“Una, su cinquecento. Ne mancano 499…”, pensò ancora. Si muoveva come un automa.
Consegnò le armi, e il giubbotto. Scivolò verso le camerate. Si tolse la divisa, gettò tutto nel lavacrum. Era… come sdoppiata. E quella era la terza emozione.
Un senso di dissociazione, come se ci fossero due lei. Una agiva, l’altra osservava.
Forse perché le sue azioni non erano più sue da molto. Almeno la sua volontà le apparteneva ancora? Se lo chiese.
“Quanto di me è ancora mio?”, si domandò. Ed ecco la quarta emozione.
Angoscia. Un senso profondo di sradicamento, tanto forte da far appaire tutti gli scritti sull’essere centrati che aveva letto durante l’addestramento banalità per bambini.
Si chiese onestamente se qualcuno di quei luminari avesse vissuto una situazione simile.
Ne dubitava fortemente.
Si strappò di dosso gli indumenti e s’infilò sotto la doccia, il getto tiepido parve offrire rifugio, requie, una forma di pace… Che non era destinata a durare, a giudicare dai passi che sentiva avvicinarsi. Si forzò ad alzarsi in piedi, fronteggiando la figura che entrò nella sezione docce.
Erano docce comuni, un lavatoio spiccio e privo di ogni pretesa di privacy.
Non si sorprese quando la riconobbe. Armisa. Era nuda, come lei. Mostrava un corpo tonico, con più muscoli di quanti ne avesse avuti l’asiatica. Lo sguardo della licanea era venato di disprezzo. Una corrente gelida passò tra loro.
-Beh, credi che ora siamo una squadra?-, chiese in tono tagliente.
-No.-, ribatté Lie Nu a muso duro.
-E fai bene! Quelli della tua razza non sono e non saranno mai come noi, cerca di ficcartelo in testa!-, ringhiò Armisa. L’asiatica sussultò come se avesse subito una scudisciata.
L’irritazione divenne rabbia, un’ennesima rabbia. E quel carosello di emozioni eruppe.
Si lanciò contro l’altra. Senza pensare. Senza neppure voler pensare.
Schivò il pugno d’incontro della licanea mentre sferrava un colpo a dita tese verso gli occhi, fulmineo, una diversione per muoversi nuovamente e colpire. Non doveva restare ferma: Amrisa era più forte di lei, fisicamente. La sua unica speranza era la rapidità. Se un suo pugno l’avesse presa, avrebbe certamente accusato il colpo ben più di quanto potesse fare la licanea. L’altra sferrò pugni che parvero sibilare a meri centimetri dal viso e dal corpo di Lie.
-Puttana! Ti ammazzo!-, ruggì Armisa. Lie non si diede la pena di parlare. Preferì colpire.
Sferrò un calcio verso il ginocchio destro di Armisa. La donna incespicò per schivare. Lei continuò. Pugni al fianco esposto. Fu come colpire il marmo. L’altra le parò un colpo deviandolo. Lie schviò due pugni prima che Armisa tentasse di ghermirla e buttarla sul pavimento. Se ci fosse riuscita… sarebbe stata la fine.
L’asiatica uscì dalla traiettoria, ma l’altra la seguì e le sferrò un pugno. Dolore. Enorme. Al viso.
Lie barcollò. L’altra continuò. Secondo colpo, all’addome. Erano a contatto e poco lontane dalla parete della doccia. Nessuna via di fuga.
Lie Nu si piegò come un giunco spezzato. Armisa emise un verso feroce.
Come se l’evoluzione si fosse invertita, non parlava. Rideva stupidamente mentre le tempestava il corpo di pugni. Tentando di schivare, Lie mise un piede in fallo. Cadde a terra, di schiena. L’impatto col pavimento le fece perdere secondi preziosi.
-Finalmente, troia! Ecco dove devi stare.-, Armisa torreggiò sopra di lei, poggiandole sul petto con un piede, schiacciandola a terra. Lie cercò di colpire, di ribellarsi, di lottare.
-A terra! Come una brava schiava! Un bravo animaletto obbediente… Un…-.
Cla-clack! Il rumore fu secco, distinto anche sotto lo scrosciare dell’acqua.
-Mi pareva di aver sentito qualcosa.-, voce licanea. Fredda. Cristallina. Armisa girò il capo.
Anche Lie ci provò. E vide. Gannicus Vaian era lì, materializzatosi come uno spettro.
Ma soprattutto, aveva in pugno un’arma. Un fucile a pompa da incursore.
Arma devastante. Sparare a quella distanza e su un bersaglio non protetto significava ridurlo a un colabrodo. Ed era puntato verso di loro.
-Gannicus… la puttana mi ha attaccata!-, ringhiò Armisa.
-Vedo. E mi sembra che tu le abbia abbondantemente reso il favore.-, rispose lui.
Lie incominciava a sentire male. Faccia, fianco, petto. Si rendeva conto solo ora dei colpi che aveva ricevuto.
-Lei non è una di noi! È mio diritto darle una lezione!-, esclamò Armisa.
-Sono… stata… provocata.-, riuscì a sibilare Lie.
-Puttana!-, ruggì l’altra. Alzò la mano. Lie Nu la fissò. E Gannicus parlò.
-Basta.-, una parola, con tanta fermezza da non essere minimamente intaccata dall’emozione, -Armisa, credo che tu abbia abbondantemente usufruito del balineum.-.
Armisa parve paralizzarsi. Poi annuì. Lentamente. Capiva. Si tolse. Lie inspirò a pieni polmoni.
Ed espirò. Ancora e ancora. Tentò di alzarsi a sedere. Malgrado il dolore ci riuscì. Bene.
-Lie. Vai dal medico. Vacci ora. Il vecchio Varen Luclisvarro vedrà di ricucirti.-, continuò lui.
Lei si alzò. A fatica. Sentiva male. Guardò l’uomo
-Perché? Perché dovrebbe?-, chiese sfidando Gannicus ad ammettere ciò che Armisa aveva detto. Perché sapeva che anche lui la vedeva così.
“Dillo. Dillo che vorresti che lei avesse finito! Dillo che mi hai salvato solo perché eri tenuto a farlo! Dillo!”. Ma i pensieri rimasero pensieri. Lui la fissò.
-Potrai non essere una di noi, ma di certo non sei più una di Chin.-, replicò. La replica fu come un ceffone, uno shock. Lie Nu rimase ferma, incurante della sua nudità, del dolore. Di tutto.
-Esegui l’ordine e vai dal medico. Ora.-, disse ancora Gannicus. Il tono era fermo, ma privo di emozioni percettibili. E suo malgrando, Lie annuì. Si fiondò fuori dalle docce.

Armisa imprecò. Fissò Gannicus. Neanche a lei fregava di essere nuda davanti a lui.
-Bravo il nostro comandante! E cosa farai ora? Le darai il tuo alloggio? La dispenserai dai suoi incarichi? Non è che in quel tuo cuore puro sta albergando qualche simpatia per quella barbara dagli occhi a mandorla?-, chiese con stizza. Gannicus posò il fucile, con calma.
Movimenti pacati, precisi.
-Proprio non ci arrivi, eh, Armisa?-, chiese, -Eseguivo gli ordini.-.
-Di chi?-, soffiò lei. Lui si tolse la divisa, i calzoni, e rimase nudo, come lei.
-Non importa, Armisa. Non importa a te, né tantomeno a me importa il perché degli ordini.-, disse. Si fronteggiarono, come bestie da caccia. La donna lo fissò in volto.
-Ordini del cazzo. Avrei dovuto ucciderla, quella troia!-, ringhiò lei.
-E così saresti finita sotto corte marziale.-, sospirò Gannicus, -Era questo che volevi?-.
Armisa non rispose. Lei e Gannicus si erano conosciuti diverso tempo prima, in Giudecca Anteriore, dando la caccia a un gruppo di sovversivi. Avevano legato. Espirò.
-No.-, disse, -Ovviamente no.-.
-Bene.-, disse Gannicus, -Perché neanche io lo vorrei.-, si avvicinò di un passo. Lei distolse lo sguardo dai sui occhi per guardare verso il suo sesso. Era inturgidito, non tanto da potersi dire in piena erezione ma evidentemente pareva propenso a qualche attività ricreativa.
-Ti macherebbe troppo il mio tocco, vero?-, chiese Armisa. Fece scivolare la mano sul membro dell’uomo. Gannicus espirò. Lei manipolò il suo sesso. Piano.
-Credo, soldato… che tu stia parlando troppo.-, disse a occhi socchiusi. Lei lo baciò. Prese a masturbarlo. Lui scese sui seni. Sull’addome definito, sino al pube glabro.
Armisa sorrise quando trovò la fenditura della vulva. Si baciarono di nuovo.
Gannicus prese a masturbarla. Non era troppo delicato, né lei chiese che lo fosse.
Avevano entrambi bisogno di quello sfogo, e sapevano che sarebbe potuto essere l’ultimo.
Si girò verso la parte. Lui le entrò dentro, di forza. Armisa emise un gemito. Era pronta a quell’affondo. Si mosse contro l’uomo, favorendo le sue spinte.
-Così, Gannicus! Fottimi!-, ruggì Armisa.
Lui non la deluse.

Licius era seduto in penombra. Quando era in missione prediligeva la solitudine e il buio.
Lo aiutava a pensare. Contemplava una serie di pittoimmagini.
Lie in doccia, Armisa. Il pestaggio, Gannicus.
Lie dal medico. L’Apotecarius Militorum era una giovane dalla chioma bionda ben tenuta.
Visitò la Chin con professionalità e rapidità. Licius annuì. Tutto giusto. Tutto come previsto.
L’intera sceneggiata della rissa in doccia era servita a due scopi. Il primo, portare Lie Nu oltre il limite critico di tensione. Era già risultata sotto pressione durante la missione, un altro fattore di stress l’avrebbe certamente destabilizzata oltremisura.
Il secondo, era molto più semplice, e molto più personale per Licius. Ora doveva solo aspettare. Il tempo avrebbe lavorato per lui. E intanto, si sarebbero mossi verso Clavis Uzbea.

Forse, la cosa più impressionante era l’assenza di prove, di schemi.
Non pareva quasi esserci stata premeditazione nel loro agire, da quanto aveva detto Minah Ahn era stata una decisione comune. Un’intento maturato da tutti loro. Un caso di coscienza collettivo e folgorante. O forse, la decisione di un singolo che aveva persuaso gli altri.
Saida non ne era certa. Si era svegliata prima degli altri e rimuginava sull’ipotesi.
Aveva però buone ragioni per credere che la decisione fosse stata presa in funzione di un semplice stimolo visivo. Presa consapevolezza dell’orrore che avevano creato, come avrebbero potuto delle menti acute e umane come quelle di quei ricercatori coesistere con ciò che avevano fatto? In tal senso, era ben comprensibile avessero scelto l’esilio.
Saida fu colta da un unico pensiero. Lo fu mentre vedeva Marduk e Hawo raggiungerla per la colazione, mentre i due ingollavano yougurt e datteri, sorseggiando del thé.
Fu come un’illuminazione, un improvvisa rivoluzione del suo modo pensare.
-Sebater è fuggito verso l’Asia, ma la sede dei test era a Clavis Uzbea.-, disse.
Marduk alzò lo sguardo. -Sì. E dunque?-, chiese.
-E dunque è lì che dobbiamo andare.-, disse l’africana. Hawo fissò la sorella, stranita.
-Non capisco: cosa c’è lì?-, chiese. Saida la fissò. Sapeva che il suo sguardo era duro, ma non si era aspettata l’espressione stupita dell’altra che parve quasi spaventata.
-Il memento. Il memento dell’orrore. Ricordi cos’ha detto Minah Ahn? Dopo Clavis, hanno capito che la pace non si ottiene con le armi. È lì che tutto è cambiato. E forse è lì che troveremo delle risposte su dove sia Sebater Tigus. Il problema è che potremmo non essere soli.-, spiegò infine, -I nostri avversari penseranno la stessa cosa.-.
-Chi ci dice che non avranno già ripulito quel posto?-, chiese Marduk.
-Qualcosa sfugge sempre. Ricordi Minah? Ha nascosto informazioni laddove nessuno le avrebbe cercate.-, replicò l’africana.
-È vero.-, riconobbe Hawo, -Ma si tratta di un rischio.-.
Ferelea arrivò in quel momento. Si era cambiata d’abito indossando vesti orientali chiare.
-Parlavate di Tigus, vero?-, chiese senza preamboli e dopo pochi saluti.
-Sì. Clavis Uzbea.-, disse Saida. Non era ancora sicura di potersi fidare di quella donna.
In fin dei conti, Ferelea era stata una trafficante d’informazioni. Chi le vietava di svendere dati al miglior offerente? L’altra si servì del thé e masticò della pita.
-Clavis Uzbea ormai sarà una crisalide svuotata.-, disse dopo aver ingoiato un primo boccone, -Non esiste che le autorità di Chin non l’abbiano rivoltata come un guanto.-.
-Forse no.-, ammise Saida, -Ma d’altro canto, anche l’appartamento di Minah Ahn era una crisalide svuotata, eppure ci abbiamo trovato tracce.-.
-Sì, perché lei le ha lasciate. Sebater non vuol essere trovato.-, disse Ferelea.
-Anche se non vuole, qualcosa resta, sempre.-, disse Marduk, pensoso.
Le due donne si volsero verso di lui. E lui annuì.
-Siamo inseguiti da nemici, molteplici. Non demordono. Clavis Uzbea è stato un monito per Minah e i suoi. Lo sarà anche per loro.-, disse, -E se laggiù qualcuno capirà, qualcuno vedrà, forse dovremmo esserci.-.

Ferelea annuì, piano. Dentro di sé provava timore.
Non sarebbe dovuta andare così. La deviazione su Clavis Uzbea non era solo pericolosa, era semplicemente una catastrofe. Le forze di Licanes e Chin combattevano in quell’area, specificatamente a circa ventitré miglia dal perimetro della struttura, a detta delle sue fonti.
Erano presenti almeno duemila uomini per parte, secondo le stime. E forze speciali di ambo gli schieramenti si muovevano nella terra di nessuno insieme alle pattuglie.
Era rischiosissimo andarci, ma soprattutto, lei aveva la ragionevole sicurezza che Tigus non fosse lì. Doveva cercare di dissuaderli, ma solo guardando Marduk si rese conto di quanto anche lui fosse persuaso di recarvisi. La verità era che se avesse tentato di far cambiare loro idea, Saida l’avrebbe vista con sospetto. Infine annuì.
-Recarci lì non sarà una passeggiata. Le forze di Licanes e Chin stanno combattendo in zona. Fortunatamente, noi abbiamo qualcosa che loro non hanno.-, disse con un sorrisetto.
-Ossia?-, chiese Hawo.
-Un asso nella manica.-, rivelò lei. Non era il caso di dire altro. Minimizzare i danni.
-Anche più di uno.-, replicò Saida, -L’Unio Africae ha ancora qualche risorsa da giocarsi. Preparatevi: partiamo tra mezz’ora.-.

Entro un certo livello, il Celeste poteva dirsi soddisfatto.
l’offensiva di Licanes in Uzbea, come la chiamavano loro, (per Chin si chiamava in altri modi), era stata arrestata dalle truppe di Chin e dai loro alleati tatari.
Sul fronte coreano, le forze di Chin avevano iniziato l’attacco finale, ma i rapporti non erano dei migliori: si segnalavano imboscate, e soprattutto, il contatto col nemico pareva insufficiente, come se le forze di Licanes non intendessero esporsi più del dovuto o a fondo quanto sarebbe stato necessario.
Il Celeste sospettava. Immaginava. Poteva vedere il movimenti, le strategie.
Le truppe di Licanes sapevano di essere ben inferiori di numero a quelle di Chin. Intendevano evitare l’accerchiamento, anche a costo di perdere posizioni chiave.
Avevano imparato la lezione della prima guerra, in cui, durante la campagna indocinese, ben quattro delle loro coorti erano finite accerchiate da quasi tre volte il loro numero di effettivi.
Ovviamente si erano arresi, ma solo dopo aver tentato di sfondare per un intera giornata.
Il Celeste espirò piano, insensibile al freddo. Quella regione del massiccio dello Zechuan era particolarmente imperiva e inospitale. Si avvicinò al monastero. Solo e disarmato.
I monaci, le teste rasate, avvolti in vesti arancioni, lo fissarono.
-Nobile ospite.-, si fece avanti uno di essi, vecchio almeno quanto il Celeste stesso.
-Nobile monaco.-, rispose lui.
-Vieni per meditare?-, chiese il monaco con un sorriso.
-No, mio nobile Guan-Ye, vengo per un uomo. Un licaneo.-, disse il Celeste.
-Conosco quell’uomo. È un individuo avvolto dalla sofferenza, sua e di altri. È rimasto presso di noi per un po’, ma poi ha deciso di recarsi altrove.-, rivelò il monaco.
Il vento implacabile soffiava, sollevando stoffe e fustigando visi esposti.
-Non sai dove?-, chiese il Celeste.
-Non con esattezza. Ma suppongo verso i regni esterni.-, disse il monaco. Non mostrava paura o timore, né riverente rispetto, solo cortesia priva di giudizio.
-Forse, verso il Lao?-, chiese il Celeste, avanzando l’ipotesi.
-Ne ha parlato.-, riconobbe Guan-Ye. Il Celeste annuì.
Non avrebbe ottenuto altro. S’inchinò riverente Guan-Ye che l’aveva accolto, l’abate del monastero. Tornò verso il mezzo, un quadrigommato adatto alle montane salite della zona.
-Allora?-, chiese Hon Fo. Insieme ai suoi uomini avvolti da divise nere, pareva uno spettro malvagio, pronto a riversare la dannazione su quel luogo. I monaci non lo guardavano, né guardavano i suoi. Lui, il Celeste lo vedeva, li detestava.
-Non è qui.-, rispose l’anziano.
-Non è qui. Per me stanno mentendo. Meriterebbero che perquisissimo il monastero e…-, iniziò lui. Il Celeste lo fissò, senza cedere, determinato e duro.
-Non è qui. Ora sali a bordo. Ce ne andiamo.-, disse. Il tono era pacato, ma gli occhi, lo sapeva, erano duri, determinati, spietati. Erano gli occhi di chi era pronto a uccidere.
E Hon Fo lo capì. Alzò il braccio in un saluto militare ed eseguì.
Il Celeste capiva: Hon Fo, e molti altri con lui, vedevano quei monaci come parassiti che non contribuivano alla crescita di Chin, relitti del passato che si ostinavano spietatamente a rimanere a galla lungo il fiume del tempo. Il Celeste la vedeva diversamente.
Chin era risorta dalla ceneri del Cataclisma grazie a quegli uomini. La sapienza, la speranza, il ricordo della passata gloria erano stati tramandati da quegli eremiti, non solo in quel caso, ma anche altri luoghi. Minuscoli sacrari custodivano scrigni di conoscenza, tecniche ed esoteriche che avevano largamente accelerato la ripresa di Chin dopo la miseria della devastazione. Se la nazione era riuscita a imporsi sui vicini, ad eccezione del Nihon, (il Giappone), era grazie anche a loro e al fatto che altre comunità monastiche simili fossero sopravvissute negli stati confinanti. L’opera diplomatica dei monaci aveva impedito guerre potenzialmente deleterie per tutti loro.
Hon Fo era, in tal senso, stolto, bellamente ignorante del passato di Chin.
Ma non così lui. Il Celeste aveva studiato le antiche arti marziali, la saggezza gelosamente custodita degli eoni precedenti. E aveva intuito qualcosa.
“L’uomo deve imparare nuovamente a seguire le leggi di natura.”, pensò.
La prima era semplice: tutto ciò che inizia, finisce. C’è un tempo per ogni cosa, per vivere e per morire. Per la verità e la menzogna. Il Celeste aveva fatto sue quelle realtà.
Hon fo e i suoi coetanei ancora no. Ma ci avrebbe pensato il tempo a insegnargliele.
La domanda era solo se sarebbero sopravvissuti alla lezione.
Il Celeste non si faceva illusioni: Hon e i suoi erano sacrificabili, come lo era lui per i suoi superiori. Il Consiglio di Chin non era benevolo con chi falliva. Chien Lie aveva evitato una serie di punizioni da incubo in virtù della sua morte. Lie Nu, se le voci erano vere, doveva essere stata altrettanto fortunata. Lui personalmente non intendeva lasciare al caso una simile evenualità. Sapeva bene che nessuno gli avrebbe usato clemenza.
Però sapeva anche di avere una serie di piani contingenti…

La figura in nero osservava. Sentiva. La maschera era abbandonata a terra.
Clavis Uzbea era una distesa grigiastra, un panorama tutt’altro che lieto.
La figura respirava piano. Un respiro lento, consapevole.
Sapeva che presto avrebbe avuto da fare. C’erano altri uomini da uccidere, altre pedine da muovere. La partita era prossima alla svolta. Una svolta difficile.
La guerra tra Chin e Licanes non accennava a placarsi. Tentativi di mediazione erano stati fatti da ambo le parti ma la verità era che nessuno dei due voleva che quella strage avesse fine. Forse, in realtà, era stato vano già metterla in pausa dopo l’armistizio. La tregua aveva solo esacerbato le tensioni soggiacenti. Una situazione destinata a deflagrare in un crescendo di provocazioni, esattamente com’era avvenuto.
La figura annuì appena alla desolazione di Clavis Uzbea. Poi sentì il palmare emettere una vibrazione. Lo estrasse.
-Sì?-, chiese. Dall’altro capo, Ferelea parlò. La figura sospirò. Quello non era imprevisto, ma collideva in parte con i suoi piani. Avrebbe dovuto adattarsi, muoversi ancora una volta con la corrente. Fluire. Come acqua. Rifletté.
Ferelea era brava. Una schiava obbediente, avrebbe detto qualcuno. Anche Licius aveva svolto bene il suo lavoro. L’Unio Africae era quasi un’incognita.
Forse la loro deviazione a Clavis poteva costituire un vantaggio, in fin dei conti.
-Tempo di arrivo stimato?-, chiese. Ferelea stava calcolando, o provando a farlo.
Quando glielo disse, le labbra della figura in nero si tesero in un sorriso.
Era semplicemente perfetto. Ma significava anche che la pausa era finita.
Si rimise la maschera. Era tempo di cambiare nuovamente le posizoni dei pezzi sulla scacchiera.

Armisa, Gannicus, Octavius, Lie Nu, Utricius e Seleucinea. Licius li osservò.
Suo malgrado, era fiero di loro. Erano eccellenti soldati. Veri licanei, almeno a parte Lie. Osservò per un istante in più Seleucinea. La cecchina non parve rendersene conto. Non sembrava interessata a lui, ma l’ufficiale non se ne diede pena.
Lui aveva il potere, quello vero. Lo aveva ancor più adesso e presto lo avrebbe avuto anche di più. Avrebbe ottenuto la sua libbra di carne femminea, poco ma sicuro.
-Clavis Uzbea non è libera. Abbiamo sei manipoli da ricognizione, e tre sono ingaggiati dal nemico, a una quindicina di chilometri da Clavis.-, esordì.
-Volete che li supportiamo, signore?-, chiese Utricius.
-No.-, rispose Licius “Che il legato Ermillio Sgariano Bruno se la veda da solo…”, pensò.
-Il nostro compito è un altro.-, annuì Gannicus.
-Clavis Uzbea.-, disse Lie Nu. L’accento le rendeva difficile rendere fluide quelle parole.
-Esattamente.-, annuì Licius, -È lì che mi servite.-.
-Assetto da combattimento, dunque.-, fece Octavius. L’esperto armi pesanti era pragmatico e secco. Non amava perdersi in chiacchere. Era apprezzabile.
-Sì.-, annuì l’ufficiale, -Schema di penetrazione omicron.-.
Indicava un attacco vettoriale unico, nessuna deviazione, tutto sul bersaglio.
-Suggerirei di mandare la Chin, qui, in avanscoperta. Ovviamente sotto sorveglianza.-.
La frase di Armisa non stupì nessuno. Nessuno avrebbe tirato fuori la rissa tra le due avvenuta nelle docce, ma tutti i presenti sapevano. Tutti. E nessuno intendeva fingere che quella proposta fosse animata da buoni propositi o da cameratismo.
In effetti, Licius si concesse di pensarlo, Lie Nu era per tutti un’esternazione, un bersaglio di tutto l’odio dei Licanei per Chin. La sua sfortuna era quella di essere utile, per ora.
La sua fortuna era esattamente la stessa. E forse anche la determinazione. L’odio le faceva tollerare l’intollerabile.
-Il centurio Almassio Virtegerno sta guidando uno squadrone di veicoli leggeri verso le posizioni nemiche. Non ci saranno interferenze da Chin.-, riprese Licius.
-E quindi a noi cosa rimane?-, chiese Utricius. Octavius annuì con fare perplesso.
-Nessun barbaro da uccidere…-, disse bellamente incurante della presenza di Lie, -Mi sa che andiamo maluccio.-, commentò con fare smargiasso.
-Forse c’è qualcosa di più importante, a Clavis.-, disse Seleucinea, -Magari Chin sta lottando tanto arditamente per tenersi quella posizione perché vorrebbe condurvi le proprie indagini, o impedirci di condurvi le nostre.-. Licius sorrise.
Oltre che un fisico difficile da ignorare, aveva pure un certo cervello.
“Decisamente una da tenersi stretta…”, pensò.
-Esattamente quello che intendevo. Dunque procederemo con una penetrazione aggressiva. Ma questa volta, manderemo almeno tre elementi insieme a Lie Nu. Un mezzo manipolo garantirà la sicurezza di arrivare sull’obiettivo rapidamente e senza intoppi.-, disse Licius.
-Tre di noi?-, chiese Octavius.
-No. Il primopilo Vinicio Manaleo guiderà la squadra. Questo significa, Lie, che obbedirai ai suoi ordini, sono stato chiaro?-, chiese l’ufficiale fissando l’asiatica, che annuì.
-Chiarissimo.-, disse. Licius sorrise. Aveva dei piani anche per lei, ma ovviamente non li avrebbe rivelati. Non nell’immediato.
-Procederemo tra un’ora esatta. Sino ad allora, siete congedati.-, disse.

Lie Nu provava un marasma di emozioni, sensazioni conflittuali che si accendevano in lei e la obbligavano a confrontarsi con il suo passato e con il suo presente, che appariva sempre meno luminoso, sempre più oscuro e privo di ogni speranza.
-Licius vuole vederti.-, disse un attendente. Lei lo fissò. Gracile, muscoli pochi, sguardo arrogante. Un idiota figlio di buona famiglia capitato lì per raccomandazioni più che per altro.
In condizioni normali, non avrebbe rappresentato un problema in alcun modo.
Ma quelle non erano condizioni normali. Si alzò senza degnarlo di risposta e si recò verso l’edificio dove avevano svolto il briefing. Fu introdotta in un corridoio e infine, approdò a una delle stanze. Era una stanza occupata da un tavolo con mappe, rapporti cartacei ma anche una postazione di lavoro telematica, e ovviamente, Licius Carcio Quadro.
-Volevi vedermi.-, disse con tono neutro, scevro da ogni emozione.

-Ho saputo della rissa nelle docce.-, il viso di Licius non esprimeva emozione ma la pittocamera installata nella doccia aveva ripreso tutto. La rissa, l’intevento di Gannicus e anche quel che era accaduto dopo. Lui era un perfezionista dello spionaggio.
Far installare tutto quell’hardware era stato più semplice di quanto molti avrebbero potuto credere: gli ufficiali superiori della Confederatio temevano episodi di sedizione e spie. Era bastato chiedere. Ovviamente, ai soldati non era stato detto nulla.
-Sono stata provacata!-, scattò la Chin. Licius sorrise.
-Armisa dice il contrario.-, disse con tono casuale. Vide Lie Nu fremere di rabbia.
-Voglio essere molto chiaro, Lie. La tua situazione è pessima. Sei stata utile, ma questo non ti dà il diritto di comportarti come se tu fossi superiore. Devi ricordarti qual’è il tuo posto.-, sibilò Licius, severo. Poi passò a un’altra modalità, quella rilassata, tranquilla, paterna quasi.
-La scelta è solo tua. Puoi vivere i prossimi giorni, o mesi, come un inferno in terra, tanto da sperare che un proiettile o una lama pongano fine alla tua vita… oppure puoi decidere di piegarti. Di accettare la tua sottomissione a Licanes. E la tua situazione migliorerà. Molto.-.
-E immagino che sia a te che devo sottomettermi…-, la voce di Lie era mutata, era appena un sibilo, fredda e impersonale. Licius sorrise, senza bisogno di assentire.
-Se sarai brava, docile, come una schiava quale sei, io sarò un buon padrone.-, disse.
Stava avendo un principio di erezione. Oh, quello era quasi meglio del sesso.
Il potere. Su cose e persone. Il potere quello vero.
Ma era solo una minuscola frazione del potere che intendeva raggiungere.
-Tu sei un verme!-, ringhiò la Chin, condendo l’epiteto con una frase nel suo idioma natio.
Licius non aveva realmente bisogno di un traduttore, ma il sorriso sparì dal suo volto.
-Attenta, Lie Nu. Posso renderti la prossima ora molto spiacevole, e il tuo eventuale rientro alla base ancora meno gradevole. Pensi che quel che hai passato sin qui sia stato brutto? Ripensaci.-, disse. Era calmo, ma doveva mostrarsi irritato, arrabbiato.
-Quelli come te sono dei bastardi! A Chin vengono evirati!-, sputò l’asiatica.
-E a Licanes vengono condannati alla prigione, sì. Ma questo bastardo ce l’ha fatta. E intende continuare a farcela. Puoi scegliere, Lie Nu. Puoi stare dalla mia parte, e beneficiare di tutto ciò che ho da offrire, o puoi rifiutare. Nel qual caso ti posso garantire, implorerai di poter avere una seconda occasione per scegliere.-, concluse lui, -Ora, scegli.-.
Lie Nu rimase ferma, per un lungo istante, poi, lentamente, si avvicinò. Un passo, due.
E crollò in ginocchio. S’inchinò piegandosi seduta sui talloni finché la fronte non toccò il pavimento, le mani posate sul cemento. Licius sorrise.
-Saggia scelta.-, disse alzandosi dalla sedia. Si avvicinò alla Chin prostrata.
-Ora, esigo che tu mi dia un chiaro segno della tua sottomissione. Chiaro e inequivocabile.-.
Il silenzio che seguì quelle parole fu rotto, solo dai lenti movimenti di Lie.
L’asiatica aprì piano i pantaloni della divisa di Licius. Anche lui portava la stessa divisa degli altri, pantaloni neri, una vest superiore dello stesso colore. Era in zona operativa e si esigeva accantonasse le raffinatezze cui era abituato per la praticità in caso di necessità.
Ma ovviamente, non tutte le raffinatezze potevano essere abbandonate tanto facilmente.
Seduta sui talloni, Lie liberò il sesso di Licius dai vari strati di tessuto. Lo manipolò un po’ prima di baciarlo, timidamente.
-Prendilo in bocca, schiava.-, sibilò lui. Lei non osò contraddirlo. Il solo contatto del glande con la lingua della donna gli provocò un’erezione fulminea. Licisu sorrise. Lie Nu gli scoccò un’occhiata di odio. Lui le posò una mano sulla testa. Fece forza, costringendola a prendere tutto il membro in bocca, arrivandole sino in gola.
Lie si sforzò di respirare col naso. Emise rumori umidi mentre cercava di riguadagnare il spazio e l’uomo glielo negava pochi istanti dopo, imponendo un ritmo frenetico a quella fellatio che la vedeva regredita a mero oggetto di piacere per un individuo tanto abietto.
La sensazione del sesso piantato in gola le stava provocando dei conati. Gli unici rumori erano le sussurrate esortazioni di Licius, i suoni umidi prodotti dall’atto e i lamenti di gola della Chin.
Licius sorrise. Era così che doveva essere. Schiavi e padroni, come anticamente era.
E la sola idea dei successivi trionfi lo eccitava solo maggiormente, spingendolo a fottere la bocca di Lie Nu con maggior foga. L’asiatica si aggrappò alle gambe dell’uomo, più per cercare di arrestare il ritmo rapido con cui subiva quella pratica che per reale piacere nell’elargirla. Ma lui se ne fregò.
Sentì montare l’orgasmo, fulminante, rapido. Continuò a pompare tra le labbra della donna, sino ad avvertire le prime frementi avvisaglie del piacere. Lanciato, infilò il pene fino in fondo in bocca a Lie Nu. Lei aprì la bocca e l’esplosione che seguì si scaricò direttamente nella gola dell’asiatica che si sfilò il sesso di Licius dalla bocca e lo folgorò con un’occhiata di puro disprezzo, di assoluto odio. Lui la fissò, corrucciato.
-Ingoia, troia.-, sibilò, ferreo, -O ti faccio fustigare.-. Lie continuò a fissarlo mentre si sforzava di eseguire. Filamenti argenteo-perlaci le correvano lungo le labbra, rimasugli del piacere dell’uomo. Lui si ricompose. Sorrise, soddisfatto.
-La tua sottomissione è… adeguata. Per quanto grezza. C’è sempre margine di miglioramento. Confido che potremo lavorarci in seguito.-, disse.
-Tu…-, la voce di Lie Nu pareva provenire dall’Ade stesso tanto era intrisa di rabbia.
-Torna alla tua unità, Lie. Io mi assicurerò che Armisa non ti disturbi e che gli elementi con cui ti muoverai sappiano che sei sotto la mia protezione.-, la congedò lui.
L’asiatica non rispose. Uscì e basta.

Uscita che fu, si mosse. Arrivò oltre un baraccamento, vide ch’era sola e si chinò sulle ginocchia. Vomitò tutto ciò che aveva ingerito nelle ultime cinque ore. Rimase ferma a rigurgitare il tutto, fissando il proprio vomito con disgusto per sé e per il mondo.
“Perché? Perché dev’essere così?!”, si chiese. Era prossima a crollare. La rabbia la teneva in piedi, ma era carburante inutile senza poterla concretizzare in azioni.
Inutile, come lei. Non era più un agente di Chin, né di Licanes, né tantomeno di sé stessa.
Era un oggetto. Un mero oggetto di piacere e di sfogo per altri. Prima Armisa e poi Lie.
Prima Pacuvio e poi loro. Era tutta la vita che altri decidevano per lei.
Forse, se avesse raggiunto l’armeria avrebbe potuto farla finita… Considerò seriamente la cosa. Sì, non ci sarebbe voluto molto. Un proiettile nel cranio…. Sarebbe stato semplice.
Una fine quasi indolore, la fine di tutta la rabbia, della sofferenza.
Una fuga dalla disperazione. Forse indegna di lei, della sua famiglia ma… Almeno sarebbe stata una sua scelta. Lie alzò la testa. E si raddrizzò di scatto.
Davanti a lei c’era qualcosa. Una figura in nero. La fissava. Sorprendente contrasto con i militi di Licanes, era avvolta da vesti nere che parevano totalmente fuoriluogo nel contesto. Dove avrebbe dovtuo esserci il viso c’era una maschera priva di faccia.
-Lie Nu, figlia di Zho Nu e Son. Ex agente di Chin alle dipendenze di Chien Lie prima e del Celeste poi.-, disse la figura, la voce era totalmente inidentificabile. Priva di emozione.
-Chi sei?-, chiese Lie, -Da quanto sei qui?-. L’aveva vista nel suo momento più debole, al picco della sua vulnerabilità e ora stava preparandosi ad affondare il colpo, l’ennesimo.
Decise: non l’avrebbe tollerato. Chiunque fosse quell’essere, non gli avrebbe permesso di manipolarla così. Si tese, preparandosi a colpire. Improvvisamente, tutti i pensieri sul porre fine alla sua vita parvero lontani miglia.
-Io non lo farei.-, disse la figura, -Ma vedo che non sei totalmente a pezzi.-.
-Tu non sai un cazzo!-, esplose lei con rabbia.
-So quanto basta.-, ribatté l’essere privo di volto, -So che Licius ti ha usata. Lo fa con molte.-.
-Cosa?!-, chiese Lie. Si era aspettata rabbia reciproca, lo scontro, persino un arresto per tentata aggressione, invece la figura pareva calmissima.
-Schiave, Lie. Licius le chiama così. Barbare secondo i canoni di Licanes. Asiatiche, africane, scandinave. Preferibilmente giovani, ma non tanto da ricadere nell’eccesso di illegalità e meglio se già svezzate in ambito sessuale. Quell’uomo gode nel comandare, nell’avere il potere.-, disse la figura, -Gode nell’esercitarlo.-.
-È disgustoso…-, sibilò l’asiatica.
-È immorale. Ma fortunatamente, ho tutta l’intenzione di spalleggiarti.-.
-Fatica vana.-, rispose Lie, sconsolata. Si toccò il collare, -Questo è sempre al mio collo e il comando ce l’ha lui.-.
-Certo. È naturale.-, disse la figura, -Ma non sarà sempre così.-.
-Che vuoi dire?-, chiese Lie. Ora aveva domande, tante, migliaia, enneadi di domande.
Destinate a non ricevere risposta: la figura mosse un passo in direzione opposta alla sua, verso il deserto. Lie Nu fece un passo. Voleva delle risposte, le esigeva. Un secondo conato la costrinse a piegarsi ancora. Vomitò succhi gastrici, bile. Quando rialzò lo sguardo la figura era sparita, come fosse stata inghiottita dal vuoto.
Le aveva lasciato in dono qualcosa. Un dono preziosissimo. La speranza.

Marduk annuì. Il viaggio sarebbe stato rapido. Il mezzo su cui erano apparteneva a contrabbandieri pagati dall’Unio Africae, rapido e soprattutto anonimo.
Ferelea, poco distante, era intenta a conversare con Kharim, il loro autista. Svalok, poco distante, osservava il paesaggio mentre Saida e Hawo parevano intente a conversare con un uomo chiamato Osman, un loro contatto dell’Unio Africae. Avrebbero percorso la rotta sino a Clavis Uzbea fermandosi solo poco prima in un rifugio sicuro. Per prepararsi a dovere.

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