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Racconti Erotici Etero

Questo riflesso di una luce ocra

By 8 Febbraio 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Come posso sperare che domani sia un giorno normale, che il primo pensiero al risveglio mi conduca ad occhi chiusi in cucina e il vapore della moca mi schiuda le palpebre ancora appiccicose di sonno. Come posso pensare che questo giorno, che lentamente finisce e m’avvolge come lenzuola di seta, possa scivolare indifferente ed anonimo come il sudore sotto la doccia dopo una giornata di lavoro. Come posso lasciarmi alle spalle quello che stasera è successo, o meglio, quello che volontariamente ho voluto, perché nessuno m’ha puntato pistole o minacciato di squartarmi fegato e cuore a piccoli pezzi. Eppure gli affetti non mi mancano, ho una famiglia, dei nipoti che mi stringono il cuore quando mi chiamano zia. Ho un cane che impaziente m’aspetta in giardino la sera, con il muso schiacciato alla ringhiera e gli occhi fissi al cancello che non guardano altro. Vorrei che tutto ciò fosse soltanto un maledetto sogno, un incubo fuori orario che ti fa svegliare di soprassalto con il cuore che sbatte e s’allarga oltre le ossa e la carne, ma che dopo un istante di ragione torna tutto normale, perché nulla è successo e la casa, silenziosa e accogliente, ti ripara dai tuoni e dal temporale che incombe di fuori su Roma. Vorrei che fosse soltanto una brutta storia raccontata davanti ad una tazza fumante di the o un film visto comodamente in poltrona magari con Rossella che spera e si rassegna che domani è semplicemente un altro giorno.

Ed ora cammino in equilibrio sopra un filo di sputo misto a sangue, che s’allunga e s’incunea fino a sfiorare l’asfalto, che bagnato riflette strascichi e pattume di una notte che meglio sarebbe riuscita senza varcare la soglia di casa, che meglio comunque sarebbe passata senza avvertire questa maledetta rivincita che adesso mi pento d’averla provata. Mi sento sporca di dentro e di fuori, tra i capelli pieni di pioggia che colano lungo le spalle e a malapena mi coprono quello che il vestitino nero da sera non potrebbe più fare. E con questo seno nudo e sfrontato vado incontro a quella luce sbiadita che da lontano m’orienta e mi conduce dove altrimenti non saprei dove andare. Eppure questi sassi, quest’acquedotto che sa di antica Roma e corre lungo la via mi sono stranieri, come questa luna che ocra riflette, non è il profilo che io conosco, la parte che mi culla e mi rassicura la sera prima che il sonno mi rapisca la mente. Nulla m’è più familiare, tranne quella luce stinta e scolorita che ad ogni passo si fa più mistero, come due occhi truccati di ombretto e mascara dentro un chador.

Prima di uscire ero in casa con la tavola ancora disordinata di molliche di pane e d’avanzi, quando un’impazienza scomposta ed improvvisa m’ha fatto sentire più inutile di un gelato d’inverno, come se fuori il mondo girasse e godesse quello che non m’era più permesso, come se il mio ex marito stesse scopando con la sua nuova compagna, come se il mio amante attuale stesse apprezzando il culo formoso di sua moglie in cucina, come se i miei organi interni avessero all’improvviso cambiato di posto. E con il cuore in gola e la vendetta nel cervello ora faccio fatica a razionalizzare momenti dove la ragione non ha voluto mettere piede, nemmeno per indicarmi l’ora sconveniente dell’orologio sulla parete del bagno mentre m’abbellivo e mi coloravo per farmi più identica all’idea criminale che mi frullava nella mente. Semplicemente non sopportavo che il mondo fosse libero di godere privo di quegli ostacoli che invece la mia mente erigeva nelle tante occasioni, che il mondo in quell’istante stesse disperdendo fiumi di sperma e liquidi lubrificanti di femmine che allargavano le cosce e gridavano senza problemi il loro piacere. Come la mia vicina di casa che in quel momento la sentivo aggrapparsi alla spalliera del letto o alla maniglia della finestra e gemere indecente sotto i colpi di un pene di nascosto da suo marito a Milano per lavoro. Avvertivo un bugiardo fremito affilato di caldo che risaliva lungo la schiena fino a riscendere davanti, appuntendo i miei seni e gonfiando più in basso il mio ventre, ma che tuttavia sarebbe rimasto tale senza farsi fragore ed orgasmo. Lo sentivo, misto a dolore, farsi strada tra le mie viscere fino a ferirmi la mia parte più fertile che s’apriva spontanea ed obbediente all’idea folle di uscire ed andare per provarne ancora una volta l’effimero abbozzo di piacere, senza per altro avere in mente uno straccio di dove, un pezzo di mondo per non essere anonima. E più mi guardavo allo specchio e più mi illudevo che non c’era nulla di male prendere un taxi ed andare incontro alla sera, incontro all’idea disperata che in quell’istante non era altro che un’ombra, che inconsistente prendeva via via forma e colori, bellezza e sensualità, e semplice voglia di passare una vera notte. Ma sapevo che tutto ciò era soltanto un sogno, era soltanto un altro maldestro tentativo per rimanerne delusa, per ricacciarmi nelle ombre frigide della mia mente che mi spezzavano, nel momento migliore, ogni velleità di provare piacere e di essere femmina tutta. Avrei potuto chiamare la mia amica Silvia che sicuramente m’avrebbe presa per pazza, ma quel numero di telefono sbatteva violento tra le pareti del mio cervello, quel numero di nove cifre che per un caso fortuito ne ero entrata in possesso. L’ho composto, per la prima volta, come un pianista inesperto ripassa un solfeggio, fino a che una voce dall’altro capo del fino, ha smolecolato, come aspirina dentro un bicchiere, anni di pianti e ragioni, stati d’animo impotenti di rabbia e depressione che ancora oggi mi tornano violenti senza preavviso. Non so perché proprio lui, tra i tanti uomini svegli a quell’ora, ho deciso di sfidarmi e di sfidarlo senza che nemmeno un pizzico di coscienza mi sia venuta in aiuto.

L’ho trovato seduto mezz’ora dopo al primo autogrill che s’incontra in autostrada per Napoli, intento a fissare la porta dove prima o poi sarei riapparsa dopo anni e tanti tagli di capelli, domandandomi se quello attuale fosse stato il migliore. Nonostante gli anni era identico alla foto del giornale che gelosamente conservavo, chissà perché poi, dentro un libro di Sibilla Aleramo. Prima d’allora non avevo mai visto quella faccia in carne ed ossa, non avevo mai avuto la curiosità di vedere chi nel tempo portavo ancora dentro provocandomi nausee che nessun vomito m’avrebbe potuto liberare. Ed ora lì di fronte, mi sorrideva come un amico che non vedi da tempo, come un padre pentito d’aver abbandonato la famiglia, come un uomo che non ha ancora capito se è arrivato il momento di allungare le mani. Avrei voluto chiedergli perché proprio io, perché tra le tante donne che si fermano per un caffè aveva adocchiato proprio me. Forse per i miei tacchi che ancora m’ostino a portare alti, o per le mie gambe dritte e perfette che tutte m’invidiano, o perché, semplicemente, avevo un’aria da preda, da cagna che è lecito, nella mente di un maschio, abusarne senza troppi convenevoli. Non ero più bella di altre, non ero più provocante di tanti altri giorni quando cerco un parcheggio o salgo su un aereo ed accavallo le gambe. Perché proprio quella sera? E poi m’aveva seguito per centinaia di metri, tra le macchine in sosta, lungo il piazzale coperto di neve, senza perdermi di vista, senza distogliere quell’idea fissa che si stava facendo violenza e sopruso verso chi ignara non pensava altro che tornarsene a casa, farsi una doccia bollente e telefonare a mio padre come tutte le sere. Non feci in tempo ad aprire lo sportello della mia macchina, non feci in tempo a rendermene conto che due braccia strette a morsa mi stavano sollevando e scaraventando dentro un camion pieno di pneumatici. Quell’odore di gomma m’è rimasto per anni appiccicato nel naso misto a quel sudore stagnante di uomo che mi tappava la bocca e mi deturpava la carne intima ed arida. Ma nessuno m’avrebbe potuta sentire, ed infatti non gridai assecondandolo in tutto e per tutto al punto che un poliziotto per caso avrebbe potuto confondere uno stupro con un atto d’amore. Non sono svenuta, non ho cercato di scappare ed ancora adesso mentre guardo quelle mani, le stesse mani d’allora, mi domando come è stato possibile non provare paura, anzi essere più generosa che con mio marito o con il mio amante d’adesso che mi consuma le membra e mi devasta il cervello senza per questo provare il minimo orgasmo.

Dopo quell’episodio non sono stata più me stessa, non riuscivo più a distinguere il male dal bene, una carezza da un rimprovero, un rumore di casa da un imminente pericolo, finché ho divorziato da mio marito e da tutte le persone che in qualche modo volevano solo essermi d’aiuto. E’ stato un ragazzo, timido e paziente, appena laureato che sapeva di Jung e di Fromm che mi m’ha ricondotto alla vita, a respirare di nuovo a pieni polmoni e ad occhi chiusi in mezzo alla gente senza per questo sentirmi minacciata. Ma qualcosa dentro me non è mai tornato al suo posto, quel senso di ingiustizia, che nessuna ribellione può cancellare definitivamente, cova libero ed autonomo tornando nitido ed indistruttibile quando amo veramente. Nemmeno la notizia che il mio violentatore fosse stato condannato alla pena di morte o avesse subito lo stesso servizio m’avrebbe in qualche modo ridato fiducia e debellato quella sottile sensazione di sporcizia che inutilmente cercavo di lavare con forti dosi di sapone e colpi di spugna.

E questa sera avevo deciso quello che nessun strizzacervelli, a costo di rimetterci faccia e carriera, m’avrebbe mai potuto consigliare, quello che neanche la stravaganza della mia amica Silvia avrebbe perlomeno potuto pensare. Desideravo ardentemente ritornare nello stesso autogrill in compagnia del mio assassino e ripercorrere lo stesso percorso fino ad entrare nello stesso camion respirando l’identico odore di gomma. Volevo solo risucchiare volontariamente nella mia carne quell’essere per non sentirmi più sporca, per eliminare quel ricordo di schifo dell’unico maschio che m’aveva penetrata senza il mio volere. Lo confesso, non cercavo altro che questo! Dare un senso a quella violenza estemporanea ed insensata che era appesa nei miei ricordi senza un inizio ed una fine.

Dopo il primo imbarazzo ho cercato di spiegargli le mie intenzioni, raccontagli come la mia vita interiore s’era fermata a quella notte, ma la sua rozza cultura aveva semplicemente recepito che a breve m’avrebbe scopata, m’avrebbe riempita, come quella volta, di potere, violenza e liquido caldo, perché nonostante gli anni passati, polizia, tribunale e foto sulla pagina di cronaca, s’era convinto che m’era solo piaciuto e, in qualche modo, di essere l’unico uomo che m’aveva soddisfatta. L’ho lasciato pensare come meglio credeva perché i miei propositi erano altri e perché non ci sarebbe mai stata un’altra volta. Avevo la tremenda paura che mi potesse dire di no e per questo cercai di non opporre resistenza quando, tra la folla notturna di automobilisti e signore, la sua mano di camionista risalì sotto il vestitino di seta, fino a centrarmi con un dito il piacere. La muoveva sicura come un padrone accarezza la sua cagna, giocando con il filo delle mie mutande e queste stupide cosce remissive che lo lasciavano fare. La muoveva forte e sicura mentre la sua voglia bene in vista lievitava attraverso i pantaloni, e senza pensarci due volte, s’alzò di scatto e, cingendomi stretti i fianchi, mi condusse nel piazzale. Ma non c’era nessun camion, nessun odore di gomma, soltanto una fratta di spine bagnata che m’inghiottì senza opporre resistenza. L’ho accolto in piedi e sfacciata implorandolo di usare lo stesso impeto, la stessa carica trasgressiva ed assassina di quella volta quando interruppe per sempre il mio piacere. E come in un film rivisto più volte, sotto la pioggia battente, m’ha rivoltata ed obbligata a carponi a muovere il mio di dietro per assaporare il potere che lì a poco m’avrebbe di nuovo fatto assaggiare. Mi disse che in tutti questi anni non s’era mai pentito di quello che aveva fatto e che questa sera era la prova provata d’avermi fatto un favore e la conferma del bene che m’aveva voluto prendendomi senza consenso. Non s’era sbagliato! Se avessi avuto una coda l’avrei sicuramente sollevata per dargli il segnale inconfondibile d’essere pronta a rimuovere l’idea che tutti i maschi sono cattivi partendo dallo stesso maschio che m’aveva resa insicura. Così fece. Senza farsi pregare affondò quel muscolo ritto ed imbecille tra la mia carne che s’era fatta capiente e obbediente a l’unico, che la mia pazzia pensava, avrebbe potuto ridarmi quel piacere sottrattomi per anni. E mentre lo trattenevo dentro di me pregandolo di non essere egoista, mi costrinse senza nessuno sforzo a dirgli che in quel momento lo amavo davvero e che nella mia vita non c’era stato altro uomo come lui. Mi ordinò di rimettermi in piedi senza lasciare la preda che dentro di me si muoveva orgogliosa come un ossesso, e di avanzare lentamente fino a che la fratta non nascose più la mia vergogna. Ubbidii senza fiatare anche quando spazzini e commessi viaggiatori sentirono le mie grida inconfondibili giurare che nessun altro maschio m’avrebbe provocato così tanto piacere. Si trattenne come un ospite invadente per non so quanto tempo fino a che rotolammo e c’infangammo su un prato all’aperto. Lo pregai di strapparmi i vestiti e come aveva fatto quella volta di non avere alcun riserbo a cercarmi oltre la lunghezza del suo piacere, oltre la larghezza della mia voglia capace in quel momento di contenere qualsiasi diametro di bassezza umana e di aggrapparmi all’unico tentativo valido che la mia mente malata aveva prodotto. Ed in effetti andò oltre strofinando la mia faccia per terra e confondendo lacrime e pozzanghere, e picchiando col suo sesso come martello pneumatico dentro la mia parte di femmina invasata ed assetata di voglia e vendetta. Ora era veramente al limite, sentii inconfondibili torbide gocce del suo piacere bagnarmi dove non ero ancora pronta, ma lo pregai di non cedere all’istinto, di continuare ad essere maschio come s’era comportato finora. Lo vidi stringere gli occhi e rituffarsi a capo fitto per non essere da meno, mantenendo il suo sesso duro e il suo desiderio di potenza inalterato. Gli urlai che al minimo cenno di debolezza me ne sarei accorta e sarei fuggita lasciandolo inesploso. Stupito che una donna potesse godere fino a quel punto mi domandò come potessi essere ancora così viva ed insaziabile da chiederne ancora. Passò altro tempo rincorrendomi e scopandomi ogni volta che riprendeva fiato finché avvertii da molto lontano quella voglia di femmina inconfondibile sopraggiungere d’impeto e farsi, finalmente e dopo anni, orgasmo e grida, e farsi pelle, sesso e cervello fino a sentirla esplodere nelle gambe rigide, sull’attaccatura dei capelli e toccando tutte le parti del mio corpo che per anni ne erano state private. E tra le urla scomposte risi e piansi contemporaneamente senza nessuna intermittenza, senza nessuno stacco che ti faccia capire il prossimo stato d’animo. Ero semplicemente contenta che la mia vendetta era finalmente ad un passo dalla meta. E lontano dall’insegna gialla dell’autogrill trovai, non so quanto per caso, una pietra ben appuntita. Fu un attimo, pensare, prendere la pietra, spaccargli il cervello e sentire il sapore del suo sangue che misto a pioggia m’invadeva naso e bocca. Ora poteva morire, ora e soltanto ora non c’era più nessuna ragione che lui vivesse. L’ho colpito ripetutamente anche dopo che i suoi occhi schizzarono fuori dalle orbite, anche dopo che il suo sesso, rimasto rigido, si è spezzato liberandolo, nell’unico modo di cui era degno, del piacere acido che ancora una volta m’avrebbe voluto depositare.

Ed ora davanti a questo riflesso di luna ocra che m’infastidisce e m’illumina le mani striate di sangue mi sento libera e per nulla pentita. Ma giuro e piango lacrime rabbiose pensando che, per arrivare dove per anni sapevo, niente m’ha fatto più male che ripercorrere passo dopo passo quel percorso obbligato di fare l’amore col mio violentatore.

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