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Racconti Erotici Etero

RICORDO DI UNA VITA PASSATA

By 17 Maggio 2008Dicembre 16th, 2019No Comments

La botte di vodka &egrave rimasta stappata. Lo zipolo giace dimenticato in un angolo, sul pavimento di legno. E così quel liquore vago, saturo, zampilla gorgogliando, ingombrando la stanza dei suoi vapori, colmi di sogni e di passione. Il canto languido delle otarde mi risveglia ai sensi, le ciglia nere di lei si rialzano lievi e le palpebre tremanti donano la luce a due pupille di giovane donna. Accade in una casa antica, decrepita. V’&egrave un focolare, fatto di pietre bigie e ricoperto di cenere. Una folata improvvisa entra dalla finestra senza vetri, solleva una nube di polvere cupa e come uno sparviero invisibile guadagna di nuovo le vie del cielo, involandosi dalla cappa del camino. E qualcuno ha bevuto, s’&egrave inebriato, ubriacato, addormentato.
Alcune bottiglie di birra giacciono vuote sul tavolo di legno, rozzo, al quale manca una gamba. I muri sono fatti di pietre e mattoni, nessuno li ha mai imbiancati di calce. In un canto, presso la credenza tarlata e dai vetri rotti, che sta dinanzi al focolare, si discernono innumerevoli pentole di rame, d’ogni forma e dimensione. Hanno il manico di legno, il fuoco le ha rose coi suoi denti ma non &egrave riuscito a divorarle. Stanno appese l’una appresso all’altra, come in fila, sorrette da chiodi rugginosi che sembrano in procinto di staccarsi. Vi sono anche dei mestoli, dei ramaioli minuti, dei coltelli dalle lame arrugginite e delle graticole nere, ricoperte di untume, al pari delle stoviglie enormi e logore che vi stanno accanto. Sulla parete opposta, che una crepa assai profonda segna per intero, stanno appesi dei grandi piatti di porcellana, dipinti a tinte vivaci, che raffigurano scene della vita pastorale russa. Vi sono giovani vergini, abbracciate alle pecore, uomini dalle lunghe barbe, che suonano la balalaica, immagini di danze e di feste popolari, boschi di betulle, amiche degli inverni, dipinti raffiguranti la mietitura, vissuta sotto il sole freddo delle estati tristi: la falce mieteva veloce la spiga d’oro mentre gli uccelli di Russia volavano e cantavano a festa tutt’intorno.
Accanto alla finestra, che dava sui campi, c’&egrave una scala di legno, a pioli, usata per salire in soffitta e rovistare tra le cose vecchie. Più in là, appoggiato ad un mucchio di legna secca, sta un fucile, destinato alla caccia al fagiano o alla pernice.
In quel tempo, lei era giovane e poco più che fanciulla, poiché godeva del fuoco e della vita dei suoi primi vent’anni.
Cantava:
– Il canto dell’otarda &egrave mio fratello, la bella bruna sposa ha fatto maritar, lei &egrave meravigliosa’ Bianca, buona e bella egli la fece innamorar’
La contadina russa portava una sorta di lunga sottana color crema, ricoperta da un grembiule bianco, ricamato. Le caviglie sue rimanevano scoperte e velate appena da un paio di calze bianche, traforate. Ella calzava due zoccoli di legno, simili a quelli delle giovani contadine olandesi, ma un po’ diversi, con due fiori dipinti a tempera sulle estremità, che finivano in punta.
Allora, era accarezzata da uno sguardo, estasiato dai fregi di filo nero su quella lunga gonna di crema. Il corsetto era pure nero, chiuso sul suo seno da una sorta di legaccio di corda, che lasciava discernere il petto muliebre e i capezzoli dolci. Le spalle sue erano nude, al pari delle meravigliose braccia, ornate da bracciali d’oro, rubati allo scrigno della nonna. L’anulare della sua mano destra recava un anello che sembrava d’argento, le sue labbra incantate erano socchiuse, come per sussurrare parole affettuose.
La contadina russa stava distesa su di un letto di paglia; a manca, presso quella sorta di guanciale sul quale teneva il capo, era appoggiata, come dimenticata, una ruota di legno, che pareva quella di un carro. Un raggio di sole la baciò sulla guancia, vellutata e casta.
Era un’estate fredda, piena di luce magica. Il sole tramontava dopo la mezzanotte, dietro i rami amici delle betulle del giardino. Ad uno di quei tronchi era legato un cavallino baio; le oche razzolavano presso lo stagno.
La casa era fatiscente ed aveva il tetto spiovente, al quale qualcuna delle tegole mancava. C’era anche una sorta di gallo di ferro, che indicava verso dove soffiava il vento.
Ecco, la contadina scendeva la scala di legno onde visitare il cortile della sua fattoria. Ricordo che su uno dei muri maestri spiccava una scritta in cirillico, dipinta in nero su di uno sfondo giallo acceso, che pareva una sorta di cornice. La scritta diceva: ‘В гостя’х хорошо’, а до’ма лу’чше’ (1). Era un vecchio proverbio popolare russo.
Tutt’intorno all’antica magione v’erano campi di frumento. Qua e là, spuntavano dei filari di larici o di betulle. Il suolo era collinoso; v’erano altresì delle fonti, incorniciate da variopinti germogli e da siepi che sfidavano le nevi degli inverni assai crudeli. Vidi anche il vecchio aratro, dimenticato in mezzo alle spighe. Nei fossi nuotavano le anitre; c’era anche uno spaventapasseri di paglia e stracci, con una grossa zucca in luogo del capo ed una vecchia ramazza in una mano.
– Sono innamorata del vento, del sole e delle spighe di frumento ‘ sussurrava la contadina al vento, afferrando un forcone che stava appoggiato al muro. ‘ Amo l’oro dei campi, i cavalli liberi e selvaggi, i mietitori dalle mani grandi, la felicità di questi istanti!
La bella aveva i capelli rossi, non biondi. Gli occhi suoi erano verdi, slavati, soavemente incorniciati da grandi ciglia e sopracciglia nere, che finivano all’insù, al pari del suo nasino sottile. Portava un copricapo a cono, bianco, che assomigliava ad un hennin e risaltava alquanto, con le sue due punte e i lunghi nastri scarlatti, che volavano nel vento e finivano con dei fiocchi d’egual colore.
E la guardavo, la guardavo, mentre lei, con la zappa in mano, lavorava la terra, tanto, tanto fredda, i lunghi capelli rossi sciolti, sussurrava filastrocche russe ai corvi. Dipinto su di un cartello di legno, scorsi il nome della fattoria, al fianco del quale erano disegnate una falce e un martello, del color della pece.
La bella sapeva che niente &egrave per sempre e che un giorno anch’ella se ne sarebbe andata, in una polvere di cenere e fiori, ‘comme la nuit se fait lorsque le jour s’en va’ (V. Hugo). Le rimaneva soltanto l’amore e null’altro.
Il bucato era uno dei momenti in cui il piacere e la malinconia della giovane brillavano di più, in mezzo a quella luce russa, sovietica, incendiata di vaghezze. Allora, ella sembrava una bambola, delicata e trasognata, mentre, con le mollette di legno, fissava ad un filo di corda le lenzuola bianche e immense, che parevano mantelli. Erano giornate ventose, in cui la brezza era forte e le faceva volare i capelli, carezzando le erbe del prato e i fiori grandi, gialli, che parevano di velluto. In quegli istanti, la bella cantava, cantava sempre’
La contadina aveva un amore proibito e clandestino, che coltivava sovente dinanzi al camino acceso, o chiusa in un vecchio baule, mentre faceva finta di lavorare a maglia.
Il suo amico era l’Uomo Nero, con il quale consumava dei rapporti sessuali feroci. L’amante suo non era un fantasma, né un orco, né una bestia. Egli aveva sembianze umane, ma non le aveva mai mostrato il suo volto. Il corpo suo era ricoperto di un pelo color della pece ed un cappuccio nero, con due buchi al posto degli occhi, bastava a celare quei suoi lineamenti di mistero. Gli incontri amorosi dei due amanti avevano luogo sempre al lume di candela, nel brivido degli inverni russi, o nelle luci di mezzanotte delle estati crepuscolari.
E l’animo mio si diverte, si sollazza, ripensando a quegli appuntamenti d’amore e di carne, in cui due braccia irsute stringevano il corpo nudo della contadina russa, o una sorta di uomo-bestia la sbatteva sul tavolo, tormentandola con il suo organo sessuale enorme, dopo averle strappato le mutande ed averle lasciato indosso soltanto la gonna a frange, color crema, con i ricami neri.
Sì, quel membro peloso, possente, entrava ed usciva da quel ventre, da quella carne, mentre lei stringeva folle quelle membra ammantate di pelo, alla ricerca dei piaceri perduti, che l’avrebbero accompagnata in perpetuo, nelle sue vite future.
La contadina russa si divertiva a rimanere nuda, davanti al camino, dopo aver fatto la lotta, sì, la lotta, con il suo Uomo Nero. Tutte le stoviglie e le cianfrusaglie vecchie giacevano sul pavimento di legno, davanti a loro, mentre lei, nuda, allargava le gambe e si metteva sotto. Poi il suo maschio, la sua bestia, si accoppiava con lei, le si sdraiava sopra e la montava, strappandole dei versi animaleschi, dolcissimi. Mi sembra ancora di sentirli.
E tutto questo accadeva nella luce ardente del fuoco e delle candele, o nei chiarori crepuscolari dell’estate russa, spesso fra le zappe, le vanghe, i rastrelli e i forconi. Sì, non vi nascondo che c’era una stalla, con molti maiali rinchiusi e incatenati, dove talvolta i due amanti si rinchiudevano, onde consumare i loro rapporti sessuali bollenti.
– Ah! Ah! Ahi! Sì, sei la mia bestia, la mia bestia! ‘ gli diceva negli orecchi la contadina, nel suo russo dialettale.
E l’Uomo Nero la spaccava, sì, la spaccava, con il suo fallo di ferro, mentre le mani femminili di lei gli stringevano le natiche ricoperte di pelo nero.
Quando lo facevano nel baule, che la bella, per l’occasione, foderava con un lenzuolo e dei cuscini colmi di paglia vecchia, quella sorta di scatolone di legno pareva prendere fuoco. Anche la stufa, che stava dinanzi a loro, spenta, improvvisamente sembrava ospitare un incendio; dalla sua bocca dai denti di fiamme si aveva l’impressione di vedere uscire una mano ardente, dai lunghi artigli gialli e scarlatti, pronta ad afferrare qualsiasi cosa.
La nostra protagonista non rimase mai incinta. Tutto le parve troppo bello per essere vero.
Me la ricordo mentre stava a cassetta, sul carro, al quale aveva legato il suo mulo bigio. Il frustino in mano, la contadina russa lo guidava verso il villaggio dalle case scarlatte, dai tetti neri e aguzzi, lungo la strada di sassi, che correva nel bel mezzo dei campi di frumento dorato, incendiato dal sole di quell’estate fredda. Sull’argine vecchio c’erano tante betulle, scosse dal vento del nord. E il cielo era ingombro non solo del gelido astro del giorno, ma anche della bianca luna e di tutte le sue stelle.

1 Fare visita &egrave bello, ma rimanere in casa &egrave ancora meglio.

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