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Racconti Erotici Etero

Una luce d’ambra

By 4 Aprile 2009Dicembre 16th, 2019No Comments

– Giulio!
Tac, toc; tac, toc; tac, toc.
Rumore di scarpe da uomo; di cuoio nero e lucidate; per una buona impressione.
– Giulio!
Tac, toc; tac, toc; tac, toc.
Un passo deciso, regolare e appena veloce. Un uomo in pastrano grigio i cui lunghi lembi aleggiano nella nebbia, illuminata dai lampioni bianchi come luci d’ospedale.
– Oh, Giulio! Vuoi ascoltarmi un attimo?!
Tac toc, strsh; Tac toc, strsh; Tac toc, strsh.
Al tacchettio delle scarpe del lungo cappotto grigio sull’asfalto si alternò il frettoloso struscio di altre scarpe, anch’esse da uomo.

**************************

Un uomo camminava nella notte nebbiosa e fredda; incurante del freddo non aveva chiuso il lungo cappotto di lana grigia, svolazzante nella caligine fine che avvolgeva l’aria in un’atmosfera irreale. I lampioni al neon illuminavano regolarmente macchie coniche di spazio, e la luce asettica ma sporca rifrangeva contro le impalpabili particelle d’acqua, a dare l’impressione che, in quel momento, non esistesse altro che quelle solitarie isole nella notte.
L’uomo in grigio camminava nella caligine, tenendosi vicino ai lampioni sulla sua destra. Il suo passo era deciso, cadenzato, teso come le sue spalle, che si intuivano dalla curva del cappotto in una posa ritta e nervosa.
Non passavano macchine su quella strada di campagna, quella sera, e l’aria immota veniva attraversata dal suono secco ma attutito dei passi dell’uomo. Dopo qualche secondo il rumore dei tacchi fu raggiunto da un rapido strascicare. Un altro uomo, più basso e in un cappotto nero a falde lunghe, lo raggiunse correndo. Tra gli ansiti lo chiamava.
– Giulio!
L’altro non si girò e continuò a camminare, senza voltarsi o esitare. Eppure era impossibile che non l’avesse sentito, erano a una decina di metri l’uno dall’altro. Il volto dell’uomo in nero mostrava un’espressione preoccupata, acuita dallo sforzo della corsa. A pochi metri dall’altro chiamò di nuovo.
– Giulio!
L’uomo in grigio seguitava a non voltarsi. Continuava a camminare, preciso e cadenzato, senza rispondere col minimo gesto ai richiami dell’altro, finché non lo raggiunse.
Ansimando, l’uomo in nero raggiunse il cappotto grigio e afferratogli una spalla lo fece girare verso di lui.
– Oh, Giulio! Vuoi ascoltarmi un attimo?!

*************************

Rocco mi aveva raggiunto. Mentre camminavo dritto per dritto, senza sentire niente, senza pensare a niente che non fosse lei, Rocco mi arrivò alle spalle e mi afferrò con forza la spalla sinistra per farmi girare su me stesso. Doveva aver corso per raggiungermi, aveva il fiatone e anche con il freddo della stagione qualche goccia di sudore gli colava dalla tempia. I suoi occhi erano curvi in un’espressione sofferente, ma dopo pochi secondi vidi la vaga preoccupazione che mi rivolgeva mentre si riprendeva.
– Rocco! Tutto a posto? Perché hai corso, che è successo?
Appena ebbe ripreso fiato mi mise anche l’altra mano sulla spalla.
– Aò! Si può sapere perché te ne sei andato, così, all’improvviso? E’ roba importante, Giu’, lo sai anche tu. Non li possiamo lasciare così, ‘sti clienti, che sennò ci lasciano a piedi e sul loro carro ci salta qualcun altro.
Scostai la sua mano dalla mia spalla destra con un gesto di insofferenza.
– Lo sai benissimo che questi posti non fanno per me, Ro’, lo hai sempre saputo. Eppure ogni volta mi ci porti per far sbronzare qualche cliente, senza contare tutte le volte che ingaggi una di quelle lucidapali per sollazzare uno dei nostri fornitori. E mi rode, Rocco, mi rodeva prima quando stavo con Gioia e mi rode adesso che non stiamo insieme.
Rocco mi guardò per un attimo negli occhi e poi si mezzo voltò, allargando le braccia e sbuffando in un gesto di esasperata rassegnazione. Si passò le mani sulla faccia e mentre con la sinistra si strofinava tra gli occhi con la destra prese le sigarette dalla tasca del paltò.
Lo sapeva come mi sentivo, lo sapeva bene, e io ero ingiusto a rinfacciargli ancora una volta questa sua abitudine degli stripclub, ma quella sera mi sentivo sulle spalle un grammo di tristezza di troppo per non prendermela con qualcuno.
Lo osservai accendersi una sigaretta, di quelle alla liquirizia che gli piacciono tanto, e pensando a quanto mi disgustassero gliene chiesi una.
– Passamene una, ho finito le mie.
Sul ciglio di una isolata strada asfaltata nel bel mezzo del niente le nostre sagome vagamente illuminate dal riverbero della luce nella nebbia, fumavamo in silenzio uno di fianco all’altro, mentre non troppo distanti spiccavano le luci del locale di striptease, dove un giapponese stempiato e pallido e un volgare cinquantenne italiano stavano passando la serata bevendo e sbavando dietro culi eccessivi e bikini slacciati, a nostre spese.
Finita la sua sigaretta Rocco mi aspettò un attimo, io fumo più lentamente di lui, e mentre spegnevo la mia sigaretta disse:
– Coraggio, andiamo. Dobbiamo stare con loro, se si mettono nei casini ci andiamo di mezzo noi.
Si incamminò con calma verso il locale, e io lo raggiunsi in silenzio, mettendogli un braccio sulle spalle e camminando di fianco a lui.

***************************

Tiziana aveva i capelli elegantemente raccolti intorno alla testa e fermati da forcine, da cui alcune ciocche erano scivolate via per pendere davanti ai suoi occhiali dalla sottile montatura nera. In quel momento apprezzai molto quella trentenne che già da parecchi anni lavorava da me come segretaria, il viso pulito e ben fatto, la carnagione chiara e mai scottata, lo sguardo concentrato e i gesti dolci.
Mi trasmetteva un senso di rilassatezza il pensiero di poter contare sempre sulla sua efficienza e sulla sua esperienza. E non solo in ambito lavorativo.
Si fermò un attimo da quello che stava facendo per guardarmi negli occhi.
– Qualcosa non va? Sembri pensieroso.
– No, niente, non ti preoccupare. Continua pure.
Il suo sguardo indagatore mi conosceva bene, ma sapeva che se non gliene parlavo era inutile insistere. Senza farsi altre domande si chinò nuovamente sul mio pene.
Cominciò a leccare l’asta su e giù, per poi muovere la lingua in stretti cerchi intorno alla cappella. Prese la punta in bocca e senza muoversi molto cominciò a succhiare forte, sempre più forte, finché involontariamente non feci uno scatto di reni. A quel punto staccò le sue labbra poco truccate con un sonoro schiocco per poi cominciare a farmi un pompino, lento e sensuale, con la sua lingua che calda e umida strofinava il frenulo ad ogni movimento della testa. Stavo provando un intenso piacere ma non mi muovevo molto, o almeno tentavo di non muovermi molto.
Anche se sono uno dei titolari dell’azienda e quindi ho un ufficio isolato rispetto agli altri un imprevisto può sempre capitare, specie se la mia segretaria non è di là a fermare i visitatori, quindi meglio non fare troppo rumore.
Ciononostante era difficilissimo restare calmi col lavoro eccezionale che stava facendo. Ora il ritmo era accelerato, e il movimento della testa era accompagnato dall’ondulare dei capelli liberi sulla mia pelle e dal rumore del risucchio. Il ritmo aumentò sempre di più, sempre di più finché non sentii un forte calore alla base dell’asta. Gemetti un po’, con gli occhi serrati e il bacino involontariamente alzato, i glutei contratti. Lei colse tutti i segnali e fece per staccarsi, ma la fermai con la mano proprio mentre fiotti caldissimi e violenti mi facevano tremare le gambe. Le riempii completamente la bocca di sperma me lei non ne perse una goccia, remissiva ed efficiente, sottomessa, seguendo con le labbra anche quei rivoli che mi colavano sull’asta. Dopo che fui venuto continuò a succhiare decisamente la cappella, finché non si staccò per farmi vedere la crema bianca e lattiginosa che le riempiva la bocca. La ingoiò d’un fiato, e subito dopo ricominciò a succhiarmi avidamente la cappella. In quel momento ero in paradiso. Il mio stato di coscienza per un attimo trascendeva la marea di preoccupazioni, problemi, dolori e sentimenti quotidiani, per essere sostituita solo da piacere, selvatico e catartico.

Tiziana, dolce Tiziana. Ancora mi torna in mente, quando ti guardo, quel giorno di Settembre che quasi per gioco decidemmo di darci del tu. Ancora mi torna in mente, quando sento la tua voce, la sera che dopo il lavoro ci concedemmo un aperitivo, ed io rimasi 20 minuti con le chiavi della macchina in mano davanti al portone di casa tua, senza sapere perché. E quanto sei professionale e diligente sul lavoro, e come sei dolce e sensibile nel parlarmi, nell’accarezzarmi, nel sospirare con me. Eppure tutto questo è mio. I miei pensieri restano tali, i miei sentimenti inespressi. E neanche tu hai aggiunto una parola su di noi, non un accenno, non un ‘ e se?…’. I miei sentimenti, confusi come una matassa nebulosa di cui non si riesce ad afferrare il bandolo, sono miei quanto tuoi, lo sono, non possono non esserlo, ma non lo diciamo. Non lo vogliamo? Chissà.
Siamo come attori di un ripetitivo film d’amore americano, io e te, sempre amanti e mai innamorati, e l’inetto sceneggiatore della nostra storia tiene le nostre parole in sospeso sulla punta delle proprie dita, costantemente sull’orlo dell’abisso di una parola troppo grande per noi.
Chissà se riuscirò mai ad amare, dopo Gioia.
Intanto ci sei tu, e questo mi basta.

Tiziana continuò ancora per qualche secondo finché non si fermò definitivamente. Mi sentii svuotato alla base del pene, una sensazione che riesce a darmi solo lei.
Lei si alzò in piedi lentamente, e nei suoi gesti riconobbi un desiderio malcelato, che negli anni aveva imparato a provare in quelle situazioni. Il suo respiro era un poco affannato e le sue guance vagamente arrossite. Una volta che fu in piedi io, semi steso sulla poltrona di pelle marrone, le vidi chiaramente lo slip scuro e umido tra le grandi labbra affacciarsi tra le sue gambe, la gonna a tubo alzata fino alla vita per facilitare i movimenti.
Alzai lo sguardo e lei mi guardava negli occhi, arrossita ed eccitata.
– Sei bellissima.
Le mie parole sembravano averla imbarazzata un poco. Distolse un attimo lo sguardo togliendosi gli occhiali e poggiandoli sulla scrivania in mogano scuro dietro di lei. Non disse nulla. Si avvicinò a me e si sedette cavalcioni sul mio bacino, e appoggiando le braccia intorno al mio collo, mi bacio lentamente e sensualmente. Ero di nuovo eccitato, il mio sesso era duro e ritto sotto il suo pube umido e caldo.
Ci baciammo così, come fanno gli innamorati nelle affannose e frenetiche scappatelle tra le felci.
Cominciò a muovere il bacino avanti e indietro, tanto che la sua fessa nello slip nero sfregava energicamente sul mio glande. Si staccò dal mio bacio, gli occhi chiusi in un sentire di sesso sottile, preliminare.
– Fammi felice.
– In bagno, non qui.
– Come vuoi ma andiamo.
I nostri visi si avvicinarono nuovamente e mi baciò ancora, più vogliosamente stavolta, cercando la mia lingua e accarezzandola voluttuosamente.
Si alzò e si diresse in bagno, afferrandomi per il pene come ad una maniglia. La sua camminata, di desiderio, di donna che chiede. Oddio aiutami a non morire di lei. Sei sensuale come una gatta, morbida e languida. Facendomi tirare un poco presi i suoi occhiali e me li misi nella tasca della camicia, poi la seguii.
Una volta nel bagno pulito e grande del mio ufficio Tiziana si sedette immediatamente sul piano del lavandino, mentre io senza troppi complimenti le tolsi le mutandine ormai intrise del suo sapore. Ero eccitato, molto eccitato, e il suo sguardo concupiscente mi avvolgeva nella fioca luce pomeridiana che filtrava dalla serranda chiusa della piccola finestra.
Lei allargò le gambe morbide e lisce, appoggiandosi con le braccia al piano di cotto beige.
Io mi avvicinai, puntando deciso il pene verso la vagina palpitante. Sfregai il glande rosso e pulsante sulle piccole labbra, gonfie e calde, e subito cominciai a penetrarla. Lentamente, decisamente, lo infilai tutto fino alla base, piantandomi dentro di lei. Lei emise un gemito lungo e estasiante, finché non le premetti col glande sulla cervice. Ero arrivato in fondo; la sua fighetta era caldissima, avvolgente; si contraeva e rilassava velocemente intorno al mio fallo, mungendolo, come se avesse voluto risucchiarmi da lì. Ci baciammo ansimanti, già godevamo tantissimo.
Cominciai lentamente un andirvieni, estraendo il più possibile e poi reinfilandolo completamente con una violenta spinta di reni. Continuavamo a baciarci con gli occhi chiusi, i miei pantaloni calati per terra e la camicia intrisa di sudore, la sua gonna intorno alla sua vita e la sua camicetta aperta a mostrare i suoi seni belli e tondi. Aumentai il ritmo, cominciammo una scopata veloce e ferina, istintiva, passionale. Stantuffai, e stantuffai, e stantuffai, avanti e indietro nella sua fica ormai allagata dal suo succo del piacere, che inebriava la stanza di un afrore di sesso pesante come i nostri sospiri.
Gemevamo, ansavamo, cominciai a baciarle il collo, mi immersi nel suo odore di sudore e di donna, e i capelli che sanno di frutta, per poi ributtarmi su quelle labbra che sono come un miele drogato, per me, come un vino che da alla testa e sai che può ucciderti se bevi troppo, ma quando smetti la sete è troppa, e insopportabile. Le sue mani graffiavano sempre più forte sotto la mia camicia. Ad un certo punto cominciò a gemere più forte, stringendomi a sé.
– Vienimi dentro! Vienimi dentro! Oddio ti prego inondami, riempimi tutta!
La sua voce rotta continuò a sussurrare ansiti di piacere nelle mie orecchie, meravigliosi. Sentivo la sua voce melodiosa e calda che mi sfiorava il collo, e a quelle parole sentii subito il mio sperma ribollire nell’asta. Spinsi sempre più forte finché le mie gambe non iniziarono a tremare. Spinte poderose mi prendevano dai lombi per trasmettersi al pene, togliendole il fiato mentre schizzi potentissimi di sperma erompevano come un’eruzione per infrangersi contro la diga dei suoi recessi.
Tiziana gridò, un grido subito soffocato da un piacere estenuante, immenso, come un oblio di se stessi, e mentre veniva emetteva fiumi di piacere, veniva completamente e in modo incredibilmente intenso, tanto che le mie gambe erano tutte bagnate di lei. Mentre dal mio cazzo continuavano a uscire fiotti di sperma caldo io continuavo a spingere, e i nostri fluidi si combinavano e colavano dalla sua vagina pulsante che si contraeva, facendomi impazzire. Piano piano i nostri movimenti si fecero lenti, i nostri respiri meno frenetici tra i nostri baci. Mi fermai ancora dentro di lei, pieno del suo odore di femmina. Lei mi guardò negli occhi. Bellissima, i suoi occhi non erano valorizzati dai suoi occhiali, e il loro verde in quel momento illuminato da una striscia di luce come un sogno erano languidi e soddisfatti. Incredibile.
Lei era completamente avvinghiata a me. Le sue gambe mi serravano al suo bacino, il suo sesso mi premeva dentro di lei, le sue braccia mi avvolgevano, i suoi occhi mi incatenavano.

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Giulio, Giulio’ Che sciocco che sei, piccolo Giulio. Delle volte sei così maturo, altre sembri un bambino che vuole diventare grande. In quel periodo era così che ti vedevo: pensieroso, triste, lo sguardo perso nella nebbia dei tuoi ricordi. Le tue sopracciglia decise e ben definite, il tuo sguardo serio, la bocca tesa: tutto di te diceva ‘Aiutatemi!’
Io sono una donna responsabile. Ho imparato a mie spese anni fa che si può contare solo sulle proprie forze, e non mi sono mai abbassata a usare il mio corpo per raggiungere i miei scopi. Eppure sono una bella donna, ne sono consapevole. Ho un seno di proporzioni più che soddisfacenti, sodo ed elastico, i miei fianchi creano dolci armonie con i glutei, rassodati da anni di attività fisica come il resto del mio corpo. Ho un aspetto pulito e curato, ma senza esagerare. Mi trucco poco, perché, senza falsa modestia, non ne ho bisogno. Ma non sono perfetta. Quando bevo troppo rido fino a diventare paonazza, quando starnutisco forte faccio un bislacco rumore di risucchio e ho insidiose allergie che in primavera mi fanno quasi esplodere; e questi sono solo i difetti che mi danno più fastidio. Eppure piaccio agli uomini, senza esagerare, e qualche volta mi sono dovuta difendere dai loro ineleganti assalti.
Quando arrivai a lavorare nel tuo ufficio sapevo che eri un uomo per bene, era quello che dicevano tutti. ‘Vedrai, è un tipo a posto.’; ‘Non ti preoccupare se in passato hai avuto brutte esperienze, l’ingegner Lauri è un signore.’; ‘E’ un buon lavoratore, vedrà che con credenziali come le sue andrete d’accordo.’
E in effetti siamo andati subito d’accordo. Ti ho conosciuto in Maggio, me lo ricordo bene.
Avevo ventotto anni e una laurea alle spalle, e niente di quello che avevo sentito era vero. Perché? perché Marco mi aveva lasciato? Mi piace questo nome, un nome che ricorda i classici latini che ci obbligavano a studiare a scuola, in un liceo troppo impersonale per piacermi e i cui corsi erano troppo male insegnati per coinvolgermi.
Sono preda di un diffuso vittimismo, dentro me stessa sento qualcosa che preme leggermente, appena un accenno, nel petto proprio dove si suppone che sia il mio cuore. E ogni volta che ci penso, penso a lui. Il sesso che diventa amore, l’amore che diventa sesso. E poi, un giorno, il sesso torna ad essere quello che è, lo sfogo di un corpo goffo; e un amore forse fatto di acqua e carta si scioglie come il ghiaccio su un balcone, lentamente ma non troppo, fino a che non ne rimane l’acqua sporca di un ricordo fastidioso e persistente, e che prima o poi evaporerà nel calore della memoria.
E il corpo per un po’ diventa il ricettacolo delle aspettative, poi arriva il periodo del disincanto di se stessi, poi uno sciapo lasciare, catturati nella propria ragnatela di inerzia, decisi a non decidere, a non pensare. Non si cerca l’amore ma lo si desidera con tutto se stessi, lo si anela ma lo si rifugge. Anzi, non lo si fugge; molto peggio: semplicemente ci si dimentica che esista.
Tranne che nelle notti di luna piena e vento caldo, in cui le uniche compagnie sono un posacenere pieno, delle bottiglie troppo vuote e le mie carezze nella penombra.
La luce del sole pomeridiano accarezza piacevole le membra pallide, le mie braccia rinfrescate dalla finestra aperta, le gambe contornate dal denso fumo delle sigarette di marca brasiliana. Così mi sentivo quando mi comunicarono che avevo ottenuto il posto di stagista nel tuo ufficio, e quella sera stessa finii per aprire un altro pacchetto di tabacco, accarezzandomi nel tepore raggiato del fumo.
Giulio, un altro nome di origine latina, come il mio. I nomi non dicono molto di chi li porta, ma parlano dell’anima di chi li ha dati. Come scrive lo scrittore pianista? ‘Dare nomi è uno dei due gesti veramente sinceri che si possono fare nella vita.’, o qualcosa di simile.
E così, blowing in my personal stream of consciousness, fluttuando nel mio personale flusso di coscienza, ricordo ancora perfettamente il giorno in cui entrai per la prima volta nel tuo ufficio veramente troppo chiuso, e ricordo ancora meglio lo sguardo cordiale che mi hai rivolto, quel tuo sorriso normalissimo, il tuo vestiario aziendale, l’odore di cuoio della tua poltrona, la mano con l’orologio d’acciaio che mi hai teso al momento di salutarmi. Cos’eri in quel momento per me? Me lo sono chiesto, una volta. Ad essere onesta eri un datore di lavoro; né più, né meno.
Cordiale il più delle volte, spesso semplicemente assente per via di mille e mille grattacapi che ti ossessionavano. Col passare del tempo la mia presenza nel tuo ufficio si fece sempre più necessaria, e divenni la tua segretaria personale. Così passai gran parte delle mie giornate in una stanza accanto alla tua, diventando la tua Monny Penny. Sempre dietro una porta a raccogliere i pezzi delle tue giornate.
Finché, un giorno di Settembre, non ti presentasti in ufficio. Senza preavviso, senza avvertimenti. Passarono i giorni, uno, due, tre, sette, e tu non tornavi a lavorare. Il ragionier Salvitti, il tuo socio, si preoccupò di avvisarmi che ti eri preso una vacanza per motivi personali, e io mi misi l’anima in pace. Un giorno di Aprile mi chiamasti in ufficio per chiedermi di portarti dei documenti riguardo ad una fornitura di cemento.
Fu un incontro particolare quello, anche se con il senno di poi mi sembra sempre meno significativo.
Raggiunsi la tua abitazione in centro nel pomeriggio inoltrato, dopo il lavoro. Suonai al citofono del condominio degli anni 50 in cui vivevi e tu senza chiedere mi apristi il portone. Davanti alla tua porta suonai il campanello con le carte in mano. Mentre aspettavo che mi venissi ad aprire il silenzio delle scale di travertino fu interrotto da un flebile suono, come un vagheggiare dell’eco, e distorte riconobbi le parole di una canzone cantata da un sax.
Mi apristi che ero voltata ad ascoltare quella melodia, tentando di identificarla. Molto dolce, ma anche estremamente triste. Parlava di cose perdute. Mi arrivasti alle spalle senza che me ne accorgessi, mettendomi una mano sulla spalla.
– Ciani, tutto a posto?
Mi spaventai moltissimo. Mi avevi preso completamente alla sprovvista.
– AAAAAAH! ‘ gridai all’improvviso come una bambina vittima dello scherzo del fratello. Senza rendermene conto ti diedi un sonoro schiaffo in faccia.
– Mi ha spaventata! ‘ esordii imbarazzata dopo qualche secondo di silenzio.
– Non fa niente ‘ ti affrettasti a dire ‘ non volevo spaventarla. Comunque bel destro.
Avevi un sorriso divertito mentre ti massaggiavi la guancia non rasata.
Sembravi un po’ trascurato, ad essere sincera, e in quel momento notai che avevi gli occhi arrossati.
– Sta bene, ingegnere?
– Benissimo, mia cara, solo un po’ di influenza, nulla di grave. Entri, la prego.
Mi facesti il gesto di accompagnarti mentre entravi in casa. Io non rifiutai il tuo invito, mi sembrava scortese, ma nel varcare la tua soglia mi sentivo fuori posto.
– Perdoni il disordine ma non l’aspettavo per quest’ora. ‘ dicesti, sistemando qua e là cose da scapolo: spostavi riviste, accatastavi libri, nascondevi vestiti.
Per nascondere l’imbarazzo sorridi in modo disarmato. Non sai reagire all’imbarazzo, e non capisco mai se lo trovo un fastidioso pretesto o la tua più bella debolezza. Quell’appartamento grande, vuoto di una sola persona, aveva un’aria triste, come te. Che ti stava succedendo?
– Posso offrirle qualcosa? Un aperitivo, un caffè, fagioli in fricassea, qualunque cosa? Sa, è un po’ che non ricevo ospiti.
– La ringrazio. ‘ riposi divertita – Non so, che cos’ha?
Ci dirigemmo in sala da pranzo, ben arredata con mobili di mogano come la tua scrivania; prendesti un cd da una pila vicino alla televisione e l’impianto audio, lo inseristi e una musica soffusa di chitarra venne accompagnata da un soffio di vento fatto di violini, dolce e melodioso.
– Che cos’è?
Tu mi guardasti come se non mi avessi invitata ad entrare. Eri totalmente assorto, gli occhi chiusi e un sorriso compiaciuto sul volto.
– Sono i Deep Purple nel live in Australia del ’99, questo è un assolo di Steve Morse. Ti da fastidio? Se preferisci qualcos’altro cambio.
– No, non fa nulla, non mi tratterrò qui per molto.
Mentre servivi il caffè con Molinari pensai a cosa ti fosse successo. Avevo ancora i fascicoli in mano, serrati contro il petto tra le braccia in una posa da pudica studentessa giapponese. C’era qualcosa in quella situazione che no mi tornava, come se un oggetto della stanza fosse fuori posto. Come mai sento le gambe meno ferme? La stanza non aveva un cattivo odore, anzi odorava di lavanda, cosa di cui mi stupii molto.
Cosa sto facendo qui seduta? Cosa ci faccio seduta ad un tavolo di mogano ascoltando una chitarra elettrica? La casa del mio capo e invece di passare a consegnare dei fogli entro, mi trattengo, prendo un caffè. E il tutto in prefetto silenzio imbarazzato. E si, perché tu non sei abituato a ricevere ospiti e io non sono abituata ad essere ospite del mio capo. Cosa dico? Non ci conosciamo neanche.
Stavamo sorseggiando un caffè con sambuca (niente male, tra l’altro), con una chitarra che eseguiva un riff in crescendo in un impianto dolby. Ma che succede? Dalle casse suona un pianoforte, calmo e gentile, un po’ scanzonato. E’ un blues, chiaro e limpido, quasi da bar. Mi fermai ad ascoltare senza neanche accorgermene, battendo il tempo con il piede.
– Piano Bar I. Sono i Seatbelts.
– Lo so.
Mi guardasti sorridente, stavolta non d’imbarazzo. L’atmosfera era ancora tesa, fermi tutti e due senza sapere il perché. In teoria sarei dovuta andarmene già da un pezzo. Però volevo restare in quella casa che profuma di lavanda ad ascoltare un pianoforte.
– Dammi quei fascicoli, li stai stropicciando.
Senza accorgermene stavo stringendo convulsamente i fogli. Sporgendoti dall’altra parte del tavolo mi presi dolcemente i fogli di mano.

***************************

Ho finito il caffè. Tu sei ancora seduto davanti a me e leggi i fascicoli con attenzione. Ti togli gli occhiali dalla montatura così sottile da sembrare invisibile e mi guardi.
– Grazie mille, mi servivano.
– Dovere, ingegnere.
Posi gli occhiali sul tavolo e ti alzi. Mi alzo anch’io, questa visita è stata sconclusionata quanto inquietante.
Sulla porta mi stringi la mano.
– Mi chiami pure Giulio, quando non siamo in ufficio. Posso sapere il suo nome?
Con nonchalance. Mi avevi già dato del tu. Sei il mio capo, lavoro come tua dipendente, ci siamo sempre parlati di lavoro. Non concedo confidenza. Ma mentre lo chiedi hai qualcosa che mi incuriosisce.
– Tiziana. Allora tornerai in ufficio, Giulio?
– Domani alle 8, come sempre.
– Buona giornata, ingegnere.
– Buona giornata, Tiziana.

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Sono in macchina. La mia Clio rossa mi sembra più piccola del solito mentre ci salgo. Ho fatto le scale di corsa dopo essere uscita dalla tua casa, per questo ho il fiatone. Per le scale la musica era cambiata, adesso c’era un bebop, ma c’erano degli errori, evidentemente erano dei musicisti che provavano qui vicino. Nell’intimità semitrasparente della mia macchina do un’occhiata allo specchio. Sono arrossita, ho il fiato corto, le gambe un po’ molli, una frenesia sottile mi percorre le mani e i pensieri. Non è per la corsa, lo so. Con la mano sinistra sciolgo i bottoni della gonna per sfiorare il triangolo di stoffa dei miei slip. Lo sento. Sono languida, calda, bagnata. Sono eccitata? Com’è possibile? Cosa c’è in quell’uomo da eccitarmi in questo modo? In quello sguardo che mi ha lanciato sulla porta non c’erano sottintesi, ma degli occhi così intensi’ Ma andiamo! Non sono certo la mia amica Chiara, ci vuol ben altro che un paio di occhi per scaldarmi! Ci vogliono mani ferme, come le sue, e sopracciglia decise e ben definite, come le sue, e spalle non troppo larghe ma sicure, come le sue, e una voce calma e sincera, come la sua’
Oddio, che mi succede?

L’ansia di guarire il malato desiderio
deforma il sentire
austero a volte e certo dolce
degli odori sulla pelle.

Spirali d’acciaio e alluminio
riverberano il pallore dolorante del neon.

E’ poca cosa Bellezza
platonica conservatrice della logica assurda
che fugge eterea alla vista
e canta inutile alla Luna azzurra.

Guardo il palco semi oscurato su cui un giovane studente universitario declama i propri versi ma la mia espressione è di malcelata perplessità. Bastano un adolescente sensibile ed una penna a fare un pessimo poeta, non c’è che dire. Comunque il locale è buono, ci sono stato molte volte ed è uno dei miei preferiti, c’è sempre buona musica e anche se forse costa un po’ troppo. Siamo seduti ad un tavolino per quattro ma le altre due sedie sono occupate dai nostri soprabiti. Il suo è uno spolverino rosso carminio che si accosta piacevolmente col semplice completo nero con cui è venuta in ufficio e che le calza i fianchi in maniera davvero notevole. Sono ormai le 7 e 30 del pomeriggio e il posto si sta gradualmente riempiendo di coppie e gruppi di persone venuti qui per passare la serata. Mi sento vagamente fuori posto, con la mia giacca grigio ragioniere e la mia squallida camicia bianca, ma almeno non porto la cravatta. Sono promosso appena sufficiente alla prova del casual.
Dopo aver ascoltato l’imbarazzante silenzio che il pubblico ha riservato al ragazzo in risposta del suo componimento, lo osservo lasciare il palco camminando nervosamente. Mi dispiace, amico mio, ci siamo passati tutti. Per fortuna a salvare il pubblico interviene un uomo vestito con un completo anni ’50, pantaloni con bretelle, camicia bianca e maniche tirate su, sigaretta (spenta, purtroppo) in bocca e fare discreto.
– Ringraziamo Giancarlo per le sue poesie cariche di sentimento. Adesso per allietare la vostra serata, miei cari ospiti, abbiamo la ‘Jamming Manor Band’, di cui ho l’onore di essere il pianista. Buona serata e buon divertimento.
Detto questo il pianista, un uomo sulla quarantina dai capelli brizzolati, si siede al pianoforte che sta sul palco accanto a più di una decina di altri strumenti, subito raggiunto dagli altri. Una big band, a quanto pare. Magari se siamo fortunati suoneranno ‘Tank!’.
– Ti piace il jazz?
La domanda mi spiazza un attimo, ero assorto nell’attesa che cominciassero a suonare.
Mi ha rivolto la domanda studiandomi da sopra il suo aperol, tenendolo in mano a ridosso delle labbra poco truccate. Strana domanda, ha già avuto modo di sentire che musica ascolto.
– Molto.
Rispondo a monosillabi, hanno cominciato a suonare. Un inizio di clarinetto accompagnato dal flauto e dalla batteria, c’è anche qualche bongo. Sembra la colonna sonora di una scena di furto, andrebbe bene per un film su Lupin. Ecco che arriva il sax. Avverto la sua voce femminile, acuta ma non abbastanza da impedirmi di sentire cosa dice Tiziana.
– ‘Cat blues’.
Ha riconosciuto il pezzo. E’ voltata anche lei verso il palco fiocamente illuminato e non si è accorta che mi sono girato, così per la prima volta in quasi sei mesi che ci conosciamo ho modo di osservare come la soffusa luce color miele dei lampadari le disegni le morbide curve del collo, sottolineate dalle ombre scure dei capelli che ricadono sulle spalle, dolcemente, esaltando con il loro castano ramato la chiara delicatezza della sua pelle, degna di un Tiziano. Ma cosa dico? Non sono da me simili velleità artistiche.
Sono molto bravi, questi musicisti, e cambiano rapidamente genere con disinvoltura. Finito questo pezzo inizia un assolo di chitarra che introduce un ritmo vagamente country. L’armonicista si mette al microfono per cantare.
E’ un vero peccato che non si possa più fumare nei locali pubblici. L’alone soffuso e persistente delle sigarette che, come una nebbia tra l’artificio e il naturale, esaltavano le ombre, sfumavano le luci, aggiungevano un indistinto all’immagine del locale, che spesso era piccolo e un po’ angusto. Manca questo. Quanti ricordi di nottate intere passate a suonare per 7-8 avventori in un qualche jazz club da pochi spiccioli, una chitarra, un’armonica, un contrabbasso e una batteria, a volte anche un pianoforte; e tutti noi fumavamo colpo fortunato, multifiltro, MS, Filippo Morris, e il fumo grigio e pesante faceva cappa e creava un clima unico, caldo fino ai limiti della sopportazione, che ci faceva sudare come animali mentre tiravamo fuori la musica, la musica, da quegli strumenti a volte scassoni a volte compagni fedeli. E quante batoste, e quante risate, e quanti struggenti ricordi.
Adesso non si può fare, ma la buona musica resta sempre buona musica.
Il blues, un altro, che stavano suonando sta giungendo al termine mentre noi ci rivolgiamo qualche parola. Stiamo parlando pochissimo, ma non è dovuto all’imbarazzo. Siamo concentrati tutti e due sulla musica, sugli assoli e sulle improvvisazioni di questa big band.
– Allora Giulio, dove hai studiato?
– In un istituto scientifico tecnologico e poi a Tor Vergata. Non ero proprio un campione di impegno, ma facevo quello che dovevo fare quando lo dovevo fare, e tanto bastò fino all’università.
Tu invece? So che sei laureata in economia aziendale.
– Si, infatti. Ma non era la mia passione. Ho fatto la scelta, o forse l’errore, chissà, di scegliere un corso di studi che mi garantisse lavoro. Ma le mie passioni erano la filosofia e l’arte. Un po’ scontato forse, ma ho sempre avuto una grande passione per la letteratura, ed era una materia in cui eccellevo al liceo.
– Come mai hai scelto di fare economia aziendale? Sei una persona molto sveglia e diligente, avresti potuto benissimo affermarti come opinionista, una novella Argan. – dico sottolineando le mia parole con gesti dall’enfasi caricaturale.
– Non esageriamo. ‘ risponde sorridendo compiaciuta e un poco imbarazzata ‘ Sicuramente sarei finita ad appassire lentamente facendo l’insegnate, a lottare per decenni contro centinaia di ragazzini che mi disprezzano. Avrei finito per pretendere qualcosa di più dalla vita, magari sarei finita col confondere il gusto artistico con il demone creativo, e sarei marcita nella commiserazione di un romanzo mai finito e inutile. No, la prospettiva mi spaventava troppo.
Il cantante/armonicista sta parlando al microfono con gli avventori del locale mentre io penso all’immagine di lei chiusa in una stanza troppo piccola per le sue aspettative. Molti lo stanno ascoltando, qualcuno risponde. Non seguo il discorso. Il nostro tavolo si trova in una zona sopraelevata rispetto alla vasca ai piedi del palco, a metà strada tra la band e l’uscita.
– Cosa dicono?
Appena finito di scambiarci queste quattro parole si è subito interessata al gruppo. Stavano chiedendo ai presenti se c’era qualche pezzo in particolare che desideravano ascoltare.
C’è chi chiede Gillespie, chi Coltrane, altri Davis, qualcuno addirittura King Oliver, senza dubbio un grande appassionato.
D’un tratto Tiziana si alza a avvicinanatasi al palco chiede ad alta voce qualcosa di Lagrene .
– Certo, signorina, il chitarrista l’accontenterà molto volentieri, tanto il nostro Furio si diverte col francese, no? ‘ risponde l’armonicista rivolgendosi al gruppo.
Il chitarrista, imbracciando una chitarra semiacustica a sostituire la Gibson che portava poco fa, sorride sornione al compagno.
Comincia a formarsi un’idea, non so neanch’io come mi è venuta in mente. Si vedrà.
Intanto lei ritorna al tavolo sorridendo soddisfatta quando le prime vorticanti note di un magnifico assolo risuonano nell’aria. Ha un passo molto ben cadenzato, veramente aggraziato.
Mi sorprendo a seguire con gli occhi le linee del suo corpo.
Stocazzo, sono imbarazzatissimo, non ho assolutamente esperienza in questo genere di cose. Quante volte mi è capitato di indugiare in sguardi simili? Quante volte ho guardato con bramosa insistenza una donna? Per me il corpo femminile è sempre stato un curioso ostacolo alla felicità. Fin dall’adolescenza il mio corpo cresceva a pari passo delle mie coetanee ma il mio animo, così riluttante ad abbandonare decenni di educazione, si sforzava di non cadere nelle trappole della seduzione. E ci riuscivo, anche molto bene, per un ragazzo. Ma perché? A che scopo reprimere se stessi? Nell’intimità della mia stanza davo sfogo solitario, quasi sofferto, alla mia bramosia, che usciva allo scoperto come un animale notturno, mai evidente se non nella più completa solitudine. Poche persone sono riuscite a farmi uscire da questo difficile vuoto di sentimento intorno a me, e quasi sempre queste persone hanno finito per restare delusi e amareggiati dalla mia isola. L’unica donna che io abbia mai amato è stata Gioia, la piccola Gioia. Ma amore al giorno d’oggi è una parola abusata almeno quanto odio. Io non l’amavo. Amavo lo stare con lei, la sensazione di appagamento dello spirito che mi dava quando i nostri respiri si confondevano. Ma la pace frettolosa e acerba scompariva, non appena lei tornava ai suoi studi e io ai miei. Non era che gioco, strano e sconosciuto. Eppure, come a colui che ha vissuto nella tenebra per tutta la sua vita una fiammella può bruciare gli occhi come un faro, così per me Gioia. Nel mio cuore c’è ancora un vuoto laddove i miei sentimenti per lei giacevano come belve sopite, pronti a scattare non appena avessi riavuto tra le mani quel suo corpo leggero e sensibile ad ogni mia carezza.
Ecco, di nuovo pensare a Gioia. Stavolta il fiume dei miei risentimenti si riversato alla vista delle gambe di quella donna, Tiziana. Così sensuale, nella sua semplicità. Sarà alta più o meno un metro e settanta, i capelli rosso castano, naturali, i fianchi sinuosi che guidano lo sguardo verso un culo perfetto, le curve del seno che si fanno intuire attraverso la camicetta nera.
E’ perfetta.
Maledizione, è veramente perfetta. Come mai me ne accorgo solo ora?

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La serata è stata molto piacevole, devo ammetterlo, non mi aspettavo che esistesse un posto simile fuori dalle grandi città. La musica era meravigliosa e sebbene io sia per natura una persona taciturna Giulio non è rimasto indispettito dal mio silenzio, anzi, l’ha assecondato e fatto proprio. Mi ha fatto sentire straordinariamente a mio agio, come non mi succedeva da anni. Per di più verso le nove è riuscito a incrinare il globo di silenzio intorno a me, facendomi parlare sempre più disinvoltamente. Il locale è veramente eccezionale. La band non ha mai smesso di suonare, alternando momenti salienti e soffuse musiche da camera. Molto piacevole.
Giulio si è dimostrato un commensale allegro, una persona poco volgare e di buongusto.
Mentre mangiamo suona nell’aria il sassofono. Canta una canzone di ricordi e tristezza, la stessa che sentivo nelle scale di casa sua. Ora la riconosco, è ‘Goodnight Julia’ dei Seatbelts. Sembrano fare da colonna sonora a questa serata.
Sto guardando Giulio. Non è un uomo bellissimo, ma ha fascino, molto fascino, con la sua quieta cortesia e la sua risata pronta. Nei suoi occhi castani leggo continuamente un rimorso della coscienza, come un rimpiangere i propri pensieri. Comincio a prendere confidenza con quest’uomo, anche se l’ho appena conosciuto.

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Allora, eravamo arrivati al punto che

le luci si spegnevano

mancava la corrente

si creava una atmosfera di confusa ilarità

lei si appoggia completamente a lui, fa sentire i seni morbidi sul suo petto, lo abbraccia quasi
sdraiandosi su di lui

lo bacia

con decisione, con energia, con una passione e una voglia che non capisce bene neanche lei, ma non c’è alcun bisogno di capirla

lui nel buio fitto e quasi silenzioso sente il corpo di lei, le curve dolci nel vestito aderente ed elegante, adatto a lavorare e a uscire con classe disimpegnata
e si bea del suo profumo, delle sue labbra morbide che si intrecciano con le sue, della sua lingua che lo cerca

le accarezza le curve, riempiendosi le mani del suo corpo

una mano di lei scivola per un attimo dal suo collo per andare a strofinare un sesso che cresce
sempre più

eppoi?

e poi i due la finiscono prima di dare pubblico spettacolo, e vanno fuori, nel parcheggio del locale che da sulle campagne, nell’aria fresca e pervasa dal fremere dei grilli e lì, appoggiati alla macchina di lui, continuano a respirare insieme, si baciano e si toccano eccitandosi fino ad ansimare

troppo bella, davvero troppo bella pensa lui, mentre le guarda negli occhi languidi, e mentre le accarezza i fianchi le alza la gonna e le sfila gli slip, coperto dalla luce troppo lontana dei pochi lampioni, e con un dito le carezza lentamente le piccole labbra, umide e calde, descrive piccoli cerchi intorno al clitoride duro e fremente, infila il medio nella vagina rovente mentre lei ansima per i brividi sottili che le mani di lui le stanno dando, brividi di piacere che scorrono per tutto il suo corpo, che le scuotono i seni ansimanti, che le annebbiano i pensieri dal piacere e dall’eccitazione di quel corpo maschio vicino a lei, per quelle mani ferme e così sensuali, per quelle labbra che la baciano dappertutto

lei viene mentre abbraccia convulsamente le spalle di lui, e lui è al massimo dell’eccitazione. Le luci si sono riaccese nel locale e si sente in lontananza una musica soffusa, ma ai due non importa.
Sono seduti nella macchina di lui, adesso, e stanno viaggiando nella notte ancora giovane per andare in un luogo più appartato, come due innamorati in uno squallido domenica-sera. Sono entrambi eccitati, nessuno dei due ha parlato molto, è strana questa loro predisposizione al silenzio, lo sanno tutti e due, ma tutti e due sanno che non importa, e che stanno meglio così. Non servono le parole.
L’Alfa si ferma in uno spiazzo erboso a pochi chilometri dalla periferia. Mentre il vento fresco smuove le fronde di cipressi alti e scuri lei non resiste. Mordendosi il labbro abbraccia di nuovo l’uomo che la sta così coinvolgendo, si sente trascinare da una passione che mai aveva provato, improvvisa e quasi istintiva, eppure l’abbandono di se stessi è dolce, questa volta, non è uno sfogo subito pentito. Si abbandona ancora su di lui, sente il suo sesso grande e duro sotto il tessuto dei pantaloni, lo sente premere sul suo corpo e accarezzarla ad ogni movimento. Decide di aprire i pantaloni, china mentre l’uomo ansima eccitato e la lascia fare, e bottone dopo bottone toglie i pantaloni grigi e li scosta, abbassa i boxer per trovarsi davanti un fallo eretto e turgido, grande, semi scoperto e paonazzo. Comincia a toccarlo e a scoprirlo, con lentezza quasi timorosa, finché con entrambe le mani non comincia a masturbarlo con decisione sempre maggiore. La velocità aumenta, il ritmo si fa serrato, gli ansiti dell’uomo sono rumorosi. Lei guarda l’uomo, è molto preso ma subisce remissivo qualunque cosa lei faccia, sembra essersi completamente concesso a lei, e questo la eccita tantissimo. Con lentezza esasperante si china, appoggia appena le labbra sull’asta, soffici, poi comincia a leccare con movimenti circolari intorno al glande mentre con movimenti lenti e ampi continua a masturbarlo con una mano. Lui è assolutamente sconvolto dal piacere e dall’eccitazione, le sue labbra e la sua lingua gli stanno regalando sensazioni che mai aveva provato prima d’ora. Gioia non faceva queste cose, e lui non le aveva cercate, ma adesso non riesce a pensare a nulla che non sia la lingua di lei che gli accarezza golosamente il frenulo. Anzi, non riesce a pensare affatto. La sua mente è pervasa dal piacere. Incontrastato, immenso, intensissimo piacere. Lei intanto comincia a fare una vera e propria fellatio, su e già con la testa, le labbra morbide e vogliose serrate attorno al glande e la mani alla base dell’asta. Lui si accorge che non riesce più a trattenersi ma non fa nulla per dirglielo, lei lo capisce da sola ma non si sposta, e lui erutta così in un orgasmo potente, che gli fa tremare il bacino e gli fa spingere con le anche, una, due, tante volte. Lui si sente esausto ma appagato e lei è quasi venuta dall’eccitazione di averlo fatto venire in quel modo, riempiendosi la bocca del suo sperma bollente e salato, e come le piaceva bere il frutto del piacere, della sua maestria. Le sue amiche non la capiscono, pensano sia un po’ perverso, ma a lei non interessa, le piace e basta. Ma mentre lei si accorge di essere eccitata e ancora bisognosa di attenzione si rende conto che lui è ancora in tiro, eccitato almeno quanto lei. Non aspetta altro, lei. Si siede sul sedile, alza le gambe con un gesto sensuale e si sfila gli slip guardandolo, concupiscente e desiderosa di sesso. Lui guida largo, c’è molto spazio al posto di guida. Lei si mette cavalcioni su di lui, gli afferra il pene e se lo porta all’entrata della vagina, talmente eccitata che i suoi umori le stanno colando sulla coscia. Si strofina il glande contro il clitoride, come un dildo, come faceva da ragazzina nell’intimità della sua stanza, masturbandolo, e poi si abbassa su di lui fino a impalarsi con un sorriso e un sospiro di piacere. Oddio, com’è bello’ pensa lei mentre si alza e si abbassa su di lui, muovendo il bacino, strofinando ogni parete interna col suo membro pulsante dentro di lei. Su e giù, su e giù, lei si muove ansimando forte insieme a lui, entrambi persi nel piacere, così diverso dalle rare fughe dalla realtà con partner occasionali, appoggiandogli le braccia intorno al collo. Lui la guarda mentre si muove sopra di lui in questa chiavata dolcissima e eccitante, la guarda interiorizzare il piacere ad occhi chiusi mentre le accarezza i fianchi lisci e morbidi. Lei aumenta il ritmo cavalcandolo con frenesia, la vagina fremente che gronda piacere. Ad un tratto alza di scatto la testa con un gesto fluido e lo sguardo contratto, per gridare in un sospiro un orgasmo che è come un lampo nella notte, totalizzante, così autentico e meraviglioso che non risponde più di se stessa. Alza le braccia e si accarezza la testa e i capelli, ritta col busto arcuato su di lui che la guarda, completamente rapito. Lo spettacolo di lei che gode è troppo per lui e per il suo sesso, che gonfiandosi spasmodicamente prorompe in fiotti caldi e abbondanti. Anche lui viene, mentre la coda dell’orgasmo di lei ancora non è passata, e si abbracciano baciandosi mentre lui ancora la riempie di se e del suo succo. Restano ancora così per minuti interi, a baciarsi e a toccarsi sudati e accaldati nel buio della macchina appartata, incastonati l’uno nell’altra, i sessi fradici di entrambi.

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Ma cosa vado a pensare?! Ma ti pare il modo di fantasticare su certe cose! O santo cielo, ma cosa mi succede quando sono vicina a quest’uomo?
Non è da me fare deliranti fantasie del genere. Non mi accadeva dai tempi del liceo, quando i feromoni nell’aria e gli estrogeni nel mio corpo mi annebbiavano la vista e confondevano la mente, mi scaldavano alla vista di due occhi azzurri e mi facevano commettere tanti errori, troppi errori.
La serata sta andando avanti piacevole e divertente. In questo posto servono un ottimo vino della casa, e il pesce ai ferri è particolarmente saporito. Il cibo è delizioso, forchettata dopo forchettata aumenta quella sensazione di conviviale amenità che è tipica dei buoni pasti, mi rende insolitamente ciarlera e alla fine mi rendo conto che sono contenta di aver accettato quell’invito campato per aria.
Ma quello che mi stupisce è lui. Soffre d’asma, ma fuma da sempre; gli piace Pennac ma non ha mai visto Lezioni di piano; la sua colonna sonora preferita è quella dell’Ultimo dei Moihani, con Day Lewis; adora letteralmente la pizza. Anch’io gli parlo di me. Gli dico che la mia colonna preferita è quella di Lezioni di piano; gli dico che da piccola studiavo pianoforte ma poi ho lasciato stare; gli dico che leggo molto Asimov e Camilleri.
Parliamo, parliamo. Parliamo a ruota libera senza pensare all’importanza di quello che diciamo, senza badare al fatto che quello che sta accadendo è straordinario per entrambi. Nessuno di noi due ha molti amici, entrambi siamo poco socievoli. Ma questa sera che odora di pesce e che sa di pianoforte ci sta piacendo, ci rinfresca come un Molinari servito freddo. Seguendo la sottile linea delle chiacchiere siamo arrivati dunque a parlare di musica. Entrambi abbiamo quasi gli stessi gusti, magari io sono più affezionata alla musica classica. e’ uscito fuori che suona l’armonica a bocca.
– Davvero?
– Da tutta una vita. Dopo il liceo con alcuni amici progettammo di andare per l’Europa con gli zaini e gli strumenti musicali.
– E poi?
– E poi siamo andati. Fu un anno indimenticabile. Anche se molto difficile. Cercavamo di rimediare i soldi per viaggiare suonando. Delle volte (poche, per la verità) ci è andata bene e siamo riusciti a suonare in qualche locale, ma il più delle volte facevamo i mendicanti per strada. Io con la mia armonica, Rocco con la chitarra…
– Il ragionier Salvitti?
– Proprio lui. Un nostro amico con i bonghi e la ragazza che allora frequentava Rocco con un basso acustico. Ci siamo divertiti da matti.
– Mi stai prendendo in giro. ‘ dico ridendo all’idea dei miei due capi vestiti con abiti sporchi e consunti a mendicare qualche soldo suonando in una piazza.
– No, è la pura verità.
Stiamo ridendo tutti e due e l’atmosfera tra di noi ormai è veramente rilassante. Si direbbe che stiamo diventando amici. Ma io non ti credo.
– Mi dispiace, caro, ma non ti credo.
Senza dire una parola prendi la tua giacca e frughi nella tasca interna. Tiri fuori l’inalatore per l’asma e me lo fai fissare per qualche secondo, poi con gesti teatralmente lenti lo posi sul tavola tra due bottiglie e continui a frugare nella tasca. Tiri fuori un astuccio rettangolare foderato in cuoio nero, un oggetto molto bello. Quando apri la serratura a fermaglio e alzi il coperchio trattengo un piccola esclamazione di stupore. Un armonica bellissima, una Hohner con anima in legno. Le placche metalliche con su inciso chiaro ‘Marine Band’. Non me ne intendo molto, ma sembra di buona qualità.
– E’ bellissima.
– Suona anche meglio, ma è un po’ dura. L’armonica ha bisogno di molta manutenzione.
– Fammi sentire come suoni.
– No, non mi va. E poi adesso stiamo mangiando.
Sorridi disarmato. Lo fai spesso stasera, sembri farlo quando sei imbarazzato.
– Andiamo, fammi sentire come suoni.
Mi guardi in silenzio per qualche secondo, trattenendo le risate. Sembro una bambina che chiede al papà una caramella.
– E va bene, dannazione.
Ti alzi e rapidamente ti dirigi verso il palco. Stanno suonando una soffusa musica da camera. Arrivato nei pressi del pianista ti volti verso di me, mi fai un sorriso a trentadue denti e mi saluti con la manina. Ti saluto di rimando, ridendo sotto i baffi. Mi fai vedere che ti metti una mano in tasca per tirarne fuori un anello. Sembra una fede. Mi fai segno di star zitta e te lo metti all’anulare sinistro. Che diavolo fai?
Il palco è molto piccolo e poco elevato rispetto al pavimento. Fai un cenno al pianista e lui mentre suona si rivolge a te. Confabulate qualcosa e mi guardate. Mi saluti e io saluto di rimando. Lui annuisce sorridendo e smette di suonare. Si rivolge all’armonicista, che in quel momento è seduto sulla sua sedia sul palco senza suonare e si dicono qualcosa tra loro. L’armonicista si alza in piedi facendo segno agli altri di interrompere la musica. Si avvicina al microfono e fa:
– Scusate signore e signori, un attimo di attenzione. Mi dicono adesso dalla regia che i signori Lauri oggi fanno 15 anni di matrimonio!
C’è un applauso di auguri dalla clientela seduta ai tavoli mentre il pianista ti invita a salire sul palco. Tu lo segui al microfono.
– Buon anniversario, tesoro! Come regalo volevo farti questa sorpresa. Vorrei dedicare una canzone alla donna che mi ha rubato il cuore e che ancora non trova il coraggio di restituirmelo!
Tiri fuori l’armonica dalla tasca dei pantaloni e, preso il microfono, bisbigli con i musicisti della canzone che vuoi suonare. Dopo pochi secondi vi siete messi d’accordo e tutti si siedono tranne il percussionista e i due chitarristi. Fai per suonare.
Adesso ti faccio vedere io.
– Sono incinta! ‘ grido dal posto sbracciandomi. Tu rimani pietrificato per un attimo, e mentre dalle persone ai tavoli erompe un grandissimo, immenso applauso e 4 donne e due uomini mi vengono a fare gli auguri di persona, gli ottoni della band improvvisano uno stacchetto da varietà.
Tanti auguri! gridano tutti.
Sto ridendo come una matta. Fantastico. Tu te la ridi ancor più di gusto.
– E’ meraviglioso, tesoro! Se è maschio lo voglio chiamare Dante come mio padre.
Sto lasciando l’anima nelle risate versate su questo tavolo. Sei incredibile.

E inizi a suonare.
( per i lettori: ascoltatelo questo pezzo, ha lo stesso titolo di questo capitolo)

Un assolo vertiginoso. Incredibile, sei bravissimo! Le note gridano dai buchi di quell’armonica. Un suono carico di sentimento, graffiante, intenso. Sei concentratissimo, completamente preso. Ti pieghi sull’armonica, a tratti sembri quasi accasciarti.
Dallo schimazzo creato dalla nostra farsa si passa ad un attento silenzio. Tutti stanno letteralmente pendendo dal tuo blues, dalla tua voce nello strumento, dalla tua anima in quelle note.
Sono appesa al filo del tuo dolore.
Incredibile.
Ti ho visto seduto su un muretto di pietre e malta che da su un campo immenso e verde d’estate in una notte ventosa. Hai sedici anni, e seduto su quel muretto suoni questa stessa canzone, no, non è la stessa ma è ugualmente carica, ha lo stesso sentimento, e la tua armonica piange allo stesso modo.
Sono completamente affascinata.

Non appena l’ultima nota si spegne sfumando nell’aria il locale esplode di applausi. Fischiano, si alzano in piedi, gridano auguri auguri. Gli altri musicisti ti applaudono allo stesso modo, sei stato incredibile, e lo sai anche tu. Guardati come gongoli con l’armonica in mano. Io non sto applaudendo. Sono rimasta pietrificata dalla tua bravura. Nonostante tutto quello che ci siamo detti, nonostante la bellissima serata passata insieme, niente di quello che ho imparato di te mi ha preparato a questo. Ho sentito la profonda, grande tristezza di quelle note, e ho capito che era anche tua. La tristezza di essere solo. La consapevolezza, di essere solo.

Ma io l’ho sentita. E’ la mia stessa consapevolezza. Non sarai più solo.

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