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Racconti Erotici Etero

VENTICINQUE ANNI DOPO

By 15 Luglio 2022No Comments

Ci sono dettagli che a volte restano impressi ben più della situazione in sé e detto così pare una ragionamento da bar, quelli con cui si pontifica prima e dopo l’aperitivo. Saranno insignificanti per i più ma irresistibili per il sottoscritto.
E lì sopra quella poltroncina intanto che mi stavo facendo la già signora Izzo l’occhio me lo stava rubando la punta della mia cravatta buona. Ne avrò una trentina anche se poi ne uso non più di quattro o cinque e quando ho da mettermi in ghingheri una sola, marrone a rombi bianchi, detta: la Capitana. S’accoppia bene con mie camice carta da zucchero.
E per via di accoppiamento era bastato slacciare il bottone dei calzoni e lasciargli scivolare in basso. Lei, la suddetta già Izzo, capì senza necessità di discorsi.
La prima volta che l’ho incrociata era il ’97, l’anno d’esordio ufficiale nel mondo del lavoro: agente di assicurazioni per Ina-Assitalia.
E m’ha stregato subito, dal primo attimo, altro che cazzate o aspetta-un-attimo-che-ci-penso-e-poi-ti-dico.
Suonai ed una vocetta da contralto mi annunciò: “Aspetta, scendo io, c’è il cancellino che fa i capricci”. Abitava al quarto piano e mentre si saliva le scale, lei a fare strada, ce l’avevo davanti di una mezza rampa di scalini.
“Quattro piani, sai, quaranta gradini andata e quaranta al ritorno, tutta salute, eh” e gli occhi li avevo all’altezza delle caviglie della mia cliente. Sottili le aveva, tipo quelle di una podista etiope che a confronto quelle del sottoscritto a farle alla brace ci mangia una tribù. Toccava il piano e rimbalzava via tipo gomma e tutti quei passettini fitti fitti erano una mezza corsa, mille gocce d’acqua che fanno la pioggia. Ed anche mezzo amore in 16 secondi netti.
“Dov’è che firmo, dimmi?” mi chiese più figa di Maria Luisa Busi
Dimmi tu dov’è che devo firmare io per metterti la lingua in bocca, amore mio.
E lì il mio silenzio, un’esitazione di un attimo, un niente o poco di più. Avrebbe potuto essere quello di Mia Wallace, i silenzi che mettono a disagio e solo allora che sai di aver trovato qualcosa di speciale? O meglio ancora Skywalker: usa la forza Luke, segui l’istinto Luke e Luke che stacca il computer e va all’assalto della Morte Nera a mani nude.
Anche nel mio caso accedere al lato oscuro della forza significava staccare il cervello, dismettere quelle 5 o 6 frasette fatte che erano la mia attrezzatura da lavoro e mettergliela una mano in mezzo alle gambe, alla Raffaella Gozzi in Izzo.
Erano cosce dolci ma pallide di chi schifa il sole e totale era l’antitesi fra il candore cattolico della pelle ed il nero seppia dei capelli. Le sopracciglia di liquirizia esasperavano ancora di più il contrasto.
Avanti con le mani e stringerti forte la potta. Lasciale libere le gambe, amore, che voglio vederti in fondo al cuore.
E son certo mi sarebbe toccato un: “Mauro, ma che fai?”, un fastidio così recitato per vedere sino a che punto avrei insistito a strizzare. Un grugnito solo, invece, a riempire la stanza. Anzi, fusa di gatta. E da gatta subito ad acciambellarsi, ad esporre la schiena, con gli avambracci incrociati a tenersi le spalle. Sarebbe venuto naturale sganciarle il reggiseno e, sfilandolo, accarezzargli le tette. Con i palmi pieni ad impastarle come fossero un dolce.
Quando sogno, di notte, mi è capitato di svegliarmi tutto sudato. In quel frangente lì, a Stellata, nell’appartamento al quarto piano del palazzo di v. Gramsci, invece no. Niente sogni, niente sobbalzi sul letto, solo un miraggio, di quelli da deserto con tanto di dune e cammelli e l’oasi in fondo, durato un niente ma più vero del vero.
Una fantasticheria ad occhi aperti, la proiezione di un corto in 5 fotogrammi, subito candidato al Sundance. Anzi, un prologo, una promessa differita 25 anni e la convinzione insensata di non aver sognato da solo.
“Mauro, tutto bene? C’è, vero?”, come fosse un’interrogazione clinica sul mio stato di salute.
No, un cazzo di no, sarebbe stato più giusto dire. “Sì. Credo di sì” e misi su un sorriso da capannone terremotato.
In un attimo atterrai nel mondo del buon senso andante, rifiutai un caffè, raccolsi le miei documenti del cazzo e me la svignai a smaltire lo sbigottimento.
La mimesi con l’ambiente circostante è sempre stata una delle mie tattiche predilette insieme all’aggiramento della montagna e ‘sta Raffaella pareva un’ottomila: trentunenne, coniugata con due figli piccoli, sorridente&soddisfatta&spigliata e soprattutto una figa esagerata. Anche se a discorrerne in giro pareva avesse flashato solo me e credo suo marito, Antonio, un terrone, tappo e calvo come un Montalbano dei poveri. Anche Alfredo, il cognato, intanto che sgranocchiavamo arachidi al bar: “Chissà che c’avrà trovato dentro mio fratello in ‘sta stronza con i capelli da matta”.
“Sono meches, fa la parrucchiera, sarà autosperimentazione”, buttai lì, così, tanto per dire.
“Scommetto che si tinge anche i peli sulla gnocca”, aggiunse lui senza che avessi nulla da replicare o da aggiungere. E che poteva aggiungere, a 29 anni, un ciccione con i capelli unti e l’autostima al primo mese di gravidanza? Niente se non lustrarsi gli occhi un paio di volte l’anno quando passavo alla maison Izzo e cercare di vivere la vita che tanto panta rei.

Verso il 2002, pressappoco, la famigliola felice cambiò residenza, dall’appartamento di Stellata alla villetta a Bondeno. Casa nuova ed anche qualche consuetudine nuova: Gianni aveva delegato completamente l’area assicurazioni alla moglie e così la frequenza dei nostri incontri prese ad aumentare. Polizza auto prima rata in marzo, casa in maggio, auto seconda rata in settembre e via andare tutto il resto: in prossimità delle scadenza inviavo un sms con dove/come/quando sarei passato e piena reperibilità per questioni varie. Col tempo mi lavai via quel sorriso da scemo&beato, tipo quello dei santi sulle pale d’altare. Il San Sebastiano in estasi che cerca l’altissimo lassù in cielo lasciò spazio ad un bel giovanotto colla maglietta con Groucho: “Sai che fanno due generali in frigo? La guerra fredda”
Sottrarsi, però, alla dinamica del rapporto professionale pareva impossibile: gli unici argomenti di conversazione erano gli affari e le parole d’ordine: cliente, il-consulente-mi-suggerisce, che sconto mi fai e buongiorno&buonasera.
“Mauro, una tipa qui, intanto che gli stavo lavando i capelli .. gli ho fatto cascare un orecchino giù nel lavandino. Puoi darmi una mano?”
Certo che posso dartela una mano, tesoro mio, dove dico io, però, mi venne da pensare ma ogni cosa nasceva e moriva dentro la mia zucca. Mai una parola che scalfisse la bolla di perfezione dove la Raffaella dava ad intendere di vivere. Mai un problema, mai un’incazzatura, un sacco di viaggi in paesi lontani ed il logo del MulinoBianco a marcarle la vita. Per paradossale che fosse pareva asessuata, una figa di legno, insomma. L’intesa col marito tappo&pelato dava quasi l’impressione di prescindere dal letto, come se la famiglia fosse una spa, prima di tutto.
Attorno ai 35 anni dava l’impressione di aver raggiunto il top della forma, splendida ed austera ma anche al sottoscritto il nuovo millennio pareva sorridere.
Per la cena di leva del ‘67 cantai al karaoke Un’estate al mare di Giuni Russo insieme a Gigliola. La voce era poca ma intonata e ricevetti un applauso convinto, uno dei rari della mia vita.
A luglio 2006 prese il via la dieta più demente della mia vita e il febbraio successivo la bilancia con sopra il sottoscritto segnava -33kg.
Certe cose, insomma, parevano iniziare a marciare per il verso giusto.
In quel periodo presi a frequentare Donatella e fu una supernova. Mi persi dentro un vortice di passione che mi assorbi completamente per bel po’ di tempo. Stavo sperimentando cose fino ad allora incognite ossia come il sesso potesse essere un’abbuffata senza rischio di indigestione. O come un pompino potesse venire naturalmente, per la felicità reciproca. Più d’una volta a metà di qualche suo lavoretto di bocca mi mollava certi sorrisi tipo quando incontri il tuo compagno di banco del liceo ed erano sette o otto anni che non lo vedevi.
Prendeva la pillola regolarmente anche se questa era l’ultima ragione per cui smaniavo a venirle dentro il più volte possibile.
“Mille, amore?” mi chiedeva con fare da Watson ed io nella parte di Sherlok: “No, tesoro. Preferisco settemila. O anche mezzo milione, che dici?”. Era uno scheck per strappare un sorriso e se da un lato diceva il vero -allora erano quelli i sentimenti reciproci, dall’altro era più falso di Giuda. La natura poi impose sé stessa e quell’istinto lì di accoppiarsi con la medesima donna alla lunga s’esaurì. Dopo un triennio il mio erotismo finì la benzina, il motore si fermò e fu la frana.
In successione arrivarono: litigate ripetute per gli stessi motivi, disaffezione a precipizio, imbruttimento reciproco ed infine le corna subite. La mia fidanzata scopa con un altro, ecco il titolo della mia biografia più recente

Una sera estiva, agosto 2009 capitai a maison Izzo. Antonio non c’era e dato che le incombenze lavorative s’erano concluse per entrambi, fui invitato dalla padrona di casa ad accomodarmi in giardino: “Una birretta?”.
Se ne stava lì, a piedi nudi dentro i suoi fuseaux da podista quando al più banale dei convenevoli: “Come stai?” devo aver aperto il cesso e sbrodolato fuori tutti i miei casini. Nelle due ore successive credo aver ricostruito la sceneggiatura degli ultimi due mesi della mia vita, sviscerando la questione in ogni minimo dettaglio, anzi, spaccando il capello in quattro su ragioni e motivi di quanto accaduto per finire con oroscopo sul mio futuro prossimo.
Ero convinto che prima o poi m’avrebbe sciolto la cicuta nel bicchiere oppure poteva tirare su un’espressione della serie: ma-come-stai-messo-amo. Invece non si sottrasse al minimo sindacale di stare a sentire la lagna del suo consulente assicurativo.
La questione più acuta che devo aver buttato sul tavolo suonava tipo: “M’ha messo le corna ieri però oggi m’ha messaggiato tutto il giorno, che vorrà dire?”.
Le sue repliche erano così indefinite che incoraggiavano la mia logorrea solipsistica. Un sacco di mah-che-dire, qualche frase fatta s’incrociavano con il mio umore da pallina da flipper che rimbalzava tra gelosia, disperazione e voglia di rivalsa.
Ogni tanto aggrottava la fronte se qualche passaggio risultava poco comprensibile: “Mah, al ritorno dalle vacanze avete litigato in aeroporto o dopo, a casa?” e più in generale manifestava un certo qual divertimento a sentire di quanta pochezza fosse ancora appestato il mondo tutto. Roba che ad occuparsene dovrebbe essere il pediatra, avrà pensato.
Spargeva il buon senso di chi vive tutto dall’alto dei cieli e lo incarta col nastrino della noncuranza ai limiti della spietatezza
“Cosa faccio: la chiamo o mi piazzo sotto casa sua e ..”.
“E poi .. ?”
“E poi qualcosa succederà, che dici?”
“Se ti va bene t’arriva un ho-troppi-cazzi-per-la-testa&devo-chiarirmi-le-idee o robe così e te resti lì marcire fino la fine del time-out”.
Intanto che la sessione psicanalitica proseguiva la mia interlocutrice ad un certo punto tirò su un calcagno sulla superficie della seduta e divaricò le gambe. Erano aperte quasi a 180 gradi che si poteva discernere l’ordito fiorato del tessuto dei fuseax e l’occhio finii per cascare lì in mezzo. Proprio lì dove anni prima avevo pazziato di ficcarci la mano. L’onda venne su dal ventre muta tipo una bolla di calore in cerca sfogo. Quell’inguine esibito con l’incoscienza degli innocenti me lo fece sì qualche effetto. Pareva lo spioncino di un locale notturno e l’invito a sbirciarci dentro in cerca di una fiaba.
La mia vicenda presente si riprese la scena ed in un paio di circostanze la saggezza di Raffaella tracimò di nuovo ai limiti del sarcasmo. Forse ho usato troppe volte la parola ‘fidanzata’ –ai suoi occhi la mia relazione era già del tutto inculata oppure il verbo ‘metabolizzare’ che tanto il tempo non risolve una cippa di niente. Ma il massimo credo di averlo raggiunto in un appassionato remember di come condividessimo il medesimo gusto di pizza. In mezzo a tanto lirismo, lì, seduta davanti a me insisteva a rasparsi proprio sotto la chiappa sinistra. Con pollice ed indice pinzava ciccia e cotone per scrollarsi via un groppo di tessuto.
Aveva le movenze del macaco che si gratta mentre provava a stirare l’elastico delle mutande e chissà in quale piega del culo doveva essersi arricciato.
A commento finale concluse: “A chi non è capitato: credevo fosse amore, invece era solo una trombata durata tre anni”.
Questa l’accusai da tanto era perfida ed anche il mio: “No, dai, non è vero” uscì bello loffio. Non m’andava per un cazzo che mettesse in dubbio quanto c’era stato ed anche nel suo sguardo insieme ad un’empatia di cartone s’intravedeva qualcosa di spocchioso, d’inutilmente severo. In altre parole, l’anima della stronza.
Insomma, la dinamica che s’era imposta in quel giardino estivo manifestava aspetti quasi crudeli. Nel mio sfogo c’era un che di plateale, di esibito tipo: che ti credi, che finora ho fatto solo lo spacciatore di polizze? Ce-le-ho-avute-anch’io-le-mie-storie, convinto che l’aria della persona profonda e combattuta mi donasse un tot mentre lei insisteva a scrutarmi altezzosa e a martellare sul dato di realtà: ero stato fatto becco e chissà che non me lo fossi meritato, in ogni caso prima mollavo il colpo e meglio era. “E spegnilo ‘sto telefono che tanto non ti cerca nessuno. Vuoi passare il prossimo semestre a fissare uno schermo nero?” e dentro il suo non detto un uomo, anzi un maschio, mica poteva farsi rullare in quel modo. C’era un sentore di scherno che galleggiava nell’aria: “Vorrai mica mandarle un messaggino di buonanotte, vero?” ed anche se non se ne rendeva conto l’atteggiamento da quella-che-se-la-crede m’aveva rovinato l’umore e demolito l’autostima.
Anche di parole ero rimasto a corto e che c’era dopo il dire? Il fare ma non mi venne nulla. Il baciare? Nemmeno anche se dargli un mezzo kilo di lingua era l’unica cosa sensata per rimettere le cose apposto. Finii la mia birretta, era la terza o la quarta e me ne andai come me n’ero venuto, in compagnia dei mie casini

Poco tempo fa durante un diecimila sotto il sole per tenere occupata la testa e resistere all’angoscia dell’acido lattico ho fatto la rassegna di tutte le donne con cui sono finito a letto: nomi, luoghi e posizioni praticate. Dalla cronologia ne sono saltate fuori una ventina secca e circa tre quarti sono avvenute il quel lasso di tempo, pressappoco un lustro, da Donatella alla mia ultima storia importante con Valeria.
E se fino a Donatella posso dire che fare sesso era un risultato, diciamo la giusta ricompensa di un intortamento ben fatto, dopo era diventato quasi una premessa obbligata, un anticipo dovuto. Per dare un’immagine se prima lavoravo come un artista da strada: mi esibivo e quello che trovavo nel cappello era il segno che lo spettacolo era garbato, dopo è arrivato il cinematografo: per entrare si pagava il biglietto e se la pellicola non risultava gradita, pazienza.
Sine-qua-non m’aveva dato per nomignolo, Alfredo intendendo che la passera veniva prima di tutto e la cosa m’aveva divertito. L’aspetto cameratesco della nostra amicizia tendeva a mandare tutto in vacca e parlare di figa&birra rimetteva ogni cosa al suo posto. La medesima foto l’aveva scattata anche Raffaella quella sera in giardino ma gli aveva dato un taglio diverso, in bianco&nero, anzi in tante tonalità di grigio. La faccia era sempre la mia ma quello che riportava l’istantanea non era proprio allegro. Che cinema avevo fatto, in fondo tanto puzzo per nulla.
Si certo di belle emozioni ne ho provate ancora ma senza girarci attorno più tanto il sesso e le scopate facili, dopo la quarantina, sono state per il sottoscritto come il metadone per i tossici: di problemi me ne hanno risolti ben pochi ma di pensieri sedati un sacco.
Nell’album dei ricordi ci stanno la domenica a Cogoleto con Valeria eppoi la polizza piazzata al Cerutti ma i particolari del sesso nella maggior parte dei casi sono quelli più vividi. Mi torna in mente Antonella che dopo avermi calato i calzoni e baciato la mazza si rivolse al sottoscritto tutta timidona per chiedermi: posso continuare? O la camera da studentessa di Lucia. Sullo stipite della porta aveva attaccato un adesivo in slang napoletano: nun se trase e mentre me la stavo scopando da dietro le alitavo nell’orecchio: io invece traso.
Alla Zanzara su Radio.24 m’è capitato di sentire Franco Califano che parlava di donne e non posso fare a meno di ammettere che in qualche sua logica mi ci sono ritrovato.
Ho provato per la prima volta pure l’ebbrezza del tradimento e nonostante le punizioni bibliche che intendevo infliggermi da me so benissimo che la cosa non l’ho reiterata solo perché la tipa aveva deciso di fare la troia one-shot.

E se la mia esistenza proseguiva sopra le montagne russe fatte dalle femmine onnipresenti per Raffaella il tempo e la vita, invece, parevano scorrere come un fiume tranquillo: bottega, casa, famiglia con una regolarità quasi militare.
Qualcosa di fuori ordinanza ogni tanto ma piccole cose senza nessuna importanza: un viaggio a Medjugore senza tappo&pelato, il latino al Mascara venerdì sera e soprattutto l’inaugurazione del suo negozio nuovo di parrucchiera dopo la chiusura burrascosa di G&G l’altro suo salone storico, anzi suo e di sua sorella Marilena. Robe così, insomma e chi è quel cinquantenne che si fa andare bene tutto? ma niente che potesse sconvolgere l’esistenza o fargli cambiare direzione. Certe cose neanche le calcolavo.
A settembre 2019, un lunedì mattina, vedo sullo schermo: Raffaella Gozzi – chiamata in arrivo.
“Ciao, Raffaella, dimmi”
“Ciao, Mauro. Ho bisogno di un favore, 10 minuti massimo, riesci a passare da me domattina?”
“D’accordo. A domani”
Il tono era insolitamente misterioso, tipo io quando ho da proporre roba puzzolente a qualche mio cliente e non voglio sbilanciarmi o beccarmi un no sul muso. Ma come detto non ci feci molto caso.
La domanda era la seguente: “Ho da fare il passaggio di proprietà dell’Audi da Antonio a me e vorrei sapere come fare per sistemare la polizza, il bonusmalus e quelle menate lì”.
La risposta risultava più che semplice ma alla fine mi scappò: “Spiegami che cazzo di operazione è questa, pagate un sacco di soldi per la pratica che tanto questa è e resta la macchina di famiglia, no?”
Al che Raffaella chiuse l’agenda su cui aveva preso appunti, rimise il tappino alla Bic, prese fiato e sputò il rospo: “Ci stiamo separando io e Antonio e questa è una delle millemila cose da sistemare. Capito?”.
Non mi salì nulla di particolarmente ispirato se non le solite frasi di circostanza tipiche dei funerali sul fatto che li credevo la coppia perfetta. Riuscì ad evitare il giochino del “Oh come ti capisco, anch’io quando ho rotto con ..”, non era certo il caso di mettersi al centro dell’attenzione. Mi resi conto che invece di una famiglia, da quel momento avevo due clienti single a cui dedicare le mie attenzioni e la cosa andava gestita con tatto. E sono bravo bravo a dare ragione a tutti contemporaneamente.
Provai a buttare lì la questione del ma-chi-ha-lasciato-chi e abboccò immediatamente: “E’ una decisione che abbiamo preso insieme” e pronunciò questa cosa come fosse un comunicato aziendale. Di solito una roba del genere significa che è stato l’altro a piantarti ma volevo evitare l’ironia gratuita.
Si alzò per andare ai fornelli, un caffè è sempre una buona idea.
E mentre metteva su la moka la osservavo da dietro. La luce che entrava dal finestrone di cucina disegnava una silhouette tutt’altro che filiforme. S’era inchiattata e dentro quella tuta da ginnastica di Raffaella pareva starcene una e mezza. Le gambe che una volta mi avevano mandato ai pazzi erano sempre un piedistallo di categoria ma era quello che stava sopra che aveva perso mordente. Il biancore della pelle invece di riflettere la luce pareva mangiarsela.
Intanto che mi riempiva la tazzina: “E’ da più di un anno che preferisce il divano al letto”.
“E’ da più di un anno che ..?”.
“ .. da più di un anno .. che cosa?”.
“ .. dai, lo sai che intendo ..”
“ .. no, non lo so se ha qualcuna. Credo di sì ma non lo so. E’ un po’ di tempo che si fa i cazzi suoi, il signor Izzo”.
Mo’ partono le contumelie a base di merda-con-la-testa-pelata o stronzo-cacato-a-forza e altri complimenti misti, ho temuto per un attimo. Nessun istinto omicida e neanche quello opposto della tragedia attica Antonio-dove-sei. Se ne stava da un’altra, solo lei sa dove.
Il silenzio è calato lì per un paio di minuti intanto che giravamo le ultime gocce di caffè.
Non venne fuori altro, se non qualche parola di circostanza e per l’ennesima volta l’indifferenza si rivelò la sua cifra emotiva. L’ho compreso, dopo un quarto di secolo.
Mi venne da dire: “Non ce la fai proprio a tirarli fuori i sentimenti, vero? Che c’hai Raffaella, un palo nel culo che te ne stai lì come la principessa di ‘sto cazzo” ma naturalmente ho tenuto tutto per me.

Dopo la frana mia e dopo la sua arrivò lo tsunami vero, la pandemia e molte cose che prima d’abitudine si facevano in presenza, presero altre strade: il bonifico bancario e wapp sono stati la salvezza del consulente assicurativo.
Risultato: pur rimanendo mia cliente, Raffaella era un po’ uscita dal radar.
L’ho rivista al bar ed era il principio di Maggio di quest’anno. Rivista in senso lato. Buttati sul frigo dei gelati c’era un mazzetto di santini elettorali. Uno recitava: NOI con VOI – Vota Raffaella Gozzi. Su uno sfondo verde speranza la mia cliente in mezzo busto si candidava a consigliere comunale per le imminenti amministrative. In foto è venuta proprio bene che non sapevo se ringraziare la mamma o la photoshoppata.
Per poco, a leggere ‘sta roba, non mi ha preso un attacco di cimurro. Giuro, in 25 anni che la conosco, di non averla mai sentita fare un ragionamento che andasse oltre il cancello di maison Izzo ed anche Alfredo, interrogato in materia, ha dato conferma: “E’ diventata matta integrale”.
Ulteriori dettagli li ho avuti da lei direttamente. Ho seguito la campagna elettorale sui social: un progetto di riunificazione dei plessi scolastici, qualche polemica di paese e retorica a gogo. E’ anche partita la litania del gruppo wapp ‘sostenitori di Raffa’ e ci sono finito dentro anch’io. Tutti giorni un messaggino di 5 parole e ogni tanto un vocale pseudo motivazionale. Un paio di volte mi sono sorpreso a riascoltarli, così solo sentire la sua voce.
Quindici giorni dopo, per combinazione, ho avuto l’incarico di presidente al seggio elettorale 1 e da regolamento, lunedì 13 giugno, il sottoscritto, in giacca&cravatta, visti i risultati ha proclamato i nuovi sindaco e consiglio comunale. La lista di Raffaella è arrivata terza su tre e la nostra aspirante Angela Merkel respinta
Al ritorno dal comune sono passato in piazza a Bondeno e c’erano ancora le luci accese al comitato NOI con VOI . Erano le 10 e mezza di sera e più nessuno in giro. Sono entrato, così, senza motivo apparente e seduta lì su una poltroncina c’era solo MariaGrazia e teneva in mano il riepilogo dei dati elettorali.
Sembrava il Quarto stato del fallimento umano, una 56enne neosingle ed exfiga, sciupata più che invecchiata e delusa da tutto&tutti, nessuno escluso.
Un smorfia amara che non c’assomigliava ad un sorriso neanche da lontano: “Visto che risultatone? La Gozzi trombata”.
“Si, l’ho visto. L’ho fatto io spoglio”.
“Due voti, ho preso”.
“Ed uno dei due te l’ho dato io”. Sono io l’altro che ha messo la crocetta sul suo nome e credo solo ed esclusivamente per la passata fighitudine. Un gesto poco meno che dadaista, mi son detto ma così m’è venuto.
“Ah, davvero? Sei un amore”, gli è scivolato fuori
E lì ho allungato il collo e la lingua finalmente dopo un quarto di secolo secco gliel’ho messa in bocca. E’ andata così, senza che ci fosse ne un perché e ne un perché no. La sensazione è stata singolare, una novità assoluta, non c’eravamo mai sfiorati, neanche dati la mano e in sei secondi le stavo palpando le tette. Sotto il vestitino di maglia c’era più reggiseno di carne e le sue di mani le aveva posate sopra le mie ad assecondare il gesto.
Eravamo solo due lingue, poi, dopo un attimo, una sola
Il resto, come detto, venne da sé. Mi son tirato su in piedi e calato le braghe e la già Izzo, capì senza necessità di discorsi.
Ho visto di recente su youtube un tutorial sul sesso orale, lo definiscono così adesso ossia come prenderlo in bocca a modino. Una plotone di trentenni che pare uscito da uno spot Benetton ammonisce: in primo luogo evita ogni spinta sul cranio della lì presente verso il basso o in avanti. Pare che premere sulla nuca sia una pratica di pessimo gusto così come, in assenza di un contratto notarile preciucciata, verboten venire così ad cazzum.
Beh se quella era la nuova catechesi feci l’esatto contrario ed è la medesima dinamica di quando ci si sfonda di alcolici. A che serve dire che è una roba infantile o una maniera per tirare fuori i propri istinti peggiori? A niente, tanto ero convinto del contrario. Sdrumarglielo in bocca, il mio tubo da impalcatura, fargli sentire sino in fondo alle narici di che aroma di spezia sapessi erano il modo più diretto per dire: io ci sono.
“Smammellami, che sei un amore”. E si dava da fare: solo bocca, lingua ed un elastichino viola a farle la coda di cavallo. C’era un po’ di ricrescita grigia ma la cosa rendeva tutto più autentico. Le mani, infine? Da mettersele nel culo che tanto servivano a niente. A dirigere il traffico bastavano le mie.
Quanto avrò resistito: un paio di minuti o forse trentotto secondi. Ma tanto non me ne fregava un cazzo. L’unica cosa che contava era riempirla in gola.
A bocca spalancata lo sperma che copriva le otturazioni dei molari faceva un effetto straniante, tipo le robe nei musei d’arte contemporanea.
Una zoccoletta una volta mi raccontò che la sborra è l’anima dei maschi che straripa e dopo l’onda di piena quando la marea si ritira resta solo il fondo del mare coperto di ciarpame ed è la verità: ero solo cocci di me. Ed era come non ci fossi più.
Saremmo potuti diventare amanti e Dio solo sa quanto ne avevo voglia di qualcuna che si prendesse cura di me. Era la trombamica ideale, Raffaella. Al momento non uscivo con nessuna, figuriamoci il resto e dato che mi diventava duro anche solo se tirava il vento, che mi sarebbe costata un po’ di dolcezza, anche ruffiana? Una carezza o un bacino in fronte o la parolina giusta?
Ma non ce l’ho fatta a trattenermi: “Chissà quanti ne avrai succhiati da quando ti sei separata? Sei proprio una troia, figlia mia”.
Non c’era un solo motivo sensato per cui dire quelle parole, non coltivavo nessun senso di rivalsa ne da quella sera in giardino e neanche dopo e giuro, a letto con lei ci sarei andato volentieri.
Ed invece no, la lingua non sono riuscito a metterla a cuccia. Forse è roba da psicoterapeuta, uno bravo bravo o forse più banalmente volevo solo starmene per i fatti miei a covare le mie rogne e, dunque, o me o lei. Non c’era posto per tutti e due ne su quella poltroncina ne nella mia vita e quindi: levati di mezzo, Raffaella.
Mi sono riallacciato la cintura e via.
Intanto che salivo in macchina, ed erano le undici suonate, m’è scappata una madonna.
La troia, un po’ l’aveva mandata giù e un po’ no e aveva finito per inzaccherarmi la cravatta, la mia prediletta, la capitana. E come potevo fermarmi al bar Orlando, così sudicio e di fresco?
A casa mentre mi lavavo i denti mi sono visto dentro lo specchio del bagno: non avevo una bella cera e non solo per il sonno arretrato. Mi sentivo un filo di spossatezza leggera quando m’è ripassata davanti tutta la serata e non è stato piacevole scoprire come la vita mi stesse macinando.
Prima di chiudere gli occhi ho tirato il cassetto del comodino per riporre la tessera elettorale. C’erano la mia prima busta paga Datamedia, i quadrettati con le poesie per Katharina e l’Interrail 1990 e mille altre cose: insomma i ricordi di quando sono stato felice. Avessi avuto un souvenir di quel 13 Giugno non sono certo sarebbe finito lì dentro.
Alzare le spalle, però, m’è sempre venuto facile e nei giorni successivi questa avventura l’ho raccontata in giro.
Alfredo: “Che storia, zio”, naturalmente omettendo che la bocca in questione fosse quella della sua già cognata. Un brindisi è capitato di fare alla fellatio mirabilis e quello che è rimasto impresso e argomento di presa per il culo riguardava il destino della Capitana. Chissà quando la tintoria me l’avrebbe restituita? E in che condizioni? Scommetto che nei prossimi giorni non si ragionerà d’altro.

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