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Racconti Erotici Etero

VENTO DEL MADAGASCAR

By 1 Giugno 2005Dicembre 16th, 2019No Comments

PREMESSA

Mi chiamo Sveva, e non saprei definire con precisione il mio carattere. Le vicende che vi narrerò sono avvenute durante gli anni Venti di questo secolo, e riguardano la mia vita di donna.

Serbo tanti, malinconici ricordi dentro di me, nel mio scrigno dorato, dove tengo chiusi i pensieri più affettuosi di tutta la mia esistenza. E ciò che vi narrerò ora &egrave soltanto una parte di me stessa.

Ripercorro, a bordo della mia Bugatti rossa, la strada romantica che da Yverdon conduce in Francia.

Lascio dietro di me sogni, brividi, desideri fugaci, illusioni perdute, castelli consacrati all’immenso, e, forse, fantasmi. Vedo i grandi alberi secolari, i miei amati ippocastani, i laghi. Sorrido, i bei boccoli al vento, le labbra rosse, fatte per regalare desideri a chiunque mi conceda i suoi cari sguardi.

E se vorrete leggere le mie parole, scritte con il lapis rosso sul mio diario di un tempo, vi narrerò dei misteri incantati di un lago, di passioni ardenti, nate per bruciare e trasformarsi in cenere, di leggende, e di un’isola lontana, chiamata Madagascar, dove corrono i miei pensieri più felici.

Un giorno, ne visitai la capitale, Tananarive, viandante tra i viandanti, passante tra i passanti, vestita con un abito fatto di conchiglie e foglie di palma, e di un velo colorato.

Ne contemplai il magnifico abitato, adagiato sui pendii di alcune colline granitiche, ad un’elevata altitudine, disponeva di edifici dalle strutture eleganti e raffinate, costruite dai francesi secondo il loro gusto d’oltremare, vi erano altresì case in legno e muratura, tra le quali spiccavano le sontuose dimore dei patrizi.

Oh, vidi la Casa d’Argento, la meravigliosa Casa d’Argento, dalle guglie scintillanti, e il palazzo della Regina’

Una nuvola dorata avvolge queste immagini, e le porta per sempre via con sé.

Qui &egrave autunno, e le foglie dei faggi si tuffano sullo specchio bianco del lago, antiche dimore costruite in tempi lontani sembrano ergersi come per magia dalle profondità blu di quelle acque, e scintillare di riflessi di perla. Una dea dalle mani candide &egrave salita da quegli abissi, per regalarmi un bacio sulla guancia, e raccomandarmi di confidare a voi questi miei sogni perduti.

Un giorno, mi tuffai follemente in quell’acqua placida, che lasciò il mio corpo eburneo e nudo ricoperto di alghe, dopo avergli regalato una sensazione di gelo e di fuoco insieme.

E’ lo stesso, lievissimo brivido che mi accompagna da sempre.

Marsiglia, 15 settembre 1956.
Un viso ovale, due occhi lievemente infossati, d’un azzurro cupo, dei capelli lunghi, dorati, dai riflessi fulvi.

Una bocca piccola, due labbra tinte di un rosso leggermente pallido.

La carnagione rosea, come del resto vale per molte giovani della mia età. Questo &egrave il mio ritratto. Ve l’ho già tracciato altre volte, in altri racconti, se ben ricordate.

Allora, lo ricordo bene, ero bella, bella di una bellezza melanconica che forse dura fino al presente.

In quel tempo, studiavo nella scuola di N., in Svizzera, ed ero molto lontana dal mio paese natale. Mi accorgevo di come, a poco a poco, la mia vita fosse cambiata, e stesse ancora cambiando.

Attraversavo sovente dei momenti di felicità, venati di tristezza.

Ricordavo come in sogno i lieti momenti trascorsi a casa, nell’antico maniero di famiglia, nei tempi felici in cui i miei genitori erano ancora in vita.

Giocavo con loro, facevo a girotondo intorno al castello con i miei amici, regalavo le margherite al vento, e quando facevamo ai fantasmi, ero l’ultima ad avere paura.

Era forse in questi ricordi che allora cercavo rifugio, quando l’esistenza mi diveniva impossibile.

Poi, l’amarezza si dissolveva, ed i miei occhi ritornavano lucenti, come quelli di una ragazzina che si affaccia per la prima volta sulla soglia misteriosa della vita, per riceverne dei baci.

Tra le tante persone che conobbi al collegio, ricordo il pallido e severo direttore.

Era un uomo alto, un po’ attempato, con dei baffetti neri e il portamento altero. Indossava sempre una giacca blu, con i bottoni d’argento. Era paterno e buontempone, a volte, però anche un po’ severo.

Sovente mi capitava di parlargli.

Quando entrava in classe, e faceva l’appello prima di cominciare le lezioni, il mio sguardo era quasi sempre chino. Lo sogguardavo, quando entrava, ed una soggezione vaga mi prendeva, allorché vedevo il suo abito blu, d’una eleganza inglese.

Il mio timore reverenziale non gli piaceva, o forse mi avrebbe preferita meno sensibile.

Quando mi chiamava, io alzavo appena le belle ciglia nere.

Allora diceva:

– Su quella testa, signorina, su, coraggio!

Nel corso della lezione, di tanto in tanto, i nostri sguardi si incontravano. Avevo l’impressione che mi corteggiasse.

Le mie compagne si accorgevano di come, non di rado, gli occhi del direttore mi sfiorassero con passione.

Forse, erano invidiose, e me lo facevano capire sottovoce. Io arrossivo, riuscendo a malapena a prestare attenzione alle spiegazioni e ai discorsi del professore. Alcune ragazze dispettose, mi tiravano le trecce.

Poi, il campanello suonava.

Il resto delle lezioni, per me, era un po’ noioso. Nondimeno, lo studio mi impegnava assai.

Di tanto in tanto, il direttore mi chiamava nel suo ufficio.

Io entravo sempre timorosa, temevo i suoi rimproveri.

Tenevo il capo chino, e gli occhi bassi, ma sovente, quelle che mi sentivo rivolgere, erano lodi, dette da quell’amichevole personaggio, che stava seduto alla sua pesante scrivania di legno scuro, fumando un sigaro, gli occhi assorti e trasognati.

Eppure, non di rado, a quei complimenti erano mescolate parole di rimprovero.

Infatti avevo delle compagne antipatiche, forse crudeli. Erano invidiose. Provocavano dei guai, e poi lasciavano cadere la colpa su di me. Il direttore, allora, mi sgridava severamente. Quasi piangevo. Ero sensibile, sì.

Mi sentivo dire da quella voce virile:

– Signorina, lei &egrave molto indisciplinata, lo sa? Lei &egrave molto indisciplinata e le assicuro che non potremo più tenerla con noi, se continua a comportarsi in questo modo.

Allora, spesso i miei occhi si bagnavano di pianto.

E piangevo sempre come può piangere una bambola.

Il vecchio se ne accorgeva, ma il suo volto rimaneva cupo, e le sue lunghe frasi, inclementi. Alla fine, però, cercava di raddolcire la durezza dei suoi rimproveri con parole affettuose, e con una carezza sulla guancia.

– Sì, lei &egrave molto fragile, signorina… Si consoli.

Allora, mi parlava in tono paterno.

– Su, non piangere. La vita non &egrave poi tanto dura.

A volte mi abbracciava, come un padre può abbracciare la propria figlia.

Talvolta, mi chiedevo perché, fra tante collegiali, egli amasse proprio me. Ripensavo spesso alle sue frasi, sulla felicità, sulla vita. Erano pronunciate con la serenità e la pacatezza di un uomo maturo, vissuto, senile.

Mi confortava, ed era forse grazie a lui che riuscivo a sopportare gli scherzi crudeli di certe mie compagne. Erano gesti infantili, che mi facevano piangere. A volte, mi facevano lo sgambetto, e io cadevo per terra, facendomi male.

Fu quella la dolce stagione in cui Venere venne a trovarmi per la prima volta. Mi trovò timida, impreparata, chiusa in me stessa, ma piena di voglia di godere e di desiderare.

Fu per caso che scoprii i piaceri dell’autoerotismo.

Avevo da poco raggiunto la maturità, ero rimasta sola in un’aula grande, mi ero seduta languidamente su uno dei banchi di legno, le belle labbra rosse semiaperte, bramosa di non so che… forse, di cose inconfessabili, degne soltanto di un sussurro.

Una voce mi chiamava dal sogno, mi insegnava ad accarezzarmi e ad essere felice del mio corpo di donna. Avevo sciolto i miei lunghi capelli, sapevo di essere bella, in quegli istanti.

Era come se una nuvola turchina e dorata mi avvolgesse, e mille diamanti invisibili scintillassero intorno a me. Alle mie spalle, c’era la vecchia lavagna, e la cattedra, sulla quale avevano messo il mappamondo di legno.

Le mie dita accarezzavano sapienti la mia femminilità perduta, e così fatalmente ritrovata.

Sognai.

Tenevo gli occhi chiusi, le belle ciglia nere abbassate, mentre brividi di piacere percorrevano senza sosta il mio bel corpo formoso, fu così che scoprii un fuoco, quel fuoco, che mai avrei dimenticato.

Oh, le mie labbra semiaperte, trepidanti… Erano ancor più rosse, in quegli istanti, e non riuscivano a frenare incontenibili sospiri, o forse, lamenti, di passione.

Sussurravo soltanto un nome, quel nome… Venere, Venere, Venere, Venere…

E se mi avessero scoperta? E se fosse arrivato il direttore, o la peggiore delle mie nemiche? Ah, ero sicura che se soltanto Berthe mi avesse vista, in quegli istanti, mi avrebbe fatto una linguaccia, e sarebbe corsa subito a dirlo a qualcuno.

Sì, perché quella era una cattiva, che mi odiava.

Io però non odiavo nessuno. Ero timida, riservata, vogliosa d’affetto. Non di rado, però, ve lo confesso, mi scoprivo tutta intenta a fare la corte al caro direttore, di cui già vi ho parlato.

Poteva accadere che gli posassi amorevolmente la mano sulla spalla, o gli rivolgessi un sorriso languido.

E se lo incontravo per i corridoi, o sulle scale, lo urtavo di proposito, fingendo fosse stato un incidente… Allora, arrossivo, e non osavo confessare a me stessa di essere donna di ogni desiderio proibito che ardeva in me.

Una volta, avevo provato a mettermi una gonna che mostrava le gambe, e un paio di calze a rete… Era stata una follia. E mi era anche capitato di fare la corte, per caso, a qualcuna delle giovani mie compagne.

Avevo un’amica.

Era un’anima buona e gentile, che mi stava sempre accanto.

Studiavo insieme a lei, le facevo delle confidenze, così come a volte accadeva con il direttore. Gli anni trascorrevano così, dolcemente e malinconicamente.

Presto, i miei studi terminarono. Lasciai per sempre la Svizzera, le mie compagne e il buon direttore. Avrei avuto dei ricordi dolci, velati da una tenera nube di malinconia.

Il treno partiva dalla stazione. Io rivedevo per l’ultima volta le Alpi, il cielo azzurro di quei luoghi, i laghi profondi e belli, incorniciati da boschi e da castelli.

Non era tristezza, quello che provavo. Sapevo che non avrei mai più ritrovato i miei genitori, che se n’erano andati per sempre. Avrei incontrato Pierre, il mio amico del cuore, che non vedevo dall’infanzia.

Era maggiore di me di cinque anni, e da piccola ero stata affidata a lui.

Non osavo pensare alla vecchia zia, che abitava con me nell’antico maniero, e mi era tanto antipatica. Durante il viaggio, mi chiedevo che cosa avrebbero detto di me mia madre e mio padre, se mi avessero vista.

Non riuscivo ad immaginare i loro volti, eppure, mi sembrava fossero così vicini.

“Volevate che studiassi in Svizzera, che fossi istruita” dicevo “ed eccomi qui. Sono partita bambina, e ritorno donna. Lo so, purtroppo, i vostri sguardi non possono toccarmi, e la mia voce non può parlarvi, ma vi amerò sempre.”

Rivedevo i luoghi ameni dell’infanzia.

Li salutavo con il cuore, e mi accorgevo mestamente che erano cambiati.

Dicevo dentro di me che non li avrei mai più lasciati, e che non mi sarei mai più allontanata da quell’amato paese, che mi aveva donato la vita.

Illusioni!
La stazione era così grigia… non era cambiata, dall’ultima volta. Il treno a vapore si fermò lungo il binario affollato con dieci minuti di ritardo. Presi la valigia, ma mentre scendevo, venni accolta da un caro abbraccio, che già conoscevo.

Rividi un volto amico, il suo volto.

– Pierre! Sussurrai, stringendolo forte, piena d’affetto.

Forse, non mi riconosceva, da quanto ero cambiata.

– Dio, come sei cresciuta – mormorò.

Gli occhi suoi erano azzurri come un tempo, gli accarezzai le guance, che erano ricoperte da una peluria dorata. Mi accorsi di come, da lungo tempo ormai, la mia vita fosse cominciata.

Mi credevo ancora bambina, ma ero già donna.

– Vieni – mi disse, prendendomi per mano. – A cassa, alla tenuta, ho parecchie cose da mostrarti.

Rivedere quei luoghi ameni fu per me riscoprire una felicità perduta, racchiusa nello scrigno dei ricordi. Soltanto una nube velava la mia serenità. Sapevo che ad attendermi c’era la nostalgia senza fine dei genitori.

Salii nella bella Bugatti rossa, dopo aver regalato al mio caro amico un bel bacio sulla guancia, che lasciò il segno del rossetto per qualche tempo.

Percorremmo sempre in automobile il lungo viale alberato che, attraverso il parco, conduceva al maniero.

Scendemmo.

Sulla soglia, vidi la zia Cecilia. Era invecchiata parecchio, e non so dirvi quanto fosse pallida. Quando le passai accanto, la sfiorai appena, e lei si scansò. Sapevo che lei abitava in un’ala particolare del castello, perciò ci saremmo viste soltanto di rado.

Malgrado fossi piuttosto stanca, al termine del lungo viaggio, mi lasciai prendere per mano da Pierre, che volle mostrarmi come fosse cambiata la tenuta. Mi fece vedere anche il lago, che era bianco, di zaffiro, come un sogno lontano e perduto.

Camminavamo nel parco, all’ombra dei tigli secolari, quando lui, appassionatamente, mi disse:

– Ricordi, amica cara, quella ciocca di capelli?

Io gli sorrisi.

Sì, me la ricordavo, ed i miei occhi glielo rivelarono.

– La ciocca di capelli che, ancora bambina, tu mi donasti… – mormorava.

Quando gliel’avevo regalata, i nostri genitori erano ancora vivi. Lui si accostò al mio orecchio, e giocando malinconicamente con i miei capelli, mi sussurrò:

– L’ ho conservata, per sempre.

Io mi accorgevo della brezza che agitava melanconicamente i rododendri, e faceva sentire la sua voce flautata tra le fronde. Pareva narrasse storie fantastiche, di principesse incatenate in fondo al lago, di elfi, e alberi parlanti, o forse, svelava il futuro.

La mano di Pierre cercava furtivamente qualcosa, in una tasca della sua giacca. La prese e me la mostrò.

– Ricordi? – mi disse. – Te la tagliai prima che tu partissi, quando i tuoi erano ancora vivi. Tu scherzavi, e mi dicevi di non farlo. Ho dovuto rincorrerti a lungo prima di riuscire in quella birbonata!

Diceva anche che i miei capelli erano meravigliosi, ma che in quegli attimi erano ancora più belli.

Allora, ero giovane. I miei sentimenti, così come la mia vita, fiorivano.

Il mio amico del cuore mi fece salire sul suo cavallo bianco. Visitammo così parte della tenuta, senza che una sola parola turbasse il delicato silenzio di quegli istanti. Egli mi mostrò anche il boschetto di faggi e di querce, che, da quando ero partita, non era mai stato tagliato.

Rividi anche i ruscelli, limpidi e cristallini, dove guizzavano i pesci e il sole giocava a scintillare, le cascate, fresche e gorgoglianti, che la leggenda diceva stregate. Sì, c’erano state le streghe del bosco, le avevano colpite con i loro sortilegi, e così, a mezzanotte, da esse sgorgava vino profumato.

Scendemmo dalla collina sulla quale gli antenati avevano voluto collocare una grande statua, dedicata a Napoleone, che però allora era ricoperta di edera.

Ci fermammo ad una fonte, perché avevamo sete.

– Avevo nostalgia di questi luoghi – mormoravo.

L’occaso tingeva del suo fuoco le antiche torri del maniero, che sfioravano le nubi violacee che precedono la notte. Era l’ora di cena.

Pierre mi coccolava. Sapeva viziarmi.

Non di rado, mi stringeva affettuosamente tra le sue braccia. Era più di ciò che potesse fare qualsiasi amico.

Mi sembra di rivederlo, con quella sua bella giacca di velluto verde, lunga, quasi una redingote, i calzoni bianchi, gli stivali di cuoio neri. Amava cavalcare. Era una passione che nutriva sin dall’infanzia.

Una volta, mi ero trovata in pericolo, stavo per cadere giù da un burrone. Il mio cuore batteva furiosamente nel petto per la paura. Mi tenevo aggrappata a un cespuglio, presto non ce l’avrei più fatta a tenermi.

Poi, però, era arrivato lui, che mi aveva salvata. Sì, gli dovevo la vita, e questo contribuiva a ravvivare ancor più l’affetto indicibile che nutrivo nei suoi confronti.

Se qualcuno mi maltrattava, Pierre mi proteggeva sempre. Ricordo che una volta aveva imbracciato il fucile per me.

Era un gentiluomo. Sapeva baciare. E lo aveva già fatto con me tante volte, era stato sempre così bello!

Mi chiedevo, quando ero sola, come avrei trascorso il resto della mia vita. No, mi dicevo, non mi sarei mai separata dal mio Pierre, e dalla grande tenuta in riva al lago, dove volevo vivere per sempre. Ero così giovane.

Non conoscevo l’esistenza, non conoscevo il destino. Avevo soltanto due mani bianche, fatte per accarezzare, e un’anima, fatta per morire d’affetto.

Quel giorno trascorse, e poi ne vennero mille altri.

La notte, sognavo sempre i genitori morti. Avevo delle visioni, e mi appariva tristemente l’istante in cui la morte aveva voluto portarli via con sé. Li vedevo avvolti in una nube dorata, magica, e le loro voci mi parlavano. C’era un giardino immenso, un gregge bianco… non ricordo altro.

Non parlavo mai a nessuno di questi miei pensieri, nemmeno al caro Pierre. Erano come dei piccoli segreti, vaghi e sublimi, quanto il mistero.

Una volta, il mio amico del cuore era tornato da cavallo con i capelli al vento, io gli ero corsa incontro, e l’avevo stretto forte. Eravamo soli, e lui aveva cominciato a toccarmi affettuosamente.

Le dita sue già vagavano sulle mie forme muliebri e dolci, quando io gli strinsi forte la mano, e gli proposi di fare una corsa. Egli mi seguì, devoto ed ubbidiente. Sapevamo entrambi di essere già schiavi della passione più ardente.

Entrammo nella mia camera ed io chiusi la porta a chiave. Poi, spogliai il mio uomo.

Volli sentire le sue labbra dolci sulla pelle. Volli sperimentare il tocco affettuoso della sua lingua. Lo invitai a sfilarmi le belle calze a rete, che indossavo per lui, con la bocca.

Lui lo fece, e quello fu per me, vi giuro, il primo saluto di piacere.

Teneva strette le mie caviglie tra le mani, mentre contemplava le mie belle gambe, che avevo mostrato a pochi, prima di allora.

– Aspetta, ti prego, ho paura – gli dissi, con la mia voce di ragazza timida.

Poi, però, sorrisi.

Nessuno poteva sentirci, nessuno, nessuno… Lo volli dentro di me, nudo, desiderai le sue spinte forti ed impetuose, eleganti e appassionate al tempo stesso. Gridai per lui.

Piansi, sì, piansi per l’orgasmo folle che, come fiamme, ci divorava. Lo sentivo sempre più lungo e rigido nel mio corpo, non l’avevo mai fatto prima di allora, no, non l’avevo mai fatto.

Egli se ne accorse, e mentre entrava e usciva dal mio grembo, mi carezzava i bei capelli, per consolarmi. Oh, ma vi confesso che bastò quel fuoco, per calmare ogni mia angoscia. Ansimavo e piangevo, gridavo e mi muovevo appagata in quella corsa inarrestabile.

Accadde sul letto, che poi mi affrettai a ricomporre, per evitare qualche cattivo indovinasse quale era stata la nostra felicità.

Non vi nascondo che capitava spesso che baciassi Pierre sulla bocca. Sì, le mie labbra languide toccavano le sue, poteva succedere lungo la riva del lago, al chiaro di luna, o dietro le belle siepi di rododendri. Una volta, la zia Cecilia ci aveva visti, e io avevo udito la sua voce di fuoco, mentre gridava e bestemmiava.

Quella vecchia rugosa era diventata tanto crudele, dal giorno in cui il figlio che tanto amava se n’era andato di casa, senza fare più ritorno. Dicevano che avesse sofferto tutte le sventure che la vita potesse offrire. Io sapevo che amava collezionare animali morti. Sì, le piaceva veder soffrire i poveri scriccioli del bosco. Per il resto, non sapevo molto di lei.

Una notte, mi svegliai improvvisamente. Erano le due. Non riuscii più a prendere sonno, mi rigiravo nervosamente tra le lenzuola, piena di agitazione. Qualcosa mi turbava. Mi alzai. Ero sola, al buio, nella mia camera, avvolta soltanto nella mia vestaglia di pizzo bianco.

Presi una candela, la accesi. Mi avviai verso la porta. La aprii e uscii lentamente, senza un sospiro. I miei pensieri mi condussero lontano, non sapevo dove, né per quale ragione. Una mano bianca aveva stretto la mia, e mi guidava così.

Mi dirigevo verso l’antica torre, a ovest, la più alta del maniero.

Salivo le scale, gradino dopo gradino.

Le mie mani tremavano, la candela accesa spargeva attorno a me una tremula luce. Provavo tutto il turbamento e l’incanto di una notte in cui, lo sapevo, avrei scoperto qualcosa. A poco a poco, giunsi sulla soffitta, aprii l’uscio, che mi lasciò passare cigolando.

Entrai, sola e addormentata.

La luce della luna penetrava dalla finestra con il vetro rotto. E mi mostrava così una stanza in cui ero entrata soltanto poche volte, nella lontana infanzia.

Tutto era silenzio. Udivo soltanto il mio respiro, lento e regolare.

Mi accorsi della tenera luce lunare, di quanto gentilmente entrasse e di come disegnasse languidamente le ombre, languida amica della notte.

Attraverso quella finestra vidi il cielo, limpido e stellato. Oh, le stelle erano talmente grandi, così grandi e vicine, che… oh!

Com’era azzurro quel cielo notturno! E quanti astri illuminavano vagamente l’immensa notte! Inaspettatamente la labile luce della candela mi mostrò, smarrito in un angolo, un foglio scritto, un po’ ingiallito.

Era il destino a porgermelo.

Lo presi, ma i miei occhi timorosi non osavano toccarlo. Era una lettera, piena di cancellature, scritta con una calligrafia strana. Leggevo:

“Amico mio,

domani tutto sarà finito. Sembrerà un fatale incidente, anche se non lo sarà. Ora che il testamento &egrave stato modificato a mio favore, non hanno più ragione di vivere. Lei mi ha insultata, e morirà insieme con lui.

Nessuno verrà mai a sapere di questo fatto, te lo assicuro. Tutti piangeranno, piangerò anch’io, ma le mie saranno le uniche lacrime di gioia.

Riceveremo così in eredità tutto ciò che la nostra fantasia ha sempre immaginato. Con chi mai potrei goderne, se non al tuo fianco? I miei occhi scintillano di felicità al solo pensiero di questo dolce avvenire.

Preparati.

Sarai tu ad agire, come convenuto. Mi fido del tuo ingegno, credo nel nostro patto e confido nella passione che, lo sento, ti ispiro.

A presto.

Cecilia”

Mi accorsi fatalmente che la data della lettera era esattamente quella del giorno precedente quello della morte dei miei genitori. Su di un altro foglio c’era scritta questa frase: “mi libererò di lui non appena mi sarà di troppo.”

La tristezza mi velò gli occhi di pianto, sentii il rumore del mare, il muggito delle sue onde spumeggianti, oh, sì, quel mare che non avevo visto mai, e che avrei conosciuto in futuro, allora, mi parlò.

Perché, vita, ci fai conoscere il male soltanto quando &egrave irreparabile? Il volto odioso, ricoperto di rughe, della zia Cecilia, mi stava davanti.

Ora mi sembrava di capire che cosa si celasse dietro i suoi sguardi cupi, e le sue parole amare. Improvvisamente, però, sentii dei passi.

Vidi un’ombra, che si disegnava sul pavimento. Una mano, una bianca mano, si posava sulla mia spalla. Per un attimo, avevo tremato, credendo che fosse lei.

– Sono io, amica mia – mi sentii dire.

La malinconia bianca della luna mi mostrò il volto dell’amato Pierre.

– Gli occhi tuoi sono velati di tristezza. Hai forse pianto? E se sì, perché mai? Che cosa c’&egrave al mondo, di cui io non possa consolarti?

Poi soggiunse:

– E così, sei salita fin quassù… Ma non sai che &egrave pericoloso? La zia Cecilia te l’ha sempre detto, gli scalini sono di legno, tarlati e sconnessi.

Mi guardò gli occhi, e mi sfiorò le guance.

– Non posso nasconderti nulla – gli dissi. – Ho scoperto tutto.

Tacqui un istante, poi, gettandomi tra le sue braccia, gli dissi:

– E’ terribile, Pierre!

Lui mi strinse forte. Aveva cavalcato, nella notte. Me ne accorsi perché portava gli stivaloni, che erano leggermente ricoperti di polvere. Ansimava. Gli porsi la lettera. Egli la lesse, in un mormorio sussurrato e malinconico. Poi, tacque.

– Sono stati uccisi… – mi sussurrò lui.

Era stata lei, ahim&egrave! Ora lo sapevamo entrambi. Il mio amico del cuore stringeva i pugni, e mentre gli occhi suoi tremavano di collera e di tristezza, lo sentii mormorare qualcosa.

Fu come un vano lamento, ascoltato soltanto dal silenzio. Ed era in quella notte stellata e magica, in cima alla vecchia torre, che scoprivamo il fatale segreto.

Il mio amico mi mostrò, uno ad uno, gli astri del cielo, indicandomeli con l’indice.

Noi li contemplavamo immobili, mentre il dolore amaro languiva nel nostro petto. Com’era grande l’Universo! Ma era immenso, immenso!

Forse, pensavo, i miei cari mi guardavano, da qualche stella lontana. Sì, forse, il nostro male era soltanto un bagliore, un vago bagliore tenebroso, nell’immensità dell’infinito.

Rimanemmo silenziosi, abbracciati, e tristemente assorti nella contemplazione delle stelle del cielo.

Che cosa eravamo? Che cosa saremmo diventati? Da dove venivamo? Forse, il dubbio ci avrebbe accompagnati per tutta la nostra esistenza.

Al mattino, Pierre si svegliò presto. A colazione, però, non lo incontrai. Sentivo che se avessi visto i suoi occhi, avrei conosciuto una consolazione per il mio animo afflitto, ma anche un desiderio nobile di vendetta.

Pierre era uscito a cavallo.

Aveva detto che non sarebbe ritornato prima del desinare. Aveva preso il fucile da caccia, e molto denaro. Nessuno sapeva però dov’era diretto. Io che lo conoscevo, però, immaginavo tutto! Era andato al villaggio, in cerca di una persona terribile, cui ordinare la morte di…

Cielo!

Passeggiavo solitaria lungo un viale del parco, quando vidi arrivare improvvisamente Eugenia, la governante. Era trafelata. Non sapevo ancora che cosa fosse accaduto, ma dall’espressione del suo volto compresi ogni cosa.
Ansimava, quasi piangendo, mi disse:

– Signorina! Signorina! Signorina! Il signor Pierre…

– Pierre? – sussurrai, raggelata.

– E’ caduto da cavallo.

– Dove? Quando?

– Venga! Venga, presto!

La governante mi prese la mano, e cominciò a correre, trascinandomi con sé.

– E’ grave? – chiesi.

– Sì, signorina, molto…

Non riuscii nemmeno a rendermi conto di ciò che, terribilmente, accadeva. Avevo il cuore in gola, vivevo forse il giorno più grigio e triste della mia vita. Nella corsa, mormoravo soltanto un nome, quel nome, il caro e amato nome.

Che disgrazia, che disgrazia…

Non sapevo ancora come lo avrei trovato. Qualunque cosa fosse accaduta, o dovesse ancora accadere, sentivo che non avrei retto. “Vivi, Pierre! Vivi per noi, vivi per me.”

Arrivammo, e lo vidi. Era disteso al suolo, all’ombra di un albero. Immobile, aveva gli occhi chiusi.

– Pierre! – gridai.

Urlai il suo nome più e più volte, mi chinai su di lui, cercai invano di consolarlo con i miei baci, ma non si risvegliava, no, non si risvegliava, pareva che il sonno terribile della morte l’avesse rapito, per portarlo via con sé.

Lì accanto, in abito scuro, c’era la perfida zia, che sorrise in modo sinistro, prese la mano del disgraziato, gli tastò il polso, poi, sentenziò con voce arcigna:

– E’ morto.

Mi accorsi che, tra le mani, Pierre stringeva qualcosa. Era la mia ciocca di capelli.

Nell’ultimo istante, aveva pensato a me, e aveva avuto il tempo di prendere ciò che portava sempre con sé, e di stringerlo forte.

– Che cos’&egrave questo? – disse la zia.

– Che cosa? Che cosa, maledetta! – urlai.

– Questo!

La vidi prendere il mio dono, e strapparlo per sempre dalla mano fredda di Pierre.

– No, lasciaglielo! Lasciaglielo, cattiva! – gridai.

– E’ perché mai? Tanto non ha più alcun senso.

Mi chinai sull’angelo caduto. Lo accarezzai, lo baciai per l’ultima volta. Non avrebbe mai più potuto parlarmi, ma avrebbe tenuto il mio ricordo sempre con sé, gli promisi.

La fredda zia mi disse di alzarmi, che tanto non c’era più nulla da fare. Mi voltai verso di lei, e, guardandola negli occhi, le chiesi:

– Com’&egrave successo? Com’&egrave successo?

– Questa mattina Pierre &egrave uscito a cavallo – diceva, lentamente e fatalmente, Cecilia. – Ha voluto prendere quello con cui aveva meno confidenza, per una gita di piacere. Scendeva il sentiero al galoppo, quando improvvisamente il cavallo ha udito uno sparo, e, imbizzarritosi, l’ha disarcionato…

Fu una grave perdita per me.

Non avrei mai potuto dimenticare la tenerezza del mio amico del cuore, che ora mi veniva a mancare. Rimasi sola con chi mi odiava.

Non le parlavo mai. Lei era la vera padrona di casa e mi picchiava spesso. Mi dava degli schiaffi.

Mi sdraiavo spesso sull’erba, i miei occhi erano pieni di lacrime. Pensavo al povero Pierre, che avevo tanto amato. Per dimenticare gli sguardi di ghiaccio della perfida, rievocavo le mie immagini infantili.

Soffiavo sui petali di un fiore appena colto, e vedevo così comparire, in quella nuvola, il dolce ricordo della mia infanzia.

Era la mia amica del collegio, l’anima buona, alla quale confidavo tutto di me stessa. Era allegra, raggiante. Attraverso un vialetto del parco, ridente di fiori, la vedevo venire verso di me. La luce del sereno brillava nei suoi sorrisi.

Mi salutò con i suoi teneri sguardi, gli occhi suoi erano pieni di sincera amicizia.

– Ti saluto, triste sognatrice – disse poi.

– Chantal! – dissi, alzando il mio sguardo su di lei.

– Sì, sono io, qui per te…

– Come sei venuta?

– Sono stati i venti della vita a condurmi fino a te. Perché sei triste, amica mia?

– Ho pianto, ho molto pianto.

– Lo so, il tuo sogno &egrave infranto. Ti racconterò la vita, fiaba dolce e amena, in cui abita ogni mortale.

– Ho voluto vivere, ho voluto credere alla vita.

– Lo so. Ma la sorte né &egrave la cupa autrice, scrive e tace il nostro destino umano.

– Ma dimmi, cosa siamo, cosa diventeremo?

– Lo sa il silenzio, amica cara.

– La tua voce &egrave magica e indescrivibile… Sei come chiusa in una sfera di cristallo… Forse, sei una visione?

– No, sei tu, tesoro, che sogni con me ad occhi aperti.

– Ti vorrei parlare di me, di Pierre, dei miei cari…

– Povera amica cara… Che cos’ha la tua guancia?

– Tu mi accarezzi, ma non sai che c’&egrave chi mi odia. Mi hanno fatto male, sì, mi hanno picchiata con le catene…

Allora, ebbi l’impressione che la mia amica mi abbracciasse. Mi disse che sarebbe stata il mio angelo custode. Se avessi parlato con lei, le crudeltà del mondo non mi avrebbero fatta soffrire tanto.

La mia amica Chantal era un sogno ad occhi aperti, lo sentivo.

La vidi svanire nel vento. Sapevo però che sarebbe tornata.

Ricordo che un giorno mi avventai contro la zia Cecilia. Le battevo forte i pugni sulle spalle, avrei voluto schiaffeggiarla, mentre le dicevo, con tutta la forza della mia voce:

– Sei cattiva! Sei cattiva! Li hai uccisi tu! Assassina! Assassina!

– Taci – mi disse lei, accarezzandomi con la sua mano di strega. – Altrimenti, tacerai per sempre, te lo giuro.

– Carogna! Carogna! Te la farò pagare! Pagherai per i tuoi delitti! Assassina! Lo so, tu non puoi dormire, la notte. E’ il rimorso che ti rode, e ti tiene sveglia!

– Come ti permetti di parlarmi così! Io ti castigherò!

– Sei tu che ti castighi da sola, maledetta! Non avresti dovuto lasciare la lettera, quella lettera!

Eravamo nella mia camera. La perfida allora posò la mano sul mio carillon, era la cosa alla quale tenessi di più al mondo.

-. No, non toccarlo! Lascialo! No, ti prego, &egrave tutto ciò che mi resta!

Ma lei non mi ascoltava, no, non mi ascoltava. Le sue mani rugose presero il carillon, e lo lasciarono cadere sul pavimento.

Il caro dono d’infanzia andò in frantumi. Io piangevo, piangevo disperata.

– Maledetta! Vattene via, vattene via, perfida e crudele! Ti odio!

Sì, allora, l’odio scintillava nei miei occhi. La maledii.

Invano!

Il carillon era andato distrutto, e non sarebbe stato possibile ripararlo. La zia Cecilia cercava di allontanare da me tutte le mie amiche, diceva che ero malata, che ero pazza, e che presto sarebbe arrivata una carrozza, per portarmi in un ospedale psichiatrico.

Io avrei voluto che morisse, avrei voluto che avesse la stessa sorte che aveva riservato ai miei cari… Ma un bel giorno la polizia si accorse che nel vecchio maniero vicino al lago abitava un assassina.

E arrivò così una carrozza, per portarla per sempre in prigione.

Non la rividi più.

Io mi recavo sempre nel luogo in cui il mio amato Pierre aveva perso la vita, ed onoravo con il pianto la sua triste memoria.

Sentivo però che in un futuro non lontano sarei stata felice.

Non vi ho ancora narrato di alcune persone care, che abitavano con me nella dimora dorata in cui coltivavo i miei sogni. Ve ne parlerò tra poco, state tranquilli.

Io mi dicevo sempre che i fantasmi del passato non sarebbero riusciti a far sentire la loro voce nel mio futuro di felicità.

Ricordo che scherzavo con i miei amici lungo la riva del lago, il sole e l’acqua scintillavano intorno, i cigni bianchi nuotavano a pochi passi da noi, i nostri allegri schiamazzi riempivano il silenzio.

Ritornavo al castello, al dolce e maestoso castello in cui abitavo.

La lieve brezza mattutina si alzava, e spargeva lungo la riva la freschezza del lago, dove nuotavano i cigni.

I primi chiarori di un tiepido crepuscolo si riflettevano sul grande specchio d’acqua, appena increspato.

I miei occhi, sonnolenti, ammiravano così quello spettacolo naturale, come attraverso una sfera di cristallo.

Sul lago già comparivano alcune barche, come apparizioni, ed il mio sguardo intravedeva, in lontananza, le vette frastagliate dei monti.

Mi sembrava già di sentire i teporosi raggi del sole sulla mia pelle, dai quali mi riparavo con l’ombrellino.

Ero voluta uscire a fare una breve passeggiata mattutina, soltanto per godere della frescura delle prime, radiose ore del giorno, che a me parevano perle bianche, regalate al silenzio.

Avevo l’impressione che i miei pensieri si tuffassero nell’immensità di quelle acque di zaffiro, per poi riemergere, pieni di nuova freschezza e levità.

La bruma, confusa e malinconica, andava a poco a poco dissolvendosi.

Con i miei occhi di fanciulla, discernevo soltanto una vasta distesa d’azzurro, dinanzi a me. Era la superficie incantata di un mondo sommerso. Sì, di un mondo cupo e misterioso, dove si nascondevano forse i più profondi perché dell’esistenza.

Mi sentivo quasi cullata dall’armonia leggera di quel mattino.

Vidi il castello, il bianco castello dove ero attesa, riflesso sull’azzurro ceruleo del lago. Si innalzava dal sogno, come un capolavoro greco.

“Ecco, la mia candida dimora appare” mi dissi appassionatamente, quasi scherzando con me stessa.

Camminavo alacremente, con la mia andatura femminile e il mio portamento piuttosto aggraziato. Guardavo intanto le nubi che tingevano il cielo del mattino, e mi parve all’improvviso che qualcuno, affacciato alla finestra, mi salutasse da lontano.

Risposi al saluto, agitando affettuosamente al vento il mio fazzoletto bianco, di seta pura.

“Ormai sono arrivata” mi dissi, mentre un raggio di sole faceva scintillare i vetri delle finestre della mia dimora.

Sulla soglia, incontrai mio marito.

Il caro Leopoldo, svegliatosi subito dopo di me, mi attendeva per la colazione.

– Buongiorno, Sveva – mi disse a bassa voce.

– Stamane mi sono destata presto – gli sussurrai – per una passeggiata. Desideravo la frescura del mattino, che ha dileguato i veli del mio sonno.

– Vieni, ci attendono – rispose lui, stringendomi appassionatamente la mano, come faceva sempre.

Facemmo colazione tutti assieme, io, Leopoldo, e i miei due cognati, Federico e Tiziana.

Vivevamo tutti insieme al castello, uniti da un’amicizia ed un affetto assai rispettosi e nobili. Era da tanto tempo che abitavamo in quella piccola reggia fantastica.

Avevo conosciuto il mio caro marito per caso, poi, il destino aveva voluto che ci sposassimo. Egli era un uomo che voleva amare la propria donna, la sapeva accarezzare, ed amava farsi vezzeggiare dalle mie belle mani dalle dita lunghe, che potevano viziare, ma anche graffiare.

Non mi trascurava mai. Avevamo una vita sessuale appagante, regolare, felice. Io però non amavo farmi vedere dai compagni, mentre mi intrattenevo con lui. E se accadeva, arrossivo subito, anche se di piacere.

Lo facevamo nel nostro letto a baldacchino, tutte le notti, spesso, osservandoci sulla grande specchiera dorata. In quella stanza tenevo la mia collezione di bambole, e non vi nascondo che mi vergognavo un po’, sapendo che le mie silenziose amiche di porcellana ammiravano i nostri amplessi.

A volte, ci sembrava di essere buffi, più spesso, però, avevamo l’impressione di essere una coppia selvaggia, come molte altre, che non osava rivelare agli indiscreti il proprio segreto di passione. Il fuoco che bruciava nel camino ci illuminava nudi, travolti dalla sessualità più ardente.

La prima notte di nozze lo avevamo fatto secondo la tradizione, nella posizione del missionario che noi tutti conosciamo.

Leopoldo era premuroso, gli piaceva carezzarmi i seni nudi con la lunga barba nera, e non di rado mi mostrava la grande cicatrice che portava sul petto, e si era fatto in guerra.

Era il suo modo di sedurmi, di provocarmi.

Io gli confidavo timidamente ogni segreto della mia sessualità. Gli dicevo che amavo la sua lingua sulle ginocchia, sulle cosce, che la adoravo sui miei tacchi a spillo, e sui piedi dalle unghie dipinte, ma soprattutto in mezzo alle gambe.

Mi accontentava sempre.

E io accontentavo lui, soffermandomi sul suo pelo abbondante, bruno, ricciuto. Sfioravo con le labbra la sua asta che, la prima notte di matrimonio, mi aveva leggermente impressionata.

Leopoldo aveva saputo fugare ogni mio timore sessuale, facendo di me una vera donna.

Amava il mio profumo.

E avrebbe voluto non lasciarmi mai sola. Nel momento dell’orgasmo, avevo l’impressione di avere sopra di me un animale selvatico, forse, un cinghiale, i cui sensi mi stregavano.

Non smetteva mai.

Io però lo imploravo di stare attento, di stare attento, attento, attento, perché non doveva succedere, no, non dovevo rimanere incinta. Se non lo sentivo venire, allora gli prendevo sapientemente la lunga virilità tra le labbra, e succhiavo, succhiavo, teneramente, fino ad assaporare dentro di me quel liquido di fuoco, fatto per saziare le donne di ogni loro desiderio proibito.

Dopo che l’avevamo fatto, lui si addormentava sempre sul mio seno nudo.

Vi confesso che le prime volte ero timida con lui, e non accusavo il mio piacere… Poi, però, avevo imparato ad ansimare e a sospirare come fanno tutte le donne.

Come vi ho detto, Leopoldo era stato in guerra, e serbava una bella divisa blu, con fregi d’oro, oltre a contare numerose medaglie al valore, che gli erano state conferite per essersi distinto in battaglia.

Sì, egli era uomo forte e coraggioso, amante della sua donna; tirava di scherma due volte alla settimana, per non perdere mai l’allenamento. Di tanto in tanto, mi raccomandava di lucidare la sua spada: questo, per lui, era un compito che soltanto la fedele moglie di un guerriero poteva assolvere degnamente.

Con noi abitava anche Tiziana. Era una donna piena di vita, ma anche trasandata, negligente, curiosa. Le piaceva scherzare con i maschi. Le piaceva mostrare le belle gambe, sollevandosi la gonna di seta. Le ornava sempre con meravigliose calze a rete, tranne d’estate.

E comunque, tutti i giorni dell’anno la sua caviglia era sempre adorna di un nastrino rosso fuoco.

Diceva che era per tentare il suo amico del cuore, Federico.

Aveva dei seni grandi, ed era ben consapevole che quel dono le poteva essere utile per attirare come farfalle gli sguardi amici dei suoi ammiratori adorati. Portava degli abiti molto scollati, una follia, per quei tempo.

A volte, mi capitava di odiarla.

Lasciava sempre in giro le sue cose. Era sbadata, disattenta, tanto che una volta aveva mandato in mille pezzi un mio caro ricordo di giovinezza.

E una volta, che le avevo raccomandato di spolverare le mie bambole, lei lo aveva fatto, ma, fatalmente, ne aveva rotta una… Oh, sì, accidenti, le aveva rovinato un occhio, e farla riparare mi era costato una fortuna! E senza contare che era la mia preferita, quella a cui ero tanto affezionata!

Così la prossima volta avrei imparato a custodire di più le mie cose preziose. Vi confesso che le avevo tenuto il broncio per un mese, per quell’episodio.

Ah, Tiziana… Tutti i trucchi, tutti i profumi erano per lei. Non &egrave invidia la mia, ve l’assicuro… E che belle labbra grandi aveva! Che voce suadente, e un po’ birichina! Io la trovavo buffa e sgraziata allo stesso tempo.

Non eravamo rivali, vi giuro.

Dimenticavo di narrarvi di Federico.

Egli era uomo di mare e di viaggi. Lui partiva, ma poi, ritornava sempre, sempre, sempre. Non si dimenticava mai di noi, dei suoi amici più cari, e della sua donna.

Gli piaceva collezionare quadri. Disponeva di una galleria privata, alla quale accedeva soltanto lui, con una chiave dorata che teneva appesa al collo. Quelle tele raffiguravano per lo più paesaggi dell’Estremo Oriente, o dell’Africa.

Sapeva navigare, e conosceva numerose lingue.

Quando si metteva a raccontare, ci narrava sempre di storie che sapevano di fantastico e di esotico, ambientate in India o in Giappone, luoghi da lui visitati e amati appassionatamente, specialmente durante la prima giovinezza.

Diceva anche che una volta si era imbarcato come clandestino, a bordo di un bastimento diretto in Indonesia. Quando l’avevano scoperto, il comandante aveva minacciato di gettarlo nell’oceano, in pasto ai pescicani. Poi, però, l’aveva perdonato, concedendogli di proseguire il viaggio come mozzo.

Federico non era mai stato assente a lungo dal castello. Come vi ho detto, lui partiva, e poi tornava… Gli piacevano le donne. Raccontava di averne viste di bellissime, vestite di seta, con dei fiori meravigliosi e mai visti, incastonati come pietre preziose nei capelli.

Tiziana non era gelosa. Ella amava coccolarselo, e sussurrargli parole suadenti ed ammalianti, specialmente quando passeggiava sola con lui, nei mattini brumosi d’autunno, lungo il viale dei tigli. Passeggiavano tenendosi per mano, affettuosamente, tanto affettuosamente, che… oh!

Ma ora &egrave tempo di destarmi dalla mia fantasticheria, sì, di risvegliarsi da un sogno, ma soltanto per cadere addormentati di nuovo, nel blu profondo e stellato del mistero.
Come ogni mattina, una barca ci attendeva.

Era per la passeggiata sul lago.

Ero insieme con i miei parenti, che erano anche miei amici. Salimmo sulla barca, che, a poco a poco, si allontanava lievemente dalla riva.

Vedevamo il castello svanire, avvolto come in una nube confusa, che sembrava fatta d’illusione e d’oblio.

Il lieve movimento della barca, che scivolava leggera sulla superficie di specchio del lago, rapiva le nostre menti, una ad una. Le nostre parole e i nostri discorsi non avevano più alcun significato.

Vedevo i barcaioli, che remavano con un ritmo lento e regolare.

Il cielo, sopra di noi, era ingombro di nubi delicate e luminose, di cirri velati e trasparenti, attraverso i quali filtravano come spade dorate i raggi del sole, stelle perdute del silenzio.

A tratti, il lago scintillava.

E allora, i nostri volti si illuminavano, e vedevamo l’acqua accendersi di mille riflessi dorati.

Eravamo ormai distanti dalla riva e dal castello.

Eravamo ormai lontano da noi stessi e dai nostri sogni.

Noi tutti eravamo assorti, sospesi tra cielo e lago.

– Ricordi la nostra infanzia, Sveva ? – mi chiese Tiziana.

– Sì – risposi. – Siamo sempre stati amici, anche da piccoli.

– Tu eri la nostra compagna di giochi. Passavamo delle lunghe ore a giocare con i mattoncini, e a dondolarci sul cavallino a dondolo, di legno.

– Ricordo che era un tempo sereno, così come il nostro presente.

– Tu eri venuta da lontano – disse mio marito. – Anche da piccola, eri affettuosa, e sapevi già giocare a quei giochi di passione, in cui ora sei tanto brava.

Mentre parlavamo, mi accorgevo che le nostre parole erano come fuori dal tempo. Pareva si tuffassero, una ad una, in quello specchio di zaffiro, che ci stava intorno, e quasi ci avvolgeva.

I nostri ricordi ci accompagnavano come ombre di perla durante quelle ore di immensità.

– E il castello, il grande castello, mi sembrava sempre il gigante buono, che vegliava sui nostri giochi – dissi.

Erano giochi innocenti, che ci preparavano alla vita. Durarono fino a quel primo bacio furtivo, regalato per caso, con una rosa rossa stretta tra le mani, e una promessa, e forse, un addio, sussurrati tra le labbra.

Tutto ci aveva preparato all’esistenza.

Un’esistenza che non sarebbe trascorsa che lietamente, nel medesimo luogo che ci aveva visti crescere, in quella casa costruita nel Medioevo, e circondata da un bosco di aceri e tigli.

Il mio sguardo intanto incontrava gli occhi assorti dei miei cognati, e quelli un po’ più infuocati di Leopoldo, e sentivo così il forte legame che ci univa.

– Il grosso mastino mi abbaiava sempre, giocherellone, quando arrivavo, accompagnata da mia madre, sulla carrozza dorata. Capitava a volte che mi strappasse la gonna, o mi leccasse tutta, con quel suo fare un po’ buffo! – dicevo.

– Ah, il vecchio, grande mastino… Come si chiamava? Non me lo ricordo più – faceva eco Tiziana, i cui lunghi capelli dorati si tuffavano nell’acqua, come alghe. Era sempre così negligente, disattenta, anche nelle sue questioni di cuore.

– E le merende che facevamo insieme, lungo la riva del lago, alle quattro del pomeriggio, le belle giornate di maggio, all’ombra dei rododendri…

– Gli scherzi, le nostre risate infantili, il nostro fare a rincorrerci, tutto era favoloso e magico.

– Poi venne il tempo della follia amorosa…

Vedevamo la nostra prima giovinezza riflessa come su di uno specchio, poi, soltanto il presente, il dolce e ameno presente, racchiuso in una sfera di cristallo.

– Vivremo sempre qui, al castello – dicevo a Federico, che era uomo di mare, e aveva trascorso alcuni anni lontano da casa, per dei viaggi ai Tropici.

Finalmente, il sole apparve radioso, tra le nubi violette che non svanivano.

Tiziana si ricordava di quella promessa, la solenne promessa fatta ai genitori.

– Un giorno, Sveva – mi disse lei – eravamo tutti insieme sul prato, per la colazione. Coglievamo le margherite. Era una giornata come questa, brumosa e assolata allo stesso tempo, il cielo era ingombro di mille nuvole viola.

– Sì, eravamo tutti riuniti, ed io accarezzavo il bel cigno di cui ero divenuta la migliore amica – risposi.

– Facevamo festa, come sempre. Mia madre, nostra madre, aveva preparato il caffelatte e le brioches, e noi vi intingevamo delle grosse fette di torta margherita.

– Forse, allora, non pensavamo che saremmo diventati grandi, un giorno. Credevamo che la nostra infanzia sarebbe durata per sempre. Ma gli inverni imbiancavano i prati e i monti, e ad essi seguivano le primavere verdeggianti, fatte di silenzio e di mistero.

– Già dentro di noi abitava un piccolo segreto di passione e di malinconia.

Forse, era stato veramente così.

Le sensazioni che giorno dopo giorno scoprivamo insieme, erano le stesse che già conoscemmo.

– Nostra madre, che aveva preparato quel momento con gran cura – riprese Tiziana – volle prenderci tutti per mano.

– Poi arrivò anche papà – mormorò Federico.

– Sì, arrivò anche lui, con la sua vecchia pipa in bocca, che gli donava tanto. Era sempre ben vestito, con quel suo gran cappello a cilindro in testa…

– Accarezzò nostra madre, baciò i suoi lunghi capelli neri… E così promettemmo, tutti insieme.

Federico e Tiziana chiamavano mamma e papà i vecchi con cui eravamo cresciuti, anche se non lo erano.

Promettemmo di rimanere sempre uniti, e di abitare soltanto in quel luogo.

Quel castello, incantevole e splendido, sarebbe stato per sempre il nostro nido, lo scrigno dorato che ci avrebbe racchiuso.

Questa era la volontà dei genitori e dei nostri parenti.

Io, Sveva, avevo promesso insieme a loro.

Rammento che i miei occhi brillavano tanto. Ero quasi divertita, mi sembrava che tutto fosse un gioco, persino la vita.

Forse, i miei sguardi erano scintillanti quanto la superficie del lago, in quel momento.

– Non pensavamo ad un evento cupo e triste – disse Tiziana, giocando con le dita tra i suoi capelli.

– No, la nostra fantasia era lontana, amica mia, da quanto stava per accadere.

– Così lontana – fece la mia interlocutrice, immergendo la mano d’avorio nell’acqua del lago – che quando tutto avvenne, fu come una tempesta.

Ma quelle due anime non ci avevano lasciati.

Continuavano a vegliare su di noi, e a vivere nella tenera malinconia di quel luogo, a volare nel vento, invisibili anime del mistero, che forse, a volte, ci segnalavano la loro presenza con il profumo.

Erano loro, probabilmente, a donarci tanta serenità.

Anche dopo quella duplice morte, sopraggiunta improvvisamente, non perdemmo, in fondo, la pace, che era come una nebbia dorata, che ci avvolgeva tutti.

Qualcuno, probabilmente, in quell’istante ci ascoltava. Erano le anime e le voci del ricordo…

Avremmo onorato per sempre la nostra promessa, vivendo in serena armonia.

Quei luoghi ameni ci sorridevano.

Tutto, la vita stessa, ci sorrideva.

Eppure, dentro di noi, nelle nostre anime, rimaneva sopito un velo di malinconica tristezza.

Me lo ripetevo, assorta, mentre con l’ombrellino mi riparavo dal sole, ed un vago sospiro usciva dalle mie labbra rosse, fatte per baciare. Sentivo intanto il leggero rumore dell’acqua, il suo tacito gorgogliare, che narrava del mistero dei suoi abissi.

Il vento ci avvolgeva nel suo abbraccio, e le nostre parole svanivano, come sussurri, una dopo l’altra.

– Siamo troppo lontani dal mondo – sussurrò Tiziana, languidamente, come sapeva fare soltanto lei – perché il dolore possa toccarci.

Sì, abitavamo nel limbo dei ricordi e della serenità.

– E’ ora di tornare? – chiesi a mio marito.

– Sì.

Sentii l’umida frescura del lago, come un mantello di seta, sulla mia pelle nuda.

La barca si fermò, per un attimo. I barcaioli smisero di remare.

Contemplammo la riva, il mondo, che sembrava così lontano da noi, come una visione perduta, immersa nel bacio d’immenso della nebbia.

– Il grande bosco di tigli attorno al castello brilla di una luce così strana… come di smeraldo – mormorai, confusamente.

Da tanto lontano, tutto poteva apparire vago.

E in quella vaghezza morivano i ricordi.

– Torniamo – mormorò Leopoldo.

I barcaioli ripresero a remare.

Mi sdraiai.

Il mattino, in tutto il suo splendore, si era mostrato dinanzi ai nostri occhi.

Sbocconcellavo qualcosa, tanto per ingannare la noia, che, di tanto in tanto, mi assaliva. E la mia fantasia volava verso i lidi ameni della sessualità, che da sempre tutti noi consumavano nel segreto di quel luoghi magici.

Oh, un sentimento strano, la noia, così strano, che… oh! Era qualcosa che provavo di rado, e che mi rendeva silenziosa.

Sentivo la tremula voce della mia amica, che mormorava qualcosa di incomprensibile per me, poiché ero completamente assorta.

Sì, era come una musica, una melodia triste o allegra, cantata su di un’unica sillaba, da una voce bianca, accompagnata dal vento, che sapeva suonare tanto bene i suoi violini di fuoco.

Ricordavo di avere già udito quella canzone, o forse, quella ballata, ma non avrei saputo dire quando, né dove.

Mi lasciai trasportare dalle note.

A poco a poco, mi accorsi che cantavamo tutti, sottovoce, sottovoce, accompagnati dalla brezza che increspava lievemente la superficie del lago, e scuoteva teneramente le fronde dei cespugli e degli alberi che crescevano lungo la sponda.

Un alone di silenzio accompagnava quel motivo, che rallegrava il nostro ritorno a riva.

Guardavo i volti pallidi e sereni che c’erano attorno a me.

Anch’io avevo la loro stessa espressione. Anche i miei occhi si velavano, come quelli di mio marito e dei miei cognati. Era forse commozione quella che provavo, per un ricordo perduto, che non si poteva raccontare.

Mi era parso che la triste ballata ci riportasse ai tempi felici dell’infanzia.

Pensavo sempre ai due defunti. Ero così giovane, mi sentivo così fragile, senza il loro abbraccio!

Tra i capelli, avevo un fiore.

Lo presi, e mentre la barca sembrava volare sul placido lago, sulle ali dell’immenso, lo lasciai andare. All’improvviso, parve che una mano lo prendesse, lo stringesse forte, e lo portasse con sé, negli abissi turchini.

Sentii un bacio sulla guancia. Era un ringraziamento.

Una voce perduta mi aveva parlato, senza che io potessi comprendere il senso delle sue parole.

Tornammo a riva.

Vidi mio marito pensoso, mi accorsi che forse mi nascondeva qualche cosa.

Ero assorta, mi sentivo quasi confusa.

Passai tutto il resto del mattino chiusa nella mia camera, ad accarezzare le vecchie bambole, alle quali ero tanto affezionata. Alcune si chiamavano Vanessa, altre, Berthe, o Brigitte.

Ero sola con me stessa.

Mi guardai allo specchio, mentre stringevo tra le mie braccia la mia bambola preferita. La Sveva che ammiravo, altro non era che un’immagine sfocata, dissolta, nella quale non potevo riconoscermi.

Eppure, le mie labbra erano sempre fatte per i baci, i miei occhi erano sempre fatti per brillare, e il mio corpo, per amare.

– Che cosa c’&egrave? – mi chiedevo.

Sentivo di essere donna, anche se il mio volto era pallido, e i miei occhi, pieni di vaghezza.

– Che cosa c’&egrave, Sveva? – mi chiedevo.

Il sole faceva capolino a tratti, e poi ogni luce sembrava svanire, soffocata da un cielo ormai cupo e minaccioso. Mi dicevo che la nostra passeggiata era stata bella, molto bella, anche se breve.

Ma ecco, una pioggia leggera, e forse gentile, sfiorava la superficie del lago.

Lo vedevo quasi brumoso e confuso, attraverso i vetri appannati della mia finestra all’inglese.

In lontananza, lago e cielo si confondevano.

Tra le nubi, pochi, deboli raggi di sole penetravano appena.

– Volate, nubi. – mormorai, un po’ turbata, eppure quasi divertita. – Volate, nel cielo come nel mio cuore.

Ero truccata, mi sentivo bella.

Mi ricordai che non avevo pranzato.

La pendola suonava lievemente le due. Dlin dlon, dlin dlon, dlin dlon… Mi congedai dalla mia bambola preferita, dopo averle schioccato un bel bacio sulla fronte, lasciandovi il segno del mio rossetto.

Uscii così dalla camera dorata, e cercai Leopoldo.

Desideravo essere un po’ affettuosa con lui, per ingannare il tedio di quelle ore.

Quando lo vidi, pensai che forse ci sarei riuscita.

Lo trovai solo, mentre si rigirava qualcosa tra le mani.

– Salve, Leopoldo – gli dissi, posando la mia mano sulla sua spalla, gentilmente, per poi abbracciarlo, e regalargli un bel bacio sulla bocca.

Lui non mi rispondeva.

Sentivo la pioggia che, lentamente, scendeva, e quel rumore cupo, di perla, quasi mi turbava.

– Che cosa c’&egrave? Di che cosa brillano i tuoi occhi in questo istante? – gli chiesi.

– Ho trovato qualcosa – mi rispose, lentamente.

Era strano che non rispondesse alle mie premure. Egli era un uomo passionale, che sapeva amare la propria donna. Mi avvicinai ancor più a lui, e soltanto allora mi accorsi che, tra le mani, teneva un oggetto che non avevo mai visto prima.

Gli carezzai la barba, ma lui mi disse:

– Che fai?

– Nulla.

Egli mi guardò profondamente negli occhi. Sentivo che aveva qualcosa da dirmi, ma non ne aveva forse il coraggio.

Esitava.

– L’ho trovato stamane – mormorava. – Mentre tu eri uscita, ho trovato questo, ai piedi dell’acero grande, dove un tempo incidemmo i nostri nomi. Non so che cosa sia.

Sembrava una pietra azzurra.

Si sarebbe detto che il lago l’avesse dimenticata lungo le sue rive. Era celeste, sì, celeste, come l’acqua, e trasparente, come il mistero. Mi chiesi confusamente quale potesse essere il significato di quell’oggetto.

Ce lo chiedevamo entrambi.

Dissi al mio uomo che ciò che veniva dal lago apparteneva al lago, e che nessuno poteva strapparglielo.

Non era una pietra come tante altre, sentivamo entrambi che poteva contenere i nostri destini, e, forse, quelli del mondo intero.

Provai una tristezza profonda, segreta.

– Nessuno può conoscere la propria sorte, andiamo insieme a rendere al lago ciò che gli appartiene – dissi.

Avevo pronunciato quella frase appassionatamente, ma mi accorsi che il volto di Leopoldo rimaneva cupo, ed egli non rispondeva più alle mie premure, come un tempo. Sapevo che adorava i miei baci, ma non pareva desiderarli, in quell’istante perduto.

Forse, ciò che dicevamo entrambi non aveva un senso.

– Che cosa dici, Sveva? – mi chiese lui.

– Niente, niente – sospirai.

Era come se mi avesse letto nel pensiero. Come se una mano ci avesse accarezzato, per poi schiaffeggiarci.

Avevo la sensazione che avrei compreso soltanto in seguito che l’oggetto che aveva trovato mio marito era un amuleto. Perché il destino aveva voluto che capitasse in mano sua?

A chi mai apparteneva? Quali erano le sue doti magiche?

Non ne sapevo ancora nulla.

“Ah, Sveva, Sveva” mi rimproveravo affettuosamente “sei come la sirenetta del lago, piena di timori leggeri e ingenuità.”

Quel giorno mi sentivo come avvolta in un velo di incertezze.

Anche quella sera, come sempre, il lago si tinse di mille sfumature violette, mille ombre si riflettevano sulla sua acqua cristallina e vaga. Forse, i fantasmi del bosco si erano risvegliati, ed erravano sospirando lungo le rive.

Le statue di marmo del giardino parevano essersi destate da un sonno lungo e profondo, quanto un’eternità di silenzio.

Il cielo era sempre cupo.

La pioggia e il temporale, finalmente, erano cessati.

Si intravedevano appena le stelle del crepuscolo, io ero uscita, e mi godevo il fresco vicino alla fontana antica, in compagnia dei cognati.

Leopoldo non si vedeva.

Mi accorsi che Tiziana era seduta lungo la riva del lago, insieme a Federico.

Chiacchieravano amorevolmente, abbracciati, e, di tanto in tanto, si scambiavano delle carezze furtive, o dei baci. Pensavano che nessuno potesse vederli, né accorgersi della loro presenza. Mi credevano lontana.

Io mi lasciai condurre dall’umida brezza presso i tigli.

Sentivo il canto lieve degli uccelli seratini, e venivo raggiunta, a tratti, dal tenue gorgogliare della fontana.

Mi avvicinai a poco a poco a quella fonte.

Avevo sete e desideravo bere. Quell’acqua sembrava incantata e meravigliosa, sgorgava limpidissima dal cuore della terra.

Mi chinai, riuscii a dissetarmi e a rinfrescarmi il volto.

Ma mi sembrava che in quel gorgogliare, si celasse come una voce imprigionata. Udivo un suono triste, e mi sembrava di vedere riflesso, in quella vasca limpida, un volto.

Non mi allontanai, poiché quelle sensazioni mi intenerivano e quasi mi commuovevano.

– Chi sei? – mormorai.

– E’ triste, Sveva, per una madre.

Tacqui.

Poi chiesi, lentamente:

– Che cosa &egrave triste?

– E’ triste, molto triste, vedere i propri figli che si accingono a tanto… al sacrilegio e alla profanazione segreta!

Provai una lieve stretta al cuore.

Il volto che avevo visto, altro non era stato che quello della cara, defunta madre, con le belle trecce lunghe, e gli occhi che in quegli istanti erano parsi come senza pupille, pieni di riflessi d’avorio.

Un volto che si dissolveva, assieme a quella voce, in frammenti cristallini e velati come quell’acqua.

Pensai a Federico, a Tiziana.

I miei passi mi conducevano da loro.

I loro mormorii, i loro sospiri appassionati mi giungevano. La bella raccoglieva i suoi capelli biondi, che avevo visto ondeggiare al vento. Federico sembrava parlarle intimamente, forse, le narrava dei suoi viaggi, dei misteri dell’India e dell’Estremo Oriente, dei tesori del Giappone, che egli aveva visto, in qualcuna delle estati trascorse, o forse, sognato.

– Tu dici che non &egrave male?

– Non lo so, amica mia. So soltanto che lo vogliamo entrambi. Come potrebbe essere male una cosa simile?

– Era tanto tempo che speravo accadesse, tanto, tanto tempo.

– Finalmente, l’istante &egrave arrivato… il caro istante!

Lui le accarezzava i capelli, io vedevo tutto e udivo i loro mormorii.

Mi sentivo triste.

Avrei voluto fare qualcosa.

Avrei desiderato impedire che accadesse tanto, ma le mie membra rimanevano immobili.

Non riuscivo nemmeno a pensare. Mi commuovevo, amaramente, dinanzi ad una realtà tanto insopportabile.

– Mi accorsi di come i tuoi sguardi cercavano i miei, languidamente…

– Sì, ti cercavano. Sei la bambola del lago, che le mie mani di pescatore hanno tratto dagli abissi.

– Tu…

– Sì, io mi accorgo ogni mattino che il nostro affetto &egrave sempre più profondo, e come perduto, nelle nebbie che si alzano dal lago, e ci avvolgeranno un giorno, al pari di come possono avvolgere delle statue greche.

Lei diveniva esitante, e, a poco a poco, si liberava dai suoi veli.

– Nessuno lo saprà mai, non &egrave vero? – gli chiese.

– No, nessuno mai, fuorché il silenzio.

– Non confideremo mai a nessuno i segreti del lago. Moriranno con noi, insieme ai nostri abbracci.

Lui le sfiorò la fronte, e le membra ormai nude. Si strinsero forte, come potrebbero farlo due sposi, o forse, due amanti rapiti dalla passione. Avevano dimenticato ogni comune ricordo, ognuna delle lusinghe del passato moriva nella più grane lusinga del presente.

Forse, sarebbero divenute vittime della loro stessa passione.

Chiusi gli occhi.

Ma li sentivo sempre.

Sentivo i loro corpi incastrati assieme, sentivo il corpo di lui muoversi e strusciarsi lievemente in quello di lei, sentivo il languore delle loro labbra, il fuoco dei loro sospiri, il desiderio di quella carne, nuda, sulla riva del lago, fatta soltanto per essere bruciata da un bacio.

Federico aveva trovato un amuleto uguale a quello rinvenuto da Leopoldo, l’aveva regalato alla sua bella, al suo tesoro, e chissà, chissà quale sarebbero stati i riflessi di quel gesto sul nostro destino.

Fui partecipe del loro rapporto sessuale, consumato a poca distanza da me, sull’erba verde, che carezzava tanto dolcemente la pelle di lei. Durò a lungo, sì, molto a lungo.

Pensavo sempre e soltanto al membro di lui, da sempre, ve lo confesso, l’organo della copula di cui sono dotati i maschi abitava le mie fantasticherie più recondite. Sapevo che era lungo, fatto per essere toccato, baciato, e, soprattutto, per dare piacere alle donne, per entrare nel loro corpo, e farle sognare.

Era fatto per amare, e per regalare un piacere di cui forse lingua mortale non ha mai saputo narrare abbastanza.

Tiziana sapeva come eccitare un uomo. Li vidi aggrovigliati, nel fresco blu della sera, vidi lei, nuda, discernevo nitidamente le sue natiche senza veli, i suoi lunghi capelli, che le ricoprivano la schiena bianca, vellutata. Non faceva che gettare sospiri di piacere e di passione.

Lui le stava sopra, nudo, al pari della sua bella, andava su e giù, gliel’aveva messo nell’ano, sì, nell’ano, era per questo che la felice donna gridava tanto.

Il loro rapporto aveva qualche cosa di magico e incantato, ma al tempo stesso, di selvaggio. Sapeva di boschi e di foreste, sapeva dei segreti turchini del lago, che celavano nelle loro profondità un piacere inaudito.

Federico dovette farle anche un po’ male, non staccava mai il suo fallo da lei, no, mai, mai, mai… La sentiva profumata e molle al tatto, lo sapevo, ma il pensiero suo era travolto dalla passione che tradivano quei sospiri, quelle grida femminili e dolci, lasciate sfuggire da due labbra rosse, di cui io, veramente, non so raccontare.

I versi appassionati di lei vagavano nella notte crepuscolare, si confondevano con quelli più gentili e cupi degli uccelli del bosco, con la voce remota della fontana, con il sussurro del vento tra le fronde, e, forse, con i mormorii dei fantasmi.

La vidi piangere.

Sì, durante i suoi rapporti sessuali ardenti, Tiziana piangeva sempre.

Poi, prima di venire, il suo uomo glielo tolse dal didietro, lasciandola respirare forte ed ansimare per un istante.

Fu solo per poco. L’infuocato amante, infatti, non le dava pace. Stavolta glielo infilò nella vagina, e prese a scorrergliela lentamente, lentamente, con grande maestria, dopo averla fatta sedere su di sé.

Durante quegli assalti impetuosi, Tiziana aveva perduto il laccetto rosso, col quale soleva ornare la bella caviglia. Oh, che peccato…

Avrei voluto essere in lei. Oh, donna fortunata, capace di raggiungere le sommità immense del piacere, proibite alle altre figlie di Venere! Ma sì, io ero con loro, anche se non volevo, ero carne incastonata nella loro carne, e condividevo ognuno di quei giochi di sesso infuocato.

Oh, cara Tiziana, avrei voluto baciarti, baciarti, baciarti…

Lasciati toccare anche da due mani femminili, e non soltanto dalla pelle irsuta del maschio! Lascia che sogni il tuo piacere, accanto al mio!

All’improvviso, lui mandò dei versi più forti di quelli di lei, compresi che entrambi stavano venendo, vidi che la mia cara compagna aveva stretto forte tra le mani un ciuffo d’erba, come per esprimere il suo spasimo.

Ansimava, sì, ansimava forte… Poi, il suo uomo le riempì il grembo di un miele prelibato, che molte volte la vita mi concesse di assaporare tra le labbra, e di sentir bruciare, bollente, nel mio corpo.

Perdonate, per un attimo, mi sono lasciata trasportare dal desiderio… Torniamo alla nostra storia.

Gli amuleti appartenevano soltanto al lago. Forse, li aveva forgiati un gigante, nelle sue fucine, dove faceva lavorare i suoi schiavi, lavoratori neri, dal torso nudo, legati alla terra con catene.

– Ah – sospirò Tiziana, alla fine. – Che dono d’affetto &egrave il tuo… Ma stanotte mi hai fatto il dono più bello, regalandomi il tuo corpo nudo.

Lei era negligente e curiosa, come sempre, con la sua voce un po’ allegra, un po’ roca, sapeva rallegrare ed ammaliare.

– E se il lago, il nostro caro lago, ci avesse visti, con i suoi occhi di fata? Il suo pensiero e le sue mani ci hanno toccati, lo sento, mentre consumavamo il nostro amplesso di fuoco – disse lei.

– Voglio che tu m’abbracci… Guarda: &egrave come se i nostri avi si nascondessero tra le brume del lago. Guarda quella caligine cupa, che, lentamente, sale dalle acque.

– Non so che cosa sia, ma comunque, voglio che mi stringi fra le braccia.

Corsi via, quasi in lacrime.

Erano lacrime di mistero.

Forse, sapevo che la mia vita, la nostra vita, era infranta. Era come se una voce mi dicesse che non avremmo avuto più pace, no, non avremmo avuto più pace, per sempre.

Tremavo.

Doveva essere il freddo che provavo nell’anima, a darmi quei brividi.

Cercai mio marito.

Ma non lo trovai.

Nel petto provavo l’angoscia e la tristezza più infinite.

Corsi via, verso la mia camera, nella quale speravo di trovare conforto, perché era il mio paradiso dorato, in cui custodivo i ricordi più preziosi, e le bambole dorate, che mi amavano. Oh, quanto amavo giocare con le mie bambole!

Ero però talmente alterata che vedevo tutto avvolto in una nebbia viola, opaca, confusa. Era forse in quella caligine che avevo sempre vissuto, che avevamo sempre vissuto, sognando.

Aprii una porta con una chiave dorata che avevo al collo. Era la mia porta.

Entrai nella stanza. Era la mia stanza, la mia dolce camera dorata.

Cercai il letto. Desideravo abbandonarmi all’oblio del sonno. Non lo trovavo. Eppure era davanti ai miei occhi, grande, dorato, prezioso, a baldacchino.

Non riconoscevo più nemmeno i mobili, le preziose console, in ebano, le specchiere decorate d’argento, con decori che raffiguravano immagini tratte dalla vita di Venere.

“Dove sono?” mi chiesi.

Udii delle parole, ma ero io stessa a mormorarle.

Dicevo:

– E’ come se vivessi sott’acqua, in fondo al lago.

Questo sussurravo.

Questo, il mio lamentoso commento, mentre sfioravo con le dita bianche e tremanti i mobili, che erano appena ricoperti da un velo di polvere sottile.

Era come se fossi entrata in un labirinto.

No, quella non era la mia camera. E presa una bottiglia, la lanciai contro lo specchio, che andò così in mille pezzi, i quali continuavano però a riflettere melanconicamente la mia immagine, e quella delle mie bambole.

Eppure, pensavo veramente, e mi muovevo veramente in quel crepuscolo di tormenta.

Ero così smarrita, che il mio turbamento mi spinse ad entrare nella camera di mia cognata.

Vidi l’amuleto, lo vidi rossastro, illuminato dalla luce lieve della lampada. Fui tentata dal suonare il campanello, per chiamare la servitù. Forse, le mie maestranze mi avrebbero aiutata….

Non lo feci.

Su un comodino, notai un oggetto.

Lo toccai.

Era un foglio, un foglio bianco sul quale c’era scritto qualcosa.

Dovevo leggere o no?

Era veramente doveroso farlo, o avrei fatto un torto all’amata Tiziana?

Non sapevo come rispondere a queste domande, ma prima che potessi pensare a qualunque cosa, i miei occhi si soffermarono su quella calligrafia.

Era la calligrafia di Federico.

Era stato lui a lasciarle quel bigliettino. Forse, Tiziana non lo aveva ancora letto, o forse, i suoi occhi l’avevano già scrutato. Mi parve di vedere le sue pupille, e di scorgere delle lacrime bianche, che le scendevano dalle guance, prima di trasformarsi in perle, e cadere così nel lago, sprofondando per sempre nei suoi abissi blu.

Ecco che cosa lessi.

“Mia cara Ninfa,

abitatrice del lago e del mio cuore, ormai tutto &egrave compiuto, dobbiamo partire, e la nostra nave salperà per un lungo viaggio.

Ciò che ci lega, passione invincibile e ardente, leggera come le nuvole di marzo, verrà consacrato per sempre all’eternità e al silenzio.

Per noi, il mondo svanirà, nella nebbia, e saremo così liberi da ogni cosa, fuorché dal nostro eterno e immenso affetto.

La nebbia già si leva dal lago.

Odi? Gli uccelli notturni già fanno sentire le loro voci.

I nostri padri, le nostre madri ci attendono.

Noi, sposi felici del piacere, saremo così uniti in matrimonio da loro. Perché il nostro &egrave un sentimento candido e appassionato, che agli uomini non &egrave dato di conoscere.

Domani, al tramonto, mi raggiungerai. Avrò preparato la barca, e mi troverai pronto a partire. Non avremo altro compagno che l’oblio.

Federico”

Non riuscivo a pensare, a sussurrare, a fare.

Eppure, già immaginavo l’accaduto.

Quella tra Federico e Tiziana era diventata una passione folle, indominabile, e resa ancor più stregata dalla profanazione degli amuleti, perché chi profanava gli amuleti, profanava il lago.

Posai la lettera sul comodino.

Sentii dei passi nel corridoio. Forse, era la mia amica Tiziana, e se mi avesse scoperta?

Uscii furtivamente, colma di profondo turbamento. Quei passi erano di mio marito, che mi chiese:

– Che cosa fai qui, Sveva?

– Leopoldo, tutto &egrave accaduto.

– Che cosa &egrave accaduto, che io non sappia già, Sveva? – fece, stringendomi forte.

– I nostri compagni.

– I nostri compagni!

Il rumore dei tuoni si mescolava al suono delle nostre voci. Il temporale era vicino, anzi, era già scoppiato, annunciato dalle voci dei fantasmi di mezzanotte. Era come se qualcuno avesse usato del veleno, o dovesse usare del veleno, forse, sarebbe stato il mago della Giustizia, vestito di un manto turchino, salito dagli abissi del lago per condurre via i maledetti.

Il caro Leopoldo era sempre stato molto affettuoso nei confronti della sua donna, ma in quegli istanti, si rabbuiava.

La luce di un lampo mi mostrò il suo viso sconvolto.

– La verità, Leopoldo – sussurravo.

– Quale verità?

Mi posò una mano sulla fronte, e mi disse che scottavo. Le mie gote si tingevano di fuoco, il mio seno si alzava e si abbassava freneticamente, imperlato di sudore. Ansimavo.

– Cosa accade? Dimmi – chiese lui, quasi furioso.

– La morte!

Questo risposi, asciugandomi la fronte con il fazzoletto bianco, mentre un tuono scuoteva il castello sin dalle fondamenta, e la luce crepuscolare dei lampi illuminava il mio volto terribile.

– Tiziana non &egrave ancora entrata nella sua camera… Dobbiamo far presto, dobbiamo bruciare quella lettera, anche se una mano di fuoco, prima, ha stretto la mia, e mi ha impedito di farlo!

Poi dissi:

– Tu non ci credi?

– Sveva, che fai? Perché mi hai preso la mano? Perché vuoi che corra con te questa folle corsa, tra i corridoi bui del castello? Se questo &egrave uno scherzo, ti avverto che già &egrave durato abbastanza.

– Non lo &egrave…No, non lo &egrave… “Comme la nuit se fait, lorsque le jour s’en va…”

Gli mostrai il comodino, quel comodino.

La lettera era svanita.

Non c’era più nulla, più nulla, più nulla!

Mio marito mi strinse forte, fin quasi a farmi male. Mi domandava con insistenza che cosa significasse tutto ciò. Io sapevo che avrei dovuto impedire la morte dei due giovani amanti.

Ma era il destino a volerla!

– Sei così stupida! Così stupida! – diceva Leopoldo.

Mi diede uno schiaffo.

Piansi.

Era furioso, in collera.

Mi guardava con i suoi grandi occhi scuri, facendomi quasi paura, e io avevo le lacrime agli occhi, rattristata. Diceva che avevo insultato i suoi parenti, che lo avevo offeso, e la sua voce tradiva lo sdegno.

La guancia mi faceva male. Avevo la pelle morbida, delicata, quasi di velluto, e la mano di mio marito, che allora mi aveva picchiata per la prima volta, mi aveva fatto male.

– Presto i due amanti partiranno, hanno deciso di andarsene così – sussurravo. – Una mano li rapisce, per condurli via con sé, in fondo al lago. Hanno deciso di morire insieme… Sì, di morire insieme, insieme, insieme, abbracciati, e tenendosi per mano. Nessuno può separarli.

Poi riprendevo:

– Perché non mi credi, Leopoldo? E’ la passione, l’ardente passione, ad ucciderli. Gli amuleti maledetti hanno stregato il lago e il castello. E io non so, oh, davvero non so quale sarà il nostro destino!

Egli mi rispondeva.

– Di morire insieme? E perché mai dovrebbero farlo? Perché mai?

– Per il mistero – risposi, fatalmente.

– Se hai un amante, perché non lo confessi e te ne vai per sempre da questo luogo? Vattene…

– No, non ho un amante…

– Menti! Le tue parole servono soltanto a celare la tua meschinità!

– Non sono menzogne, le mie… Leopoldo, guarda i miei dolci occhi, potrai leggere la sincerità che brilla in loro.

– Ti lascerò libera. E volerai lontano, con le tue ali di colomba.

– Perché mai! Oh, non vorrai lasciarmi, spero!

Eravamo nella mia camera, io ero in ginocchio, stretta a lui, che mi allontanò da sé con violenza, e poi, prese una delle mie bambole, quella alla quale ero maggiormente affezionata, la gettò a terra, con cattiveria, mandandola in mille pezzi.

Ah, passione, folle assassina!

Avevi ucciso la nostra felicità, e il sogno.

Nessuno mi credeva, tutti mi odiavano.

E gli affetti sarebbero morti, lo sentivo. Io sarei morta insieme a loro. Mormoravo follie nel silenzio. Mormoravo meste parole.
Erano quegli amuleti, lo sapevo, la causa di tutto. Dovevano essere gettati in fondo al lago, per sempre, e non divenire due folli pegni d’amore.

Sì, dovevano rimanere in fondo al lago, assieme alle nostre passioni segrete.

Non riuscii più a parlare col mio uomo. Ero desolata, preoccupata per quanto stava per accadere. I bei tempi, i tempi più felici, erano svaniti nell’oblio. Era come se una nube, una cupa nube, avesse ottenebrato il cielo della nostra tranquilla esistenza.

Entrai nello studio di mio marito.

Era una vasta biblioteca, abbellita con affreschi e arazzi appartenuti a nobili di Spagna. Cercai quell’oggetto, prima che accadesse l’ineluttabile, se fossi riuscita a restituirlo al lago, forse, la fine fatale non sarebbe stata così tragica.

Non riuscivo a trovarlo, non riuscivo a trovarlo, no… ahim&egrave…

– Presto, Sveva – mi mormoravo. – Presto!

– Sveva! – gridò Leopoldo, da lontano, con la voce tonante.

Mi aveva vista, era ormai a un passo da me. Mi posò una mano sulla spalla, cupo come il castigo.

Disse freddamente:

– Tutto ci separa. Avrei dovuto capirlo subito, che ogni nostro sogno era andato infranto. Hai un altro uomo, spero tu sia felice con lui.

– No, ti supplico! – gridai. – Non crederlo, non &egrave vero…

– Sono venuto a dirti che tra poco rimarrai padrona in casa tua. Io me ne andrò per sempre.

Allora mi precipitai verso di lui, tentai di stringerlo, e di regalargli un bacio d’affetto, con le mie labbra rosse, e furtive… Cielo! Ma egli mi respinse, brutalmente, e dandomi una spinta, mi fece cadere per terra.

Era diventato così crudele!

– Speravo di poterti perdonare, in nome degli istanti che ci hanno visti felici – diceva. – Ma ti ho vista con lui, ti ho vista baciarlo, e spero soltanto che il fuoco del desiderio divori i vostri corpi e le vostre anime, lasciando dietro di sé soltanto cenere amara.

– Ti sbagli!

– Le valige sono già preparate. Una vettura mi aspetta, prima dell’alba, tutto sarà finito.

– Leopoldo – gridai – se tu non mi credi, questa notte mi getterò nel lago, e ci sarà un morto in più, domattina… Vedranno il mio corpo galleggiare lievemente, senza vita… Leopoldo! Leopoldo!

– Eri così bella, una volta… – sussurrava lui. – Vestita di pizzo, le gote di velluto, la bocca carnosa. Non sei più come allora. No, non lo sei più. Tanta bellezza non si addiceva alla tua anima maliarda. Vattene, vipera!

Guardava la mia bocca, rossa, che forse gli apparve languida e folle, come quella di una prostituta. Avrei voluto regalargli dei baci anche in quell’istante.

Poi se ne andò via, imprecando.

Mi resi conto di come, in quei pochi giorni, era come se fosse trascorso un decennio, per me.

La stanchezza, la tristezza, mi avevano riempito il volto di rughe. Quella sera, osservavo i colori del tramonto attraverso la finestra dai vetri opachi. Udii i cavalli nitrire, una carrozza, forse, partiva, al galoppo, per non ritornare mai più!

Mi vennero dei presentimenti tristi, di sconsolati addii, di mal frenati pianti, di ricordi felici e perduti, rubati dal destino! Oh, la sorte, gli amuleti, il mistero! Passioni!

La luna intanto spuntava, vedevo il suo colore argenteo riflesso sulla superficie scintillante del lago.

Mi lasciavo andare, e mi sembrava che mille ombre indefinite, mille figure crepuscolari si disegnassero nel fosco orizzonte.

Sotto le fronde cupe di un salice, presso una barca ormeggiata lì accanto, si radunavano allegramente due ombre.

Qualcosa le rapiva, qualcosa di cupo e di vago le animava. Lei pareva vestita di perle…

E si muovevano, mute, nella luce della luna, sotto i cipressi.

Mi sembrava di indovinare le loro parole, i loro gesti. La donna si gettava, per un istante, tra le braccia del suo lui, nella malinconica cornice di quella notte.

Il mio cuore si era come fermato.

Mi accorsi che l’uomo saliva nella barca, e si metteva ai remi… Lei, timorosa, rimaneva seduta sull’erba. Lui tornò sulla riva.

Giocarono a lungo, insieme, l’uno tra le braccia dell’altra, spensieratamente. Erano per me due figure amiche, anche se come morte, nella nebbia.

Nell’oscurità vaga, crescente, mi giungevano i loro fiochi mormorii, come muti lamenti di passione.

Li riconoscevo.

La bruma, lentamente, saliva dal lago, e li avvolgeva.

Avvolgeva le rive e gli alberi, nei suoi mantelli, mentre una brezza cupa accarezzava le tremule fronde dei salici.

– Andiamo, partiamo – mi sembrava di udire, sotto le fatate stelle. – Per un viaggio incantato, accompagnati dagli elfi…

Mi parve che le sponde del lago si accendessero di mille luci indefinite, forse, erano i ceri del destino. Era ora di andare. Lui dovette sospirarlo alla sua amata, che lo ascoltava appassionatamente.

La luna si nascose dietro una nube.

I due amanti scesero nella barca, lui prese i remi e cominciò a vogare lentamente. La piccola barca si allontanava sempre, confondendosi a poco a poco con l’immensità del lago addormentato.

S’udivano le voci dei fantasmi, dei fantasmi, che chiamavano… Si sentivano le voci del mistero, sì, del lago incantato, nel quale ancora oggi riposano due anime amiche.

Salutai.

Sì, li salutai, vedendoli svanire, agitando forte il mio fazzoletto bianco, affacciata alla finestra.

Rimasi sola, immersa nella silenziosa solitudine del bianco castello. Lentamente, giorno dopo giorno, sarei invecchiata, mi dissi.

E presto, molto, molto presto, allorché solo pochi e radi capelli d’argento mi sarebbero scesi sulle spalle vizze, vestita di nero, mi sarei detta che soltanto un ricordo mi restava.

Non avrei mai dimenticato quel giorno.

Da allora, infatti, mi riproposi di celebrare la memoria dei due amanti, tutti gli anniversari di quel triste evento, quando il sole crepuscolare salutava il giorno avrei sceso la riva del lago, recando in mano un mazzo di fiori bianchi.

Avrei contemplato a lungo la superficie celeste di quelle acque profonde, soffermandomi sul lontano orizzonte, e scrutandolo là dove la terra pareva confondersi con il cielo.

Le mani tremanti, un singhiozzo, e poi… abbandonare i fiori alla corrente, fatta per spingerli lontano, lontano, lontano.

E tutto questo, per sempre!

Da quel giorno, non ebbi più intense emozioni, ricordo soltanto del mio trasferimento in una città lontana, la nebbia, il rumore del mare, che mi chiamava con la sua invisibile voce turchina.

E così partivo, a bordo del grande bastimento, assieme ai miei pochi cari, in cerca di fortuna.

La città di Genova, dove da lungo tempo avevo vissuto, svaniva, ormai, all’orizzonte.

Vedevo i luoghi ameni per l’ultima volta.

L’ultima, prima di lasciarli per sempre, verso il mistero.

Una vita, un mare di sogni, più vasto di quello che i miei occhi riuscivano a vedere, svaniva.

Una bruma lontana, in cui era assopita la costa, mi faceva capire di essere già al largo.

Nel cielo grigio, si confondevano i voli bianchi dei gabbiani.

Li vedevo volare leggeri, cullati da una malinconica brezza, la stessa che sfiorava il mio volto.

I loro versi striduli, incomprensibili, erano per me l’ultimo caro ricordo.

Avevano un unico tenero significato.

E come mille addii confusi, morivano nel vento, rapiti dalla lontananza, spenti dall’oblio.

Mi appoggiavo mollemente al parapetto, chiudevo appena gli occhi stanchi. Allora, era come riscoprire i volti amati che poco fa mi avevano salutato, e più non avrei rivisto. Immaginavo i passeggeri mentre salutavano gli astanti agitando al vento i loro fazzoletti di seta, erano gli ultimi addii.

Poi, riaprivo gli occhi, e tutto svaniva.

Guardavo l’immensità che si apriva davanti a me.

Il mare, vastissimo, aveva lo stesso colore opaco del cielo, nel quale si affollavano nuvole grigie.

Poche domande mi venivano in mente sul futuro.

Mi chiedevo che cosa avrei visto, quali volti avrebbero ammirato i miei occhi scintillanti, allorché una nuova terra si fosse mostrata ai miei sguardi.

Un paese nuovo mi attendeva al di là dell’oceano.

Un paese che non conoscevo, dove io sarei stata straniera, e tutti mi sarebbero stati stranieri.

Durante il viaggio che mi attendeva, nell’infinità del mare, si sarebbe disciolta ogni mia malinconia. Sarebbe stato un lungo viaggio, il viaggio brumoso della tristezza e del rimpianto.

– Dio voglia che ritorni, un giorno – mormorai solitaria.

Io soltanto udii le mie parole, che suonavano come un singhiozzo, o una speranza.

Vedevo il fumo grigio che saliva dal fumaiolo, confondersi con quel cielo opaco d’autunno. E il rumore vago dei motori e delle macchine, come un suono lamentoso, mi parlava di tristezza.

– Addio, Genova – sussurrai.

Vidi per un’ultima volta le coste della Liguria, e poi mi addormentai in coperta.

Ora, nemmeno una sensazione poteva più toccarmi.

Avevo forse rivolto alla mia terra un sospiro, una preghiera, e lei, silenziosa, da lontano, l’aveva ascoltata.

Ma ora, il mare, l’immenso, ci separavano.

E dietro la scia bianca che accompagnava il passaggio della nave, lasciavo ogni cosa.

Quella scia, spumeggiante, misteriosa, era forse la strada che un muto destino voleva seguissi.

E l’insuperabile distanza, che la sorte poteva tra me e quella terra, era la mia più grande mestizia.

Mi risvegliò il suono cupo di una sirena.

Eravamo ormai lontani.

Le coste del Mediterraneo si disegnavano nel vago orizzonte, mi parve che fossimo soli, nell’infinità del mare.

Il resto del giorno mi serbò una profonda solitudine. Ero silenziosa, assorta. Una parola, una semplice parola, bastava a turbarmi. E subito, i miei occhi si bagnavano di pianto. Trascorsero due settimane, senza che accadesse nulla di particolare. Poi, però…
Calava la notte.

A poco a poco, sulla nave, le luci si accendevano.

E mi sembrava che dei bagliori lontani, perduti nell’infinito, mi parlassero di una vita, una nuova vita.

Il mare era placido, immobile.

Poco prima, il mio cuore era confuso in un rimpianto, ora si apriva alla consolazione. Ma sarebbe dorato poco. Lo sentivo, oramai.

Vedevo le nuvole che correvano da un capo all’altro del cielo, e mi giungeva da lontano l’eco di tuoni profondi.

La notte era cupa, e sarebbe stata di fuoco.

Il mare, appena increspato, gridava alla tempesta.

Il cielo, come un mantello nero, era privo di ogni luce.

E una dopo l’altra, le stelle dell’orizzonte si spegnevano, e s’alzava il vento. Poche ombre passavano accanto a me, e le loro voci roche, silenziose, dicevano:

– Sarà una brutta nottata. Forse, la peggiore, perché non potremo raccontarla a nessuno.

Intuivo vagamente cosa volessero dire.

Le loro parole, dal significato sinistro, mi suonarono come una minaccia fatale. Mi accorgevo di come potessero essere vere.

Tutto, oramai, mi faceva presagire la catastrofe.

La vedevo riflessa sul mare, come una nube oscura, terribile, minacciosa.

Il vento soffiava sempre più forte.

Le onde divenivano sempre più grandi, maestose, invincibili.

Le nubi, come fantasmi saliti dagli abissi, mostravano, a tratti, le stelle lontane, e correvano verso di noi.

Tra poco sarebbe stata la fine, come dicevano alcuni.

La fine!

Vedevo i marinai correre sul ponte, precipitarsi, si preparavano ad affrontare il fortunale.

Le loro oscure voci dicevano che quella notte si sarebbe scatenato l’inferno.

E io mi trattenevo follemente in coperta. I miei lunghi capelli giù volavano nel vento di bufera, ero una donna, sì, una fragile donna, che aveva perduto i suoi affetti.

No, forse, ero una statua, appoggiata al parapetto di prua, contemplavo l’immenso, il mio immenso, di cui ero segretamente imperatrice, il vento, principe dei miei sudditi, e il mare, mio cavaliere, si preparavano a fare la guerra alla loro principessa, dopo aver ricevuto da lei un tenero schiaffo sulla guancia.

Una vecchia banconota mi sfuggì di mano, e cadde in mare. Era il segno dell’addio.

Forse, sul libro del destino, era scritto che quella notte dovevo morire.

Sentivo sul mio volto la forza del vento, e la violenza degli spruzzi, freddi, del mare.

Tremavo. E forse, tutti, a bordo, quella notte, tremavamo.

Alcuni dicevano di pregare, affinché la furia dei marosi non ci avesse mandati tutti quanti a picco. E udivo vagamente l’eco delle loro preci. Il vento le rapiva, e il ruggito del mare le soffocava. L’oscurità cresceva in continuazione.

Le onde, oramai altissime, si schiantavano contro lo scafo del bastimento.

Erano maestose come montagne, paurose come giganti.

Il lampo, a tratti, illuminava uno spettacolo apocalittico.

Era come se la morte ci passasse accanto, e fosse tra di noi, in quegli istanti. Forse, ci avrebbe rapiti, racchiudendoci nel suo nero manto.

Il furore del tuono, come un brivido, risuonava dentro di me, gelidamente.

Era oramai impossibile rimanere sul ponte. Gridavano di andare tutti sottocoperta, sottocoperta, perché era pericoloso.

Il desideravo rimanere là ancora per pochi attimi.

Ma era ormai impossibile. Le forze della natura si scatenavano, in tutta la loro paurosa violenza.

E noi, la nostra nave, eravamo infinitamente più deboli e piccoli. Raggiunsi gli altri, sottocoperta. Le onde, minacciose e fatali, spazzavano il ponte. Un cupo mormorio errava tra la folla.

Era un mormorio sinistro.

Dicevano che era giunto il giorno dell’Apocalisse, sì, dell’Apocalisse.

Queste parole, dette tremando, facevano rabbrividire. Una verità misteriosa si celava in esse, lo sapevamo. Inutili i lamenti, inutili i pianti, il mare ci avrebbe inghiottiti. Lo pensavamo tutti.

La forza del fortunale distruggeva, a poco a poco, la nostra nave. Dei rumori agghiaccianti lo annunciavano.

Mi sentivo male.

Alcuni svenivano, altri pregavano.

Mi sembrava di udire la voce disperata del capitano. Non c’era, ormai, più nulla da fare. La natura era più forte di noi, con le sue braccia violente, tragiche, mortali. I bambini si rifugiavano tra le braccia delle loro madri.

Gli uomini tacevano silenziosi e preoccupati.

Erano gli ultimi istanti prima della fine, mi dicevo. Avevo il cuore in gola. Le voci spaventate dei passeggeri mi facevano impazzire.

La gente gridava, piangeva, si lamentava di una tanto tragica e inevitabile sorte.

Pensarono di preparare le scialuppe di salvataggio. Ma era troppo tardi, era inutile. Andavamo a picco. Si era aperta una falla nella stiva.

All’improvviso una voce gridò disperata:

– Tutto &egrave finito, si salvi chi può!

Udii un muggito più spaventoso degli altri, mentre il mare ci inghiottiva, e avevo l’impressione di precipitare negli abissi.

Ricordo un’ondata terribile.

Il grido dei passeggeri!

Poi, più nulla. Non udii altro.

Era il naufragio, l’affondamento di un a nave che non sarebbe mai giunta a destinazione. Che ne sarebbe stato di me? Della mia vita?

La maggioranza dei passeggeri morì.

La forza delle onde li uccise, li rapì.

Alcuni si aggrapparono a dei relitti, altri rimasero intrappolati nella stiva.

Io avevo forse perduto conoscenza.

Forse, era morta, e navigavo nel sogno.

Quella fu la notte più lunga della mia esistenza, mai la morte mi era sembrata così vicina come allora.

La corrente mi trasportò lontano.

Forse il mio corpo era già senza vita. No, il mio cuore batteva ancora, non ero annegata. Il giorno dopo, infatti, mi accorsi di essere ancora a questo mondo. Era forse un miracolo, o più semplicemente la forza del destino.

La mano del mare mi aveva deposta sul bagnasciuga di una terra che non conoscevo.

Era il Madagascar.
Ebbi l’impressione di risvegliarmi in un paese abitato dal sogno, dove gli uomini di colore camminavano spesso a testa in giù, con le braccia, invece che con le gambe.

C’erano tante capanne di paglia e di giunchi, ed un bosco immenso di palme.

Pappagalli multicolori volavano da un capo all’altro del cielo. Vi erano altresì degli uccelli africani, di cui non ricordo il nome, e le donne amavano cogliere i fiori tropicali, per intrecciarli in mille ghirlande colorate, con cui adornavano i loro corpi.

Sentivo la dolcezza del latte di cocco tra le labbra. La sabbia bianca baciava con le sue labbra invisibili la mia pelle di donna.

Voci lontane, di negri, che intonavano melodie misteriose, mi svegliarono a poco a poco dal profondo sonno nel quale ero caduta. Vedevo le grandi palme, lontane, che si muovevano magicamente nel vento, pareva mi parlassero, e quel loro movimento amico era il loro modo di salutarmi.

La luce del sole mi colpì, e mi mostrò una figura amica.

Era una donna, bellissima e fatale.

La ammirai, per un istante. Era dolce e silenziosa. Man mano la sua immagine si formava nei miei occhi, mi accorgevo che mi tendeva la mano, amichevolmente.

Voleva forse aiutarmi.

Le chiesi, sussurrando, chi fosse.

Lei mi guardò con i suoi begli occhi, donandomi una ghirlanda di fiori tropicali.

Attese un attimo prima di rispondermi.

– Il mio nome &egrave Ariel – rispose, languidamente.

– Ariel – le mormorai – i tuoi occhi hanno l’immensità del mare tranquillo.

Poi mi chiese da dove venissi.

– La mia nave &egrave naufragata. Forse &egrave stato il destino a volere questo, per farci incontrare.

Ero viva per miracolo, e la mia voce tremava mentre le narravo le mie avventure.

Il suo volto raggiante e la voce sua mi erano amici, ma il ricordo del tragico fortunale, offuscò, sia pure per un attimo, il mio sguardo.

Lei se ne accorse.

– La tua sorte mi rattrista – mi disse. – Ma se tutto non fosse accaduto, non ci saremmo mai visti.

Non la capivo.

Eppure, negli occhi suoi c’era il riflesso di un incanto.

Dissi di aver perduto tutto. I miei cari erano periti durante il naufragio, lo sentivo, e non li avrei rivisti mai più.

– Sì, forse sono morti, o forse, ancora in vita – mi rispose lei, con aria di mistero, mentre i suoi sguardi diventavano di perla.

– Li amavo, e non so perché vivo ancora. Amavo la terra, i miei cari, la gioia. Ora sono sola, e tremo a dirlo.

Ella sorrise.

Disse che non ero sola, e che se avessi voluto, lei sarebbe stata la mia terra, i miei cari, la mia gioia.

I suoi occhi brillavano, e la sua voce tradiva l’allegrezza.

Quelle sue parole mi ridiedero vita.

Il sole ameno di quel giorno, il calore dei Tropici, il suo volto raggiante mi fecero sperare.

– Sei molto bella, ed &egrave piacevole parlarti – le sussurrai.

– Ti ringrazio, da quando ti parlo, i tuoi sguardi non fanno che sfiorarmi.

Era vero.

Le chiesi dove fossimo.

Lei scherzò, disse di non volermelo dire, e che desiderava tenermi con lei, nella sua capanna.

Avrei capito soltanto in seguito dove mi trovavo.

Forse, era uno di quei luoghi di sogno, che si vedono dopo la morte, uno dei luoghi dell’anima.

Ariel disse anche di sapere il mio nome, perché il mare, amico del sole, glielo aveva rivelato.

Dunque, sapeva tutto.

– Ascolta il mare – mi disse. – Nel suo sussurro vengono svelati i più profondi segreti della vita.

Mi parve un sogno, un angelo.

Non trovavo più parole, per parlarle. Mi incantava, non avevo mai visto una donna tanto bella.

Mi propose di restare con lei, nel suo tugurio, fino a quando non mi fossi rimessa. Sapeva essere suadente.

La sua tenera voce, i suoi sguardi, sapevano sedurre.

Avrei voluto confidarle qualcosa, forse, un tenero moto dell’animo, ma non sapevo esprimermi. Non ci riuscivo.

Mi sembrava di vivere il più bel giorno della mia vita.

Le chiesi se mi sarebbe stata accanto, e lei mi rispose di sì, io allora la guardai con due occhi pieni di passione e di mistero.

L’avrei vista tutti i giorni, avremmo vissuto insieme i piaceri di quella terra, e la luce magica del tropico.

Era un luogo di piacere e di leggenda, dove il sole e la luna splendevano raggianti, e soltanto poche nuvole bianche affollavano il cielo.

Pioveva di rado, ed al mattino, gli splendidi giardini che abbellivano la non lontana cittadina scintillavano di rugiada.

Dal mio letto, avvolta in morbide lenzuola di seta, potevo ammirare, attraverso la finestra, un dolce spettacolo.

Vedevo il vasto orizzonte, un mare sereno e tranquillo, sul quale navigavano i velieri, un cielo limpido, e quei luoghi di favola.

Forse, era veramente una favola, quella che stavo vivendo.

Eppure, era come la più felice realtà.

Di tanto in tanto, come una nuvola lieve, una tenera nostalgia mi rapiva.

Poi, però, svaniva.

Vedevo il volto amico di Ariel.

Lei si faceva accarezzare i lunghi capelli, e restavamo a lungo insieme.

Facevamo l’amore sulla spiaggia dalle sabbie bianche, vicino agli scogli, dove l’oceano lasciava udire forte la sua voce, e, a volte, accarezzava con gli spruzzi delle sue onde i nostri corpi nudi.

Io le narravo dell’Europa e dei suoi castelli… Lei, del Madagascar, e delle sue lusinghe. Amavo accarezzarla con una conchiglia. Allora, la bella fremeva, nuda, sotto il mio corpo e i miei baci di donna.

Oh, davvero, vi giuro, l’affetto saffico che può sbocciare tra due fanciulle non ha nulla a che vedere con la passione amorosa nata in una coppia comune. Quei sospiri perduti, quelle carezze furtive, consumate all’ombra delle palme, o nel fuoco magico dei tramonti, erano cose da donne.

Amavo giocare con Ariel, una volta, avevo preso una perla, e volli usarla per darle piacere, lì, sulla sua femminilità dorata.

E la toccavo, la toccavo, la toccavo, seguendo un ritmo lento e regolare, mentre lei intonava un canto del Madagascar, che parlava dei leoni dell’Africa lontana, del fuoco del sole, del misteri delle giungle, di regge magiche, nascoste nel cuore della foresta, di una regina infelice, che portava in capo un turbante, ornato col più bel rubino del mondo.

Correvo con lei lungo la spiaggia. Ella volle regalarmi molte ghirlande, e la ringraziai di questo schioccandole numerosi baci sulle guance.

Mi presentò anche la sua scimmia preferita. Mi disse come si chiamava, e la fece esibirsi in mille capriole sulla sabbia.

Una volta, eravamo nude su di uno scoglio, sotto il sole, il mare tutt’intorno… Presi a toccarla, poi, il mio corpo si incastrò nel suo, non so come avvenne, e il fuoco ci divorò a lungo. Gridammo, affratellate da un piacere tropicale e immenso.

Ci giungeva di lontano un suono di flauti di Pan, e di tamburi, fatti con il legno delle palme. Non lontano, c’era un villaggio di nativi, che praticavano la pesca navigando il mare su barche fatte scavando i tronchi, e non di rado praticavano i loro riti propiziatori, o inneggiavano al sole.

La mia bella desiderava sentire la tenerezza della mia lingua, sulla carne. E si sdraiava a pancia in giù, sulla sabbia, perché io la accontentassi. Capitava sovente che la sentissi fremere e gridare di piacere, per quel gesto.

Mi chiedeva sempre di toccarla, di toccarla… E io lo facevo, con un dattero tra le dita, o dopo averle spremuto il succo di un limone sulla pelle.

La bella aveva voluto regalare all’oceano una corona, fatta di conchiglie pregiate, che soltanto lei sapeva dove trovare. Diceva che era per consacrare al suo blu il nostro eterno affetto.

Ariel non era nativa dell’isola. Mi disse un giorno di essere arrivata dalla Francia, a bordo di un grande bastimento, e io non dubitavo della veridicità di questo racconto, poiché il mio angelo parlava il francese con una purezza ed un’eleganza tali, da non lasciare alcun dubbio sulle sue origini.

Suo padre era stato un marinaio, non aveva più alcuna notizia di lui da molto tempo… Ella amava i selvaggi dell’isola, aveva amato i loro corpi muscolosi e scolpiti dal sole, la loro forza e le loro tradizioni antiche, i loro balli e le loro cerimonie sacre.

Una volta, venne da me con il volto coperto da una grande maschera rituale, fatta di legno…

Era per scherzare. Però, a volte, la mia bella amava adoperare quegli oggetti misteriosi per ripararsi il viso dal sole.

Vi confesso, però, che conversavamo di rado.

Ci piaceva rimanere in silenzio, vagamente assorte, sulla sabbia, dove ci scambiavamo ingenui e teneri messaggi con gli occhi, o con le mani nude. L’una cercava l’altra, per regalarle un piacere forte, quanto le onde dell’oceano impetuoso, che si schiantavano sugli scogli.

Non sapevo ancora che cosa fosse per me quella donna. Forse, soltanto una cara amica. Entrambe eravamo donne di tutto ciò che mormorava in noi.

La nostra pelle era vellutata, come i petali dei fiori di Portogallo, i nostri occhi, scintillanti, come topazi.

In quegli istanti, d’illusione, mi sembrava che una vaga ammirazione ardesse dentro di me.

Erano complimenti di passione, quelli che rivolgevo alla mia amica.

E quando le parlavo così dolcemente, lei socchiudeva sempre i begli occhi, mostrando le lunghe ciglia nere.

Poi li riapriva, e li vedevo scintillare.

La amavo.

Ma forse, era qualcosa di più ardente, di più profondo.

Era un sentimento che, giorno dopo giorno, si risvegliava dentro di me. Mi capitava spesso di ripensare al primo momento in cui l’avevo vista. Era stato forse allora che mi ero invaghita di lei.

Sì, ero pazza, pazza di lei, ora lo sapevo con certezza. Non poteva essere che passione, quella che i miei occhi le comunicavano.

Era passione, quella che leggevo negli occhi di lei.

Eppure, nessuna delle due osava confessarlo all’altra. Entrambe, però, lo sapevamo, e godevamo furtivamente del mistero appassionato della nostra amicizia.

Ma io volevo che mi amasse, che mi amasse profondamente così come io amavo profondamente lei. Era inutile osare ribellarsi al destino. Una forza fatale, oramai, ci univa, una forza fatale ardeva, inestinguibilmente, nei nostri cuori.

Le mie parole, tremanti, non glielo avrebbero potuto dire.

Glielo avrei scritto.
Sapevo dove abitava, le avrei fatto trovare la lettera nell’ora più bella della giornata, allorché lei si preparava ad addormentarsi nei suoi dorati sogni.

Quella lettera, prima di scrivergliela, la sognai.

E finalmente, risolsi di mettermi all’opera. Nel più bel mattino, subito dopo il risveglio, presi carta, penna e calamaio, e la pensai, pensai intensamente alla mia amica del cuore. Una dopo l’altra, le frasi mi bruciavano nella mente, leggere e piene di passione.

Ecco che cosa le scrissi:

“Mia amata,

Quel giorno, la luce più bella brillava nei tuoi occhi. Ricordi? Ricordi come mi guardasti, e come il cuore ci batté nel petto?

Nello splendore dei tuoi sguardi, potei leggere una cosa sola. E fu nei tuoi occhi che desiderai di annegare di passione. Il mare mi aveva risparmiato, ma non la tua delicata bellezza, e il desiderio delle tue forme venuste e del tuo corpo di donna.

Forse sei un sogno, ma lasciati sfiorare.

Lascia che un sentimento tenero, ma invincibile, rapisca la nostra vita. Forse durerà un giorno, forse per l’eternità.

Una voce mi sussurrava, nella tempesta. Una voce mi annunciava la salvezza e l’affetto. Era la tua. La voce di un angelo, le cui ali mi condurranno alle celesti dimore dell’Elisio.

Amami.

Amami, perché le nostre vite sono incatenate da un folle sentimento.

Amami, perché non ti dimenticherò mai, e ardo di passione pensando a te e al nostro piacere. I tuoi sguardi mi appassionano, e il desiderio del destino di fuoco che ci &egrave riservato mi travolge.

Udrò presto la tua risposta.

Un sogno, un tenero sogno sboccia come un fiore dentro di me in questo istante, fa’ che non vada infranto, e che le tue parole non siano per me una tragica condanna all’infelicità.

Baci:”

In quei momenti, mentre scrivevo la lettera, mi accorgevo di amarla più che mai.

Le frasi scritte su quel foglio bianco non erano recitate, era tutto ciò che mi dettavano i sentimenti. Mi affrettai a farle ricevere la mia lettera, racchiusa in una bottiglia, dalla quale spuntava un fiore tropicale.

Mi dicevo che presto avrebbe letto le mie parole e mi avrebbe risposto. Speravo di essere tutto ciò che lei potesse desiderare. Speravo mi amasse, follemente, come io amavo lei.

Forse, era illusione!

Vivevo nei sogni, abitavo nei sogni.

E come in un sogno, mi sembrava di leggere nel cuore di lei le emozioni di quell’istante.

Il dolce istante in cui avrebbe trovato la mia lettera. Ma mi sbagliavo, mi sbagliavo. Soltanto inseguito seppi la verità, una verità forse amara, ma inevitabile. La lettera venne trovata dal passionale Armando, un uomo dell’isola, spasimante di Ariel.

Ella non lo amava, non lo aveva mai voluto, eppure lui la considerava sua.

Armando lesse la mia lettera. La lesse a voce alta, nella sua profonda solitudine.

La voce sua fremeva, di rabbia e indignazione. I suoi occhi, a poco a poco, si accendevano di fiamme. Alla fine, mormorò una parola di scherno e di insulto, che mi avrebbe ferito, se l’avessi udita.

– Traditrice!.

Non distrusse la lettera. La piegò, la conservò, per l’istante in cui sarebbe esploso il suo odio. Ogni giorno, quando io non c’ero, andava a prendere il t&egrave a casa di Ariel. E il pomeriggio seguente, si recò a lei, nella sua capanna.

Ariel non sapeva nulla, e, all’inizio, il volto di Armando non le parve alterato. Era un pomeriggio come tanti altri, per lei, e, come sempre, la presenza di lui la infastidiva, non lo poteva sopportare.

Non era possibile non parlargli, non era possibile sfuggire alle sue braccia possenti.

Lui la pretendeva.

All’inizio, come di consueto, le sue furono parole appassionate ed affettuose, erano dei complimenti, delle lodi alla sua bellezza, una bellezza che, come un tesoro, egli diceva di avere scoperto, e di possedere, ma si sbagliava.

Le rivolse i più ammalianti complimenti, versandosi il t&egrave dalla fine teiera inglese, poi, però si interruppe improvvisamente, e aggrottò le sopracciglia. La mano sua tremò. La tazzina, piena di t&egrave bollente, gli si ruppe tra le mani, e la maledì.

Le mostrò la lettera, e, stringendo forte il pugno, la lesse a voce alta, davanti a lei, che venne percorsa da un brivido, arrossì, di cieca vergogna e di stupore. La bella ascoltava con la testa fra le mani, sospirando.

Lui diceva che quelle frasi tenere, quelle parole appassionate non potevano avere che un solo significato, e lei lo aveva tradito, spudoratamente.

– Lui ti ama, ma non &egrave più forte di me…

All’inizio, mi aveva creduta un uomo. Alla fine, il bruto schiaffeggiò l’infelice.

Ariel sussurrava in silenzio, si posò una mano sulla guancia, e, chinando il capo, con sommo disprezzo, mormorò al suo spasimante di non volerlo rivedere mai più.

– Te la farò pagare – disse la bella.

– Chi? Chi mai? Tu, forze, piccola mia?

E le strinse forte il braccio, fino a farle male.

Ariel, dinanzi alle minacce di quel prepotente, fu costretta a tacere. Conosceva la sua irruenza, conosceva la sua forza.

Lo vedeva aggressivo, come una delle belve che abitavano nella foresta, quale egli era. In quella lettera, erano state scritte le parole che aveva sempre desiderato. Ma lette da Armando, in siffatte circostanze, le erano suonate come una fatale tortura. E al termine di quel violento incontro, ciò che ella udì non fu che un’aspra condanna.

– Una cosa soltanto io ti assicuro – le giurò Armando. – Non rivedrai mai più la tua amica! Mai più!

– Noooo! – gridò lei, gettandoglisi al collo.

Quelle frasi non colpivano soltanto lei, infatti, come un fulmine, da lontano, si abbattevano anche e soprattutto su di me. E quelle parole, che per Ariel significavano tristezza, per me volevano dire una immensa solitudine.
Come un vuoto, ahim&egrave, la sua mancanza rese grigia la mia esistenza. Eppure il cielo continuava ad essere azzurro, limpido e sereno.

Il sole brillava ancora, e scintillava ameno sui flutti di un mare tranquillo.

Un mare al di sopra del quale volavano i gabbiani dalle ali bianche, come un tempo a Genova, il giorno della partenza. La brezza era lieve, la sabbia, finissima. C’erano tante conchiglie dimenticate dalle onde sulla spiaggia, parevano di perla.

Ma lei non era più al mio fianco. Se n’era andata per sempre dalla capanna.

Pensavo non mi amasse, pensavo di essere stata abbandonata, disprezzata, forse proprio a causa della diversità del nostro affetto, che però bruciava ancora dentro di me come le labbra rosse con cui sospiro.

E tutto, ai miei occhi, diveniva cupo, malinconico, tragico. Un grigiore vago offuscava l’anima mia. Era il dubbio. Eppure, una parte di me sapeva che non poteva essere vero.

Come! Le avevo dichiarato il mio immenso affetto, avevo il privilegio dei suoi sguardi, eppure… nulla! Ricordavo anche di averle rivolto una preghiera. Forse, quel silenzio, quella lontananza, erano stati per lei il modo di esaudirla.

Mi aveva esaudita, tristemente, come quell’ultimo bacio di donna a donna, regalato sulle labbra, aveva esaudito ogni mio sogno, lasciandomi sola con il ricordo.

Questi erano i miei pensieri, mentre camminavo sola lungo la spiaggia deserta. Era una sera nuvolosa, forse la prima da quando ero arrivata. Il vento scompigliava languidamente i miei lunghi capelli. Avevo l’impressione di volare lievemente nella tristezza.

Dei grandi cirri dorati ricoprivano l’immenso, lontano, là dove spingevo i miei sguardi bramosi. Il mare spumeggiante si confondeva con il cielo. Le palme piegate dal vento protendevano le loro ombre tropicali sulla sabbia.

Tutto taceva intorno a me, anche i banani maestosi, che un tempo mi avrebbero consolata. Vidi una nave lontana.

Ammiravo i pappagalli leggeri e lontani confondersi con le nubi, e svanire così, nel blu.

Durante la notte avrebbe piovuto. I miei passi affondavano nella sabbia, così come i miei sogni affondavano nel nulla. Aspettai l’ultimo raggio di sole, che frangesse quel mistero.

Una voce lontana mi richiamava ai ricordi… Mi voltai, e vidi lei, il corpo quasi nudo, decorato di conchiglie e fiori del Madagascar.

– Ariel…

Udii l’eco lontana della felicità perduta. Mi illudevo? No.

Mi pose le mani sugli occhi, lei stava dietro di me, e voleva farmi una sorpresa.

– Sono state le sue labbra crudeli a leggermi le tue frasi appassionate – disse Ariel. – Se i miei occhi soltanto le avessero lette per primi, allora, oh! Sarei stata io la più felice.

– Ma ora lo sarai, amica cara.

– Sì, lo saremo insieme…

Avevo sentito il suo profumo, quella notte. Era caldo, suadente, delicato, come lei. Il mare brillava sotto i primi raggi di luna.

– Verrai con me? – le chiesi, all’alba.

– Sì, verrò – rispose.

Mi aveva risposto con uno dei suoi teneri sguardi, gli unici che sapessero esprimere la profondità del suo sentimento.

Vedevo la nave sempre più vicina, e Ariel mi era accanto. Aveva le vele bianche, e l’ancora levata, era pronta per salpare, verso l’immenso. Il comandante aveva la barba bianca, e la divisa decorata con bottoni d’oro.

Dissi al mio angelo che ciò che provavo allora, mi bastava per sempre. In realtà, era soltanto l’inizio di una felicità che soltanto il destino avrebbe potuto spezzare. Erano sensazioni bianche e dorate, come l’immenso.

Partimmo insieme.

Le più liete sorprese mi attendevano, tanto che non potei credere a ciò che vissi.

I miei cari non erano morti. Li riabbracciai, e Ariel fu lieta di conoscerli. Seppi da loro una felice notizia. Non avevamo più bisogno di andare lontano, di partire per una nuova patria.

Sarei ritornata a Genova, la città natale.

La mia amica del cuore, con cui piansi molto, e soprattutto di felicità, durante il periodo di navigazione, non volle lasciarmi.

Il viaggio di ritorno fu breve. Il mare era tranquillo, la bella mi stava sempre accanto.

E quando entrammo in porto, ci accolse un sole raggiante, che sembrava sorridere sui tetti della città.

Ariel non rimase a lungo accanto a me.

Avevo avuto un presentimento, e udito una voce segreta, generata da un tuono, tra nubi di ferro fuso, o forse, no, &egrave meglio dire rosse, come il più brillante corallo, e l’amore sfrenato.

Presto, cominciò a diventare come pensosa e assente.

La vedevo lontana, i seni nudi al vento, lungo un mare tempestoso e spumeggiante. Amava carezzarsi le mammelle con le alghe, voleva che fossi io a farglielo, ma la mia pelle non era la sua pelle, i miei baci non erano i suoi baci, i miei pensieri non sfioravano il suo affetto.

E se le chiedevo cosa fosse, lei non mi rispondeva.

Parlava con i gabbiani.

Sussurrava loro i misteri del lontano Madagascar, le storie di pirati, di scimmie, di navigatori abbracciati alle più belle donne dell’isola.

Sospirava.

Lo sapevo, ormai, Ariel non era più il mio piacere. E quando i nostri corpi si toccavano, e i rumori, le sirene lontane del porto sfioravano la nostra fantasia, non facevo altro che cercare, invano, il ritratto di me stessa.

Un giorno, le proposi di frustarla, ma lei non volle, allora, io la spogliai, e cominciai a profanare con una verga il suo corpo francese e delicato.

Pianse.

Diceva sempre di smettere, che le facevo male, ma io sapevo del suo godimento segreto, di quelle sue lacrime ebbre di piacere e voluttà, il cui significato non era penosa sofferenza, ma piacere.

– Via, lo so che ti piace! – le gridai, avida dei suoi gemiti bollenti. – Adesso assaporerai con me i godimenti intensi degni delle femmine d’Asia e d’Africa, lascia, lascia che la mia lingua di velluto sfiori dolcemente le tue ferite, e succhi il tuo miele prelibato!

Ma ella non rispose, quel giorno. L’avevo drogata, per trarre dal suo corpo l’illusione e l’impossibile.

Soltanto io avevo goduto.

Da allora, non ci parlammo per lungo tempo.

Poi, improvvisamente, Ariel svanì, come tutte le cose della vita.

Forse, non sarebbe ritornata mai più. Accadde sulla spiaggia, dorata e bianca, s’avvicinava il temporale, un raggio di sole fendeva come una spada la coltre di nuvole nere, il corpo suo era diventato di perla, pareva un dolce fantasma, allungai la mano per toccarla, non la sentii.

Venne un’onda, spumeggiante e immensa, che parve rapirla. Forse, la bella era ritornata nel suo Madagascar, no, no, era lei il Madagascar, con i suoi profumi, il suo mistero, il suo fascino esotico, i velieri fantasma, la giungla selvaggia, e l’erotismo quasi indiano, consumato nelle sue capanne.

Promise di tornare.

Forse, invano.

Volli ritornare al vecchio castello. Ero una donna affezionata ai suoi ricordi, al passato, ai treni a vapore, che partivano come in sogno dalle stazioni, alle gite in barca lungo il lago, ai gigli bianchi, che si potevano raccogliere a mazzi presso le scuderie.

Andai a cavallo, tante, tante volte. Era la mia passione.

Un giorno, mi addormentai segretamente sull’erba. Era primavera e le acque del lago scintillavano a pochi passi da me. La tiepida brezza recava in dono i mille olezzi primaverili del meriggio.

Ebbi il desiderio di essere nuda, e soltanto nuda, mentre la mia mano correva lungo le mie forme, e pensavo ai miei amori perduti.

Era come se li toccassi, come se riscoprissi i piaceri proibiti insieme a loro, o forse, facessi l’amore con il vento di primavera, che tanto amava sfiorarmi. Allora, i miei capelli dorati erano riversati morbidamente sul prato, ricoperto di margherite.

Ne colsi una, la portai all’olfatto.

Poi, la usai per accarezzarmi, lì dov’ero più donna. La sentii vellutata, e come di miele, sul mio sesso glabro, ancora giovane, fatto per essere succhiato dolcemente e vezzeggiato.

“Oh, toccatemi, alberi del bosco, fiori di campo, acque magiche che mi state accanto!” pensavo.

E venni esaudita.

Un cigno saliva la riva del lago e sgranchiva al vento le grandi ali bianche. Aveva appena nuotato. Lo sentii mio compagno, mio tenero amico. Era grande, candido, le zampe nere, il collo lungo e delicato, che disegnava una sorta di virgola nell’aria tranquilla.

Pareva mi parlasse.

Agitava leggermente la bella coda, fatta di lunghe penne degne di un’imperatrice. Lo accarezzai. Fu il tacito amico del mio autoerotismo.

Volli usare un fazzoletto di seta che tenevo in tasca. Nessuno mi osservava, ero sola, con quel cigno, avvolta come in una nuvola scintillante e dorata, intorno a me pareva brillassero mille stelle.

E il piacere venne, venne, venne. Lo assaporai più volte, di seguito, leccandomi voluttuosamente le belle labbra, con la lunga lingua rossa.

Una volta, ero entrata nella vecchia scuderia, e avevo incontrato il caro garzone, ragazzo affascinante dal corpo erculeo e scolpito dalla giovinezza. Non vi nascondo che mi aveva corteggiata.

Io lo guardai assorta, osservando il pesante forcone che teneva in mano, e la sua carnagione scura, abbronzata. Pareva un gigante. Mentre chiacchierava con me, continuava lentamente il suo lavoro, e sollevava grandi mucchi di paglia.

Aveva appena finito di strigliare il cavallo bianco, che ad un tratto nitrì.

Io mi ero avvicinata al bel garzone, e gli avevo chiesto:

– Lo vuoi un bel bacio sulle labbra?

Non ero stata rifiutata.

Tingevo la mia bocca di un rosso che diventava sempre più intenso ogni giorno che passava. Ero affascinante.

Quando andavo a cavalcare, mi piaceva farmi tenere la staffa dal bel garzone, di cui vi ho parlato. Era un modo per mostrargli furtivamente le mie belle gambe. Il ragazzo non rifiutava mai le mie premure.

Ero attratta dai suoi modi grossolani e nobili al tempo stesso. A volte, mi faceva paura, perché sapevo che era molto forte.

– Chiudi a chiave la porta della scuderia – gli dissi un giorno.

– E perché, signora? E’ una così bella giornata, oggi, per cavalcare.

– No… Oggi voglio essere tua – gli sussurrai in un orecchio.

– Ma veramente, signora…

– Chiudi la porta, e sprangala, così nessuno verrà ad incomodarci, perché dobbiamo essere felici.

Posò il suo forcone in un angolo e mi obbedì. Intanto, mi erano venute in mente mille storie, di amanti infelici colti mentre amoreggiavano chiusi nel pagliaio o nella scuderia, e fucilati…

Sorrisi a me stessa, perché mi ero premunita: infatti tenevo il fucile da caccia a poca distanza da me, carico e pronto per ogni evenienza. Non sarebbe venuto nessuno.

– Adesso prendimi, prendimi! – dissi, aprendogli la camicia bianca con un morso.

Lo eccitavo mostrandogli le belle gambe, e dicendogli che desideravo sentirlo dentro, dentro, dentro.

Ebbi l’impressione di risperimentare con lui quanto avevo già scoperto una volta, con mio marito. Il garzone era come Leopoldo, anche se il suo sesso era più abbondante e molle, il suo torace più largo e possente, e il suo fare più volgare e sgarbato.

Mi prese con la forza.

Ma lo sentii strusciarsi contro la mia vagina con un vigore ed uno slancio che pochi maschi possedevano. Ero tutta attorcigliata intorno al suo corpo, lo torturavo con le mie unghie lunghe, d’argento, come l’edera può assillare e stringere l’albero che assedia con la sua passione.

Urlammo… Ma non ci sentì nessuno, no, nessuno, vi giuro.

E gli chiesi di ripetere con me quel dolce gioco altre mille volte. Egli acconsentì, annuendo come un ragazzino che obbedisce allegramente all’ordine della sua cara madre.
Una volta, camminavo lungo l’azzurro.

E udii delle voci, tante, tante voci, che mi raccontavano la loro storia appassionata e malinconica, sapete? Sì, mi accadde proprio questo.

Mi sentivo dire:

– Non andartene… Fermati qui, resta con noi, che ti dobbiamo rivelare il nostro passato! Non andartene! Non andartene, ritorna qui, resta insieme a noi, spiriti del tempo perduto!

Erano voci di fantasmi, o forse, di morti, sì.

Però non spaventavano, anzi, quasi carezzavano, sapete? Sembrava fossero parole di amici, quelle che regalavano al vento, fedele compagno che recava ai mortali il loro messaggio.

Sì, era così…

– Non andartene, passante! Rimani qui e udrai una storia dalle sfumature grigie e turchine, come le acque del lago! Non lasciarci…

Le parole degli spiriti promettevano tristezze.

E si vedevano tante stelle bianche, d’argento, riflesse sull’acqua del lago. Oh, c’era un silenzio, un silenzio, che io non vi so raccontare. Neppure le voci remote delle upupe potevano infrangerlo.

Era notte. C’era la luna, lontana lontana, c’erano le nuvole d’avorio, caste e lontane, come pensieri smarriti.

E poi…

Poi, vidi delle immagini di malinconia, che commuovevano e forse facevano piangere.

C’erano delle piccole gocce d’acqua, che precipitavano giù da una cascata. Oh, sembravano perle, ve lo giuro, perle, perle, perle! Erano così bianche, come di cristallo.

E incastonati in quei gioielli c’erano dei volti, piccoli e immobili, prigionieri di quel silenzio.

Lo sapete cosa vidi?

Un volto di donna, tanto delicato e malinconico, con i capelli lunghi, corvini, gli occhi celesti e le lacrime che le scendevano sulle guance vellutate.

Un viso d’uomo, dal torace nudo e forte, le mani che stringevano una spada, bianca e luccicante, e quasi dorata, rapì il mio sguardo.

Proprio così… E in un’altra perla era prigioniero un cavallo dal manto candido, dalla lunga criniera, oh, sembrava avesse le ali e un corno bianco che gli spuntava in mezzo alla fronte.

Una ad una, le piccole gocce di tristezza cadevano nell’acqua.

Pluff!

Il tempo di un sospiro, che già non c’erano più. Ed erano sgorgate dalla piccola cascata, piena di mistero!

Oh, ma io sento ancora, dentro di me, quelle voci perdute e tristi! Cielo, quasi mi tormentavano!

Ed &egrave così che mi rendo conto di dover raccontare quella storia, la loro storia, una delle tante, sepolte in fondo al lago, che spiriti lontani mi sussurravano, mi gridano, mi fanno ascoltare, nel silenzio blu.

Ecco… Rivedo lei, la Bella.

Andava sempre a specchiarsi in riva alle sue fonti, vicino al lago. I lunghi capelli suoi toccavano l’acqua, quasi la baciavano, tuffati in quell’azzurro.

Aveva un piccolo canestro fatto di giunchi sottobraccio, sì.

E sapete cosa faceva? A poco a poco, lo riempiva dei fiori graziosi che sbocciavano al lieto tepore della fonte.

Ce n’erano di bianchi, di gialli, di scarlatti. La Bella li coglieva uno ad uno, e ne ornava le lunghe chiome, pareva giocasse, pareva giocasse. Sì, davvero, vi giuro…

Illusioni…

La sua immagine riflessa era prigioniera del blu, come un sogno, da quale non &egrave possibile risvegliarsi mai.

E pareva che qualcuno, chiuso in quella fonte, la chiamasse, la chiamasse sempre, sempre, sempre, e fosse triste, quando lei non c’era.

– Sei venuta, brava! Ma adesso non andartene subito! Gioca con le mie acque di cristallo, tuffati nel blu, scherza con i miei spruzzi d’argento!

Questo era quello che diceva la voce della sorgente.

E la Bella rispondeva.

– No, non ti lascerò, cara… E se me ne andrò, sarà soltanto per tornare presto a consolarti… Sì, so che anche tu sei triste e mi rammarico per questo!

Le due amiche si facevano compagnia. Una era fatta di carne, l’altra, di marmo, eppure, entrambe sapevano parlare.

Poi, la Bella se ne andava, pareva volasse via come un angelo, il cesto di fiori sottobraccio, e la voce della sorgente continuava a sussurrare quel nome, il suo nome…

Era perché non voleva restare sola, davvero! E forse, perché le era rimasto scritto nel più profondo del cuore.

Ma una volta…

Oh, una volta, la Bella ebbe una visione celeste, qualcosa si specchiava sulla superficie delle acque profonde del lago, sì, qualcosa, qualcosa, qualcosa…

Oh, no! Non era così, invece… Per una volta, quello specchio di cristallo lasciava intravedere chi teneva prigioniero nei suoi abissi.

Pareva un cavallo.

Oh, no, non era un fatato destriero come tanti altri, aveva il manto bianco e le ali grandi, poteva volare. E dalla fronte gli spuntava un corno color argento, lungo lungo, bellissimo, davvero.

Non si poteva toccare, ma soltanto ammirare.

E vi giuro, pareva intrappolato nel cristallo. E sembrava piangesse, perché un destino crudele lo costringeva a restare rinchiuso nelle profondità del lago, per sempre! Proprio così, sì!

Le mani della Bella carezzavano la superficie dell’acqua, com’&egrave possibile sfiorare amorevolmente la pelle del proprio amato. Ma la sua, però, era una visione, solo una visione, o, più semplicemente, un’illusione.

Lo sapete?

Le lacrime di compassione di lei cadevano nel blu, si tuffavano una ad una verso gli abissi, per non riemergere mai più.

La Bella era commossa, sì!

E io non so proprio cosa accadde in quell’istante. La mia memoria si confonde, non vedo più niente, non rammento altro che vaghezze azzurre.

E tutto, agli occhi miei, diventa turchino, come la volta stellata del cielo.

So che poi, però, accadde qualcosa di bello e di triste.

Io non mi ricordo che una cosa, favolosa, adesso ve la racconto, sì, non abbiate paura, non c’&egrave da spaventarsi, davvero. Il mio, &egrave solo un sogno, tutto sommato.

Vidi la Bella, sull’acqua. E accanto a lei, c’era lui, splendido e forte, che la abbracciava appassionatamente.

Danzavano sull’acqua.

Oh, sì, volavano su quell’azzurro… E non c’era niente che potesse farli precipitare giù, niente che potesse spezzare il meraviglioso incantesimo.

Il lago faceva da magico specchio.

E loro erano vestiti di veli bianchi, che volavano nel vento, oh, sì, volavano, volavano, volavano. Nulla poteva farli cadere. L’acqua si increspava appena. La brezza la faceva gorgogliare, spumeggiare, brillare. Oh, veramente, la sollevava in vortici!

I due continuavano a danzare, abbracciati.

Altro non ricordo…

Ma io vidi tutto questo con i miei occhi, ve lo giuro… E se non credete a me, credete almeno alla visione, che mi rapiva in quegli istanti.

Forse, il cavallo dalle ali bianche, prigioniero degli abissi, era diventato il bellissimo e valoroso amante, per il semplice effetto delle lacrime di lei?

Io non lo so… Oh, io non posso dirlo!

Davvero, per me, era come un magico mistero, fatto di cristallo, svelarlo integralmente avrebbe potuto mandarlo in mille pezzi, sì.

Ma un brutto giorno, la maledizione si avverò.

La Bella perse il suo anello, lo fece cadere in fondo al lago. Il prezioso gioiello affondava giù giù, giù giù, giù giù, nell’azzurro fatato del sogno.

Oh, quanta infelicità!

La sconsolata aveva perduto il suo dono d’amore e sapeva che questo avrebbe attratto la maledizione triste. Cielo, io non vorrei raccontarvelo!

Ma quell’evento scatenò un incantesimo nero, cupo e cattivo. Sì, un incantesimo feroce, grande quanto una nuvola color carbone, tetra tetra, venuta per strappare mille lacrime all’infelice.

Anzi, a tutti e due. Non a lei sola! Non a lei sola, no, no, no.

– Io mio prezioso anello &egrave caduto giù nell’acqua.

– Allora, noi due non saremo più nulla, per sempre.

– Oh, che almeno la morte ci colga insieme, se davvero deve giungere a noi!

Così si parlarono gli amanti.

L’anello dorato non si trovava più. E mi ricordo di un vento freddo freddo, che scarmigliava i bei capelli di lei, e le strappava le lacrime, sì! Aveva perduto ogni sua gioia!

Il destino fu crudele.

E nulla poté salvare i due eroi.

Oh, veramente non v’era rimedio per l’accaduto! Tutto succedeva fatalmente e inesorabilmente.

Un brutto giorno, il presentimento triste si avverò.

Dei due amanti, non rimasero che voci, sepolte in fondo al blu, laggiù, negli abissi tristi del lago. E ogni tanto, il destino consente loro di parlare agli uomini, perché il vento trasporti lontano il loro richiamo appassionato e cupo.

Sono intrappolati laggiù, per sempre.

L’acqua &egrave la loro prigione, e non li lascerà ritornare in vita.

Oh, Cielo!

Ho ancora in mente il momento terribile, in cui i baratri azzurri si impossessarono di loro! Ho ancora negli occhi quella visione, sì!

Mi ricordo soltanto di una colonna d’acqua bianca, che pareva cristallo fuso…

C’era un vento forte e cupo, davvero. E i due, abbracciati, rimasero stretti l’uno all’altra, immortalati come in una statua, che affondava giù, verso le profondità irraggiungibili.

Andavano giù, giù, giù, sì.

Accadde tutto questo, e nulla più.

E le voci continuavano a risuonare in quel luoghi ameni, a raccontare agli alberi e all’erba verde il loro destino malinconico.

E’ notte… Salgono alla luna, salgono alle stelle, per narrare anche ad altri mondi le vicende della terra e del mistero.

Io non so dove vanno. Io non lo so, davvero.

Pensavo a loro e quasi mi veniva da piangere. Perché le voci erano prigioniere del blu, e pochi erano quelli che le ascoltavano.

A nessuno interessava quella storia, forse, accaduta nel lontano Medioevo.

Poi, venne l’aurora.

La luce dorata del sole faceva scintillare la superficie del lago, cigni dalle ali bianche nuotavano nell’azzurro, erano tanto docili e casti…

Le ninfee sbocciavano.

Oh, lo sapete? Avevano dei colori meravigliosi, erano bianche, rosa, alcune tendevano al blu.

Però nessuno le accarezzava, perché pochi erano quelli che conoscevano quell’angolo di paradiso incantato e meraviglioso, vi giuro. E ora vi svelerò un altro segreto, sì.

Oh, forse, la protezione degli spiriti toccava quel luogo, &egrave come se tutte le anime del lago concedessero il loro bacio ad ogni cosa che stava intorno, era per questo che tutto, lì, brillava così tanto.
Ora comprenderete perché quell’acqua sembrava fatta di diamante, quella natura era immensa e lussureggiante e lungo le rive crescevano le rose.

Le mani degli spiriti blu accarezzavano dolcemente il manto bianco dei cigni, e le loro ali.

Oh, erano nel vento, sapete? Erano nel vento, e nessuno lo poteva negare.

Quanto vi ho narrato era quello che sapevo di quella storia tanto malinconica che mi ha commossa, davvero.

Forse, sognai.

Ma tutto questo cosa importava? Forse, ciò che conta, &egrave che al mondo ci sono delle anime felici e a volte il destino vuole che non sorridano più, mai, mai più!

I due amuleti di cui già vi narrai erano nati dal fatato incontro tra le acque magiche del lago, e l’anello della Bella. Ora sapete tutto dei misteri incantati del lago.

A volte, mi avventuravo nel bosco.

Scherzavo con i rovi e le edere silvestri. Mi divertivo a gridare mille volte il mio nome al vento, per sentirlo risuonare tra le rocce lontane. Tanto, nessuno poteva sentirmi.

Chiudevo gli occhi. Allora, mi sembrava di essere ritornata per un istante nel lontano Madagascar. Ciò che mi stava intorno, non era una lussureggiante foresta d’Europa, ma una giungla tropicale.

Avevo l’impressione di ascoltare il verso monotono delle scimmie, la voce flautata del vento tropicale, e, a non molta distanza da me, un ruggito soffocato, forse, di qualche pantera, minacciosa e in agguato, nell’ombra.

Non ne avevo mai viste nell’isola, ma il solo presentimento che potessi incontrarle, mi aveva spaventata.

Passeggiavo lungo il sentiero che conduceva alla capanna grande, ed avevo la sensazione di udire il canto dei selvaggi, i loro tamburi incantati, e, ad un tratto,
un volto ricoperto con una maschera di legno appariva da dietro un cespuglio.

Era uno stregone.

Illusioni!

Rivedevo quel grande parco lussureggiante, che avevo visitato un tempo, all’ingresso, c’erano due grandi statue di elefanti, scolpiti nel marmo bianco. Parevano vivi, e avevano la proboscide alzata al cielo, come per gettare dei maestosi barriti.

Avevo sempre sognato di essere posseduta carnalmente da uno dei selvaggi dell’isola.

E di tanto in tanto, durante le peregrinazioni del mio spirito tra l’immensità dei faggi, presso il maniero, chiudevo gli occhi, e sentivo due mani tozze che mi sfioravano la pelle.

Il guerriero mi carezzava con un limone, o forse, con un ramo di palma, prima di farmi sentire il soave godimento della sua lingua, sul mio corpo. Oh, sì, allora ero veramente me stessa.

Lo stringevo forte, mentre mi lasciavo spogliare nuda, e ansimavo, in preda ad una passione sempre più ardente. Toccavo i suoi capelli bruciati dal sole, ma egli non desiderava mostrarmi il suo vero volto, no, perché lo teneva coperto con una maschera di legno.

Il corpo del selvaggio era decorato, gli chiedevo se avesse preferito possedermi sull’erba, oppure su di un’amaca, all’ombra degli alberi, lontano dagli sguardi indiscreti.

Non rispondeva nulla, anzi, continuava il suo gioco, fatto di strette improvvise, alle natiche, ai seni, alle spalle, io intanto mi accorgevo che i tanti segni che portava addosso dovevano essere come delle medaglie al valore.

– Fallo – gli dicevo. – Fallo adesso, subito, prode guerriero del Madagascar.

Mi accorsi che era forte, tanto, tanto forte. Le mie mani erano minute rispetto ai suoi muscoli poderosi e sviluppati. A tratti, apriva la bocca, per mostrarmi la lingua, che era lunga e rossa, e i denti d’avorio. Era forse per spaventarmi, era un gesto ereditato dalle antiche fiere dell’Africa nera, ma io non so dirvi quanto potesse eccitarmi.

– Avanti, ahh! – dissi.

Mi aveva presa, nuda, mi aveva portata nella sua capanna, fatta di paglia e di canne di bambù, la povera ragazza bianca gemeva e gridava di piacere sotto il corpo del suo selvaggio.

Accadde su di un’amaca, mi fece sdraiare, poi salì sopra, mi penetrò. S’udiva sempre un rumore sordo, era il continuo stropicciare dei nostri sessi bagnati, e il dondolio monocorde dell’amaca, che cigolava e scricchiolava senza sosta.

Un pappagallo era entrato dalla finestra e si era appollaiato vicino a noi, ripeteva buffamente delle parole in francese d’oltremare, che non capivo. Era ammaestrato.

Io intanto, godevo di tutto ciò di cui può godere una donna. Il selvaggio entrava sempre più in me, e mi sbatteva senza sosta, senza sosta, senza sosta. Avevo cominciato a gridare e a lamentarmi, i miei bei capelli accarezzavano il volto sudato di lui.

Poi, lo sentii recitare come delle formule sacre, e gridarle al vento, lo sentii teso e affannato, nel mio grembo, che presto fu inondato da un fiotto caldo.

I tamburi del Madagascar suonavano sempre.

Riaprii gli occhi, e mi accorsi senza stupore di essere di nuovo in riva al lago, al mio lago. Sognavo spesso, da quando ero rimasta sola. Allora, ero timida e fragile, ma anche bella, appassionata e vogliosa d’affetto. Ero donna giovane e senza età.

Sono sempre stata così. Mi definivo una sognatrice. Tutta la mia vita era stata un sogno, dai riflessi dorati e magici. Vivevo tra le stelle del piacere e dell’affetto.

Adoravo giocare e scherzare con gli animali, soprattutto i cigni, che mi attiravano per la loro maestà e la loro bellezza altera e commovente al tempo stesso. Lasciavo che le upupe e gli usignoli del bosco mi si posassero sul braccio, e sussurravo loro storie senza tempo, che avevano il sapore dei tropici.

Potevo trascorrere intere notti a contemplare gli astri, credevo di conoscerli uno per uno. Ingenua! Quando non dormivo, improvvisavo al pianoforte fino all’alba.

Ero una seduttrice che ama essere sedotta, essere corteggiata e corteggiare. Potevo essere chiusa in me stessa, o pronta a stringere a me il primo uomo che mi avesse catturato il cuore. Ero lunatica. Però non ero mai stata veramente cattiva. Sapevo vestirmi in modo provocante senza dare fastidio ai moralisti.

Ero una di quelle che riuscivano a corteggiare con gli sguardi. Sapevo sospirare. Tutte le mie lacrime erano vere, ma preferivo scherzare, più che piangere. Ero ben truccata, ben vestita, dicevano che ero bellissima.

Già, dimenticavo di dirvelo… Probabilmente, nessuna delle fantasticherie erotiche ambientate in Madagascar, di cui vi ho appena narrato, era stata né sarebbe mai stata da me vissuta nella realtà della vita. Erano illusioni perdute nella natura!

Amavo sedermi in riva ad un azzurro e gorgogliante ruscello, con il mio uomo al mio fianco. Era l’affascinante e sconosciuto stalliere, di cui già vi ho parlato. I nostri occhi quasi si smarrivano, in quegli istanti, contemplando l’immenso.

La voce lontana e un po’ fantastica di una cascata bastava a farci sognare l’affetto. Io ero innamorata di lui, e, forse, anche egli lo era di me.

Mi stringeva forte la mano, e giocavamo a gettare allegramente i sassi in quelle acque fatate. Amavamo vederli rimbalzare.

Ero sempre io quella che cercava le sue labbra, e le meravigliose tenerezze di cui egli era capace. Sapeva accarezzarmi, quando lo voleva. Io amavo la folle sensazione che mi davano le sue guance ricoperte di un velo di barba, sulla pelle.

Gli raccontavo del Madagascar, e della passione che da sempre regnava in quei luoghi tropicali. Io stessa l’avevo sperimentata. Avevo amato, e continuavo ad amare.

Egli mi guardava con due occhi stralunati, assenti. Pareva non mi ascoltasse. Però, desiderava toccarmi. Lo faceva spesso, mi trattava come se fossi stata sua da sempre, e avesse un piano segreto da realizzare con me.

Inventavo delle storie leggendarie e fantasiose, gli narravo dei pirati del Madagascar, dei loro velieri veloci, fatti per salpare alla volta delle Indie, o dell’Arabia, erano pirati che ammaestravano le scimmie, una di loro era donna, sì, segretamente donna, e sapeva maneggiare la sciabola e baciare.

Gli raccontavo anche del mio amico pappagallo, che io avevo voluto chiamare Cocorito, aveva i colori meravigliosi dell’Africa, e sapeva parlare. Gli avevo persino insegnato a corteggiare una donna.

Il mio amante mi ascoltava sempre assorto, mentre, parlandogli amichevolmente, e sussurrandogli tenerezze, camminavo con lui in riva al lago, o davanti ai meravigliosi giochi d’acqua che avevo fatto costruire davanti al maniero. C’era una Venere scolpita nel granito, e dieci piccoli Cupido le danzavano intorno, ad un tratto, lei faceva un inchino, e si posava le dita sulle labbra, come per regalare un bacio. Il meccanismo era azionato da un getto d’acqua.

Una volta chiesi al mio caro garzone se mi amasse.

Rispose di sì. Bastava.

Era cacciatore. Non aveva mai voluto dirmi quale fosse il suo vero nome. Ora vi dirò, quasi in gran segreto, che io mi permettevo di chiamarlo René. Era così che l’avevo sempre chiamato.

Ricordo come mi stringeva forte la mano, e, impetuosamente, mi trascinava quasi a forza nel bosco, con il fucile sottobraccio. Gli animali lanciavano mille versi di terrore, e fuggivano spaventati, poi, ad un tratto, quel suono sordo, e un po’ crudele, un grido, una vittima: era quella vecchia bocca di fuoco, che aveva sparato.

La mia immaginazione romantica mi induceva a dipingermi René come un eroe, un cacciatore, signore del bosco, che amava tanto la sua bella.

Una volta, correvo trafelata, mano nella mano con lui, lungo un sentiero ripido… Il mio amante teneva il fucile carico in pugno, c’erano molti ramoscelli tagliati da poco da qualche boscaiolo, lui inciampò improvvisamente, cadde, partì un colpo…

Non accadde nulla di grave, per fortuna, ma dalle mie rosse labbra di donna uscì un grido di spavento, e una nube di fumo grigio, sprigionata dallo sparo, ci avvolse.

Che paura!

Ma io facevo sempre la corte al mio cacciatore, e non gli lesinavo i baci e le carezze, anche quando andavamo a far l’amore alla vecchia segheria abbandonata, che avevano costruito il secolo scorso, sul di un isola nata in mezzo al fiume. Ci si poteva arrivare soltanto in barca. Era un edificio un po’ decrepito, dove nessuno più si recava da tempo.

Dicevano che era diventato un covo di falsari. Ma erano leggende… Io e il mio René ci andavamo per le pernici.

Vi confesso che provavo un po’ di pena nel vederlo catturare e uccidere dei poveri animali. Mi sembrava quasi senza cuore. E quando insieme contemplavamo il vecchio forziere di famiglia, la sera, pieno d’oro, gioielli, pietre preziose e monete d’argento, mi accorgevo di come lui non dimostrasse grandi attenzioni per me, mentre tuffava avidamente la mano in quelle ricchezze.

Diceva che era soltanto un gesto scherzoso, ma amava rigirarsi tra le mani i miei preziosi “bijoux”, cosa che il mio affetto certamente non gli negava.

E quando mi chiamava, diceva sempre:

– Signora…

Sì, ero la signora del suo cuore. L’avevo sedotto. E lo corteggiavo, lo corteggiavo, lo corteggiavo, senza stancarmi mai.

Ricordo che una volta eravamo soli nel bosco, dalle parti del rovere antico, sulla corteccia del quale avevamo inciso i nostri nomi. Ad un tratto, ecco apparire il cinghiale, l’Orco, che correva verso di me, per sbranarmi.

Gettai un grido.

E il mio amante imbracciò il fucile, e con un sol colpo, salvò la sua bella, che allora gli corse incontro, lo strinse forte tra le sue braccia, e gli donò un ardente bacio sulla bocca, mentre l’eroe ancor teneva l’arma fumante con la mano prediletta.

Rammento con quanto coraggio aveva sparato, e la vampata di fuoco che era uscita dalle canne del fucile.

Era sempre premuroso, pieno di attenzioni verso la sua donna timida e vogliosa. Mi carezzava i piedi, le gambe, con le sue belle mani tozze, che sapevano torturare e vezzeggiare.

Mi chiedeva di farlo nei luoghi più impensati, spesso, succedeva nel bosco, lontano dagli sguardi indiscreti. Di solito, però, ero io a provocarlo.

– Signora, per favore, non faccia così, non mi tenti… – mi diceva, in quei momenti.

Sapete, io amavo tirarmi su maliziosamente la gonna, con una civetteria tutta femminile, e gli mostravo così le belle cosce, velate da calze a rete, che andavo accarezzando con la mano bianca, fatta per l’amore.

– Signora, io amo queste cose, lei lo sa… – sussurrava lui.

– Su, René, dammi del tu – gli rispondevo allora. – E’ proprio così difficile?

A volte, capitava che quasi mi saltasse addosso. Era violento, passionale. Succedeva spesso anche nella scuderia, davanti ai miei bei cavalli bianchi, che diventavano così spettatori inconsapevoli dei nostri rapporti sessuali.

Amava le mie labbra lungo la sua virilità, amava scorrere dolcemente nella mia bocca, fino a rendersi consapevole dello spasimo della mia lingua infuocata, delle mie tonsille roventi, e della mia saliva, dolce come il miele.

Quando veniva, gridava sempre.

Era un lamento selvaggio, il suo, che mi faceva ritornare indietro nel tempo, e riconduceva i miei pensieri ai versi magici e cupi che vagavano come una melodia attraverso le giungle del Madagascar.

Lo volevo dentro di me.

Non mi stancavo mai di sentirlo ardere di passione nel mio grembo di donna.

Il fuoco suo si mescolava al mio, i suoi muscoli erano così tesi e forti, negli istanti più ardenti, che… oh! Mi scuoteva, mi teneva stretta, non mi dava pace.

Ma se gli chiedevo di lasciarmi, lui mi ascoltava sempre, perché io ero la sua “signora”.

E negli attimi più indescrivibili, quando entrambi toccavamo un piacere che nessuno può descrivere, le mie labbra cercavano le sue, e gli sussurravo “ti amo”. Nessun uomo prima di lui mi aveva mai fatta godere tanto.

Mi ricordo di un piccolo bosco.

Vi crescevano i faggi, alti alti, i frassini e la rosa canina. In primavera, i fiori sbocciavano ed era tutto un incanto.

All’aurora, si sentivano festosi festosi i canti degli uccelli che lo abitavano. Ed era un risveglio tanto grazioso per il povero vagabondo solitario, addormentato.

E c’erano anche le querce.

Avevano il tronco tutto scavato dagli anni, erano tanto, tanto vecchie, sì.

Pareva dicessero:

– Oh, noi abbiamo visto tante cose! Abbiamo visto tanti fanciulli nascere, crescere, morire. Chiedeteci qualcosa del passato, e vi risponderemo. Ma non molestate il silenzio del bosco, no, non lo molestate!

Ogni tanto, davvero, si sentiva questa voce, che vagabondava nel vento suo amico.

Ed era così misteriosa,così magica e triste, che quasi non ve la saprei raccontare.

A volte, pareva di sentire il pianto delle querce. Sì, perché avevano perduto malinconicamente le loro sorelle, abbattute dai boscaioli!

E quel singhiozzo si smarriva nel silenzio grande e triste.

Oh, sì, era così!

Dei tanti abitanti di quel piccolo angolo di paradiso, io racconterò di un tordo.

Fin da quando albeggiava, riempiva la solitudine con il suo canto. Oh, era un piacere ascoltarlo! Durante il giorno, non faceva che volare, saltare di ramo in ramo, semplicemente, tanto ingenuamente, perché mai avrebbe creduto che qualcuno potesse fargli del male.

E volava, volava, volava, sì.

Amava molto il vento, suo compagno, che gli permetteva di librarsi fra le nuvole bianche, di non stare mai fermo, e di giocare.

Oh, gli piaceva tanto vivere!

E fino a quel momento, non aveva mai incontrato nessuno che gli facesse male, oh, no, nessuno, nessuno, nessuno.

Un bel mattino, fu risvegliato dal canto melodioso di un uccello che non aveva mai visto e si era nascosto fra i rovi, a pochi passi da lui.

– Come ti chiami? – gli chiese.

– Usignolo, e canto per i vivi e per i morti. Sì, sono la loro consolazione.

Con queste parole l’uccello canoro gli aveva raccontato tutte la sua vita, perché essa consisteva soltanto in questo, fino alla fine. E non era bello, in fondo, secondo voi?

Oh, sì, davvero, poteva essere meraviglioso!

Tordo e usignolo, fatta amicizia, decisero di aiutarsi a vicenda.

Il piccolo uccello che abitava fra i rovi disse tante cose tristi al suo compagno. Un giorno, si parlarono così:

– Lo sai? – fece il tordo. – La vita &egrave tanto felice, non esiste nessuno che faccia il male, quaggiù.

– Ti sbagli, amico caro, ti sbagli.

– Oh, che dici mai? Forse non &egrave così?

– Io vengo da lontano e ho visto tutte le miserie del mondo. Invano cercavo di consolare tutti con il mio canto, ma non ci riuscivo, no, non ci riuscivo.

E in poche parole, l’usignolo gli raccontò tutto ciò che aveva visto al mondo.

Fanciulle che piangevano, perché prese a schiaffi da un padre cattivo che non era capace di voler bene, baci ardenti di passione, regalati inutilmente a persone che non sapevano amare, appassionati addii, sussurrati sul predellino di carrozze in partenza, o di treni a vapore, tra persone che non si sarebbero riviste mai più!

Donne in lacrime, i lunghi boccoli biondi al vento, o scarmigliati al suolo, che accarezzavano i fili d’erba… Una lettera d’abbandono in mano, sigillata con ceralacca rossa… Le belle mani bianche fatte per accarezzare… Mille singhiozzi di passione, rapiti dal vento!

L’usignolo aveva visto tutto questo.

Oh, sì, lui aveva cantato e cantava, per rallegrare il mondo, afflitto dalle sue tristezze.

Aveva anche un amico colombo, al quale i mortali erano soliti affidare lieti messaggi d’amore, che dovevano essere recapitati a mille miglia di distanza, per consolare amanti destinati a non incontrarsi mai.

Quando il tordo seppe, scoppiò a piangere.

Oh, come poteva essere? Dunque, la terra era tanto brutta? Dunque, c’erano tante lacrime da versare? Sì…

Cielo!

I due amici volavano insieme attraverso il bosco, volavano sui faggi e sulle querce. Mi ricordo che era autunno, tutto sembrava più grigio, anche il sole che brillava lassù.

Il tordo sapeva che quella era la stagione in cui le foglie degli alberi morivano, e arrivava la prima neve.

Per questo volle stringere un patto con il suo amico usignolo, che gli voleva tanto bene.

– Se un giorno io non avrò neppure una briciola di pane, tu dividerai il tuo insieme a me… Non &egrave così?

– Te lo prometto!

Così si dissero i due.

E venne l’inverno, tanto, tanto freddo. La neve ricopriva tutte le cose, oh, no, non c’era molto da mangiare, e gli animali del bosco erano tutti addormentati tristemente.

Ma un giorno…

Un giorno accadde una cosa bruttissima, sì!

Fra le vecchie querce si sentì risuonare un rumore forte, tanto forte, mai sentito prima. Sembrava un tuono, ma non c’erano temporali, in quella stagione, no. Allora, cos’era mai? Buon Dio, cosa? Io ho paura di dirlo.

Il povero tordo volava cantando, chiamava il suo amico, ma lui non gli rispondeva più, più, più!

Oh, cosa gli era successo? Cosa poteva essergli capitato mai? Dov’era andato? Era impossibile che fosse partito così, senza dirgli nulla. E infatti… oh!

Il piccolo usignolo giaceva sulla neve bianca bianca, morto.

Non sentiva più freddo, non aveva più bisogno di mangiare, non cantava più. Era stato il cacciatore crudele a ucciderlo, con un colpo del suo fucile fumante, senza pietà. Immaginatevi un uomo dal volto rugoso, con una cicatrice sulla guancia, gli stivaloni e il mantello nero: l’orco della foresta!

Il povero tordo pianse tanto, davvero! Ma le sue lacrime non bastavano a resuscitare il suo amico defunto. Ricordo che la neve cadeva a fiocchi e lo ricopriva a poco a poco, sì…

Le volpi pareva piangessero spaventate. Arrivava il cattivo. Sentivate il suo passo di lontano, o forse, il tuono del suo fucile, poi vedevate spuntare dall’erba il muso di un animale, che faceva paura. Era il cane da caccia, che spalancava le sue fauci e abbaiava forte, tanto forte.

Io vi ho narrato la vicenda con le parole e le sfumature di una fiaba, per non rattristarvi troppo. Ma la verità &egrave che Sveva era quell’usignolo morto, sulla neve, e il tordo, suo compagno, rappresentava il suo amico del cuore.

Fu un brutto giorno, quando accadde.

La bella perse la vita in un incidente di caccia. Fu per mano di un crudele che morì e, vi giuro, non so se l’avesse fatto apposta. Ma quel fucile nero aveva sparato verso l’infelice, che era caduta.

Aveva visto il branco di cani, la corsa disperata del cinghiale, il luccichio dorato del corno francese, il suo cavallo, tutto, come in sogno, per l’ultima volta.

Sveva giaceva sulla neve bianca, una goccia di sangue le era sfuggita dalle labbra, i suoi lunghi capelli biondi volavano nel vento di bufera. E anche in quell’istante, nell’ultimo suo istante, desiderò di amare e di baciare.

Il giovane suo amico, il garzone della scuderia di cui già sapete, le stava accanto, e le carezzava le chiome morbide, per l’ultima volta.

Già vi ho detto che non so se fu realmente incidente, o assassinio. Ma i due uomini decisero che nessuno doveva sapere, perciò, rinchiusero la bella in un baule di legno, me li ricordo tristemente mentre maneggiavano con brutalità il suo corpo bianco e nudo, ornato di pochi veli…

La gettarono così, chiusa in quella cassa, alle braccia del lago, e mentre sprofondava, i capelli suoi nuotavano come alghe in quelle acque fredde, e mille voci si levavano dal silenzio blu, mentre le stelle dell’inverno si accendevano nel cielo.

Le avevano detto che la amavano, e che d’allora in poi, ella avrebbe potuto regalare il suo bacio d’affetto agli spiriti del lago.

Chi vi scrive queste poche righe non &egrave Sveva, ma un suo caro amico, che ha trovato le ultime pagine del suo diario, scritte con inchiostro blu, accanto al suo rossetto.

Vi saluto con affetto, proprio come vi avrebbe salutati lei.

Baci.

Parigi, 24 marzo 1958.
Capitava che mi prendesse all’improvviso, quando meno me l’aspettavo. Era un po’ violento. Era impetuoso. Sapeva coprirmi di baci e di percosse allo stesso tempo. Io mi divertivo a stuzzicarlo. A volte fingevo addirittura. In altre occasioni, riusciva veramente a strapparmi delle grida di piacere feroce.

Era l’uomo ideale. Ne ero innamorata. Capitava che mi mettessi a giocare per lo scalone e che, dopo essermi sollevata la gonna, scendessi scivolando giù per la ringhiera. Lui era di sotto ad aspettarmi e, così, arrivando, gli mostravo le mie belle gambe, di cui avevo sempre gran cura.

Ricordo che era appena finito un ballo in maschera. Io mi ero vestita tutta di blu, con una mascherina seducente che mi copriva il volto. Avevo ballato con tutti gli invitati, per farlo ingelosire. L’avevo fatto apposta. Lui, allora, mi aveva stretto forte la mano e si era diretto verso la camera da letto, trascinandomi via con sé con grande veemenza.

Si voleva vendicare!

Dopo che fummo entrati in camera chiuse la porta a chiave. Io mi tolsi la maschera, perché pensavo volesse soltanto scherzare. Ma mi ero sbagliata. Mi schiaffeggiò forte. Lo fece ripetutamente, tanto che mi misi a singhiozzare. Ma ero eccitata da quel suo gioco. Se avessi avuto il coraggio di parlare, gli avrei chiesto di darmi altri cento schiaffi, non soltanto sulle guance, ma anche sul seno, sui fianchi, sulle natiche.

Come per mistero, lui intuì i miei desideri e li esaudì. Mi sentii tartassare da quelle carezze violente lungo tutto il corpo. Nessuna porzione della mia pelle ne fu risparmiata. Gridai. Urlai. Implorai:

– Basta!

Ma lui non mi ascoltava. Era come se mi fossi data un padrone. Mi strappò di dosso quel vestito di carnevale che mi ero comprata, facendolo a brandelli. Era nervoso, arrabbiato. Allora io cominciai a mordergli la pelle, come per vendicarmi.

Fu penetrandomi nell’ano che mi punì. Il suo pene scorreva veloce attraverso l’estremità del mio intestino, che si arrossava e mi dava un intenso piacere. Cercavo invano di sfuggire alla sua stretta. Mi dimenavo.

Fu per questo che lui decise di legarmi. Allora, fu ancora più eccitante.

Ricordo che mi torturava la schiena con la sua lingua. Si insinuava dappertutto. E io non potevo ribellarmi. Qualsiasi cosa lui facesse, avrei dovuto accettarla. Non mi fece male. No, anzi, provai un piacere folle, proprio quello che mi aspettavo, dopo quel ballo.

– Scopami così’ Ah!

– Sei femmina! ‘ mi diceva. ‘ Sì, sei femmina e sei bagnata! Godi! Godi! Godi, che ti faccio morire!

Presto mi accorsi che dal mio ano usciva un po’ di sangue. Era colpa del mio uomo, della sua impetuosità. Aveva usato così poco lubrificante! Mi sentivo un airone che vola nella palude e riempie il silenzio dei suoi versi secchi.

Avevo sempre la bocca spalancata per gridare. Sembrava avessi voluto mordere il mio compagno, il mio cacciatore! Ero diventata la sua preda, adesso che mi aveva catturata, non mi avrebbe più lasciata andare.

E il mio cuore palpitava per lui, soltanto per lui!

Che dolcezze!

Anche se era arrabbiato, cercai di abbracciarlo, di sentire il suo cuore che batteva accanto al mio, di godere della sensazione della sua pelle sulla mia, delle sue mani, che stringevano i miei fianchi. Sì, si era aggrappato a me!

Languiva in me!

Sognava in me!

– Ah, mi fai scoppiare di piacere! ‘ esclamai, con tutta la forza della mia voce.

Ero stata particolarmente selvaggia, in quell’occasione, perché sapevo che nessuno avrebbe potuto sentirci. Che intimità! Che baci, che sembravano morsi appassionati! Che slanci! Che passione!

Poi, lui venne nel mio ventre fece fatica ad uscire’ Il mio ano si era ristretto improvvisamente, tanto da imprigionarlo. Fu così che rimanemmo attaccati per un po’, suo malgrado. Che meraviglia! Eravamo un corpo solo.

Il suo era un amore venale, me lo sentivo.

Mentre passeggiavamo vicino alle siepi antiche, mi stringeva la mano e mi chiedeva perdono per essere stato un po’ brusco con me, in passato. Sapevo che le sue parole esprimevano affetto, ma anche qualcos’altro.

Io non mi stancavo di promettergli che lo avrei nutrito e ospitato nella mia dimora per sempre. Il nostro amore doveva durare per un’eternità’ Gli dicevo anche che gli avrei lasciato tutti i miei beni, così, se fosse accaduta una disgrazia, lui avrebbe avuto di che consolarsi.

Per ringraziarmi di tanta magnanimità, divenne improvvisamente più premuroso, più attento, più virile.

Prima della conclusione dei nostri rapporti sessuali estraeva quasi sempre il pene dalla mia vagina, e mi veniva tra le labbra, mi riempiva la bocca di quel miele prelibato che, forse, valeva più dell’oro. Amavo gustarlo e conservare dentro di me quel ricordo di piacere.

Dopo aver ricevuto quel nettare prelibato, mi leccavo spesso le labbra, con la mia bella lingua, che era rossa, lunga e vellutata. Sì, era una lingua che sapeva torturare e accarezzare al tempo stesso. Non ero mai riuscita a sperimentarla su me stessa, sulla mia vulva. Era impossibile.

Oh, quanto avrei voluto provarci! Tutto inutile, la natura non permetteva questa felicità. Ma potevo averne mille altre. Riuscivo ad appagare la maggior parte dei miei desideri erotici. Avevo fatto sesso anche nel bosco, in piena libertà, con lui, si intende.

Ah, che piacere!

Dopo ogni assalto, mi sembrava di rinascere. Sentivo un fuoco benigno che correva sulla mia pelle e la rigenerava da cima a fondo. Fui fortunata, allora, perché potei godere di penetrazioni molto profonde, di spinte impetuose, di una pelle sensibile e capace di regalare emozioni, di una verga lunga, prelibata, che mi apparteneva.

Impazzivo d’amore e di piacere. Questa era la verità.

Non avrei voluto raccontare a nessuno il mio segreto di voluttà, nemmeno ad un’amica fidata. Nemmeno al vento.

A volte lui si divertiva a disegnare sulla mia pelle. Era bravo, con la matita. Quella punta sottile e un po’ fastidiosa mi faceva godere. Si fermava sulla mia bella schiena, sulle mie spalle, per poi scendere sul mio ventre, che il mio uomo tormentava così spesso con i suoi schiaffi di passione.

Godevo fin dal momento della penetrazione. E poi, era un susseguirsi di gemiti, di versi, di appassionate lotte di corpi nudi. Riuscivo a raggiungere le vette del piacere carnale più e più volte, durante uno stesso rapporto.

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