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Racconti Gay

Esperienza con un amico

By 11 Gennaio 2014Dicembre 16th, 2019No Comments

Questo racconto, o meglio, questa confessione, &egrave rimasta sopita in mente per oltre vent’anni
E’ infatti da tutto questo tempo che dentro di me conservo gli eventi che sto per narrare, eventi che ho ritenuto giusto mantenere segreti per i motivi che credo potrete facilmente capire da soli.
Tuttavia, ora sento il bisogno di confrontarmi con altre persone, sentire le loro opinioni o, forse semplicemente, togliere il tappo e lasciare che tutto esca liberamente.
Andiamo indietro di parecchi anni: non ricordo con precisione, ma ero giovane.
In quel momento il mio rapporto con il sesso era del tutto teorico: non ero mai stato con una ragazza, come per altro parecchi dei miei coetanei.
Avevo tuttavia una passione che fino a quel momento non ero stato in grado di correlare all’aspetto sessuale, vale a dire il desiderio di essere legato.
E’ una passione comune a molti, ora me ne rendo conto, ma all’epoca non ero in grado n&egrave di capirlo n&egrave di valutarla in nessuna maniera.
Ero convinto essere “strano” a provare certi desideri, non ne avevo mai parlato con nessuno.
I fatti che sto per narrare si svolgono al mare.
La mia famiglia e un’altra – amici da una vita – avevano affittato una casa per una stagione: non c’erano molti soldi ed era una maniera per fare le vacanze senza spendere molto.
Anche l’altra famiglia aveva un figlio: si chiamava Riccardo ed aveva un anno meno di me.
Pur non essendo amici, Riccardo ed io ci frequentavamo abbastanza in virtù dell’amicizia delle nostre famiglie: giocavamo a calcio assieme e ci vedevamo spesso.
Una sera gli adulti decidono di andare a cena fuori. N&egrave io n&egrave Riccardo ne abbiamo voglia, così ci lasciano a casa da soli.
Ci prendiamo una pizza e ci mettiamo a guardare un film.
E’ un film di gladiatori e ad un certo punto uno dei protagonisti viene catturato e legato ad un tavolo (non ricordo bene la storia, mi era indifferente anche all’epoca, figuraimoci vent’anni dopo!) per essere torturato.
La scena ovviamente mi piace.
“Sarebbe figo se non fosse una finzione – dico a Riccardo — se gli attori soffrissero veramente”.
“Non lo farebbe nessuno”, mi risponde.
“Dipende – dico io – Io sì”.
Resto in silenzio dopo aver parlato. Come reagirà a questa cosa?
“Non resisteresti”, dice lui.
“Io scommetto di sì”, incalzo.
Rimane in silenzio.
“Se vuoi facciamo una scommessa”, gli dico.
“Dimmi”, risponde.
“Tu mi torturi per dieci minuti. Se resisto vinco io, se no vinci tu”.
Ho il cuore che batte fortissimo. E’ la prima volta nella mia vita in cui sono vagamente vicino a realizzare il mio sogno.
“Cosa ti posso fare?”, mi chiede.
“Quello che vuoi. Se non sopporto dico basta e ho perso. Basta che non mi accoltelli!”,
Cerco di scherzare ma sono emozionato.
“Ok, andata! – dice lui – Però possiamo fare che dopo che io ho torturato te, tu lo fai con me. Chi resiste di più ha vinto”.
Non me ne frega molto di farlo a lui, però gli dico che va bene.
“Quanto scommettiamo?”, chiede.
“Diecimila lire”, propongo. Per due ragazzi come noi sono una fortuna.
Ci spostiamo nella camera da letto.
Non abbiamo parlato di abbigliamento, però io mi spoglio fino a rimanere solo con il costume.
Nella mia immaginazione &egrave sempre stato così e non gli lascio il tempo di dire qualcosa di diverso.
Mi sdraio sul letto e lui prende una cintura dell’accappatoio con cui mi mega i polsi alla testiera del letto.
Chiudo gli occhi, cercando di godere del momento.
Per la prima volta nella vita sto per realizzare il mio sogno.
“Faccio partire il tempo”, dice Riccardo. “Chi resiste di meno perde”.
Sento subito le sue mani sui miei fianchi che mi fanno il solletico.
Mi &egrave già capitato, ma &egrave diverso quando si &egrave legati, oppure lui &egrave semplicemente più bravo a farlo.
Però non posso cedere subito, per me la scommessa &egrave molto relativa, a me interessa solo essere torturato.
Per fortuna dopo un paio di minuti mi concede una pausa, durante la quale mi tira i peli delle ascelle.
Mi fa male, ma &egrave sopportabilissimo.
Vedendo che non sortisce effetto, riprende a passarmi le dita sul torso.
Io tengo gli occhi chiusi, fingendo di essere concentrato per non cedere.
Dura qualche minuto, poi sento lui che dice:”Hey, ce l’hai duro!”.
Apro gli occhi e guardo verso il basso. Il mio costume &egrave decisamente rigonfio, non me ne ero neppure accorto!
“E’ il solletico…”, mormoro, sperando di essere credibile.
Lui abbassa il raggio di azione delle sue dita e mi tocca vicino all’inguine.
Non sembra turbato dalla mia erezione e gliene sono grato.
Ad un certo punto scosta l’elastico del mio costume da bagno e lo abbassad i qualche centimetro, scoprendomi il pene.
Non dico nulla. Io sono il prigioniero torturato, lui può farmi quello che vuole.
Non succede nulla per qualche secondo, poi sento il costume scorrere lungo le gambe e quindi cadere a terra.
“Posso farti quello che voglio?”, mi chiede ancora.
“Percepisco l’ambiguità della domanda, ma non voglio che smetta.
“Certo. Se non mi piace dico basta”, gli rispondo.
Un attimo dopo sento la sua mano attorno al mio pene.
Nessuno mi aveva mai toccato prima, n&egrave una ragazza n&egrave, chiaramente, un ragazzo.
Cosa devo fare?
Dovrei dirgli di smettere, io non sono gay.
Però non potrebbe essere questa un’altra forma di tortura, farsi toccare da uno del mio stesso sesso?
La sua mano comincia a salire e scendere, io ho i polsi immobilizzati e non posso fermarlo.
Mi piace…mi sono masturbato molte volte, ma quando lo fa qualcun altro &egrave diverso.
Continua a salire e scendere.
“Ti piace?”, mi chiede.
Io non gli rispondo, sono imbarazzato ma mi piace.
Non riesco ad ammetterlo neppure con me stesso, figuriamoci con lui!
Lui continua, io non so cosa fare.
E’ un ragazzo, cazzo!
E poi dormiamo nella stessa stanza…cosa potrebbe succedere d’ora in poi?
“Fermati”, sussurro.
Lui non mi sente, o fa finta di non sentire.
Il mio pene non asseconda il disagio che provo, &egrave sempre bello eretto.
“Fermati!”, gli dico di nuovo.
E’ troppo tardi.
Lui dà ancora due colpi, poi vengo.
Lui molla la presa e lo sperma si deposita sul mio petto.
Mi alzerei e scapperei via, ma sono legato.
Lui ride:”Sei venuto!”, come se non pensasse che sarebbe capitato.
“Liberami!”, gli dico.
Scioglie i miei legami e mi pulisco; lui guarda l’orologio.
“Tredici minuti”, mi dice.
Io da subito non capisco, poi mi ricordo della scommessa.
“Certo”, gli dico, mentre mi passo un fazzoletto di carta sul torace.
“Ora tocca a me”, mi dice.
Si sdraia sul letto e si toglie la maglietta, quindi si sfila anche il costume.
“Meglio senza”, commenta.
Io non lo lego, lui afferra la spalliera come se fosse immobilizzato.
Sono in imbarazzo, siamo entrambi nudi sul letto, io sono appena venuto.
Però allungo una mano verso il suo pube.
Lui non sembra aspettare altro, lo sporge verso di me.
Gli prendo il membro, si irrigidisce subito.
Non voglio toccarlo, ma mi sento in debito.
E poi penso che forse sono io a farmi troppi problemi, forse &egrave solo un gioco e io non ho capito.
Dopotutto, avevo sentito di maschi che si fanno le seghe in gruppo.
Gli scopro il glande e lo tocco.
“Senti, non ce la faccio”, gli dico.
“Dai, solo due minuti!”, mi risponde lui.
Penso che se lo faccio venire sarà come se avessimo fatto l’amore assieme.
“No, scusami…”.
Mi alzo e esco dalla stanza. Negli anni che seguirono ebbi ovviamente ancora occasione di incontrare Riccardo, anche se l’episodio non ebbe – almeno nel breve – delle conseguenze pratiche.
Ci pensai a lungo, quello sì, e anche lui, visto che – almeno in tre occasioni – non mancò di buttare lì frasi tipo:”Ti ricordi cosa &egrave successo quella volta al mare?”.
Tutte le volte io minimizzavo, cercando di smorzare i toni e dicendo semplicemente che sì, me ne ricordavo, ma non volevo entrare in argomento.
Con il tempo, le nostre frequentazioni si azzerarono: mio padre litigò con il suo e di conseguenza le nostre famiglie non si incontrarono più; nel frattempo avevo anche smesso di giocare a calcio, cosicch&egrave non ci vedemmo più per diversi anni.
Lo incontrai nuovamente una sera di parecchi anni dopo, quando avevo circa ventotto anni.
Ero solo nel mio negozio e vidi qualcuno che bussava alla vetrina. Era lui.
“Ciao! Non sapevo avessi aperto un negozio qui! Quanto tempo!”, mi disse.
Lo feci entrare e facemmo due parole, aggiornandoci sulle rispettive famiglie e su di noi.
Lui abitava ancora con i suoi genitori e lavorava come operaio; suo fratello si era trasferito in Francia
“Io abito proprio qui dietro”, gli dissi.
Esitai un attimo, poi aggiunsi:”Se ripassi tra una mezz’ora, chiudo il negozio e ti faccio vedere casa mia”.
Avevo il cuore in tumulto; non potevo non pensare a cosa era successo l’ultima volta che ci eravamo trovati soli in una casa.
Lui annuì: “Perfetto! Vado a prendere delle birre e torno qui, così abbiamo anche qualcosa da bere”.
Si voltò e mi promise che sarebbe tornato per la chiusura.
Io ero in agitazione.
Cosa sarebbe successo?
Magari anche nulla, pensai. In fin dei conti erano passati più di dieci anni: anche se probabilmente si ricordava bene di quanto capitato, questo non significava necessariamente che sarebbe successo di nuovo.
Da adolescenti la sessualità a volte &egrave tumultuosa, a quasi trent’anni di solito si &egrave già trovata la propria via.

Riccardo si presentò puntuale come un treno svizzero all’ora di chiusura.
Spegnemmo insieme le luci, abbassammo la saracinesca e ci avviammo verso casa mia.
Era veramente dietro l’angolo e non ci impiegammo più di un minuto.
Ci accomodammo in salotto, apparecchiai con un salame e qualche formaggio e stappammo due birre.
I primi venti minuti furono conversazione normale.
Si parlò di lavoro, di calcio, di amici comuni che avevamo perso di vista, fino a quando non se ne uscì con la frase che paventavo da un paio di ore:”Ti ricordi di quel pomeriggio al mare?”.
Soseggiai la birra e risposi di sì, che mi ricordavo.
“Sono stato un po’ imbranato”, dissi.
Intanto pensavo. Pensavo che, negli anni, non avevo ancora dato sfogo alla mia passione per il bondage e il BDSM.
La mia precedente ragazza mi aveva assecondato un po’, ma lei tendeva ad essere passiva e la cosa – pur avendomi comuqnue dato diverse soddisfazioni – non era quello che cercavo.
A quel momento, l’esperienza con Riccardo era ancora quella più vicina a quello che desideravo.
“Potremmo rifarla”, dissi.
Il cuore mi batteva fortissimo.
Lui sorrise, stupito.
“Ti andrebbe?”.
Potevo ancora dire di no.
“Certo. Però dovremmo mettere delle regole, fare come fosse una sfida”.
“In che maniera?”.
Ci avevo pensato più di una volta in quegli anni, non stavo improvvisando.
“Ad esempio potremmo fare così: uno tortura l’altro per un certo tempo, diciamo venti minuti. Durante questi venti minuti, chi &egrave torturato può interrompere quello che sta subendo dicendo una data parola, ad esempio Pugno! A quel punto l’altro deve smettere e non potrà proseguire con la stessa tortura, ma dovrà inventarne. Alla fine dei venti minuti si vede chi ha detto Pugno! più volte”.
“E cosa si vince?”.
Esitai un attimo, poi parlai:”A quel punto, chi avrà vinto avrà l’altro a disposizione per un’ora. Potrà fargli quello che vuole e non ci sarà Pugno! che tenga”.
Ci guardammo per qualche secondo.
“Ovviamente non valgono pratiche che lascino segni, traumi e che siano pericolose”, aggiunsi.
“Ovviamente”, rispose lui.
Calò su di noi qualche secondo di silenzio.
“Allora?”, gli chiesi.
“Va bene – rispose – Chi inizia?”.
“Lanciamo una monetina: chi vince, secglie cosa fare”, proposi.
Vinsi il sorteggio, e scelsi di essere il primo a torturare.
“Vado a preparare – dissi – Tu intanto finisci la birra”.

Andai nella mia stanza da letto e per prima cosa tolsi dal letto lenzuola e coperte, lasciando solo il materasso, quindi recuperai da una scatola quattro lacci a cui avevo già legato degli elastici piuttosto spessi.
Era un sistema pratico che avevo elaborato con la mia ex quando ci eravamo dilettati in giochi di bondage. Onde evitare che chi veniva legato corresse il rischio di rimanere inchiodato al letto in caso di malore o impedimento dell’altro (Stephen King ha scritto un intero romanzo – Il Gioco di Gerald – su una donna che rimane legata al letto dopo che suo marito ha avuto un infarto), caviglie e polsi venivano assicurati al letto all’interno di elastici che, pur stretti, non impedivano di liberarsi attraverso un brusco strattone.
Non si era mai verificata la situazione, ma era sempre meglio lascirsi una via di fuga, in tutti i sensi.
Accesi una candela che sempre tenevo sul comodino, presi in cucina il timer e chiamai Riccardo.
Era a disagio e si vedeva.
“Devo spogliarmi?”, domandò.
La domanda mi sembrò quasi stupida, dati i trascorsi.
“Se vuoi tirarti indietro ora…”, gli dissi.
“No, certo”, si affrettò a dire.
Io ero nervoso, ma lo era anche lui.
“Spegni il telefonino, spogliati e sdraiati sul letto – gli dissi – Io arrivo subito”.
Tornai in salotto e mi accesi una sigaretta.
Ero ancora in tempo a tirarmi indietro, ma doveva essere in quel momento, dopo non avrebbe avuto senso.
O meglio, non volevo comportarmi come quindici anni prima, quando l’avevo lasciato sul letto senza fare nulla.
O bene, o niente.
E comunque, mi dissi, non c’era sicurezza su quanto sarebbe successo, no?
Io sarei andato di là e il mio solo esplicito obiettivo sarebbe stato fargli dire Pugno! più volte possibile, nulla di più.
Ero obbligato e toccargli i genitali?
Ovviamente no.
Ero obbligato a procurargli piacere?
Tutt’altro, direi.
E, da parte sua, se avesse voluto avermi a disposizione, avrebbe comunque dovuto sudarsela, perch&egrave non sarei stato accomodante.
Avrei detto Pugno! solo quando fossi stato al limite, sicuramente non solo per compiacerlo.
Per altro, non avevo nessuna indicazione che lui fosse interessato a me dal punto di vista sessuale.
Non mi aveva parlato di fidanzate o di ragazze, ma neppure io, del resto, e mi consideravo totalmente etero.
E’ vero che anni prima mi aveva preso in mano il cazzo, ma in fin dei conti l’avevo fatto anche io.
E poi ne avevo sentiti diversi di racconti di esperienze strane durante l’adolescenza; non eravamo sicuramente stati gli unici a sperimentare.
Spensi la sigaretta e mi alzai.

Lo trovai sul letto, nudo.
Guardava verso il soffitto; notai con piacere che non era in erezione.
Gli assicurai le caviglie agli angoli del letto, quindi i polsi.
“Stretto?”, chiesi.
Scosse la testa.
Impostai il timer su venti minuti.
“Iniziamo? Sei pronto?”.
Annuì.
Feci partire il tempo.
Non sapevo cosa fare, onestamente.
Avevo pensato a mille cose ma non a cosa gli avrei fatto.
Gli passai le mani sul torace; il cuore mi sembrava accelerato. O forse era il mio.
Decisi di attenermi ad un principio semplice: così come si dice “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te’ (mia madre me lo ripete tutt’ora), scelsi che avrei fatto a lui quello che avrei voluto venisse fatto a me.
Cominciai a fargli il solletico sotto alle ascelle.
Prese a dimenarsi ridacchiando.
Intensificai il tocco, passandogli le mani anche sulla pancia, quindi mi spostai sul suo collo.
Ora rideva forte e si agitava, sempre trattenuto dagli elastici.
Aumentai ancora la frequenza, tornando sui fianchi, che sembravano essere il suo punto debole.
Spalancò la bocca e urlò:”Pugno! Pugno!”.
Smisi immediatamente.
“Uno”, dissi soltanto.
Mi alzai e mi recai in bagno a prendere il regola barba, quindi tornai a sedermi accanto a lui.
Tolsi il pettinino dalle lame, lo accesi e lo accostai al suo pube, osservando la sua reazione.
Era impassibile.
Poggiai il rasoio sulla sua pelle e asportai un ciuffetto di peli pubici.
Nessuna reazione.
Continuai a tagliare, fino a quando non gli depilai tutta la zona pubica, quindi presi i peli tagliati e li buttai nel cestino.
Gli passai una mano sul pube.
Nulla.
Gli circondai il pene con le dita e strinsi.
Sembrava indurirsi.
Allentai la pressione e lo accarezzai con la punta delle dita.
Come un animale vivo, si sollevò verso l’alto.
Lo impugnai nuovamente, senza stringere, e gli scoprii il glande.
L’erezione diventò decisamente robusta e il pene gli si adagiò sul ventre, puntando verso la sua testa.
Lo accarezzai per qualche secondo, osservandolo.
Aveva gli occhi chiusi e respirava lentamente.
“Ti piace?”, gli chiesi.
Annuì in silenzio.
Lo segai ancora, poi mi fermai.
“Se vuoi che io arrivi alla fine – gli dissi – devi vincere la sfida e obbligarmi a farlo. Ora io mi fermo”.
Un lungo sospiro gli sfuggì dalla gola, ma non disse nulla.
Gli avevo dato un ottimo stimolo per impegnarsi dopo.
Presi quindi la candela che già da diversi minuti stava bruciando sul comodino e la portai sul suo torace.
“Che cazzo fai?”, mi chiese.
Inclinai la candela e feci colare della cera su un suo capezzolo.
Urlò sommessamente.
Gli coprii anche l’altro capezzolo, questa volta non disse nulla.
Mi spostai verso il basso, lasciando cadere gocce di cera sulla sua pancia mentre mi spostavo con la candela sopra di lui.
Ad ogni goccia sobbalzava, ma non urlò più.
Mi avvicinai alla sua zona genitale. Con la coda dell’occhio vidi che sollevava la testa, per osservare cosa facessi.
Era ancora in erezione e il glande era totalmente scoperto.
Gli feci cadere una goccia sul membro, ma sull’asta, senza colpire il glande.
Sobbalzò.
“Ti fa male?”, chiesi.
“Da morire”, rispose.
“Cosa ne diresti se ti coprissi la cappella?”.
Si agitò. “No!”.
“Puoi evitarlo. Basta che tu dica Pugno!”.
Non disse nulla, così gli feci cadere una goccia sul glande.
Sobbalzò, chiuse gli occhi ma non disse nulla.
Lo colpii di nuovo.
Gli sfuggì un lamento, ma non mi chiese di interrompere.
Ancora un’altra goccia, ancora nulla.
Cominciavo a preoccuparmi.
Avevo volutamente scelto di sottoporlo a torture impegnative affinch&egrave lui, al suo turno, si impegnasse su di me; ma non avevo intenzione di perdere.
O meglio, avevo qualche preoccupazione su cosa sarebbe capitato in caso di sconfitta; ma se lui continuava a resistere la debacle sarebbe stata inevitabile.
Avvicinai ancora di più la candela al suo glande, e invece di fargli cadere una goccia sola per volta, la mantenni inclinata.
Un rigoletto di cera fusa gli coprì la cappella.
Questa volta reagì come se fosse stato attraversato da una scossa elettrica:”Basta! Cazzo, sei scemo? Pugno!Pugno!”.
‘Due’, dissi, apparentemente calmo.
In realtà non lo ero: tra una cosa e l’altra mancavano solo più otto minuti alla fine del tempo, e due soli ‘cedimenti’ da parte di Riccardo non mi avrebbero messo per nulla al sicuro.
Ma cosa avrei potuto fargli ancora?
Lo guardai: era affannato e guardava verso il soffitto, sembrava molto concentrato.
Andai rapidamente verso il ripostiglio e recuperai un rotolo di corda spessa che qualche tempo prima mi era servita per imballare un mobile.
Ne svolsi circa un metro e mezzo di capo e la strinsi nel pugno, come fosse una frusta.
Mi avvicinai al letto e la roteai sulla mia testa, producendo un sibilio che, nelle mie intenzioni, avrebbe dovuto spaventarlo.
Lui si limitò a guardare verso di me, quasi sfidandomi a colpirlo.
Gli sferzai la pancia.
Irrigidì gli addominali, ma non produsse suono.
Lo colpii ancora, e anche questa volta non sentii alcun lamento.
Possibile?
Abbassai la mira, andando a sfiorare il suo pene.
‘Ti frusto il cazzo!’, lo minacciai.
‘Fallo!’, mi sfidò.
Presi la mira e lo colpii tra le gambe.
Un pezzo di cera, ormai solidificato, saltò sul materasso.
L’erezione ormai era decisamente svanita.
Lo colpii ancora, con l’effetto che il pene, ormai molle, prese a sbatacchiare a destra e a sinistra.
Riccardo non sembrava patire, anzi, pareva divertirsi.
Dovevo cambiare tattica.
Andai in cucina e aprii il freezer.
Presi un panetto ghiacciato, di quelli che si usano per tenere in temperatura le borse frigo.
Tornai verso la camera, ormai mancava pochissimo.
Lui mi vide arrivare con il panetto in mano e, quando capì di cosa si trattava, cercò istintivamente di liberarsi.
Gli elastici lo tennero immobilizzato mentre gli appoggiavo il corpo ghiacciato sulla pancia.
Si produsse in un urlo, ma non disse nulla.
Sollevai nuovamente il panetto e lo spostai più in basso, sulla zona genitale.
Urlò di nuovo, ma anche questa volta non sentii la parola che avrei voluto sentire.
Lo spostai sul suo collo, quindi, ma ormai la temperatura del panetto si era alzata di parecchio e a ogni contatto l’effetto diventava sempre più blando.
La sveglia sul comodino squillò, segnalandomi la fine del mio turno.
Lui mi sorrideva.
‘Due’, disse semplicemente.
Lo liberai senza dire nulla, con il cuore che batteva all’impazzata.
Ora sarei stato nelle sue mani.
Erano anni che sognavo quel momento, eppure ero spaventato.
Cosa mi avrebbe fatto ora?
E se avesse vinto, ero pronto ad essere a sua completa disposizione?
‘Spogliati, io vado un attimo a rinfrescarmi in bagno’, disse.
Mi tolsi i vestiti, tenendo su i boxer per un attimo.
Non &egrave che stavo facendo una cazzata?
Ora però non potevo più tirarmi indietro, non dopo quello che era successo anni prima.
Mi sfilai anche l’ultimo indumento e mi sdraiai sul letto, proprio mentre sentivo la porta del bagno riaprirsi.
Tornò accanto a me. Non sapevo cosa avesse fatto in bagno; si era forse toccato?

Si avvicinò al letto e mi legò caviglie e polsi agli angoli, senza dire una parola, quindi fece partire il tempo.

Non avevo considerato una cosa, nel momento in cui avevo scelto di essere il primo a torturare: passando per secondo, lui sarebbe stato nudo.

Per questo motivo provai un moto di imbarazzo quando si accostò a me.

Prese a passarmi le mani sul torace e sul ventre, con delicatezza.

Sentii immediatamente il mio basso ventre reagire.

‘Ti piace, eh?’, mi disse sussurrando.

Io non risposi. Mi vergognavo di avere un’erezione di fronte a un uomo, ma più ci pensavo più mi diventava duro.

Allungò la mano verso il mio pene, lo prese e mi scoprì la cappella.

Trassi un sospiro.

Lo ammettevo a fatica, ma avevo voglia che mi facesse una sega.

Era durissimo, in quello stato non ci avrei messo molto tempo a venire.

Mi passò le dita sul glande, provocandomi una sensazione fortissima.

‘Dimmi se ti piace’, mi disse ancora.

‘Sì, mi piace’, gli risposi con gli occhi chiusi.

‘Ti piacerebbe ti segassi?’, mi chiese.

Anuii. Avevo paura a dirlo ad alta voce.

Ancora un tocco delicato sulla cappella, poi ritrasse la mano.

Lo guardai interrogativo.

‘Se vuoi che ti faccia una sega devi vincere, caro Alex’, mi disse.

Prese un oggetto dal mio comodino che non riconobbi fino a quando non lo avvicinò a me.

Era un cotton fioc, prelevato da mio bagno.

Lo accostò al mio cazzo e lo avvicinò al buchino, quello dell’uretra.

‘Cosa fai?’, gli chiesi.

Non mi rispose, ma accostò la punta del cotton fioc al buchino e, lentamente, lo spinse dentro.

Con il senno di poi devo ammettere che il dolore fu veramente poco; quello che mi fece urlare ‘Pugno!’ fu la paura per quello che avrebbe potuto succedere.

Si fermò, sfilò il cotton fioc e disse solo: ‘Due a uno’.

Ero partito male, avevo resistito solo qualche secondo e c’era ancora un’eternità davanti a me!

Appoggiò nuovamente la mano sul mio cazzo e lo fece tornare nuovamente duro.

Lo accarezzò, mi sfiorò lo scroto, quindi sentii il suo dito toccarmi il buchino.

Feci per chiudere le gambe, ma ero legato e non potei opporre resistenza.

Chiusi gli occhi, domandandomi se il motivo per cui ero così agitato era il disagio per quello che stava capitando o la paura che mi piacesse.

Introdusse una falange dentro di me.

‘Ti conviene fare poca resistenza’, mi disse.

Pur timoroso, provai a rilassare lo sfintere.

Il suo dito entrò dentro fino alla base.

La sensazione era allo stesso tempo di disagio e di piacere.

Mosse il dito, provocandomi un tumulto interiore e rafforzando la mia erezione, per quanto possibile.

‘Rilassati’, mi disse.

Ruotò il dito, quindi lo fece entrare e uscire rapidamente.

Mi stava piacendo, constatai con una certa preoccupazione.

La piccola sodomia durò un paio di minuti, quindi estrasse il dito.

Sentii una sensazione come di liberazione, ma avrei ‘sopportato’ ancora un po’.

Si inginocchiò accanto a me, quindi si mise a cavalcioni e si sedette su di me.

Il mio cazzo era a diretto contatto con il suo scroto.

Si agitò un po’, mentre cercavo mentalmente di resistere a quello che stava capitando.

Non volevo venire, non in quel modo.

Come se avesse letto la mia mente, si sollevò sulle cosce e si chinò in avanti, in modo che il suo pene sfregasse contro il mio.

Non era eccitato, era ancora molle; così si spostò verso l’alto, facendomelo scorrere sulla pancia.

In un altro contesto avrei potuto giurare in tribunale che mai e poi mai avrei potuto gradire il cazzo di un altro uomo a diretto contatto con la mia pelle, eppure mi piaceva.

Disegnò una linea immaginaria sulla mia pancia, risalì sul petto, quindi si spostò sul mio viso.

Ora non era più molle.

Lo appoggiò sulle mie labbra.

Sentivo il suo odore…se avessi voluto avrei conosciuto il suo sapore.

Agii senza pensare; aprii la bocca e mi scivolò dentro.

Rimasi immobile, mentre lui cominciava a pompare avanti e indietro.

Cosa stavo facendo?

Se avesse continuato mi sarebbe venuto in bocca!

Provai a parlare, ma per ovvii motivi non potevo essere intelleggibile.

Riccardo si fermò.

‘Vuoi dire qualcosa?’, chiese, pur lasciando il suo organo nella mia bocca.

Annuii.

‘Se dici Pugno! andiamo pari, lo sai? E mancano ancora undici minuti’.

Lo sapevo, ma cosa potevo farci?

Non mi andava, non volevo…o meglio, non volevo arrendermi senza lottare.

Annuii nuovamente.

Spinse indietro il bacino e estrasse il cazzo.

‘Due pari, Alex. Confermi che se vinco potrò farti quello che voglio per un’ora?’.

Risposi di sì, le regole le avevo fatte io.

Anche se, quando le avevo proposte, non miravo a quello.

Avrei preferito mi facesse lui una sega, detto sinceramente, e invece in quel momento sembrava altamente probabile che avrei perso.

E lui sembrava avere le idee molto chiare su quello che volesse da me.

Si mise nuovamente in ginocchio accanto a me.

Così legato, nudo, mi sentivo estremamente vulnerabile, e l’erezione che continuava a persistere mi metteva anche in imbarazzo.

Passò le dita sul mio fianco e provai a ritrarmi, invano.

‘Solletico, eh?’, disse.

Non dissi nulla, ma era chiaro.

Mi sfiorò di nuovo la pancia e le ascelle, questa volta mi scappò un risolino.

‘Da come stai reagendo, posso scommettere la casa che dieci minuti non li reggi neppure morto’, commentò.

Era vero, lo sapevo.

Mi attaccò con le due mani, sui fianchi e sotto le ascelle.

Mi divincolai e tentai di sottrarmi, cercando anche di non ridere troppo sguaiatamente per non attirare l’attenzione dei vicini.

Mi morsi il labbro e trattenni il respiro, ma credo che la mia resistenza non si protrasse oltre al minuto.

‘Pugno! Pugno!’, dissi prendendo fiato.

Riccardo smise subito, quindi mi mise una mano sul cazzo, che nel frattempo aveva perso un po’ vigore.

‘Tre a due’, disse, e strinse leggermente.

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