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Racconti erotici sull'Incesto

E pecchè duviva fà ‘o piscatore

By 3 Dicembre 2007Dicembre 16th, 2019No Comments

E pecch&egrave duvive fà ‘o piscatore ?
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Prefazione:

Di un uomo basta che mi diate i primi sette anni della sua vita, lì c’&egrave tutto; il resto tenetevelo
pure

Bruno Bettelheim

Io aggiungo, con punte fino a dieci

Dario Fo

L’incesto &egrave aborrito e costituisce un tabù insormontabile in tutte le popolazioni tutt’ora
conosciute; ad esempio, fra gli aborigeni australiani, tale tabù &egrave organizzato, oltre che per rapporti familiari, per caste e per tribù, secondo il seguente schema………..

L’interpretazione dei sogni, Sigmund Freud

Questa popolazione, ormai ridotta a non non più di cinquecentomila persone, emarginata dal potere politico alla periferia delle città e dell’intero continente, &egrave ora afflitta per il novanta per cento dall’alcool, dagli incesti, dalla violenza e dalla degradazione

Gli aborigeni australiani- Passaggio a Nord Ovest – Rai Uno

Violenze, soprusi, diritti negati.
Il libro nero della donna

A cura di Christine Ockrent

Introduzione
” E’ l’ora di perdere per sempre l’innocenza: questo stupore delle creature che ancora non sono riuscite a caricarsi della memoria del mondo al quale sono nate ”
Francisco Urondo

Nota dell’autore:

Viaggio fantastico e minimalistico dentro il metodo deduttivo
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Capitolo I

Gli alveari

Era il giorno precedente a quello in cui avrei compiuto i nove anni quando un mio compagno si precipitò da noi per urlare a mia madre che Eug&egrave, il maggiore dei suoi figli, giaceva in una pozza
di sangue a due isolati di distanza, morto ammazzato da un coltello per un motivo sconosciuto.
Nel basso, le urla di mammà, di nonna e delle mie sorelle straziarono l’aria, poi rimbombarono sui muri di fronte e rotolarono giù per gli scalini fino alla piazzetta, e all’ insù, oltre la fontanella che non pisciava più acqua se non scalciando nelle tubazioni.
Quel giorno la scalinata, che puzzava di ogni cosa, puzzò ancor di più per il tanfo del vomito
delle donne, che prevalse su di ogni altra.
Tutti gli abitanti della calle seppero, così, che Eug&egrave, Eugenio Esposito detto ” ‘o Nigre ” per
quanto erano ricci e neri i suoi capelli e smagliante il suo sorriso, non avrebbe più fatto ritorno tra noi vivi.
Nei giorni che seguirono, moltissime persone s’affacciarono alla nostra cucina coi sorrisi gentili
inchiodati sotto il naso, sostenendo delicatamente il telo della tenda senza avanzare oltre,
chiedendo se c’era bisogno di qualcosa, qualunque cosa.
I maschi non venivano per s&egrave soli, erano mandati dalle mogli oppure dalla madri; quei tre o quattro
che ebbero la ventura di capitare per conto proprio sapevamo che erano papponi, venuti a studiare la situazione.
Tutta questa massa di conoscenti e non, uomini e donne, girava gli occhi in lungo e in largo nella
stanza per contarci, perch&egrave un basso così, ora che non c’era più un uomo a sostenerlo, faceva gola
a tutti.
Per circa una settimana fu un continuo andirivieni, finch&egrave una sera nonna Teresì non disse a Rosa, mia madre, di mettere il legno di traverso e di farsi rivolgere la parola solo attraverso i vetri.
Dapprima essa la guardò in cagnesco, poi lo fece; credo perch&egrave anche lei cosciente che si
poteva perdere la casa.
Pure in tal modo, la processione durò per tre giorni ancora.
Dagli otto anni davo una mano ai pescatori giù al porto.
Il mio salario era costituito da una mezza cassetta di pesce ad ogni sbarco; naturalmente si
trattava del pesce più minuto, il più rovinato dalle reti.
Poi, però, crescendoi, quel pesce divennne sempre meno rovinato e la cassetta più piena.
Mio fratello Eug&egrave, che l’aveva fatto prima di me, mi ci aveva costretto insegnandomi anche a
suddividere i clienti per giorni e per importi di spesa.
Dai privati si spuntava qualcosina in più che dai negozianti, ma si era meno sicuri che
comprassero, per cui avevo provveduto ad organizzarmi in modo alquanto diverso da lui; avevo ampliato la zona e cominciato ad accettare permute.
Così, di mano in mano che i pesci calavano, la cassetta si riempiva di frutta, di pane, di verdura
e cose fra le più varie; i privati pagavano in contante.
Lui mi picchiò a sangue per questo, ma nonna disse che avevo ragione io; così Eug&egrave alzò le spalle e smise di picchiarmi.
Morto Eug&egrave, rimanemmo quattro fratelli. Conc&egrave era la più grande, un anno e mezzo più di me.
Entrata nei tredici anni, essa si fidanzò con Peppì, un perdigiorno che abitava in cima ad un’
altra scalinata parallela alla nostra, il quale, dopo, la portò a stare con la sua famiglia.
Le sere d’estate, ora che non tiravano più venti di guerra, io e gli altri scugnizzi arrivavamo fino alle banchine dove ormeggiavano le navi di grossa stazza, cercando di guadagnarci qualche extra.
Insieme a due amici, cominciai ad abbordare questi marinai che sembravano degli amiconi già quand’ erano ancora a bordo, affacciati a guardare il molo, facendogli delle smorfie e degli sberleffi molto prima che cominciassero a scendere gli scalini; li abbordavamo per trascinarli poi in fondo alla banchina, dove si trovava uno sgabuzzino tirato sù con la latta dei bidoni di nafta e, dentro, una branda militare.
Non li lasciavamo mica soli, quei ragazzoni di tutti i colori, ma soprattutto neri come il carbone;
monetizzavamo la nostra tangente per averli portati lì prima che sbucassero nella piazzetta, poi
stavamo ad ascoltare, attaccati all’esterno della baracca, i loro mugolii e quelli della puttana di
turno, ridendone come dei pazzi.
Lo strano era che noi le ” zoccole ” nemmeno le conoscevamo; non le avevamo mai viste, n&egrave avevamo visto mai i loro papponi.
Una sera riconobbi però la sua voce, così mi fermai ad aspettare che uscisse.
Prima che potesse comparire Peppì, Conc&egrave trovò il tempo per dirmi che era felice; si volevano bene
e ogni sera, alle undici, puntuale come un orologio, egli veniva a prenderla per riaccompagnarla a casa.
Mia sorella ebbi modo di vederla una seconda volta, accerchiata da un gruppo di giovanottoni in
divisa che l’avevano fermata mentre stava correndo sul piazzale.
Ella sfuggì loro per un attimo, la sottana svolazzante, sorridente, barcollando sulle zeppe troppo alte fra una selva di fischi, per dirmi di non avvicinarmi assolutamente alla baracca, perlomeno il martedi e il giovedi, i suoi giorni, perch&egrave Peppì ci aveva dei sospetti.
Le dispiaceva dirmelo, ma si vedeva costretta.
Capii e la rassicurai e, da quel giorno, i soldi dai marinai cercai di farmeli dare prima di arrivare al penultimo svicolo.
Quelli, però, erano furbi, ed uno di loro rimaneva sempre con noi. In tal modo, però, chiaccherando e facendola stare allegra, alla vedetta fumavamo anche le sigarette che si era portato appresso.
Da amici comuni ero venuto poi a sapere che a Conc&egrave gli affari andavano a gonfie vele e,
all’incirca un anno dopo, dai bisbiglii di mammà e nonna Teresì, che era rimasta incinta,
finalmente.
Mammà si era messa a piangere.
Pensava a mio padre, che prima che rimanesse gravida glielo aveva promesso mille e una volta,
” posse fatigà ie sole……….tu hai a penzà a i’ creature………….!”.
Le urla e i calci erano arrivati dopo, quando lui aveva perso il lavoro; non si sa se per la sua
incapacità, come sosteneva Rosa, o perch&egrave, come ripeteva nonna, era incappato in una crisi nera.
Queste cose le avevo ascoltate fino alla nausea: quel che era certo era che mio padre, finch&egrave aveva potuto lavorare, era stato uno dei più grandi ” bavuse ” della sua epoca, se non il migliore.
L’avevo visto io personalmente: in una botte piena a metà d’acqua salata, riuscire a far guizzare contemporaneamente una decina di pesci morti sfatti, e il tutto con una sola mano, e senza farla
vedere.
C’erano voluti anni e anni di allenamento, un’abilità innata, il palmo morbido come quello di un bambino, la ricerca della giusta luce; insomma, indiscutibilmente, egli teneva una sensibilità da
grande artista.
Cosa che bisogna esserci nati, come diceva nonno Vinc&egrave, suo padre, altro ” bavuse ” dei più grandi.
Tutto questo ben di dio era stato buttato alle ortiche quando, spinte dalla fame più nera, le
femmine dei marinai, con le loro cassette poggiate sulle zinne, erano arrivate dal porto urlando a squarciagola, fin dentro le più recondite scalinate dei Quartieri spagnoli.
Fatto sta che papà, una volta caduto in crisi, invece di reinventarsi, aveva cominciato a bere, e a non trovare più la voglia di lavorare.
Una comare di mamma aveva trovato modo poi, di farle sapere che lui e un certo ” Scocuzze ” si
scarrozzavano due vedove accompagnandole ogni sera dietro ai binari, ma lui s’era difeso dicendo che, per questo servizio, veniva pagato.
La riprova era che aveva continuato a portare a casa qualche soldo; non lo faceva gratis.
Da quel giorno, anzi, da quella sera, Rosa, mia madre, gli aveva del tutto negato la bocca.
Comunque, finch&egrave non aveva perso il lavoro, egli non ci aveva fatto mancare alcunch&egrave.
Io non me lo ricordavo molto bene perch&egrave stava fuori fino a tarda ora, ma questo ce lo avevo
impresso: la velocità delle mani quando nascondeva gli oggetti sotto l’ascella facendo finta di lanciarli lontano.
Poi, una volta andatosene lui, Eug&egrave aveva preso il posto suo nel mantenimento della famiglia.
Mi ero messo a fare il mozzo soltanto perch&egrave mio fratello mi aveva riempito di botte.
Sparito lui, ero stato costretto a continuare, ma solo per non ritrovarmi un estraneo in casa.
Era per questo che mi ero sobbarcato tutta quella gran perdita di sonno, ed era per questo che i
miei amici, vedendomi con le occhiaie, mi davano del pugnettaro pur sapendo che non potevo esserlo.
Verso gli undici anni, mi ero preso una cotta spaventosa.
C’era una ragazzina sottile come un giunco, con i capelli bianchi tanto erano biondi, e le cornee
degli occhi appena un pò rosate, diversa da tutte le altre, che tutte le mattine quando risalivo
dal porto, saltellava a la ” settimana ” tre pianerottoli sopra il mio.
Se m’azzardavo per caso a guardarla, abbassava gli occhi e rientrava immediatamente. Ma io avevo già indovinato i suoi sentimenti: le piacevo.
Una sera, nervoso perch&egrave era da più di due sbarchi che non la vedevo, avevo preso a malo modo sia nonna che mia madre solo perch&egrave mi avevano chiesto altri soldi oltre quelli che avevo appena dato loro. Avrei voluto udire che in quella casa c’era nuovamente un uomo, non un bambino, uno che sapeva provvedere alla famiglia; invece mi ero sentito richiedere altri soldi, per cui avevo cominciato ad urlare, e poi a menarle quando mi ero accorto che non ascoltavano.
All’inizio, sotto i ceffoni e i calci che piovevano da tutte le parti, esse avevano reagito, poi erano state costrette a retrocedere andandosi a rifugiare dietro la tenda.
Mi ero fermato soltanto quando avevo visto Rosa strapparsi i capelli e, maledicendomi, sbattere la
fronte contro la parete; ma non aveva versato una lacrima.
Nonnà Teresì, al contrario, aveva dimostrato di aver capito le mie ragioni e, mentre la menavo, mi aveva urlato che non ce l’aveva con me, ma aveva proprio fame, una fame boia, e ce l’avevano pure i miei fratelli.
Quella era stata la prima, vera occasione di scontro, in cui avevo pensato che mia madre fosse
priva di sentimenti e, da quella volta, mi ero convinto che per farla ragionare l’unico modo fosse di picchiarla, come avevano poi fatto mio padre ed Eug&egrave.
Non sempre, però, capitava che ci sentissimo così.
C’erano dei momenti anche adesso, passata l’infanzia, in cui mammà, prima che partissi per il porto, m’ interrogava con gli occhi assonnati per capire se, su quelle due fette di pane spruzzate di sola acqua e limone, ci dovesse far cadere altresì una spolveratina di zucchero. Erano, quelli, i momenti in cui mi riappacificavo con il mondo.
C’era un uomo però, un mezzano, che mentre ero in mare, scendeva gli scalini e, arrivato al nostro
pianerottolo rallentava guardando ostentatamente verso la nostra porta. Era così sfrontato che non
esitava a farlo nemmeno se c’erano altre persone in giro.
Si diceva che Rosa, mia madre, gli interessasse perch&egrave l’ avrebbe potuta piazzare ai binari nuovi,
quelli appena rifatti dietro la stazione, dove ogni fine mese scendevano i ” paisà “, gli emigrati
al Nord.
Uomini che, chissà perch&egrave, avevano voglia di scaricarsi prima ancora di raggiungere i bassi ove li aspettavano le mogli o le fidanzate.
Dicevano che ce ne fossero tanti, di questi paisà, e il pappone, probabilmente, in essi intravedeva già la propria fortuna.
Non si poteva nulla contro di lui; l’ amico che mi aveva riferito queste cose mi aveva fatto sapere
che non solo era un guappo, ma era pure molto protetto in alto.
Mentre questo avveniva, io mi ero messo a rimuginare di come vendicarmi dello sfregio; come potergliela far pagare a quel fetente che voleva costringermi ad abbassare gli occhi davanti agli amici portandomi via mammà.
Mi vedevo già come colui che aveva preservato il proprio onore, e quello delle sue donne, perché anche loro dovevano pur avercelo !
L’avrei affrontato da uomo a uomo, e se non avesse capito, gli avre fatto sentire la lama sulla gola, prima di infilarvela giù in fondo.
Avrebbe finalmente saputo, così, che c’era rimasto un uomo, in quella casa, uno che non se lo meritava, lo sgarro.
Mia madre aveva cominciato a piangere, ad intristirsi, ed andava più spesso che poteva a trovare Conc&egrave, che era ormai al sesto mese.
Questo mio amico, quello che conosceva il guappo, aveva pressapoco la mia età, mese più mese meno, ed aveva un fratello ” ricchione “.
Potevamo prenderla da sotto o da sopra, la strada, per risalire dall’avamporto sù fino al nostro
rione. Se la risalivamo da nord, c’ era da percorrere un pezzo della nuova strada asfaltata,
altrimenti, da sotto, dovevamo costeggiare per forza le mura vecchie.
Noi facevamo sempre quest’ultima strada, anche se più lunga, per goderci lo spettacolo dei fiori
dei capperi che ricoprivano i massi e per inebriarci al profumo dei gelsomini cresciuti un pò dappertutto.
Ma, quella sera, Fernà mi consigliò di prendere la strada meno abituale; doveva dire qualcosa a suo
fratello Gioacchì, che stazionava in un boschetto più a nord, insieme a tutti gli altri femminielli.
I più erano amici, insomma, giovani del nostro quartiere; li conoscevo quasi tutti per nome.
Fino ad un anno prima ci eravamo ruzzolati sugli scalini facendo a botte, poi quelli, tutto d’un
tratto, avevano iniziato ad ingrassarsi come dei capponi, a sparire.
Arrivati al prato dove questi attendevano i clienti ci appollaiammo al banco dell’unica catapecchia
con un tetto, il bar della zona, mentre Gioacchì, che era appena tornato da dietro gli alberi,
chiedeva una ” tazzulella e’ caff&egrave “.
Non l’aveva nemmeno appoggiata alle labbra che mi si rivolse, ” sì tu che vuoi sap&egrave addò sta ‘o
guapp………..?”.
Temendo che qualcun’altro avesse sentito, feci il tonto, e Gioacchì si rivolse allora al fratello,
” &egrave isse o no……….?”.
Fernà si guardò intorno con fare circospetto e gli rispose seccato, ” pecch&egrave urle scimunite…………sshhh………..? “.
C’era da scarpinare parecchio, e in salita, per arrivare al basso di questo Gennarì, il pappone, ma una volta arrivato non te lo scordavi più.
Non si capiva dove l’avesse scovato, quella specie di bottiglione luminescente, tutto colorato e
ritorto, con un tubo di gomma penzoloni da cui il guappo tirava grandi boccate di fumo.
Il suo era un basso che non mi sarei più scordato; non mi sarei più scordato di quella gualdrappa
dorata al posto della tenda.
Come lui non si sarebbe scordato di me.
” Ueh………..&egrave pecch&egrave site ricchiune………..&egrave pp’ e’ chiste che nun se saluta a Gennarì…………’o guappe cchiù bell d’ ‘o quartiere……….?”.
” Salute Gennarì………….!”, disse Gioacchì, già intimorito.
” Ah……..tu……. già………comm’ te chiammene……… ‘a caccavella ………….
vene……….famme sintì stì zinne………e chiste chi sò……….sò ricchiune pure isse………..comm se chiamma chiste………….pecch&egrave sta mute………….?
Quant’&egrave sicche però………!”.
C’ero ripassato notti dopo, davanti a quel suo basso; questa volta da solo e con il coltello in
tasca.
Gennarì mi aveva riconosciuto e mi aveva fermato chiedendomi dove avessi lasciato gli altri due.
Gli avevo risposto, ” Te l’arricuorde Rò………..?”.
Non glielo avevo lasciato, il tempo di gioire di una risposta sguaiata.
Ora ci abitava una famiglia con quattro bambini, nella casa di lui, e il narghil&egrave, naturalmente,
era sparito.
Mia madre, di nascosto da noi, per qualche giorno ne aveva pianto la scomparsa; la notizia della
misteriosa morte del guappo, infatti, era subito corsa per tutto il rione.
Proprio quando si era decisa a dargli una chance, dopo averne parlato e riparlato con Conc&egrave,
qualcuno lo aveva costretto a sparire, e lei a cambiare i propri piani.
Mia sorella, nel frattempo, stava sgravidando: un maschio cui venne dato il nome di Francesco come il nonno paterno: un settimino.
Come per prassi, prima di riprendere il lavoro, mia sorella dovette far passare la quarantena.
Peppì, di solito, la aspettava all’inizio della scalinata, ma quel giorno l’aveva seguita fin sù,
fino alla porta a vetri,i capelli grondanti di brillantina.
Alle femmine, in genere, Peppì piaceva; glielo potevi vedere dipinto sul viso.
Sopracciglia folte, quasi da donna, un sorriso che non glielo toglievi nemmeno ” cco’ martielle
“; ammiccante, alto rispetto alla media, con la muscolatura ben proporzionata.
Sembrava uno sciantoso, uno ” sceicche ” e, questo infatti, era il suo nome di battaglia.
Parlava con toni affettati, le mandibole serrate perch&egrave faceva più uomo; in realtà perch&egrave, quando
apriva la bocca, lasciava intravedere alcuni denti cariati.
Quello era il suo unico difetto fisico, se si esclude il fiato che puzzava.
Per il resto, poteva considerarsi effettivamente un bel giovane, e lui faceva di tutto per farlo
notare.
Peppì aveva esordito, ” ve portamme tutte a ‘o ristorant……….tutte a spese
mie………..naturalment……….!”.
A me sembrò da subito una stupidaggine; come avremmo fatto noi, sennò, se non pagava lui, a poterci permettere un ristorante ?
Ma vidi, dalla loro espressione che mammà e Conc&egrave la pensavano diversamente, lo stavano prendendo sul serio.
Quella domenica mattina, infatti, ci sarebbe stato il battesimo di Franc&egrave.
Peppì lo aveva gridato lungo la scalinata, perch&egrave tutto il vicolo sentisse che era figlio di un
vero signore, ” offre ie……….tutte a’ o’ ristorant…………!”.
Una sola voce aveva tuonato alle sue spalle, facendolo sobbalzare, ” ie no…….ie nun ce vengh a ‘o risturant………..!”.
Finalmente una voce fuori dal coro.
Glielo avrebbe voluto sbattere sulla faccia da subito, Teresì, ma le occhiate di Concettì, alla
fine, l’aavevano dissuasa.
Così, disse che era per la strada, troppo lunga.
Pure Rosa aveva declinato l’invito una prima ed una seconda volta, ma solo per finta educazione, poi aveva accettato.
Per strada, con noi figli a far da codazzo, Peppì continuava a salutare tutti quelli che incontrava, anche se non li conosceva; voleva ad ogni costo farsi bello.
Finch&egrave la stessa Concettì, dopo vari chilometri fatti sotto la pazzesca canicola, vedendo ormai
vicine le frasche che indicavano la trattoria, gli disse di smetterla, che lì ormai non c’era più
nessuno che lo conoscesse.
” Da o’ Pazzariel…………l’amiche mie………o’ meglie ristorante che ce sta……….! “,
declamò allora lui per ultimo, tronfio come un tacchino.
Dove, tutte le sante feste comandate, il gruppo di
papponi cui s’era aggregato portava a mangiare le proprie zoccole.
A riprova, appena entrati, manate sulle spalle fra lui e uno dei garzoni dell’oste, e battute salaci da parte di quelli già seduti.
Ci dettero il tavolo in fondo, con il pretesto che eravamo in molti e lì potevamo star larghi; il
tavolo nell’angolo più lontano dalla porta d’ingresso, che costituiva l’unica fonte di luce della stamberga.
A me fu comandato, anche se già tredicenne, di sedere accanto alla porticina sul cortiletto
cieco, che non si chiudeva nemmeno se vi spingevo contro con tutto il ginocchio.
Il pavimento di quel cortiletto era più simile ad un letamaio che ad un lastricato, pieno di mucchi
di sterco e giornaletti sparsi.
” Nun se chiude proprie………..!”.
” E tu nun la chiude………..!”.
Polipetti che sono ” nu’ babà ” e ” na’ m’pepata e’ cozze “, che &egrave ” na’ squisitezza “, conditi dal
mefitico scorcio, costituirono per me il primo pranzo fuori casa.
Per rispetto del nostro ospite, il conto, invece di dirglielo davanti a tutti, l’oste glielo sussurrò nell’orecchio, mentre lo splendido ” sceicche ” gli apriva sotto gli occhi un portafoglio unto quanto la sua faccia.
Una volta esaurita la dolorosa funzione, Peppì tornò a rilassarsi e a riprendere il colorito
normale, salvo diventare ancora più rosso quando ” o’ Pazzazielle “, personalmente, gli posò dinnanzi tre tazzine di caff&egrave fumante.
” Sentite quant’&egrave bbuone don Peppì……….fatte da mammà……….da i’ mmane e’
mammà…………..sti’ mmane d’ore…………..!”.
La madre era una vecchia brutta quanto la fame, gli occhi sospettosi, grinzosa, che per tutto il
tempo mi aveva guardato seminascosta dalla tenda oltre la quale cucinava.
Dicendo ciò, l’oste aveva volto in giro uno sguardo strabico e sorriso in una direzione non meglio
precisata.
Non poteva essere Peppì n&egrave Conc&egrave, che si trovavano quasi sotto di lui, l’oggetto del suo sguardo, n&egrave potevo essere io, Fernà o Simò, confinati quanto me laggiù in fondo.
Per come la pensavo io, che ero un fesso, ‘o Pazzariell stava facendo il cascamorto con mammà.
Peppì, infatti, si era chinato a soffiare per la terza volta sulla tazzina davanti a s&egrave, e Conc&egrave aveva fatto lo stesso; mammà, invece, aveva girato gli occhi intorno, guardando di sottecchi le donne agli altri tavoli.
Concettì, durante quel tragitto a piedi, le aveva già riferito che l’oste era pieno di soldi; lei e altre due zoccole della zona se lo dividevano in pieno accordo, a turni mensili; poteva anche starci una quarta, che l’uomo non se ne sarebbe certo lamentato.
Mammà non lo aveva degnato nemmeno di uno sguardo, ma il grassone, da allora in poi, tornò al
nostro tavolo almeno altre quattro o cinque volte.
Quella era la seconda volta che mammà strizzava l’occhio a qualcuno, e a me, al pari di una
spugna, il cuore.
Il mercoledi successivo, dopo aver passato tre notti a piangere e sospirare, mammà decise di
trasferirsi, figli al seguito, a casa della sua Conc&egrave, che nel frattempo aveva traslocato in una
zona nuova.
Così, disse, quella poveretta poteva finalmente rimanersene qualche sera a casa.
Lì mammà si fece un’ amica, un’ altra zoccola che abitava nello stesso caseggiato e, poich&egrave Peppì
quelle sere rimaneva con la sua Conc&egrave, il marito di questa prese ad accompagnare tutte e due le
donne al lavoro.
Io, invece, ero rimasto con nonna Teresì.
Lei era convinta che mio padre sarebbe stato ancora vivo, se Rosa si fosse comportata comei doveva.
Batti e ribatti, alla fine aveva convinto anche me.
Mia madre e mia sorella erano tornate due altre sole volte; la prima per riprendersi un materasso,
che però Teresì non aveva loro dato, la seconda per farsi una rimpatriata con le amiche di un
tempo.
Una cassetta di pesce ogni tre giorni, per me e nonna, era più che sufficiente per campare, ma se mi fossi sposato la ragazzetta con i capelli bianchi, e avessi voluto avere dei figli da lei,
quella cassetta non sarebbe più bastata.
Era per questo motivo che io il pescatore non lo volevo fare.
Così, un certo giorno, invece di saltare dal materasso e fiondarmi giù al porto, me ne rimasi a
letto, a fantasticare fino a mattino inoltrato.
Ero giunto di fronte a quattro palazzoni tipo alveare, dopo esser passato a mezzo di una campagna piena di limoni rischiando di farmi inforcare dai proprietari dei giardini; al termine di un’ ultima salita mi erano sorti davanti quattro enormi blocchi squadrati, senza vetri alle finestre.
Dietro di questi, si estendeva a macchia d’olio una baraccopoli di legno, metallo e cartoni che uno
di città come ero io nemmeno poteva immaginarsela.
Ci girai intorno per una mezz’ ora buona finch&egrave, prima ancora di vederla, riconobbi l’
inconfondibile voce di Concettì che urlava a qualcuno di lasciare libero ” o’ ciesse “.
A mia volta urlai che si facesse vedere, e Conc&egrave si affacciò alla finestra tenendo in braccio il
suo Franceschiello.
Potevo essere più fortunato ?
Appena mi ebbe riconosciuto, Concettì mi invitò a salire, non prima di avermi avvertito di far
attenzione alla scala: una rampa polverosa che assalii di corsa, arrivando al piano e alla sua
porta puntuale e preciso come il sangue di san Gennaro.
Mammà se n’ era andata, appena una mezz’ora prima; cenava presto per arrivare puntuale sul lavoro.
Peppì era uscito ugualmente, ma sarebbe tornato di lì a tre ore circa; lei aveva da allattare.
Quà, mi disse, facevano tutti vita ordinata: dai magliari ai contrabbandieri, alle zoccole, fino
agli operai che andavano a letto più presto degli altri per poter essere in piedi all’alba.
Non mi aveva detto di sedermi, ma pensai che fra fratelli non ve ne fosse bisogno.
Dagli schiamazzi fuori dalla porta avevo compreso che stavano arrivando Fernà e Simò, e non volevo
si gettassero prima ancora di me sul tegame appoggiato sul fornelletto.
Ciò che mi contrariò maggiormente, del loro arrivo, fu che non mi salutassero nemmeno. E pensare che, qualche anno prima, mi salivano ancora a cavalluccio.
Poi, però, compresi il perch&egrave.
” Pecch&egrave si venute……….? Sciò…………..!”.
Conc&egrave aveva annuito fin dalla mia prima ” scoppola”; pure lei non aveva ancora mangiato.
” Fancule Fernà………fottete Simò…………!”.
Alla fine, a forza di scappellotti, e rubando loro il tempo, io e Conc&egrave riuscimmo a posizionare il
tegame nel mezzo del tavolo, mettendoci fra questo e loro.
” Scavateve o faccie na’ strage…………!”, minacciai quei due discoli brandendo un cucchiaio di legno.
Conc&egrave mi appoggiava, ma i due erano scatenati e alla fine dovemmo per forza spartire.
Un’altra piccola guerra ebbe a svolgersi quando, finito il tegame di cozze, venne il momento di
inzupparvi il pane, ma qui, data la nostra lunga esperienza, non vi fu storia: Conc&egrave ed io ci
rivelammo fin da subito vincenti.
Ora, a pancia piena, ragionavo meglio.
Conc&egrave era appena tornata dalla camera, liberandosi da quel succhione del figlio; le pareti del fiasco, all’interno, rilucevano per la più gran parte.
” Beve Conc&egrave………..che te fa bbuone pure a te………….!”.
” T’o sì bevute tutte quante…………che ci racconte mò………..?”.
Stavo per risponderle a modo, quando la sedia mi sparì da sotto.
Era stato Fernà, per vendicarsi che gli avevo fregato tutto o quasi il sugo dell’impepata;
passatomi dietro, aveva dato un calcione alla gamba destra della sedia.
Mi risvegliai dal sogno trovandomi sul pavimento, e decisi che il giorno appresso li avrei veramente cercati.
Ci misi tre giornate intere per trovarli.
Il luogo dove s’erano andati a cacciare corrispondeva in tutto e per tutto al sogno di quel
mattino, tranne che gli alveari erano tre, non quattro.
Al mio chiamare, Conc&egrave si era effettivamente affacciata ad una finestra.
Non c’era l’impepata di cozze, ma c’era il fiasco di vino, ed era pieno.
Quando mi risvegliai, Peppì chiedeva a Conc&egrave cosa ci facessi lì e perch&egrave mai non l’avesse tolto di
mezzo prima ancora di farmi salire.
Il tormentone lo feci durare appena qualche istante, perch&egrave cominciai a vomitare; in tal modo Peppì fu costretto a smettere di blaterare e ad uscire.
Mammà tornò molto più tardi, e la trovai assai più gentile di quello.
” Che s’&egrave fatte o’ guagliò………..? “.
Probabilmente aveva fatto le marchette che si aspettava, ed era contenta.
Dopo avermi tastato il bernoccolo in cima alla testa ella mi ci appoggiò, facendosi luce con una
candela, un mezzo quadrante di giornale ripiegato più volte, ovviamente intriso prima nell’ aceto, poi disse, con una voce ancor più stanca di quanto fosse lei, che era quasi morta dalla fatica, mi baciò sulla guancia, sputò a terra l’aceto che vi era colato e, finalmente, se ne andò a dormire.
Quando mi risvegliai fu perch&egrave il sole, lo sbattere di una porta e uno sciacquone mi avevano
violentato gli occhi e le orecchie.
Tirata sù la faccia dal tavolo vidi Fernà, che uscendo da una porticina a mezzo del corridoio, mi salutava alzando il dito medio nella mia direzione.
Gli rifeci lo stesso gesto cercando di raggiungerlo, ma quello fu più svelto e si infilò in tutt’altra porta, dirimpetto a quella.
Questa porta più grande era rimasta semiaperta; la raggiunsi, incazzato, guardando dentro la
stanza.
La prima cosa che mi colpì fu la sua enormità, anche perch&egrave le pareti erano di un bianco
immacolato, la seconda fu quanto letto vi stava dentro.
Fra questo e me c’era il cesto di vimini ove
si stava divincolando ” o’scarrafone “.
Fernà, in mezzo ormai a un mare di gente, stava sprofondando lentamente sotto il lenzuolo, ma prima di sparire volle sorridermi e dimostrarmi quanto fossi fesso, rialzando al cielo lo stesso dito
medio.
Gli feci il gesto che prima o dopo l’ avrei ridotto ad un buco, rimandando il farlo ad un momento
migliore; poi andai ad aprire, incuriosito, la porticina da cui questi era uscito.
Sospeso sul vuoto, in basso, stazzonava uno stronzo di proporzioni gigantesche, sormontato appena da un pezzetto stropicciato di giornale; di fianco alla schifezza due specie di piedoni bianchi lucenti, zigrinati nella parte superiore.
Mi fu oltremodo facile arguire a cosa servissero quei due lastroni biancastri: ad evitare di
pestarlo; ma allora perch&egrave, mi chiesi, Fernà aveva lasciato nel corridoio impronte così
inequivocabili del suo passaggio ?
Poi mi spiegai l’arcano quando compresi che quella cosa semicoperta dal giornale era vecchia di almeno tre giorni, e Fernà, oltre che stronzo era scemo, perch&egrave si pisciava ancora sui piedi.
Le sorprese, comunque, non erano finite; in alto due metri circa, discosto dal soffitto di una
spanna, pendeva una specie di orcio dalla strana forma a parallelepipedo, da cui scendeva una
cordicella di colore forse una volta bianco.
Bastava tirare un poco verso di s&egrave o verso il basso quella cordicella, perch&egrave lo strano orcio
cominciasse a gorgogliare come una fontana.
La tirai completamente a me, risentendo così nelle orecchie lo sciacquone che mi aveva svegliato.
” Ecche………..&egrave chiste………..chiste &egrave ‘o ciesse……….. “, pensai allora fra me e me,
contento come un bambino.
Ciò che mi piaceva di più del ” ciesse ” ero lo stanzino dove l’avevano cacciato; soprattutto, mi
piaceva che ci avesse una finestrella, anche se di puzza ce n’era sempre tanta.
Quando uscii nel corridoio, la montagna di corpi che avevo intravisto all’interno della grande
stanza si stava muovendo. Il movimento era di quelli lenti e piani, ma continui.
Stavo per incamminarmi verso la cucina quando, d’ un tratto, il lenzuolo si sollevò proprio dalla
parte mia ed un viso gonfio di sonno mi guardò senza vedermi.
Un ginocchio bello grasso lo seguì, fuoriuscendo dalla sponda, un piede dondolante si posò
lentissimamente sul piccolo tappeto, quasi sulle sole dita, come tremando.
Una spalla candida, un piede bianchissimo che in una frazione di secondo si ritrassero, come a
cercare un loro nuovo equilibrio all’interno dello stesso letto.
Due baffetti lucidi, sbuffando, presero subito il loro posto, emergendo da sotto lo stesso lenzuolo.
I baffetti si rivolsero a me, anch’essi senza riconoscermi, per poi rituffarsi sotto con un
soffocato ” sfaccimme “.
Un sordo sciabordio che non mi sembrava nemmeno lontano parente dello sciacquone che mi aveva svegliato.
Pur allocchito dalla sorpresa, fui certo di una cosa: che quei baffetti appartenessero a lui, a Peppì.
E di chi altri potevano essere ?
Mentre mi chiedevo ancora cosa cavolo questi stesse facendo, vidi volare il lenzuolo per aria e, quando esso ricadde, riconobbi i suoi capezzoli, poich&egrave, con quelli, mammà ci aveva sfamato tutti.
Ella sfilò le cosce dal suo brutto muso e si riversò, viso e spalla, a sua volta sulla sponda, sfinita.
” Addò vaie………… nun aggie furnute………!”.
Il maschio, così sghignazzando, le era balzato addosso, sedendosi sul suo grasso ventre. Aveva impugnato la ” mazza ” e poi gliela aveva sprofondata a metà dentro la bocca, passando per le zinne.
Un coltello rivoltato a mezzo le budella non mi avrebbe fatto più male. Con le tempie che mi martellavano, gli occhi serrati per non vedermi più davanti le loro complici espressioni, le orecchie tappate, mi ritrovai a ripercorrere il lungo corridoio, a raccogliere da automa la maglietta che qualcuno aveva compassionevolmente raccolto e disteso sulla tavola, e a richiudermi la porta dietro la schiena.
E pensare che m’ero commosso, la notte prima, nel sentire le sue labbra tenere posarsi sulla
guancia, dopo così tanto tempo che non ci vedevamo !
Fernà, giù di sotto, non se l’aspettava.
Fece in tempo ad alzarsi, ma non ad evitare le due pedate che gli rifilai al centro del sedere, una
di seguito all’altra perch&egrave lui se ne fotteva, perch&egrave era consenziente a quello scempio.
Ma perch&egrave dovevo essere io solo a tenerci, a mammà ?
Quanto il basso di nonna Teresì puzzasse, al confronto con quel loro appartamento, me ne accorsi non appena tornato.
Avevi voglia a dirle che, nella casa nuova, Conc&egrave aveva un cannello di ferro in cucina da cui, se
giravi un cerchietto, sgorgava più acqua che dalla fontanella, ed era tutta per lei; che al posto
del buiolo, ci avevano uno stanzino intero.
Nonna non voleva capire e, immancabilmente, rispondeva che ero fesso.
Credette solamente quando Conc&egrave tornò per far vedere a tutte le comari quanto il suo
Franceschielle, nel frattempo, fosse cresciuto.
Quante, troppe meraviglie, per quel bambino !
Le aveva accompagnate Peppì, che si voleva sentir dire come il mostriciattolo gli somigliasse.
Anche se il vicinato aveva fatto in tutto e per tutto il suo dovere sperticandosi in decine,
centinaia di complimenti, a me quella creatura continuò a sembrare uno ” scarrafone “, così come
l’avevo battezzato all’inizio .
I capelli ricci ricci, la pelle già abbronzata come e più di un marinaio, quelle orecchie troppo
lunghe, non lo facevano assomigliare a nessuno di mia conoscenza.
Comunque ciò lo tenni per me, a chi dirlo sennò, come tennero per se stesse la medesima
considerazione Teresì e le sue comari.
Ero troppo contento di vedere di nuovo riunita la mia famiglia, di sentirmi chiedere da mammà
perch&egrave mai me ne fossi andato quel mattino senza nemmeno aspettare che si svegliasse, che mi preparasse un caff&egrave, per fare ulteriori storie.
Quanto avrei voluto, però, che se ne venisse via da quella casa !
Sulla gradinata, quel pomeriggio, vi fu vera festa, come mai se ne erano viste.
Non mi dispiacque nemmeno quando Peppì, che era andato ad incontrare i vecchi amici, tornò con due di loro e mammà tuffò in due bottiglie d’olio fumante metà della mia cassetta di pesce.
Doveva essere festa e lo fu, anche se quegli ingordi si papparono la frittura senza dividerla con
nessuno; anzi, la sera, io e nonna cedemmo loro anche i nostri due materassi, andandocene a dormire sotto il tavolo.
Anche il mattino dopo fu festa, con un andirivieni di donne che venivano a vedere il pargolo di
Conc&egrave.
Dopo pranzo, feci una scappata dagli amici e, quando tornai, non trovai nessuno.
Teresì sedeva sul gradino di fuori, come un’anima dannata.
” Addò stanne………. mammà………..Cunc&egrave……….?”.
” Se ne song annate…………!”.
” Comm’ annate …………..?”.
” Annate………..se ne song annate……….!”.
” E che……….se fa accussì………..?
” Che ne saccie ie………..?”.
C’ era rimasta proprio male, nonna, nel vedere prendere sù a mammà e Conc&egrave anche l’altra metà del pesce, quello che avrei dovuto vendere per mangiarci.
Volente o nolente, ciò che aveva ripetuto fino all’ossessione Peppì dovetti però riconoscere che
era vero: la puzza che proveniva dal nostro buiolo era una fetenzia insopportabile, e pure quelli
della muffa e del rusco, che vi si fondevano.
E mammà, che aveva fatto mammà per eliminare quella fetenzia ?
Ci aveva sbarazzato del pesce !
Peppine, con la sua puzza aristocratica sotto il naso, mi aveva fornito però un’idea: costringere
nonna a svuotare il vaso quanto più regolarmente possibile, e a lavarsi, cosa che non faceva da
tempo immemorabile.
Il comportamento insultante di Peppì, la sua prepotenza, se non altro erano serviti a qualcosa.
Mi ero chiesto sempre più spesso, infatti, e me lo chiedevo pure adesso, che ci andavo a fare al porto tutte le mattine.
Fare il pescatore, che futuro poteva offrirmi ?
E poi mi domandavo anche chi fosse questo Peppì, per averci un destino tanto migliore del mio.
Nonna Teresì non era assolutamente d’accordo: per lei nel basso si respirava benissimo, ci si stava
comodi e il mio futuro era in mare.
La ragazzetta con le ginocchia sbucciate, gli occhi cerulei ed i capelli biondi quasi bianchi, si
era intanto trasformata, mettendo sù delle
” zinne ” ed un posteriore a dir poco magnifici; si
stava facendo bella veramente, anche se continuavo a considerarla un pò strana.
Stava scendendo la scalinata dimenando le braccia in alto a mò di saluto, mentre io la risalivo con due cassette fra le braccia, il mio nuovo salario, che una gliela avrei donata tutta quanta.
Per poter pensare una battuta simpatica, rallentai fino quasi a fermarmi.
” Ihhh…………quante sì………….na’ maronna sì…………!”.
No, troppo scontata.
Così, senza pensarci sù, le corsi incontro salendo i gradini a due a due, e stavo per scontrarmici
quando, all’ultimo istante, Antoni&egrave scartò facendomi quasi cadere le cassette di mano.
Una voce dissonante, sguaiata, mi stava superando’da dietro, mentre l’albina continuava a
salutarmi.
” Ampress………..fa ‘mpress……..!”.
Correvano agili, quelle sue caviglie sottili, come rotolassero. Come salutavano bene le sue braccia
piene di lentiggini, così diverse da tutte le altre.
Stava, come m’accorsi, andando incontro a Vincenzine.
La madre di lui riceveva gente quattro vicoli appresso al mio.
Che sapessi, lo aveva sempre fatto; perciò tutti chiamavano Vincenzine ” figlie ‘ndrocchia “.
” Fa ampress………….!”.
Quel mattino, il mio stomaco rischiò di chiudersi per sempre, la mia mente di disfarsi.
Tutti noi, voglio dire quelli della mia età, sbavavamo per entrare nel basso della zoccola, ma lei niente; ogni volta piazzava davanti alla porta quel cerbero del figlio, un mostro che sembrava ci avesse cento braccia.
Il labbro superiore spaccato a mò di coniglio, ci giocava con il moccolo fino all’ultimo istante
prima di inghiottirlo, lui non ci faceva passare manco morti.
Perch&egrave, diceva, eravamo ” omminicchi ” senza sostanza in tasca, n&egrave nel cazzo.
Non ci restava altro che andare dietro il muro in cima al rione, dov’era una chiesa sconsacrata, giocando a fare come come quelli che già potevano andarci, molto più fortunati di noi.
I più grandi, quelli che ci avevano già fatto le loro prime sgroppate, sembrava facessero a gara a
venirle a raccontare.
Fernà, intanto, il fratello ricchione di Gioacchì, un altro degli amici di un tempo, non faceva
altro che dirmi quanto mi stessi facendo alto.
Da una parte ne ero lusingato, dall’altra provavo un certo imbarazzo, specie se me lo diceva avanti
alle persone, perch&egrave non volevo sembrare ciò che non ero: il suo innamorato.
Chiesi pertanto a Gioacchì di non scenderci più, al boschetto dove posteggiavano i femminielli, ma questa mia richiesta rischiò di inimicarmelo, a causa, come disse lui, della dignità della propria
famiglia, cui teneva tanto.
Fu necessario quindi un chiarimento, pur se amichevole, ove Gioacchì capì finalmente che la mia domanda era dettata dalla stessa dignità che vantava lui: io non ci tenevo a passare per ricchione.
Così non ci mettemmo nulla a rifare pace; io tornai al boschetto e Fernà smise di complimentarmi in pubblico.
La pioggerella, quella sera d’estate, stava venendo giù sempre più pungente tanto che nemmeno la tettoia riusciva più a ripararci, quando io e suo fratello vedemmo Fernà prendere la rincorsa da dietro il proprio albero, a testa bassa, ridendo, con i calzoni ancora alle ginocchia, seguito a ruota da due giovani sui vent’anni circa che si stavano ancora chiudendo la patta.
Una volta arrivato, egli prese posto insieme a loro sotto la parte più sporgente della lamiera che
fungeva da tetto. Ci aveva scorto e ci fece un cenno che voleva dire che ci avrebbe raggiunto al
più presto.
Il bar avrebbe chiuso di lì a mezz’ora circa.
Fernà sorrise ai due clienti per un’ultima volta, li salutò con un bacio sulla bocca e quindi si
avvicinò a noi, ordinando tre caff&egrave corretti al mistrà.
La serata era andata ottimamente, disse; così, prima che il barista tirasse giù la serranda, Fernà
gli chiese di mettere sul banco pure una bottiglia dello stesso liquore.
Intanto, si erano aggiunti alla comitiva ” Tricche Tracche ” e ” a’ Seccia “, i due cugini di
primo grado dei miei amici.
Pressapoco un quarto d’ora dopo Gioacchì, completamente ubriaco, riversava la schiena all’indietro offrendo in visione ai tre femminielli il proprio “pacco”.
” Ah, Seccia………….&egrave gruosse no………?”.
” Hiii………hai voglia Gioacchì si &egrave gruosse………!”.
La stessa scena si ripet&egrave da tutto il mese di luglio fino ad autunno inoltrato, più volte.
Mentre ” a’ Seccia ” e Gioacchì, a lavoro finito, stavano scherzando su quel pacco mi ritrovai,
verso il finire d’ottobre, ” Tricche Tracche” scaraventato per gioco da Fernà, ubriaco, sulle mie ginocchia.
Teneva la voce in falsetto, ” Tricche Tracche “, quando emetteva quei suoi gridolini; tutta il
contrario del bestione che era.
Fernà, che si stava annoiando, sentitolo, tirò sù la testa dal bancone.
” Cazze Titì…………..sò strutte……….che ce sta………..?”.
” Ven’accà………..!”.
Ero sempre più innamorato della mia Antoni&egrave, stravedevo per lei pure se mi tradiva, continuavo a
sognarmela anche di giorno, ma quell’improvviso venir meno mentre i due ricchioni si chinavano a
scrutarmi, mentre palpavano, beh, quella sensazione non l’ho mai più provata.
Tricche Tracche, ” che dicive………!?”.
Sembrava parlasse di un altro, e invece parlava di me, del suo amico Lor&egrave.
Fernà rispondeva, ” aggie viste………..!”.
Ero pieno come un uovo di mistrà, ma non ci fu bisogno di guardare dove i due guardavano.
Stavo avvertendo delle senzazioni che mi paralizzavano: il freddo delle labbra di ” Tricche Tracche “, il seme che sgorgava, la lingua larga e calda di Fernà che cercava di schiudermi la bocca.
” Che schife !”.
Nei mesi seguenti, incontrai Fernà quasi ogni pomeriggio.
Veniva accompagnato da Gioacchì, suo
fratello, che ormai non lo lasciava più solo.
La nostra meta era una serie di bassi con i tetti e le pareti semisquarciate dalle bombe, rifugio
di gatti randagi e delle biscie.
Pure Gioacchì ebbe la fortuna di diventare uomo, nel frattempo, sicch&egrave Fernài pot&egrave iniziarci entrambi.
Il ” femminiello ” cercò di trasmetterci tutta quanta la sua conoscenza del sesso.
Aveva le cosce ancor più liscie di quelle sbirciate alle femmine, perch&egrave già se le rasava un giorno
si e uno no, ma non era una donna, anche se le zinne gli erano cresciute quasi come a una di loro.
Ci stavamo il pomeriggio intero, e non ne avevamo mai abbastanza.
Un giorno, però, Fernà pretese che prendessi in mano il suo arnese mentre gli ero dietro,
inalberandosi perch&egrave non ne volli sapere.
Era giunto il momento di liberarmene, di darmi alla ricerca del sesso vero, quello delle femmine.
Quindi li scaricai entrambi prendendomi del fetente e pure due pugni allo stomaco, ma li
scaricai.
Mi sembrava di essere in possesso, ormai, di tutto ciò che era da sapere, di tutto ciò che
occorreva per conquistare Antoni&egrave.
Tornai anche sul porto per per studiare se ci fossero spazi di manovra, e così farmi qualche soldo, perch&egrave, alla bella età di quattordici anni, ormai come pescatore non lavoravo più.
Mia sorella teneva un sedere ancor più voluminoso di quand’era incinta, pressapoco come un sacco di patate.
Perciò si era spostata dal piazzale principale; stazionava presso i fuochi più piccoli, con altre
due ragazze grosse più o meno quanto lei.
Mi riconobbe immediatamente, ma la vidi in apprensione.
Mi presentò, molto cortesemente, alle sue due compagne, che le fecero millei complimenti per quel suo fratello.
I ” pappa “, ora, stazionavano nel baretto costruito appositamente sul fronte del molo, a circa
duecento metri; appiccicati come sardine alla vetrata a guardare i movimenti delle loro donne.
Conc&egrave, presomi in disparte, mi fece capire che non ci sarebbe più stata la possibilità di rubarle
una percentuale in allegria così come avevamo fatto ai primi tempi, quando Peppì, invece di
fermarsi sul posto, se ne andava all’osteria dei marinai, fuori dalla vista.
Compreso che non ci avrei cavato un ragno da un buco, le chiesi allora notizie di mammà e dei miei due fratelli.
Rosa ora stava a casa coi bambini, disse lei, ed aggiunse che i nostri fratelli ora erano tre; poi, come colta da un’intuizione improvvisa, chiese, ” pecch&egrave nun a’ vai a truvà………..?”.
Era sempre stata d’animo buono, Conc&egrave, e ci teneva pure lei, alla famiglia.
” Sta siempre ‘ncazzata……..che ce vade a fa……….!”, le risposi.
” Hai raggione………….però quacche vota se ne vene pure issa…………!”.
” Vene accà………….cco’ Peppì…………?”.
” No………….Peppì &egrave l’omme mie………..!”.
” Vene sola………?”.
” Nooooo………vene cco’ Rosett ………….n’amica sua………..e cco’ Mich&egrave………..p’accattasse quacche cosa pure issa…………..a vita &egrave dura……….!”.
E Concettì m’indicò con la mano la piazzola che occupava mammà, ancora più vicina ai flutti e con i fuochi spenti.
In quel momento arrivò un cliente e lei, dettogli il prezzo, si incamminò ancheggiando vistosamente
seguita dall’uomo, verso un capanno di lamiere a una cinquantina di metri.
Pensavo a quanta fortuna avesse avuto Peppì nella sua vita.Era come se ci avesse due femmine a lavorare per s&egrave, riflettevo, senza permessi n&egrave ferie, e senza feste comandate che tenessero; una
che lo manteneva, e l’altra che si manteneva da sola.
Il tutto senza aver passato un solo giorno in mare.
Mica doveva tenere i piedi a infradiciarsi in acqua e rischiare il culo, lui !
Una delle compagne di Conc&egrave, quella più bassa, visto che non me ne andavo, dopo avermi chiesto
quanti anni avessi, mi disse di seguirla dietro una pila di gomme; doveva lavorare, sapeva che il
pappone la stava guardando ed era completamente intirizzita dal freddo.
Abbassò la tariffa più volte; per cercare di convincermi mi disse che mi avrebbe fatto veramente divertire, finch&egrave l’altra, comprendendo la mia reticenza, la riprese rimarcando la stretta
parentela con l’amica.
Così mi vidi costretto a defilarmi a una trentina di passi e ad attendere che Concettì finisse senza più intralciarle sul lavoro, anche per non farle accorgere che non avevo soldi in tasca.
” Che ce vò ………? O’ sai pure addò sta………!”, mi aveva ripetuto Conc&egrave, stirandosi la
gonna, ” vacce……….!”, prima di accomiatarsi.
Tornando verso casa, mi sorpresi a pensare più volte a ” o’ Pazzarielle “, che mi pregava di
accomodarmi al tavolo; mi erano rimasti troppo impressi le sue occhiate alla scollatura di mammà e la merda secca di quel cortile, per poterlo dimenticare.
Parlavo fra me e me, come un pazzo.
” Che ce vò………..tu pure puoi avecce ‘o caff&egrave d”a mamma soia……….che ce vò………..e
che………sole isse…………?”.
Non lo volevo più essere, un pescatore, anche se dovetti, per qualche tempo ancora, su insistenza
di nonna e per sfamarci, continuare a farlo.
Quella notte pregai perch&egrave il santo mi facesse una grazia, una soltanto: di darmi l’ idea per la svolta giusta.
Mammà, avevo saputo, batteva pure lei.
Qualunque fosse la motivazione che s’era data: per dare respiro alla figlia o per avere qualche
soldo in proprio, si era prostituita anch’essa, per sua scelta.
Certe frasi smozzicate, colte al volo mentre Teresì parlava nel sonno continuavano a ronzarmi
per la testa.
” Ma quale Conc&egrave…………a’ zoccola &egrave Rosa ………chilla c’&egrave nata e ci ha a’ murì
accussì………povere Cicirielle mie………..!”.
Era una persona, nonna, con uno spiccatissimo senso dell’appartenenza familiare.
Cosa mai avesse voluto significare con quelle frasi non lo potevo sapere ma, per quanto riguardava
mammà ci avrei potuto scommettere, ci aveva azzeccato in pieno.
Molte altre ancora erano le domande che mi ponevo, nel frangente.
Chi avrebbe voluto al suo fianco a proteggerla, mammà, se Peppì non la proteggeva. E i figli, chi
glieli avrebbe badati se avesse voluto lavorare a tempo pieno ?
C’era, &egrave vero, la nostra reciproca diffidenza; c’era il fatto che non mi aveva difeso da Peppì e,
di conseguenza, da parte mia, un astio nemmeno tanto nascosto, ma una bella notte mi sognai la
trattoria ” d’ ‘o Pazzeriell “.
Ci entravo con uno stuolo di femmine, precedendo altri papponi e mammà, e lui a chi si
precipitava a tirare indietro la sedia spagliata ?
” Chiste sò ‘i fimmene mie Pazzari&egrave…………..!”.
” Chiste &egrave’ ‘o tavule cchiù belle che tenghe don Lor&egrave………….che ve facce preparà…………?”.
Mammà si era già spaparanzata sulla sedia che, dopo di me, l’oste le aveva porto, e gli rispondeva
al posto mio.
” I cavutiell………ce stanne i cavutiell…………?”.
” Certe Rò…………cierte………..sempre frisca comm’ na’ cerasa vuie…………!”.
Così, ” ve fidate e me si diche che là se vive meglie………. ?” , chiesi una sera a nonna, per
riprendere un certo filo del discorso.
Evidentemente, Teresì non si fidava.
” I cco’ Peppì nun ce voglie addurmì………nun ce duorme cco’ isse ie……… !”.
Se ne venne fuori così, nonna, e il discorso appena iniziato, per forza si interruppe. Capitolo II

‘E primme defaillances di Teresì

La luna ci stava buttando addosso la sua faccia nuova disegnando le nostre teste sulla oscura
parete dietro.
” Teresì………….!”. Avevo preso a chiamarla così da qualche tempo, per non sentirmi del tutto
” nu’guaglione ” e perch&egrave anche lei non si sentisse troppo vecchia per quello che le volevo dire.
Ero appena entrato nella seconda fase, quella in cui si studiano decine di modi per riuscire il più
gradevole possibile al genere femminile.
Lei, anche se si schermiva, non si sentiva offesa, perch&egrave non si sentiva poi così tanto vecchia.
” Ma pecch&egrave me chiamm Teresì mò……….nunnar&egrave nun &egrave bbuone cchiù……….?”.
” Accussì……….stu’ nomme………..&egrave che nun ve ce vede tante vieccia……….!”.
Lo sapevo si e no, ma all’epoca nonna aveva appena compiuto i quarantesei anni; una sua comare che abitava lì intorno, una sua coetanea, era incinta di cinque mesi; altre avevano figli piccolissimi.
” Fatele ppe’ Lor&egrave vostre………….v’o’ prumett ………….ve prumett che nun ve ce manne a durmì cco’ Peppì………….!”.
E poi, fra il serio e il faceto, ” v’addurmite ccu’ me………….nun sò cchiù belle………….?”.
” Chille…….o’ saccie ie …………….!”, rispose lei, convinta che Peppì, appena avutala a
tiro, se la sarebbe pappata come un beccafico.
Sulla mia evoluzione, sempre più evidente, naturalmente nemmeno una parola.
Le chiedevo anche, a volte, ” tenghe paura a’ quaccune ie……….?”
Nonna restringeva gli occhi nel buio e, ” famme durmì va………!”.
Le sue spalle erano più larghe delle mie, ancora, anche se in altezza l’avevo ormai raggiunta e
superata, ma Teresì pesava sicuramente il doppio del mio peso.
Questo era ciò che passava per la testa di nonna, ma non lo diceva certo, per mille e uno motivi.
Nel nostro basso, e negli altri pure, si poteva trovare, al massimo, una sola coperta, che però,
proprio perch&egrave preziosa, veniva rinchiusa nella panca e tirata fuori solo una volta all’anno, per
il Corpus Domini, quando le calli scoppiavano di profumi e di colori: petali di rose, gigli, viole
e violaciocche, e le porte e le finestre erano invase dei ghirigori intessuti nelle stesse coperte
e nei scendiletto appesi.
Era per questa ragione che continuavamo a dormire con gli stessi vestiti che portavamo di giorno; per dignità l’estate e, l’inverno, pure per ripararci dal freddo.
Le presi una mano; lo avevo fatto spesse volte la notte, prima di allora, per assicurarmi che fosse
viva.
Quella volta, per la prima volta, cercai di trascinargliela lentamente verso di me.
Nonna mi seguì per un pò poi, compresa l’antifona, con la mano rimasta libera mi menò un gran fendente.
” Ohhh………..schifuse………!”.
” Me ne voglie trase…………e ve voglie appress………..ve duvite lavà………” le dissi,
schivando il ceffone per un pelo.
Nonna comprendeva benissimo cosa volessi dire e rispose, ” ie no……….i’ voglie
rumman&egrave………. ie………..nun me lave ppe’ nisciune ie…………!”.
Con quelle premesse, Peppì mi avrebbe schiacciato come una mosca.
” Quanne se lavene &egrave fatta………… .!”, mi aveva caricato ” Vincenzine o’ muoccole”, col quale
ormai stavo in confidenza.
Ed io ne ero convinto; ero convinto che la sua frase fosse di quelle buone veramente.
Lo frequentavo da circa un mese con una certa assiduità, perch&egrave era l’unico che potesse permettermi di vedere Antoni&egrave, e perch&egrave, nel frattempo, mi ero invaghito di sua madre: la zoccola del rione.
Anche lui doveva aver pensato ad una convenienza nel frequentarmi; difatti Vincenzine aveva certi progetti per la testa, era prodigo di consigli e intanto mi teneva a bada.
Sua madre, vedendomi spesso con lui, aveva preso, anche lei, a rispondere ai miei saluti. Era nata, insomma, una bella confidenza e ciascuno se ne aspettava i frutti.
Per puro caso, mi era capitato di intravederla dai battenti rimasti socchiusi, sua madre, mentre si
sciacquava accovacciata sù di un catino smaltato, la veste arrotolata oltre il ventre, probabilmente per prepararsi all’incontro con qualche facoltoso cliente.
Mi ero dovuto allontanare subito prima di scoprire chi stesse aspettando, ma ero rimasto
letteralmente fulminato da quella lussuriosa prorompenza di carni rosee a squarciare la penombra del basso, tutto il contrario delle mocciose che adocchiavo nella piazzetta e sulle scalinate, scure e chiatte.
Non passava notte che non me la sognassi.
Non pretendevo certo che nonna facesse altrettanto, non era fatta per questo; non aveva tette e culo fatti di vellutata mozzarella come Marì, dalle sue vesti non proveniva alcun profumo, ma una lavata ogni tanto, perdio, poteva pur darsela anche lei !
Quello che mi stava preoccupando, però, era la figuraccia che avrei fatto quando Peppì fosse venuto a sapere chi era stato a sverginarmi; anche perch&egrave, forse per vendetta,
” o’ femminiell ” aveva fatto girare la voce che era ancora innamorato.
Perciò stavo concludendo che quella di una femmina, Teresì o chiunque altra, fosse ormai una strada obbligata.
Mi rendevo conto, comunque, che la vecchia era di una pasta diversa: lei ci teneva alla sua
dignità, ci teneva ai vicini e alla sua posizione in chiesa; ci teneva a mantenere ciò che si era
conquistata fino ad allora con una vita piena di sacrifici.
Avrebbe voluto morirci, lei, nella sua dignità.
Erano cose di lei che mi inorgoglivano pure, ma quella di presentarsi da Peppì come un vero uomo, non come ” nu’ ricchione e’ merda “, adesso era diventata la mia necessità primaria.
Poich&egrave avevo capito che sarebbe stato oltremodo difficile di farle accettare di spalancare le gambe
al primo venuto, proprio per quella sua indole di donna tutta di un pezzo, soprattutto con Teresì
avevo deciso di fare muro contro muro.
Non ero quindi preoccupato dei colpi che avrei potuto ricevere da lei, ma del tempo che se ne
correva via senza alcun costrutto.
Antonietta, alla quale, nell’attesa, non avevo per nulla rinunciato, la seconda candidata, stava
lasciando Vincenzine ed aveva cominciato a fare la smorfiosa con il figlio del fornaio, più grande
di lei di un sei, sette anni; uno con la faccia butterata, secco come un chiodo, ma con la fama di
essere un buon partito ed una buona mazza.
Ero stato l’unico cui Vincenzine avesse confessato la propria paura, la sconfitta più cocente della
sua vita.
Quello si che era stato un vero colpo, altro che i pugni di nonna.
C’era rimasta male pure la zoccola, la quale faceva di tutto perch&egrave il figlio dimenticasse al più
presto l’albina.
Mentre stavo riflettendo a quanto una ragazza potesse diventare cattiva, me ne beccai un altro, di pugni, stavolta direttamente ai genitali.
L’ unica cosa a consolarmi fu che Teresì, per darmelo, mi aveva dovuto sondare con le dita giù in basso, ed ero certo che, nel sentire quella eccitazione, ci fosse rimasta sopra un istante più del dovuto.
Ne ero talmente certo da ridere mentre urlavo.
Pugni o no, avevo comunque deciso; avrei coltivato Teresì perch&egrave la più vicina, così come avrei continuato a coltivarmi Antonietta perch&egrave il mio amore, fidanzata o meno del figlio del fornaio, e la zoccola per la sua lussuria, onde presentarmi finalmente in regola alla casa di Peppì.
Per arrivare alla meta, avrei potuto fare affidamento esclusivamente su ciò che aveva tanto entusiasmato Fernà e ” Tricche Tracche “; per il momento non vedevo altro su cui poter contare.
Per cui continuai a ridere con nonna, a tirarmi addosso la sua mano, a prendere botte, a scendere nella piazzetta, a frequentare Vincenzine, il figlio della zoccola.
Volevo misurare non tanto loro, quanto me.
Finiva sempre che Teresì, dopo aver chiamato a testimoni la madonna e tutti santi sulla infamia di
quel nipote, dopo aver minacciato di buttarmi giù dal letto, prendeva a russare dalla stanchezza,
lasciando in mia balia la destra dolorante per gli strattoni. Finiva che Antoni&egrave neppure mi guardava, passandomi accanto, e che la madre di Vincenzine, adesso molto più di prima, riversasse
tutte le sue attenzioni sul figlio.
Un mattino ebbi modo di ascoltare Teresì mentre chiaccherava con Rosina, una delle comari più
giovani e fra le più scanzonate, sullo scalino del nostro basso.
Avevano cominciato col parlare dei figli e del lunario da sbarcare, poi il discorso era
inevitabilmente caduto sui maschi; a quel punto era arrivata Conc&egrave, la nostra dirimpettaia.
Rosina, credendo come le altre due che ancora dormissi, aveva accennato a certi tormenti cui il suo uomo la sottoponeva tutte le notti; nonna e Conc&egrave interloquivano ridacchiando, dicendo la loro.
Teresì si era poi affacciata sulla porta per controllare che ancora dormissi, e subito dopo un
gesto rassicurante da parte sua Conc&egrave, chiamata direttamente in causa, aveva esordito a proposito
del marito, ” chille……..na’ vota……….!”, alla quale battuta avevano riso tutte quante sgangheratamente.
Poi la conversazione era caduta nell’osceno, perch&egrave le disgraziate, prima di scendere a fare la
spesa, quel mattino sembrava volessero togliersi tutti i sassolini dalle scarpe.
Per me, comunque, quei discorsi costituirono un segnale, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che
nonna Teresì, sotto quella sua aria da confessionale, serbava ancora, se non proprio delle velleità, perlomeno una certa pruderia per l’argomento.
In quell’occasione avevo scoperto, tra l’altro, che per tutte quelle femmine noi uomini eravamo
buoni solo a portare soldi a casa e per certe faccende notturne; per qualsiasi altra cosa ci
consideravano dei buoni a nulla.
Con il mio nuovo amico Franc&egrave, ormai, ero divenuto esplicito.
” A me o’ mare me piace sole ppe’ guardalle………..nonna Teresì vuole che faccie o’
piscatò………..cco’ cazze………. me vurria fotte Antoni&egrave sta’ zoccola………..m’attizza
proprie a’ guagliona………..vurria jirmene pp’ ‘o munne……..che hai ritt……….?”.
Lui sghignazzava, ” futtimece a’ zoccola ‘nvece…………ce purtamme i’sorde e pumm pumm……….ce a’ sbattimm………..scusasse, ma poi pecch&egrave vuoi annà ‘ngire ppo’
munne…………?”.
” Cazze………..pecch&egrave me ne voglie ji…………!”.
” E pecch&egrave……….boh……… e Antoni&egrave……….se ne rummane accà……….? Accussì a pozze
fotte ie……… bbuone…….. bbuone………..!”.
Si stava bene insieme, ci potevamo dire di tutto o quasi, e rimanere amici.
Le chiaccherate con Teresì prima di addormentarci, dopo quei primi tentativi andati a vuoto e la conversazione fra le tre donne, erano divenute adesso più confidenziali, appena più spinte.
Stranamente, ora la consideravo la meta meno difficoltosa da raggiungere.
Da una parte, però, quasi non volevo che nonna mi si concedesse, non volevo vederla come una
zoccola, perch&egrave così poi l’avrei veduta.
Di lei avrei voluto mantenere un’ immagine diversa,come quella di un nume protettore. Avevo un estremo bisogno di qualcuno da rispettare.
Ero, quindi, io stesso a frenarmi, ma poi riprendevano il sopravvento i progetti per raggiungere Conc&egrave e mammà, per l’inizio di una nuova vita, e le pulsioni del sangue.
Cercavo di convincere nonna a lavarsi non solo per portarmela appresso, ma perch&egrave il mio odorato, con la frequentazione della casa di Vincenzì, la zoccola per i clienti più danarosi si profumava pure, si era fatto nel frattempo più esigente.
Il mio amico Vincenzine, dopo qualche giorno in cui aveva fatto il sostenuto per le occhiate mie e
per quelle ancor più insistenti di Franc&egrave al ” balcone ” della madre, per festeggiare la pace fatta con una promessa reciproca, si era portato appresso tre bottiglie di vino; erano un omaggio a Marì da parte di uno che teneva un giardino verso san Giuseppe Vesuviano, ma ormai sapevano di aceto.
” Faccimm accussì……….o’ primm che tiene na’ penzata………..ma na’ penzata proprie no na’
strunzata……….o’ faccie fotte…………!”, ci aveva promesso Vincenzì.
E noi, io e Franc&egrave, ” si ce fai fott altre che penzata……….!”.
Tre erano le bottiglie, tre noi; alle quattro di notte, faticavo per ritrovare il mio vicolo.
Dopo una lunghissima pisciata liberatoria l’istinto ebbe il sopravvento sui fumi dell’alcool; una
volta giunto in prossimità del basso, a guidarmi fu l’inconfondibile russare di nonna Teresì.
” Mò sò rrivate………..!”.
La testa mi girava così tanto che non ebbi n&egrave il tempo, n&egrave tanto meno l’occasione di pensare;
cercavo di indovinare dove fosse il materasso ed invece scivolai sul gradino, andando a battere la
” capa ” in uno spigolo.
Delle mani frettolose mi sfregavano le tempie e una voce gutturale, che pareva provenisse
dall’aldilà, mi supplicava di svegliarmi. Nonna si stava dando da fare per farmi riprendere i sensi
e per tenermi avvolti sulla testa tanti pezzi di carta paglierina imbevuti d’aceto, l’unico rimedio
che conoscesse.
D’ attorno aleggiava un fetore ancor più tremendo di quello del vino andato a male, quello del mio
vomito e del sudore di lei.
Avrei fatto di tutto per riaddormentarmi, ma non potevo, perch&egrave Teresì non me lo permetteva.
” Me siente…………oh……….me siente………..disgraziate………..?”.
Quando mi svegliai per la seconda volta, il sole era già alto; cercava di trapassarmi gli occhi
facendomi volteggiare dentro la testa un nido intero di vespe.
” Che &egrave success………… ?”, domandai, avvertendo delle persone attorno a me.
Il bello e il brutto di nonna Teresì e delle sue comari era che non avevano peli sulla lingua.
Me lo urlarono nell’orecchio, ” te sì m’briacate……….. ecche che &egrave
success………….fottete………..!”.
E Teresì proseguì, ” addò i teneve i’ sorde………..fetent………?”.
Poi ella ebbe un barlume di compassione, sciolse i legacci che tenevano unita la tenda e permise al
sole di nascondersi, ” faccimmele addurmì………..stù fetent………!”.
Dal vomito, dall’aceto e dal sudore delle ascelle adesso ero passato ad un meraviglioso profumo di
caff&egrave, che sovrastava tutto quanto; nonna si era messa a borbottare insieme alla caffettiera e
sembrava non pensare ad altro che ad azzeccare il momento giusto per capovolgerla.
Prima che mi fossi assopito di nuovo, ora che eravamo soli, avrebbe voluto dirmi tante cose, ma ciò che mi avrebbe voluto dire per prima era che un uomo per le mani deve averci un mestiere; uno
qualunque, ma ce lo deve avere.
Solo così una femmina che si rispetti, qualunque femmina con un minimo di dignità, può vederlo come ” n’omme “.
Ne era convinta, Teresì, anche se la buonanima del suo Vinci&egrave un mestiere non se lo era mai voluto mettere in tasca e lei l’aveva ugualmente amato dal primo momento, al cuore non si comanda e, a mio padre, invece, la mancanza di un mestiere lo aveva ucciso.
Ma lei continuava ancora a crederlo.
Per lei lo disse Conc&egrave, l’amica sua appena entrata a bersi un caff&egrave in pace.
” Va bbuò………… ha bivute…………mò i’ tiene i’ sorde però……..tiene nu’ mestiere
mò………….!”.
” Sssshhhhh……….chiane……..!”.
Ebbi modo di bermi un caff&egrave molto più tardi, rifatto appositamente per me perch&egrave la nostra cuccuma era solo per due, ed ebbi modo di comprendere, allora, che ella stava cambiando radicalmente il suo modo di pensare.
Mi aveva urlato di voltarmi con un soprassalto; spalle alla tenda, abbassate le spalline, si stava
risciacquando le ascelle.
L’esser stata sorpresa in quello stato, la veste scesa dalle spalle, l’aveva fatta diventare rossa
come il fuoco; era qualcosa di cui confessarsi quanto prima.
Cosa avrebbe risposto quando il prete nuovo le avesse chiesto, con quella sua aria perennemente
dubbiosa, ” pecch&egrave l’avite fatt Teresì……….che mutive c’era………?”.
Nonna strinse forte fra le dita i lembi della veste, tirandoseli sù, ” pecch&egrave don
Gaetà………..pecch&egrave l’aggie fatte ………nun lo saccie pecch&egrave……….!”.
Lui avrebbe ripetuto più volte, come soprappensiero, ” eh Teresì………pecch&egrave………?”.
Vaglielo a spiegare, a quello, che non poteva far passare il gesto di quella zoccola della nuora,
che al suo secondo ritorno l’aveva umiliata turandosi il naso fin già dalla soglia; vaglielo a
spiegare che Concettì non aveva immediatamente seguito l’esempio della madre solo perch&egrave d’animo più buono.
Proprio lei, Rosa, il cui padre, di notte come un ladro, portava via la merda che il rione gettava
nel fossato a fianco dei bassi per rivenderla a qualche campagnolo; lei, Rosa, che quando l’aveva presa a lavorare, ancora una bimba, puzzava già come una latrina.
Era successo quando aveva preso in mano la sartoria dopo la morte di Nunziatì, mettendosi in testa di farla diventare un piccolo atelier.
S’era presa carico di quella mocciosa, l’aveva ripulita e sfamata, e le aveva messo in mano un
mestiere ed il figlio.
Aveva smesso di sognare pian piano, Teresì, di mano in mano che le clienti, invece di arrivare più copiose, migravano verso laboratori meno dismessi, più verso il centro; perch&egrave nessuno delle sue figlie l’aveva voluta seguire, in quell’arte, e Rosa, una volta sposata a Ciro e avuto il primo
figlio, s’era messa a fare la signora.
Che uno dei motivi per cui adesso era lì a dipendere da uno stronzetto infame come me era proprio la zoccolaggine di Rosa, mia madre, da cui non avrebbe accettato più niente altro.
” Beve stù caff&egrave………ie me ne scenne……….ce sta a’ funzione………stai bbuone mò……….?”.
CAPITOLO III

” Songhe zoccole tutte quante “, aveva sentenziato Vincenzine, cercando di sforare le mie ultime perplessità.
” Mammà se sta siempre a scaurà………!”, egli aveva concluso con una risata nervosa.
Quel che non sapevamo, Vincenzine ed io, era che mammà sua, in tal modo, evitava di rimanere incinta.
Nonna aveva cominciato, chissà a causa di quale recondito pensiero, con l’infamare me e Concettì, mia sorella, ” te vuoi caccià ‘nto lett a’ Cuncettì………….? Ie nun ce venghe però………!”.
Si lamentava anche che, con questa storia di cambiare casa, ci saremmo ammalati tutti quanti.
Da una settimana, non passava giorno che non me lo sentissi dire pure da qualcuna delle sue amiche, che nonna, là, in quella casa troppo in alto, con tutte quegli spifferi d’intorno, ci si sarebbe ammalata.
” Puro se ci sta’ o’ sciacquone comm’ ha ritte Concettì……….che te serve……….na vita e’ merda cco’ st’aria attuorne…………ma che”’ a’ vuoi fa ammurì verament a Teresì……….?”.
La sera stessa nonna, senza alcun preavviso, cominciò a dare degli avvertimenti, a buttare fuori aria come una mitraglia, urlando,” &egrave a’ panza………… a’ panza…………marò………….!”. Tanto da costringermi ad uscir di fuori nonostante fosse già notte inoltrata.
” Com’aggia a’ fà……….. ? “, si lamentava ella nel buio, ” m’ o’ dici comm’aggie a’ fa ccu’ te…………..?”.
Era capitato che nel basso non ci fosse quasi più niente da mettere sotto i denti: solo pane e acqua, ma non era colpa mia; il barcone su cui lavoravo era allo squero e né io né Franc&egrave avevamo ancora messo in cantiere ” na’ penzata ” qualunque.
Nonna mi aveva afferrato per il polso, inframezzando grida e peti, ” l’hai a truvà a’ faticà……..l’hai a’ truvà cazze………..ie voglie magnà…………….siente……….? Sole aria tenghe …………!”.
” Ce corre ampress quarcune…………?”, le avevo risposto incautamente, avendo io cenato da Vincenzine, e questo l’aveva fatta infuriare ancor di più.
Nonna Teresì chiarì ben presto, però, perch&egrave mi avesse permesso di palparle il ventre; lei voleva mangiare.
” Siente sta’ panza………. comm’ o’ tambure l’hai fatta venì……….!”.
” Ie nun ce tuorne……….. !”.
” L’ hai viste mai ammurì nu’piscatore…………?”.
Si stava facendo il segno della croce perch&egrave suo padre e suo nonno erano stati pescatori, e pure il padre e il nonno di questi lo erano stati, e i loro nonni.
Questo aveva visto e sentito dire Teresì, e questo voleva che mi mettessi in testa pure io.
Tirai sù col naso e ribadii ciò che le dicevo da tempo, ” nun ce tuorne a stu’ cazze e’puorte ………che fetenzia………….che &egrave sto’ fiete””.? Me ne voglie ji…………..!”.
Perch&egrave io, al contrario di lei, di bagni in mare ne facevo eccome, e ormai non puzzavo più di tanto; perché, ogni volta che andavo a trovare la madre di Vincenzì, sentivo quel buon profumo, perché avevo bisogno di una donna.
Perch&egrave io non volevo proprio finirci, inchiappettato su quel peschereccio, quando fosse stato rimesso a mare.
Nonna, nonostante fosse in là con gli anni, portava ancora evidenti i segni di un’ antica bellezza.
Aveva ancora tutti i denti, ad esempio, e di un bianco smagliante, cosa rara fra le nostre donne; labbra carnose senza pieghe agli angoli della bocca, occhi giustamente distanziati, vivacissimi, solo qualche filo bianco fra i capelli corvini.
Tranne due rughe assai profonde a mezzo della fronte, in viso non ne aveva altre; camminava diritta ed impettita, retaggio, probabilmente, del suo vecchio mestiere di sarta.
Inoltre, aveva serbato delle chiappe da urlo, anche se troppo in carne.
Teresì era schizzata sù come morsa dalla tarantola, ” aggie famm””capute””aggie famm””.comm’ te l’aggia a dì””.?
Così fui costretto a prometterle che ci sarei tornato al porto, solo per lei, solo per qualche volta; finch&egrave non mi fossi trovato un nuovo mestiere egualmente remunerativo.
Intanto, pensavo di passare da ” don Ciccio o’ cavallare ” per informarmi quando avesse potuto prestarmi ” o’ ciuccie “, l’asina per i traslochi che la gente gli chiedeva più spesso che una grazia a san Gennaro.
Una sola cosa chiedevo in cambio, una sola, che si lavasse; ma questo non glielo dissi; avrebbe dovuto capirlo da sola.
Poi, un bel mattino, la vidi raccogliere ambedue le brocche, appoggiarsele una sulla testa e l’altra sulla spalla, e incamminarsi canticchiando la sua arietta preferita, sù verso la vecchia fontana.
Al porto, avevo ritrovato un compare dei miei vecchi datori di lavoro che mi conosceva ed apprezzava, e che si interessò.
Se andava bene, si rimaneva fuori almeno quattro notti di fila; la quinta e la sesta erano di riposo e, la domenica dopo mezzogiorno, si ricominciava.
Una volta alla settimana, tutti i venerdi mattina, prima che io fossi di ritorno, con la porta serrata, Teresì dava inizio alla cerimonia della abluzione delle ascelle; per lo scopo, dopo aver parlottato con Rosina, aveva acquistato una mattonella di sapone. S’ era arrischiata solamente due volte a passarsela sotto la gonna, due sole volte perché temeva per la propria anima.
Dietro la grata, ella aveva già accennato al sacerdote di aver sognato alcune notti che il suo Vincenzì se ne tornava.
Inginocchiata nel gradino sbilenco e sbrecciato, Teresì aveva evitato gli occhi di questi.
” Teresì……che se ne vene a fa……….? Tante &egrave muorte…………! Quindece patrenostro, e diece avemmaria………..”, aveva sentenziato questo don Gaetà, che già pensava alla vetrata in alto, fessurata dal tempo e dai piccioni.
Volentieri, ne avrebbe dati almeno trenta di avemaria a queste vedove ancora con delle velleità, che buttavano le loro energie in stupidaggini, invece che prendersi cura della chiesa.
Ma guai a darglielo a vedere, guai a dirglielo.
Lui, al contrario del prete che aveva sostituito, il vecchio don Franc&egrave, preferiva che si cuocessero lentamente nel loro brodo.
A vendere la minutaglia che ancora ci davano per paga ci pensavo sempre io, ricavandone i soldi per il mangiare e per le altre necessità.
Quel mese, c’era scappato qualcosina anche per nonna.
Una volta messo quel voto al collo della sua patrona, ella aveva cominciato a fidarsi un po’ di più, ma poco.
Di sgobbare non fa piacere a nessuno, pensava, ma col passare dei giorni mi ero dimostrato più concreto e, questo, per lei poteva voler dire solo una cosa: che avevo preso da lei ed inoltre che stavo diventando un uomo.
Il sostituto di don Franc&egrave, a scanso di sorprese, una volta va bene due già cominciava a puzzare, tre era davvero troppo, la mattina in cui nonna gli era arrivata davanti tutta trafelata e rossa in viso, si era deciso di grattare più a fondo nei pensieri suoi; ci teneva a quel donnone che non si tirava mai indietro quando c’era da prestare un servizio, o da partecipare a un coro o ad una processione.
Ce ne fossero state come lei !
” L’ avite fatta già a’ cunfessiò Teresì………..?, le si rivolse don Gaetà stranamente premuroso.
Nonna fu presa dal panico.
Era così sicura di essersi avvicinata al peccato mortale, che non riuscì a spiccicare una parola.
Fece segno di no e si avviò mogia mogia dietro di lui.
Don Gaetà aveva tirato la tendina del confessionale prima ancora che ella cominciasse a lamentarsi dei dolori alle ginocchia ed alla schiena; tossicchiò deciso a forzarne la resistenza poi le chiese a bruciapelo, ” se n’&egrave venute pure sta’ vota”’.?”.
Teresì non si capacitava.
Possibile che quel novellino non capisse, possibile che il cervello l’avesse tanto annacquato ?
Di là della grata non si vedeva più nulla, era impossibile stabilire un qualunque contatto umano.
Però, questa volta, ella era ben decisa a dire anche la sua.
Rispose stizzita, quasi dispiacendosene perch&egrave i due, nonostante tutto, cominciavano a stimarsi, ma rispose ugualmente, ” don Gaetà………. isse &egrave o’ marite mie”. pure si &egrave muorte…………!”.
Questo prete era però più astuto di quel che lasciasse intendere con quella sua aria dimessa; le rispose giocando con lei come il gatto col topo.
” Teresì…….o’ saccie che &egrave o’ marite tue…………comm’ no…………e pure che &egrave muort……….aggie dimannate sole si &egrave venute …………&egrave venute………..?”.
E poich&egrave quella poveretta non rispondeva, egli rincarò la dose,” allò……….se n’&egrave venute o no stù pazzariell………….?”.
” E’ venute……….&egrave venute………..!”.
” Eh………….?”.
” Eh…………!”.
Di aggiungere altro, nonna non se la sentiva proprio; questa volta era preoccupata più ancora di lui.
” Vinci&egrave sta n’ purgatorie………” stava proseguendo intanto don Gaetà, ” o’ vuoi fa purgà o no……..?”.
Non aveva ancora deciso di smorzarle gli artigli.
” Vente patrenostre e vente avemmaria……….ce vidimme pp’ a’ funzione………..Teresì…………damme retta………..cerca e’ nun sugnà……….!”.
Teresì accettò la penitenza con un sospiro di sollievo e tirò sù dal gradino, per primo, il ginocchio che le doleva.
Si riteneva fortunata che di là della tendina non ci fosse più don Franc&egrave, il quale non gliela avrebbe certo fatta passare liscia. Lui lo conosceva e come, il mondo; lui la conosceva la sua gente.
Lui se ne sarebbe accorto subito che la sua Teresì stava soffrendo come un cane a causa dei ritorni di Vinc&egrave.
Il peschereccio su cui m’ ero imbarcato arrivava in prossimità delle isole fra la Calabria e la Sicilia la mattinata del lunedi, e lì si tiravano le reti almeno per quattro giorni filati; in genere si tornava il venerdi notte, dopo aver riempito i ponti del barcone di pesce pregiato: ricciòle, spigole, soprattutto gamberi; se eravamo fortunati, qualche tonno e pescespada.
Cosa vi succedeva Dio solo lo sa; i mozzi e i marinai più giovani costretti a difendersi con le unghie e coi denti dall’assalto di due sardi, coalizzati fra loro.
In genere, tutto finiva con l’intervento del capitano o le bestemmie di qualche marinaio anziano, ma al più piccolo di questi nostri compagni, sorpreso da solo nella stiva, era capitato di dover soccombere ad uno degli energumeni.
Per non far seguire grane maggiori, il comandante aveva ordinato di mettere tutto sotto silenzio e il ragazzino era stato invitato a cambiare barca, ma quel fatto mi teneva costantemente sulle spine.
Peppì, intanto, era tornato, solo soletto; ufficialmente per vedere se ci erano rimaste delle cozze, in realtà per confidarmi certe cose.
Probabilmente, gli avevano riferito di avermi visto altre due volte nei paraggi degli alveari.
Non appena nonna era uscita, egli non aveva usato mezzi termini, “si hai a’ scanaglià falle……..accà però………..a’ vieccia…….. a’ zoccola………..nu’ femminiell………che m’amporta……..te la fott accà ……..là simme truoppe……. addò ve mittimm……….? Damme rett uagliò………..!”.
” O’ sape Cuncettì ca nun ce vuoi……….?”.
” I’ nun ve voglie………ie”’.? Te l’hai a’ scurdà de scassamme o’ cazze………….pecch&egrave te ne vene sole pp’e’ scassamme o’ cazze”’. vere……….?”.
Ciò detto era uscito; andava a farsi una partita a carte coi suoi vecchi amici.
” Teresì………..ie……….. . nun &egrave o’ mestiere mie………. !”, le avevo ripetuto per ben tre volte quando era tornata.
Nonna non voleva sentir ragioni.
Che mestiere era, quello ?
A parte i rischi che si correvano, li vedevo bene, giù al porto, gli armatori.
Andavano cercando marinai e mozzi nuovi tutti i santi giorni, disgraziati da accontentare con una o due cassette di scarti dopo cinque notti in mare, e zitti, che il rimpiazzo l’avevi già alle spalle.
Chi poteva combatterci con quegli squali; era un mestiere quello ?
Avrei fatto di tutto, ma quello proprio no, ” nun o’ voglie fa”’ e basta………..!”.
Ero appena tornato dai pressi di Favignana e, una volta ancora, avevo dovuto assistere allo scempio di un giovanissimo ragazzo.
Stavolta, erano stati due marocchini.
Il capitano aveva ordinato di tenere quegli uomini in mare, legati alla vita per una fune, per tre ore al giorno, facendoli tirar sù ogni tanto; questo, però, non aveva assolutamente impedito loro di sorridere alla vittima appena tornati a bordo.
Nessuno di noi lasciava mai l’arpione, soprattutto quando si scendeva nella stiva a riposare.
A forza di stare nell’acqua salata, i piedi avevano preso a bruciarmi.
” Nun ce la faccie manche a camminà…………………!”.
Avevo gli occhi chiusi. Appena il capo mi si inclinò in avanti, nonna me lo trattenne sul petto.
Voleva bene a tutti i nipoti, ma per me aveva una predilezione particolare, forse perch&egrave le ricordavo Ciro, il più sfortunato di tutti i suoi figli.
” Duorme piccerì………….duorme che Teresì o’ sape quant’&egrave brutte o’ mare………….o’ sape”’. o’ sape””’.!”.
” Addurmiteve cazze…………!”.
Prima di addormentarsi, ogni sera Teresì guardava i figli che le stavano accanto, attaccati l’uno all’altro come sardine; l’ ultima occhiata, l’ultima raccomandazione, era sempre per loro, ” duorme Marì…….. Nannar&egrave………Cire”.. Peppina”’.Assuntì””..Nicò”’..brutte muorte amm””.cazze………!”.
Ce ne fosse stato perlomeno uno bello grasso, tra loro.
Il marito le si stava stringendo addosso.
” Fatte tuccà bellezz ”’..!”.
” Vinci&egrave”’ i’ vedi……sò seje……seje vocche a’ sfamà………..e tu che stai facienn……….?”.
La mano di lui aveva già preso possesso di una zinna, la pizzicava, la stringeva; l’altra le si infilava fra le gambe come i tentacoli di un polpo finendo per toglierle anche l’ultimo barlume di ragionevolezza.
” Eh spietta…………!”.
Sarebbe stato tempo sprecato; così Teresì cercò di concentrarsi sull’istante in cui l’uomo si sarebbe irrigidito, per cacciarlo via per tempo.
Vinci&egrave aveva iniziato a martellare ed ella comprese che forse non ce l’avrebbe fatta a spingerlo lontano. Avvertì il suo tepore nel ventre mentre era già tardi per una qualunque reazione.
Il marito giaceva sussultando, senza aver pensato minimamente a lei.
Pur ancora narcotizzata, Teresì si accorse che, contrariamente al solito, il membro di questi la stava nuovamente cercando. Stava accingendosi a dargli una botta, quando l’apparizione improvvisa di don Franc&egrave, che mai e poi mai si sarebbe aspettata, la fece spaventare a morte.
” Sò venute subbete………..!”.
” Ma che……….&egrave o’ mode chiste don Franc&egrave……. pecch&egrave t’appresente accussì……….che sì venute a fà……………?”.
” M’hai chiamate no………….?”.
” Ie chiamate………….ma che…………sì muorte………….?”.
Don Franc&egrave, pure se prete, s’ era toccato giù in basso.
” Comm’ muorte……………?”.
C’era rimasta di sasso Teresì, per quell’apparizione dal nulla, ma ciò non le aveva impedito di discorrerci.
” Me steva addurmì…………….mò che sì qua però………. che vurrà di stu’ ciesse che se ne tuorna………..mica o’ chiamme ie ……….o’ sacce che &egrave muort………..nun &egrave che me vulisse strascenà pure a me”’. sotteterra……….. nun &egrave che m’ aggia a’ murì pure ie……….? Si me lo dice tu, ce crede don Franc&egrave………..!”.
” Famme penzà…………!”.
” Pienzace ma fa ‘mpress…………chiste””.”, gli aveva detto Teresì, strizzandogli l’occhio.
Anch’io avevo sognato: di Antoni&egrave, del mio primo incontro con lei.
Ce n’era voluta per scombinarle il vestitino sull’erba dietro il muricciolo.
” Ma tu me lo vuoi nu’ poche e’ bbene………..?”.
” Cierte………sò nammurate ie…………!”.
Poi, mentre stavo per abbrancarla, di punto in bianco m’aveva mollato due calci negli stinchi.
” M’hai fatte male………..!”.
” Male””.comm’ male”’.?”.
Avevo avuto il mio bel daffare per riagguantarla, per tenerla giù, per convincerla che mi piaceva pure se era un po’ ingrassata, pure se quel vestitino addosso le stava tutto striminzito.
Seduta nella penombra, circondata dalla polvere dorata del sole, nell’ intimità di un silenzio ovattato, Teresì stava pregustando il momento in cui avrebbe addentato la sua fetta di pane caldo.
Doveva esserci un barattolo di latte condensato da qualche parte, forse in fondo alla madia; nonna lo trovò e ne bucò il coperchio con le punte della forchetta, attenta, senza far rumore, divertendosi poi a lasciar cadere, dai fori piccolissimi, densi giri vischiosi.
Non poteva rimandare al mittente le parole del suo custode notturno, che continuavano a ronzarle nelle orecchie.
” Trentadoie o’ lavature……….settantott che se ne tuorna………e diece che.. ……….pax vobiscum…………paternostre che si n’ ciele………….a’ maronn Teresì……….hai a pregà a’ maronn………..!”.
Teresì glielo aveva detto e ripetuto pure a lui che si trattava di un sogno, tant’&egrave che le stava dando i numeri, che succedeva solo perch&egrave si erano voluti tanto beneo, quando il marito era ancora in vita, e che lui, don Franc&egrave”’perché s’era presentato così, poi, don Franc&egrave””?”.
Una volta capito che nulla sarebbe cambiato in quella testa dura, nonna si era messa a far segno di si, che, pur di essere lasciata in pace, avrebbe pregato tanto la madonna, ma appena don Franc&egrave era svanito, Vinc&egrave si era rimaterializzato ingroppandosi dietro di lei come una carta moschicida.
” Sintite don Franc&egrave…………eh……….l’ hai sintite………..? Sì nu’ suonne e basta………….!”, aveva alitato Teresì, senza insistere più di tanto.
” T’o’ caccie ie…………!”.
E Vinc&egrave, quel mascalzone, le aveva cacciato dentro “nu’ laganature ” che non finiva più, procurandole, oltre a due orgasmi, un noiosissimo mal di testa che ancora si faceva sentire.
Con l’impressione di essere ancora sporca, con la sua fetta in mano Teresì s’azzardava a guardarmi appena, la faccia e gli occhi giù.
Si stava chiedendo come mai facessero ” ‘o guagliune ” a cadere in un sonno così profondo, a dormire senza mai russare.
Pensando che dovessi aver fame anch’io, girò cautamente attorno al materasso ed il braccio che stava portando il boccone alle labbra le rimase bloccato.
Era per ciò che s’era piombata giù da don Gaetà, tutta trafelata.
Questa volta si sarebbe incazzata lei stessa se costui non gliene avesse dati almeno sessanta di paternostri, perch&egrave, come faceva una povera vedova a non ristupidirsi, dopo una notte come quella, nello scoprire una mazza larga quanto il suo polso pur se afflosciata, fuori come se niente fosse dai pantaloni di Lor&egrave ?
Forse si stava arrovellando per niente; forse quel fetentone la notte si era eccitato pensando a qualche sua fiamma, poi dimenticando di ricoprirsi e don Gaetà aveva ragione ad avergliene comminate soltanto trenta; fatto sta che lo sapeva bene lei quanto si doveva dar da fare, ancora in vita, il suo Vinci&egrave, per portarla ad un orgasmo appena accettabile.
Non che ce l’avesse piccolo Vinci&egrave, era addirittura bello a vedersi, ma lei a venire ci faticava, probabilmente per il timore di rimanere incinta.
Teresì pensava anche ai momenti belli: al giorno del matrimonio, all’eccitazione della prima notte, ad ogni creatura che il Signore aveva mandato.
” Ma pecch&egrave nun me l’ aggie rippigliate nu’ stracce d’ uomme………..?”, si era ritrovata a concludere arrivando rossa come una ciliegia matura sul sagrato della chiesa, prima di correre dietro alla sottana del giovane prete che non ne capiva niente.
Vincenzine o’ muoccole”, per tutta la sera, non aveva fatto altro che ripetermi, ” sò zoccole………..sò zoccole te diche………… o’ saccie ie………..!”.
Stava divenendo antipatico, perch&egrave il mestiere lui se lo era ritrovato già bello e pronto.
” Teresì no………… nonna &egrave n’ orsa……… forte accussì………!”, gli avevo urlato convinto della superiorità di quella donna, e lui, per tutta risposta, mi aveva sghignazzato sulla faccia, ” t’o’ diche ie………….!”.
Quella sera, appena messomi a letto, Teresì aveva cominciato a sproloquiare, ” nun &egrave che lo chiamme, se ne vene isse”’.”.
” Cco’ chi stete a parlà…….. ?”, avevo chiesto.
Nonna aveva continuato senza cambiare assolutamente il tono della voce.
” Mica o’ chiamme……… !”.
” Cco’ chi cazz……….?”.
Finalmente, capii che parlava nel sonno.
Teresì aveva continuato a borbottare frasi sconnesse, prima di mettersi a russare, ed era stato allora che mi ero messo a pensare e ripensare ad Antoni&egrave.
Il pomeriggio assolato e fresco, la passeggiatina fino al muro, il mio salto oltre quello, la mano tesa, la litigata finale.
La mia Antoni&egrave s’era alzata ed era corsa via piangendo.
Pensare che, fino a quel momento, era filato tutto liscio.
” Accussì bella nun t’aggie vista maie…………!”.
” Sì false”’. puro tu………..!”.
” Comm””’? “.
Antoni&egrave mi aveva baciato sulle labbra, ” strigneme”’.sì cuntent”’.?”.
La morbidezza e il calore di quella piccola lingua svelta e pastosa, l’ amorosa sofferenza di quel viso, come scordarseli !
Ma perché, dopo che era stata mia, m’era venuto in mente di rivangare le mie pene, di nominare Tonine, il figlio del fornaio ?
” Basta””.ie ccu’ te aggie chiuse””.nun te parle cchiù””!”.
Anche nonna era scappata via senza farmi nemmeno un caff&egrave.
Tutto stava avvenendo in fretta.
La sera stessa, disperato, avevo accennato una qualche cosa che mi stava frullando ” pp’ a’ capa ” a Vincenzine, un progetto di cui, a tempo debito, lo avrei messo al corrente.
” Me devi d’aiutà………..però”’cco’ Antoni&egrave………..!”.
Era rimasto sorpreso, poi aveva insinuato che nulla di quanto gli raccontavo fosse vero.
” Teresì ce sta……….. me sto’ a scurdà…….. .nun ce sò proprie………..addò sta Teresì…….. ?”.
Chiesi a quella donna cosa volesse con il miglior sorriso.
Sullo sciammannato forte, ella fece un immediato dietrofront, lasciandomi lì a chiedermi che cavolo mai avesse voluto dire.
Prima Antoni&egrave che se ne scappava senza alcun motivo, poi nonna che parlava da sola e scappava anch’essa, infine questa pazza; che cosa era mai successo nel rione ?
Sembrava che tutti avessero le bocche cucite.
Poi, però, Vincenzì mi dette appuntamente la sera dopo, in fondo alla scalinata; io, lui e il fratello di un amico suo.
Nel luogo dell’appuntamento trovai il ragazzetto inchiappettato dai due sardi e lasciato poi a terra dal capitano, che si chiamava Pascà.
” Hue Lor&egrave……..puro tu qua…………avimm a’ spittà………..”, disse questi, con la voce chioccia della sua età e del suo vizio.
” Addò sta Vinc&egrave……….?”.
Vincenzì non si fece vedere, n&egrave lì, n&egrave quando lo cercai tutt’ in giro per la piazzetta.
Mi ripresentai quindi la sera successiva, credendo di non aver ben capito il giorno dell’ incontro e, questa volta, Vinci&egrave si fece trovare; mi ascoltò attentamente e poi disse cosa secondo lui ci sarebbe voluto per organizzarci al meglio.
Poi chiese, ” che hai fatte………..?”.
” Me sò nammurate””!”, gli risposi, e lui, freddo, ” mò sta nuovament cco’ Tonine “.
Lo stesso tono inquisitorio, le stesse parole che Teresì mi disse quando rincasai, verso l’alba.
” Che hai fatte””..?”.
Avevo tirato fuori dalla tasca il fazzoletto chiuso ai quattro nodi, ripieno di monete, l’avevo baciato e lo avevo lanciato beccandole in pieno le ginocchia.
Potevo dirle che quella notte avevamo visitato tre case, dico tre, potevo dirle che avevo ascoltato con le mie orecchie ” Vincenzine o’ muoccole” fare l’ accordo della nostra vita con un ricchissimo giudeo; potevo dirglielo, a nonna, che, finalmente, potevo permettermi di mandarci gli altri per mare ?
No; il ricavato, tutto il ricavato delle mie imprese, lo avrebbe voluto tenere lei.
Quelli racchiusi nel fazzoletto erano solo gli spiccioli, che avevo deciso di portarle per quei suoi tanto sospirati voti, che ci sarebbero volute otto casse di pesce per raggranellarne altrettanti.
Gli altri, i soldi veri, le cartemonete, li avevo sotterrati dietro il basso.
No, non potevo dirglielo !
Nonna cercava di riflettere il più in fretta possibile.
” Hai rubbate………… ?”.
Le raccontai che con Pascà, quel famoso mozzo, vendevo il pescato di alcuni pescatori anziani, mi ero messo a fare il commerciante; per questo avrei dovuto rimanere a terra !
Visto che nonna si faceva sospettosa, le dissi pure che andavo a raccattare qua e là la roba per un amico rigattiere.
Quel gruzzolo era la ricompensa di tre, quattro giornate di lavoro.
In parte c’era del vero in ciò che le andavo dicendo; solo che quel rigattiere era il giudeo, non propriamente un amico, e la sua merce non l’avevo certo comprata.
Io non raccattavo la sua, di roba; gliene procuravo di prima mano nelle case del Vomero e di Mergellina, rubandola.
” Ccu’ &egrave stu’ sapunare……….o’ canusce ”’.?”.
” N’ abbree………….nun cree”’!”.
” N’abbree……………? Gesù………..!”.
Sentire che lavoravo per un giudeo a nonna fece l’effetto di un fulmine a ciel sereno, ma sul materasso erano sparpagliati tanti soldi luccicanti.
” Basta che nun hai rubbate……………!”.
La vidi raccogliere una piccola manciata di quelle monete e, indecisa, soppesarle.
“T’o’ giure””.!”.
” Brave allò”’..vene a’ durmì…………..!”.
Al tocco del mezzogiorno, nel basso non si respirava dal fumo.
Sul rettangolo di carta che prendeva un mezzo tavolo, troneggiavano tre montagnole di pizze fumanti come solo nonna Teresì sapeva fare: un centimetro il bordo spesso e croccante, il centro più schiacciato; una spruzzata leggera, appena l’anima, di ” pummmarola ‘ncopp”, e il gioco era fatto.
Nonna le lasciava scivolare sfrigolanti e bollose dal padellino di ferro tramandato da madre in figlia, incurante di bruciarsi. Era una festa già vederle.
Una brocca d’acqua insaporita dal succo di un limone le avrebbe rese un pasto da principi.
Della abbuffata furono chiamati a far parte anche Conc&egrave, la dirimpettaia, e suo marito Fernà.
Conc&egrave ne portò via, poi, più di una mezza dozzina, per le figlie.
Nonna aveva pensato che non ce l’avrebbe mai fatta a chiederglielo, ma era curiosa di sapere cosa avrebbe risposto don Gaetà alle signore che abitavano i palazzi sotto la piazzetta, coi portoni istoriati, e che frequentavano solo la messa del mezzogiorno. Quelle il cui scarsello non smetteva mai di tintinnare, quelle che lasciavano appesi al collo della madonnina grosse catene d’oro e corallo.
Quelle che, si diceva in giro, la fontana ce l’avessero addirittura all’interno del cortile, e funzionante.
Invece, ce l’ aveva fatta, ” una che se lava………. che peccate &egrave………….?”.
Perch&egrave Teresì, per appenderle quel filo d’oro quasi invisibile alla veste azzurrina, quel mattino si era ripulita a fondo prima di correre giù in chiesa, sciacquandosi non solo le ascelle, ma anche i piedi e i polpacci.
” Si te lave e basta mica &egrave peccate”’..&egrave chille che piensi si te lave, che &egrave peccate…………!”.
Ma che risposta era, quella ?
” I’ quanne me lave me lave e basta…………..!”, aveva risposto Teresì, piccata.
Don Franc&egrave, lui si che avrebbe saputo cosa risponderle, ma era sparito dalla circolazione.
Due pomeriggi dopo arrivai fin quasi via Caracciolo, da solo; ora che avevo trovato un mestiere volevo godermi la mia città, me lo meritavo.
Vincenzine, la notte prima, si era lamentato come una donnicciola, ” ie pecch&egrave aggie a’ faticà………..pecch&egrave………..ie che so a’ capa………..?”.
” Smett””.cammina scimmunite…………..!”, gli avevo risposto ridendo, facendo l’atto di fargli cadere dalla spalla il lunghissimo tappeto che ci stavamo trascinando via.
Quella sua domanda mi girò per la testa fin dal primo pomeriggio.
Quando arrivai da lui il muretto era occupato, vi stavano seduti due giovani. C’era anche l’ormai onnipresente Pascà, che mi salutò.
” Uhe Lor&egrave…………. !”.
Di lì a cinque minuti dal basso della zoccola uscì un vecchietto tutto raggrinzito, calvo come un sasso, che si sfregava le mani.
I due ragazzi, che conoscevo di vista, entrarono insieme; avevano dei baffetti lucidati e curati, e ostentavano la sicurezza tipica dei loro vent’ anni.
Pascà, nel frattempo, mi era venuto più vicino, ” famme appiccià……….!”.
Vinc&egrave, affacciatosi in quel momento, lo sentì. Tirò fuori di tasca la scatola dei fiammiferi, e gliela porse.
Non volevo dirgli perch&egrave fossi lì, che avevo voglia, cio&egrave, di fottere sua madre; non mi bastava più sognarmi di Antoni&egrave. Al mattino mi risvegliavo più eccitato di un riccio e mi dolevano i coglioni.
Mi inventai invece, lì sù due piedi, un pretesto.
Pascà ci faceva solo da palo, essendosi rifiutato di entrare con noi all’interno delle case.
Si era dimostrato pavido perch&egrave, sentendo dei rumori, era scappato ritornando soltanto dopo una mezz’ora.
” T’ aggie a’ parlà e’ Pascà…………!”.
” Stanott &egrave a’ nuttata bbuona…………!”.
Presi Vincenzì per un braccio e mi allontanai con lui, ” nun me piace………..e ce costa puro truoppe………… !”.
” Vincenzine o’ muoccole ” ci pensò sù e, ” ppe’ chiste si venute……….? Penzave vuliss fott”’..!”.
Fissavo intenzionalmente Pascà; non mi andava di fare mucchio con uno che sulla barca non si era difeso abbastanza.
” Va bbuone……….parlace tu………….&egrave n’amiche toie………..!”.
” Penzave vuliss…………piensa……………..!”, aveva ripetuto Vincenzine, perplesso.
E io c’ero cascato.
” Cco’ mammà toia…………?”.
” Cco’ Antoni&egrave sceme………….a’ guagliona ‘……..!
Mi aveva toccato, vinto. Lo guardai, con occhi fiduciosi.
” Cierte………..!”.
E lui mi diede la stoccata finale.
” Mò sta cco’ Tonine”’..sta ‘ncinta”’.!”.
Senza alcuna pietà, accendendo per sé e per me una sigaretta.
” Lor&egrave se ne sta a’ annà……….?”, gli stava chiedendo il mozzo.
” Ah…………siente………….o’ quinte me pare assaie…………tante tu aspiett solamente ………..o’ lavore o’ facimm nuie……….!”.
” Comm’ o’ quinte………….?, gli aveva risposto il ragazzino, indispettito.
” ‘Ncinta no……..’ncinta no”..”, mi dicevo sulla via del ritorno, scandendo le stelle sopra la mia testa, dando di calcio nell’acciottolato.
Ma come ?
Io ne ero innamorato fin da ragazzino, era sempre rimasta il mio amore e lei s’era fatta mettere incinta da un altro; dov’era andata a finire la fedeltà, la buonafede ?
Non un uomo si era permesso di girare attorno al basso di nonna, dopo la morte di ” Vincenzì o’ cetrangule “, così soprannominato per la testa perfettamente rotonda come una palla da biliardo; non uno si era permesso.
Due anni dopo il decesso, nonna aveva avuto il coraggio, quando mio padre si era venduto tutte e due le botti, di rimettersi a far da sarta, per resistere a due offerte; questo aveva permesso a tutti noi di campare, senza sparpagliarci.
Finch&egrave papà non era deceduto anch’egli, ed Eug&egrave, allora quattordicenne, aveva detto che mò toccava a lui di sostenere la famiglia.
Solo quell’anima buona di Concettì aveva tentato di dare una mano a Teresì, rimproverata aspramente dalla madre che non voleva assolutamente imparasse quel mestiere.
” Vardame…………te stò a parlà””.vardame”…meglie zoccola”’..!”
All’epoca a Teresì erano passate tutte le voglie, troppo vicini i decessi. Poi si era ricreduta e si era riavvicinata ai sacramenti.
Neanche a farlo apposta, per dire il trovarsi soli quando si deve prendere una decisione delle più importanti, nello stesso periodo il suo Vinc&egrave non si era fatto n&egrave sentire, n&egrave vedere.
Era stata veramente dura; Eug&egrave non decollava, nonostante le promesse.
Finalmente avevo ricevuto il placet per fottermi la zoccola: Marì.
Il merito era tutto di Franc&egrave, il nostro nuovo socio, uno che, sapendo muoversi e parlare, l’aveva posta come condizione del nuovo sodalizio.
” Si aggie sole a’ spittà va bbuone pure n’ottave ……………però cco’ quinte faccie tutte…………e quanne diche tutte &egrave tutte……………!”, aveva detto, incoraggiando così Vinci&egrave a rifiutare ogni nuova proposta del ricchioncino.
Ed aveva aggiunto, ” però voglie fott………….pavann naturalment………….!”.
Il suo intervento stava sanando un diverbio appena sorto fra me e il figlio di Marì.
” Pecch&egrave aggie a pavà accussì……….? Voglie pavà comm’ Franc&egrave………..!”.
” Mammà &egrave fatta accussì……….. nun ce abbadà…………”, stava dicendo Vincenzì.
Stava giustificando la spropositata richiesta della propria madre.
Lei, dopo avermi dato un’occhiata, si era messa a sbraitare che ” i’ ciuccie ” stanno bene a casa loro; con me ci avrebbe fottuto solo se avessi pagato il triplo.
Il motivo vero era che io ero ancora un ignorante, ed essi ce lo avevano per vizio, di approfittarsi dell’ignoranza altrui.
Per i modi gentili di Franc&egrave, il quale non voleva perdersi l’occasione di un lavoro e la possibilità di scanagliare, alla fine ci accordammo sul fatto che avrei dovuto lasciar fare alla donna, senza cercare di montarle sù come un caprone.
Lo stesso Franc&egrave era in bilico.
Era venuto fuori, infatti, dalla fulminea occhiata di Marì, che il nostro amico il membro ce l’aveva speciale pure lui, per quella capoccia fatta a triangolo, che gliela faceva assomigliare più a una clessidra che alla punta di una minchia.
Secondo lei, avrebbe spruzzato in giro senza più fermarsi, rovinandole le coperte ed il tessuto del divano.
A conclusione, ci accordammo che, se avessi scazzato passandole sopra, avrei dovuto pagare un terzo in più della tariffa e così Franc&egrave, che avrebbe pagato altrettanto appena si fosse messo a lanciare in giro per il basso quel suo cazzo di ” spaccimm “.
Siccome la zoccola stravaccata sul divano per dei novizi come noi costituiva molto più che uno spettacolo, con quella specie di ” jatta ” nera nera accoccolata fra le cosce, e le areole completamente fuori dalla vestaglia, quei due ci gabbarono fin dalla nostra prima volta.
Quando venne fatto il conto, n&egrave io n&egrave Franc&egrave ricordavamo più quante volte avevamo fottuto n&egrave, tanto meno, dove ci fossimo posizionati.
” Doje………..!”, stava gridando Franc&egrave, con gli spicci contati in mano.
” Puro ie………….!”, gli stavo facendo eco andandomi a pescare nelle tasche.
” Treje………..e o’ciuccie pure……….!”, contestò subito Vincenzine, che per tutto quel tempo sembrava se ne fosse stato a dormicchiare sul divano.
” Me n’arricuorde doje ie……………!”, gli avevo ribattuto a muso duro.
” Ah………accussì………..nun te l’arricuorde che me sì venute n’copp””..e a’ pipp”” ?”, aveva urlato allora la zoccola, ” hai a’ pavà puro o’ terze ……..t’o’ sì scurdate………..?”.
Marì, cui come per incanto era apparso uno straccio in mano e tanta, tanta voglia di pulire le coperte, aveva poi soggiunto rivolta al mio amico, ” sta’ fessa t’a’ poi scurdà ………..!”.
Così, per non scordarcela, sia io che Franc&egrave pagammo senza fiatare ciò che i due cialtroni chiedevano, rimandando il chiarimento ad un’altra volta.
Fu proprio mentre me ne tornavo a casa che le parole di Peppì mi tornarono alla mente in tutta la loro gravezza, mentre un’ immagine luminescente mi compariva davanti nemmeno fossi stato san Paolo sulla via di Damasco.
” Chi sì………..l’ arcàngiulo…………?”.
Non si trattava di lui, naturalmente, ma di Assuntì, la comare che abitava nel basso prima di svoltare l’angolo.
Irradiata da capo a piedi dalla luna, come potei vedere più da vicino, era uscita a svuotare il vaso nella fogna a cielo aperto, con un enorme camicione bianco in mano.
” Che paura……………! Sì Lor&egrave”’..?”.
” Assuntì………che &egrave………..?”.
” Chiste dicci…………..? E’ a’ vunnella e’ don Gaetà………..ppa’ messa”’..gliela stò a lavà………!”.
Quando si dice !
Era che, se solo avesse pensato a quanto avremmo potuto risparmiare mettendoci insieme, altro che le prediche mi avrebbe dovuto fare Teresì !
Anche nonna, nel basso, intanto ponderava i pensieri suoi.
Sapeva bene lei cosa due soldi in tasca in più volessero dire.
Avrebbe potuto pensare alle cose veramente necessarie, come cambiare il vetro alla porta, che così tutto sbeccato lasciava passare degli spifferi della malora, o a una seconda coperta, ad esempio.
” Nun t’a’ fott a’vieccia eh”’cco’ sta’ tanfa”.. !”, mi aveva irriso Peppì.
Dopo aver guardato per l’ultima volta la tonaca immacolata che Assuntì stava passando di là del filo, potei dargli una risposta.
A nonna Teresì, quattro notti dopo, feci trovare tre cose: una gonna nera, che di altro colore non l’avrebbe voluta, ” na’ cammisella ” bianca come un giglio, e una camicia da notte lunga come quella che ogni settimana aveva lavato a don Franc&egrave quand’era ancora presente, che di altri colori e fogge, nel magazzino derubato, non ve n’erano.
Erano stropicciate, &egrave vero, a forza di stare frammezzo a tante altre, ma ero sicuro che fossero nuove di zecca.
Perch&egrave il negozio in via Caracciolo che avevo svaligiato vendeva solo roba fina.
Le avevo distese sotto il mio pagliericcio, ma nonna, al mattino aveva subito capito che c’era qualcosa sotto.
Vedendogliele già in mano, ci scherzai sù, ” a’ primma cosa &egrave se ve so’ piaciute, sinnò le porte arrete……. &egrave bella assaie a’ cammisella………….!”.
Nonna Teresì finse sorpresa, ” che &egrave sta’ robba…………?”. Era emozionata come una ragazzina, ” nu riale………..? “.
Le cose mi stavano andando per il verso giusto. Dovevamo faticare non poco, in effetti, ma la grotta del giudeo era stipata fino all’inverosimile.
Perch&egrave dei frutti della mia fatica non ne doveva godere pure lei, l’unica femmina ad essermi vicina ?
I regali le erano piaciuti.
Erano il grimaldello perché cominciasse ad aver cura di sé, come una volta.
Intanto Franc&egrave, il nuovo socio che fungeva sia da occhio sia da orecchio, alla fine si era detto contento di prendersi soltanto un sesto dei proventi.
Vincenzine, con la sua parlantina, pensava di averlo convinto lui, ” o riseche l’avimme nuie………..ie e Lor&egrave……………! “, ma ero stato io a dirgli che gli avrei ceduto volentieri un decimo di quanto mi spettava purch&egrave là fuori mi coprisse le spalle come se dentro ci fosse stato suo fratello.
A parte questo, era sorta presto un’amicizia fraterna.
Solo una cosa non mi andava giù, in quelle notti di ruberie in cui tutto sembrava filare a meraviglia: di aver scoperto che Vincenzì si ingroppava, completamente gratis, la più bella delle femmine in circolazione, mentre io e Franc&egrave dovevamo pagarla, e cara.
” Vincenzine o’ muoccole ” non aveva mai conosciuto il padre; la madre, scappata per andare incontro alle truppe a Cassino, perlomeno quella ulteriore vergogna gliela aveva evitata.
Quando la ragazzetta, passato il fronte, ebbe a tornare ai Quartieri spagnoli, di coloro che l’avevano resa madre non trovò più nemmeno l’ombra.
Alcuni conoscenti le riferirono che tutta la sua famiglia era stata sepolta dalla rovina dei bassi, altri ancora di aver visto suo fratello caricato sui camion dei tedeschi in ritirata.
Fatto sta che, nella confusione, nessuno aveva ben presente cosa realmente fosse accaduto.
Altri congiunti, a Napoli, Marì non ne aveva.
Così cercò l’unica persona di cui si fidasse, la ” mammana “, l’unica che potesse darle un letto per dormire, un tetto.
La ritrovò trasferita al rione Sanità, e ci si mise di nuovo insieme.
Poich&egrave era già giunta al termine della gravidanza Marì, in tutta fretta, partorì un bel maschietto, roseo e tenero come un maialino da latte.
C’erano quegli enormi negri americani che non mostravano timori ad aggirarsi negli strettissimi vicoli, fra macerie ed un tanfo tremendo; valevano un mucchio di dollari.
Venivano in gruppetti di tre o quattro per difendersi dalle bande che li derubavano non appena varcate le porte, cominciavano a puzzare di foglie marce e di selvatico non appena sudati, masticavano gomme rosa lunghe come fettucce che non si levavano mai di bocca nemmeno per fottere; facevano male con quei loro arnesi, ma almeno non pretendevano di scoparle in culo come i nordafricani con i denti rossi e guasti, intabbarrati nei loro lozzosi mantelli che non si toglievano mai, nemmeno quand’erano distesi sul materasso.
Quei ragazzoni pagavano senza fiatare quanto la vecchia chiedeva loro, sempre sorridenti e, soprattutto, mandavano altri soldati una volta scoperti i lavori di bocca in cui Marì, essendo incinta, s’era dovuta specializzare.
Si arricchirono entrambe nel volgere di una manciata di mesi, giusto in tempo per quella fottuta occupazione.
Dopo un’ infanzia passata a subire violenze e soprusi, Marì capì che era arrivato il suo momento.
Convinse la protettrice, rinsecchita nel frattempo da un cancro, a lasciare alla creatura sia il basso che la borsa.
Il cruccio di Marì, infatti, era che la ” mammana ” , per toglierglielo dalla pancia, ne avesse sfiorato la bocca con i ferri e così, al momento opportuno, glielo fece pesare.
Poiché per mammà tutte le femmine erano delle zoccole e gli uomini dei porci, il suo bimbo, fin dalle prime parole che riuscì a comprendere, capì da quale angolatura dovesse essere guardato il mondo.
Avrebbe vissuto per sempre in una porcilaia e, in quel mondo Vincenzì avrebbe potuto sopravvivere solo se fosse stato a sentire la madre.
Non l’avevo mai sentito tanto impaziente.
” Te si furnute………. ?”.
Appena chiusa la porta alle mie spalle, egli avrebbe domandato alla madre, ” quante c’&egrave state eh stu’ fesse………. l’ hai viste………..?”.
Lei avrebbe scrollato le spalle e Vincenzì avrebbe rincarato, ” brutte scurnacchiate ……………..!”.
Per farlo tacere, la donna gli si sarebbe offerta, strisciandogli sotto,” era ‘ngrippate stu’ sceme………..nù cafone accussì……….ma addò l’hai truvate………….?”.
Di dargli la bocca le sfagiolava il meno possibile; il suo Vincenzì, col crescere degli anni, era andato sempre più peggiorando. La fossa fra il naso ed il labbro superiore era completamente una pustola, e le gengive gli stavano diventando viola e scarnite ogni anno in più.
Nonostante tutto ciò, gli ardori del figlio contribuivano a mantenere Marì in una perenne eccitazione.
Se non lo vedeva interessato, era addirittura lei a provocarlo.
” O’ tieni moscie…………!?”.
Quell’amore la esasperava e al contempo la manteneva viva,; la scelta che aveva fatto prima ancora che Vincenzì nascesse, di dedicarsi incondizionatamente a lui, la faceva sentire una specie di cagna in calore, ma nessuno avrebbe potuto immaginare l’animo esacerbato di Marì quando Vincenzì, rubandomela, s’era invaghito dell’albina.
Vincenzine avrebbe voluto fare incetta dei tappeti e dei quadri; gli dissi di lasciar stare e darmi invece una mano a scassinare lo sportello di un mobile appoggiato ad un angolo.
Lui era un artista in questo, non lasciava nemmeno un segno.
Volevo far presto; il sangue mi diceva che di lì a poco sarebbe arrivato qualcuno.
Avevo appena razzolato il pacco di banconote dal cassettino che sentimmo infatti un rumore di passi sulla ghiaia del viale.
La villa era a due piani, e noi eravamo ancora al primo, entrati dall’unica finestra lasciata socchiusa.
Vincenzine, pensando fosse Franc&egrave, voleva andargli addirittura incontro.
Mentre rinchiudeva pian piano lo sportello del mobile lo trattenni per un braccio, aspettai di sentire il rumore della porta in fondo che si apriva e quindi balzai fuori dalla finestra come un gatto.
Attesi che scendesse pure lui sopportandone il peso fra le braccia per non fargli far rumore, poi
rifacemmo il vialetto di corsa, tenendoci dalla parte dell’erba, mentre il custode, fatto il giro della casa, brontolando andava a chiudere la predetta finestra.
Ottomila lire, Vincenzine, che le banconote le sapeva riconoscere anche al buio, volle per forza dividerle prima di scavalcare il muretto; le rimanenti milleduecento, una volta scavalcatolo, le divise così: cinquecento a ognuno di noi due e duecento a Franc&egrave.
Il compare mi aveva messo in tasca una fortuna ma, da quella notte, ci ebbi la mosca al naso.
La mia parte la nascosi poi, come al solito, nel doppio fondo dietro il basso.
Mentre chiudeva il coperchio della madia, a nonna cominciarono a scoppiettare le tempie come se in quel preciso istante fossero iniziati i fuochi a Piedigrotta.
” Cose e’pazze…………!”.
Non me lo poteva perdonare.
” Delinquent………..!”.
Da parecchio tempo, mi ero tenuto dentro il discorso che avevo appena iniziato a fare.
” Teresì………..mò o’ pane ce sta…………e pure o’ sciacquitt……….che aspettamm……….?”.
Era sulla bocca di tutti, perch&egrave me lo rendeva così difficile ?
” O’ sanne tutte oramaije………..!”.
” Che sanne tutte………?”, aveva chiesto lei, indignata.
” Che Vincenzì s’adduorme cc’o’ Marì………..cco’ mammà soia……..!”.
Avrebbe voluto che non fossi mai nato. Fece dietrofront senza starmi più a sentire ed uscì; tornò dopo ore, una volta sicura che me ne fossi andato.
La sera, dovetti per forza riprendere il discorso dall’inizio.
” Allò………..?”.
” E tu ccu’ stu’ chiattille stai…………?”.
Che c’era di male ? Che, doveva pagare un’ altra Vincenzì, per potersi divertire; doveva buttare i soldi dalla finestra come stavo facendo io ?
” E ce piace puro………..! ” dissi.
Che altro avrebbe dovuto fare, ” Vincenzì, o’ chiattille “, che altro avremmo dovuto fare noi ?
Teresì non si capacitava.
Ero cambiato, e non solo nel corpo, ma nella testa.
Il recentissimo ricordo delle arrembate del suo Vinc&egrave le impediva, però, di andare oltre con i ragionamenti.
” E tu……….. sì o’ nipote mie tu………? ”
Lei non voleva andarci, sulla bocca di tutti.
Era tardi ormai, dovevo scappare, ” nun &egrave furnuta…………!”.
” Nun &egrave furnuta no……….!”, rispose lei, che aveva capito dove volessi andare a parare.
Il mezzogiorno successivo nonna se ne uscì con un ” pecch&egrave nun ce vai da sole……….? E’ meglie”’!” che non solo mi allarmò, ma provocò in me una arrabbiatura fredda, tanto da andarmene senza toccare nemmeno un boccone.
Franc&egrave si era appena seduto davanti ad un piatto di spaghetti quando arrivai da lui affamato come un lupo.
” Iamme………’mprescia………….!”.
” E assettate………….mammà, ce ne stanne maccarune pp’e’ Lor&egrave……… ?”, aveva urlato Franc&egrave rivolto alla madre, ma lei sembrava troppo indaffarata dietro ai gemelli, per rispondergli.
Però, facevano voglia.
” Che”’.sò caude………..?”.
La madre, seduta sulla sponda del letto ad allattare uno dei piccolini, attorniata da una torma inferocita, vedendomi arrivare per discrezione si era voltata dall’altra parte, e così era rimasta.
Franc&egrave, imbarazzato, la guardava in cagnesco, poi si costrinse, a malincuore, a spingere il piatto verso di me.
” Non t’offend………?”.
” M’offend si nun magne…………!”.
La stronza era rimasta dov’era, a bordo del materasso, perfettamente immobile, aspettando di finire tutte e due le poppate.
Solo quei suoi capezzoli avrebbero meritato un’occhiata; ne potevo intravedere uno da dove mi trovavo, quando il marmocchio lo lasciava libero.
Nero, puntato all’insù come una torretta, lucido come uno specchio d’acqua.
Lo tenni d’occhio senza farmene accorgere, convinto che il resto sarebbe stato altrettanto esplosivo, fino a quando la donna, che per tutto il tempo aveva tenuto quel comportamento, si liberò del bimbo e si voltò.
Fu una delusione delle più cocenti: le zinne, lucide anch’esse, ma per le smagliature, non più sostenute dalle mani e dalla bocca del figlio, ma soprattutto svuotate completamente del grasso, pendevano al pari di due melanzane secche.
Quando ella si alzò e si volse verso di noi, dopo essersi rimessa i seni dentro la vestaglia, potei vedere che aveva occhiaie profonde in un viso lungo e sciupato, le spalle magroline; solo la pancia e il dietro si differenziavano da quella miseria, ma per essere gonfi e smollacciati.
Ugualmente smollacciati erano i suoi polpacci.
” Ma comm’ o’ tiene o’ latt……….?”.
La mia domanda rimase senza risposta, anche perch&egrave, per fortuna, l’avevo formulata soltanto mentalmente.
Passandomi davanti, ella mostrò per la prima volta uno sprazzo di vitalità accomodandosi le ciocche dei capelli, tirandosele, unte com’erano, dietro le orecchie a sventola; senza però ottenere alcun miglioramento sensibile.
” Nun ne pozze acchiù……….!”, si lamentò, lasciandosi guardare.
” E ca c’amporta a Lor&egrave…………?” le rispose il figlio con fare sbrigativo, ” facce sti’ maccarune ppe’ favore………..!”.
Finalmente, il figlio ottenne ciò che voleva: un ulteriore piatto di spaghetti che s’affrettò a dividere con me, come la prima volta.
” E vuie…………nun ne vulite””.?”, mi scappò detto.
Ma me ne pentii subito, prima ancora del suo sguardo verso il canestro sulla madia: di pasta non ce ne stava più e non c’era altro.
Dopo il pranzo, Franc&egrave mi aveva chiesto di aspettarlo un attimo di fuori.
” C’aggia a’ parlà ……….fummate na’zigarett……….!”.
Lo dovetti aspettare per più di tre quarti d’ora, all’ombra di un fico lì accanto, facendo una scorpacciata dei frutti più maturi e fumandomi le ultime cinque sigarette.
” E’ passate n’ora……….tutte stò tiempe…………me ne steva a’ annà………..! “.
” Ha avute o’ scorament…………!”.
” O’ scorament…………?”.
” Boh………..nun se dicce accussì……….? S’era mess a chiagne………..!”.
” Ppe’ mme &egrave pecch&egrave nun tiene o’ latt…………!”.
” M’ha ritt che sta ‘ncora ‘ncint cazz ……………?”.
” ‘Ncint………..? Ecche pecch&egrave……………….!”.
” Che’ fetient………..che fetient……….!”.
Era incazzato a morte con il padre, Franc&egrave.
Quel folletto aspettò di svoltare l’angolo, di non essere più sentito n&egrave visto dalla madre, prima di lanciarsi in una strampalata filastrocca.
” Lor&egrave dicce che mammà nun magna………l’aggie vuluta ie stà cuccagna……….? A’ fimmena che nun tiene o’latt………&egrave meglie si nun se facisse sbatt………..pecch&egrave……….ppe’ tenecce o’ latt ha da magnà…………e chi se no stu’ fess…………ci’o’ può purtà…………..?”.
Avrebbe dovuto fare il poeta, altro che il ladro; ne aveva tutti i numeri.
A me sua madre era sembrata schizzata, oltre che bruttina; non mi faceva tutta quella pena e mi sembrava quasi impossibile che una femmina sciatta come quella dovesse essere sempre incinta; la comprensione verso di lei e la rabbia verso il padre da parte di Franc&egrave erano palpabili.
” Basta che va bbuone a te…………però aggie furnute i’zigarett……….!”.
Al che il ragazzo mi guardò con occhi astuti e sorridenti, mettendo automaticamente la mano al taschino dove aveva il pacchetto.
” Chille nun pò capì………..Vinc&egrave…………….!”.
Risuonavano le tre quando arrivammo a casa di Marì, quella si una gran ” fessa “.
La trovammo avvinta al figlio in quello che doveva essere stato il loro ultimo amplesso prima di addormentarsi; ronfavano come ghiri.
Alla vista della donna nuda, Franc&egrave si catapultò su di loro, scalzò di peso l’ amico dal corpo della madre facendolo ruzzolare per terra, e si inchiodò ridendo nelle cosce della femmina.
Data la situazione, tutto gli sembrava lecito.
La zoccola, per non correre il rischio di farsi fottere gratis, non si sa mai, si era buttata di traverso, cercando di coprirsi.
” Chi sì…………..?”.
” Sò ie Marì……….Franc&egrave………!”.
” Aggie famm………….!”, tuonava in quello stesso istante Vincenzine, svegliatosi per la botta nella zucca.
Detto fatto Marì, senza farsi ulteriormente pregare, imbracciò la pentola più vicina portandosela al secchio; vi travasò l’acqua gettandone a terra la metà e la mise sul fuoco in gran fretta.
Questa si che era ospitalità !
Franc&egrave, dimostrandosi una vera fogna, ruminando come un bue, coi frammenti del basilico fra i denti, con la sinistra tirava fuori mettendole in fila sul tavolo, le monete dalla tasca e, con la destra sempre più insozzata di ” maccarune “, cercava le ginocchia della zoccola.
Vincenzì, che intuiva tutto sebbene fosse dall’altra parte, ebbe il coraggio di mettersi a contare quelle monetine con una puntigliosità degna di miglior causa.
La sbornia di fughe e toccamenti andò avanti per una ventina di minuti circa, perch&egrave la matassa di spaghetti questa volta era da un chilo, con me e Franc&egrave che facevamo a gara a mangiarne quanta più possibile e a smaneggiare fra le gambe di Marì, Vincenzì che approfittava di ogni nostra distrazione per tirarsi i soldi dalla sua parte e lei che, con le cosce ormai affogate in una marea di salsa rossa, cercava, nel contempo, di sfamarsi a sua volta.
” Nun bastene………..i’tengh ppe’ n’ata vota…………..!”, aveva concluso Vincenzì.
” Arridammele allò…………!”, aveva controbattuto Franc&egrave.
Potevano bastare, si e no, per una pippa, e tale fu la conclusione di Marì quando Vincenzì le disse della somma.
” Pozze fa na’ pippa………….a une………..!”.
E Vincenzì, allora, tirò in aria sadicamente una delle monetine, facendo venire a sorte Franc&egrave.
Quella volta, però, la zoccola si dimostrò molto più intelligente del figlio; vedendomi sbattere la fronte sul tavolo dalla disperazione, si appena seduta sulla sponda del letto, mi fece il segno di avvicinarmi.
” Che buffe sì cco’ sta’ faccia longa………..daie…………..vene………..!”.
Un sorriso largo quanto una piazza accompagnò il mio scatto.
Vedendola crocefissa fra di noi, si era scatenato anche suo figlio; insinuatosi nel mezzo, la patta all’altezza del viso di Marì, le stava mostrando tutta la propria indignazione.
” E ie……….oh…………chi sò ie………….addò o’ caccie ie………….?”.
” Cacciale accà”’..int’ a’ vocca………..!”, gli aveva detto semplicemente la madre, spalancandogliela davanti.
” Puro ie o’ voglie caccià n’ta’ vocca……….te paghe n’ata vota………….!”, aveva reclamato Franc&egrave.
” Zitte tu…………che nun te facce manch’ a’ pipp……….!”.
E al figlio che stava per ribattere, ” zitte puro tu………..sinnò t’o’ scorde stu’ bucchine ………..!”.
Così, seduta come un buddha fra i discepoli, finalmente messici d’accordo, completamente assorta e concentrata, Marì pot&egrave continuare l’opera intrapresa, finendoci, solo per un puro caso, in contemporanea.
Credeva, però, la zoccola, buttando un pezzo di carne in mezzo ai lupi, di essersi liberata del branco.
Sia io sia quel morto di fame di Franc&egrave già chiedevamo una seconda masturbazione, mentre il figlio, insinuatale la verga fra le zinne, si metteva in testa di avere una ” spagnola “.
Essendosi tutt’ a un tratto stufata di quel bailamme, Marì si era alzata e messa a fare un solitario, lasciandoci da soli con le nostre beghe.
” Mò fateve da sole………….fancule……….!”.
Solo più tardi, vedendoci arabattati con le nuove tattiche, ci aveva portato un caff&egrave.
Era stato verso le cinque.
Franc&egrave allora, approffittando del fatto che Vincenzì sbuffava ogniqualvolta egli prendeva la parola, si era avvicinato alla donna con la scusa di aiutarla a chiudere l’ennesimo solitario, riuscendo a metterle una mano fra le cosce.
Era seguito il parapiglia; Marì, andataci di mezzo per un niente, s’era beccata prima il rimbrotto del figlio, quindi un gran spintone dallo stesso, quando gli aveva risposto in modo straffottente.
Invece di prendersela con lui, s’era buttata a piangere stramaledicendo Franc&egrave e tutta la compagnia, poi, solo verso le sette di sera, s’era tirata su di nuovo per rimpinzarci, stavolta, di fette di pane con la salsa rimasta.
Fu una delle sue migliori trovate.
Tutti d’accordo, anche la zoccola che, commossa dal turgore che Franc&egrave, tenendo quella delizia in mano, cercava di farle sentire sulla pancia, lo benedì buttandolo a due metri, lasciandosi però palpugnare ben bene quando fummo pronti per partire.
” I’ sorde …………i’ sorde………ve spiett………..!”.
Nonostante i miei due compari minacciassero continuamente di tornarsene, quella notte avevo voluto attardarmi nell’ ultima delle case visitate, quella guardata da due enormi mastini che soffocai a ridosso della palazzina, con una spugna.
Erano due mastini col manto color miele e il petto bianco, uno più massiccio dell’altro, il grugno incazzato più del mio, che ad una prima osservazione c’erano sfuggiti; attaccati ad una catena molto più lunga di quanto ci si potesse immaginare.
Avevamo rischiato di venire sbranati, ma il bottino, dato il sangue freddo dimostrato dal sottoscritto, alla fine si rivelò all’altezza del rischio corso.
Avevamo scovato nel sottotetto il servizio dell’argenteria, incassettato e ricoperto; pesava un accidenti e, per portarlo fuori in due, che Vincenzì, messosi paura, non era più voluto entrare, avevamo dovuto fare una fatica immane.
Così, quando Vinc&egrave propose di fare tappa nel suo basso per farne valutare il valore subito all’indomani mattina, sia io che l’altro compare accettammo di buon grado.
Non potevamo lasciarlo a guardia di tutto quel ben di dio da solo, naturalmente.
Accesa la lanterna, dopo aver veduto tutto quel pò pò di roba, la zoccola si era messa indosso la vestaglia di raso, la migliore, e ci aveva fatto accomodare sul letto per raccontarle la storia.
Dopo il racconto, la donna aveva tirato la tenda abbassando la fiamma all’acetilene, chiedendoci, sorniona, quali fossero i pezzi di minor valore.
” Primm o’ limoncell “, aveva esclamato il figlio, venendo verso di noi con quattro bicchierini ed una bottiglia gialla tutta dipinta di fiori.
Per festeggiare alla grande, Vincenzine era andato a scovarla dietro la cassettiera, facendosi bello oltre il necessario.
” Cumpà………..chiste si che &egrave o’ limuncell…………!”.
Poich&egrave era pacifico che quel successo spettasse a me, trovai il coraggio.
” Pecch&egrave nun ce fai fott Marì……….?”.
La donna era zoccola fino nel profondo e, ancora di più, lui era un gran figlio di puttana; finì che ci convinsero invece a bere a garganella.
Io, però, che non avevo perso la speranza, un pò meno dei compari.
” Lor&egrave………….addrizza o’ sacche………..facce ved&egrave……….!”.
Vincenzì mi era venuto improvvisamente davanti, come scaturito dal nulla.
Mi aprì il sacco da sotto le mani, ne sparpagliò il contenuto sul letto e si rivolse alla madre, ” e fattele ‘nzignà stu’ stucchie…………accussì può fotte………….!”.
Franc&egrave, che traballando lo aveva seguito per farsi riempire per l’ennesima volta il bicchiere, farfugliò qualcosa sul fatto che alla donna si dovesse fare un regalo.
Dopodiche, una grassa risata precedette il loro tonfo a terra.
Sicura che di lì a poco sarei stramazzato anch’io, Marì aveva allungato stancamente la sinistra ad accarezzarmi una coscia.
I capelli erano sciolti per la notte, scesi ad incorniciarle il bel viso e le spalle; i seni pesanti e gonfi come due melloni d’inverno.
Con i suoi grandi occhi leggermente strabici, Marì mi osservava attentamente, forse per la prima volta in vita sua, ” sì stete tu vere…………? “.
Nello stringere il candelabro aveva avuto un tic, un leggero movimento di tutte e due le palpebre.
” Te piace o’ stucchie………….?”.
” Che peccate che sò femmena………….!”.
” Chista &egrave a’ parte mia……….t’o regale……….!”.
” Ma vattenne…………..!”.
” No…………diche verament………….!”.
” Movete allò…………primma che se svegliene…………!”.
Appena il pene fu nudo, Marì borbottò, ” o’ capisce no…………iere…………? E’ ppe’ Vinc&egrave………..&egrave geluse………!”.
Fu l’accendersi di un volo inarrestabile; Marì stessa ne sembrò scioccata.
” Quante sì bella…………..!”.
Avvertendo la morbidezza e il tepore dei suoi seni, vi ero sguazzato dentro come un pesce; la zoccola, sorridendo, cercava di nascondermi il membro fra le zinne, senza riuscirvi completamente.
” Turzute eh………….!”.
Quella notte, la madre di Vincenzì non sembrò assolutamente seccata per lo ” spaccimm ” con cui, dopo alcuni interminabili secondi in cui mi era sembrato di morire, le avevo centrato in pieno la fronte.
Svasando le sottili narici, ripulendosi col dorso della mano, tirandosi indietro i capelli, Marì stava riuscendo nell’intento di non perdersi il latte che sgorgava dappertutto.
Ne ingoiò più che poteva, raccogliendolo con la lingua e con le dita, invitandomi subito dopo a sdraiarmi al suo fianco.
Dopo avermi impastato la lingua con quell’innominabile schifezza, divertendosi altresì un mondo
al mio disgusto, Marì mi aveva fatto segno, con l’indice sul naso, di zittirmi.
” E’ truoppe stu’ riale………….no, nun me tuccà………..statte ferme………statte ferme aggie ditt…………!”.
” Si t’aggie ditt………?!”.
Marì prese allora a schiaffeggiarmi pian piano, e a deridermi, ” ma vattenne……..vatte a cuccà………..sì nu’ guagliune……….”, fin quando riuscii ad infilarle le dita fra le cosce e a mettergliele dentro; era sciolta e bagnata, piena di desiderio, e cominciò a sua volta a masturbarmi.
” Marì………..pigliatelle stu’ riale……….ppe’ favore”’.quante me piaci…………dimmele puro tu……….na’ vota Marì……….!”.
” Ah………..mò sò cazze tue………….cacciale sott’ o’ lett allò………sì nu’ buriuse………….!”.
Vinc&egrave si rifece vivo dopo una delirante cavalcata di Marì, inchiodatasi sopra.
Ai primi borbottii del figlio, la zoccola mi aveva spinto via. Ero appena rotolato giù dal letto, quando sentii quella voce arrotondata dall’alcool.
” Addò sta………..brutte fetentò……….Lor&egrave………….addò sì………?”.
Aveva, probabilmente, stampato sulla bocca quel ruffianesco sorriso che non lo lasciava mai.
” Che……….vuoi fott…………Lor&egrave………..?”, stava gridando il figlio.
” Che fott e fott………….!”, gli aveva risposto la madre.
” Chi so ie………..pulicenella……….?”, aveva ribattuto il ragazzo.
Pure Franc&egrave, dall’altro lato del divano, stava svegliandosi.
” A mme o’ bucchine………..!”.
” Ma quale bucchine e bucchine………….ma quale fott…………ma fateme o’ piacere……………a cuccà tutte quante………..!”, aveva allora tagliato corto la zoccola, alzandosi per andare a soffiare sotto la campana di vetro.
Poco dopo le nove del mattino, per levarmi di torno quella piattola del figlio a cui, ai primi chiarori era parso di avermi visto scendere dal letto della madre, fu giocoforza, prima del caff&egrave, pagare.
Ne avrei fatto volentieri a meno, ma Vinci&egrave, ai miei dinieghi e spergiuri, si era messo a sbraitare che le avrebbe messo le dita nella fessa per sentire, che ci voleva ?
Egli pretese dunque la metà delle monete che mi aveva visto intascare la sera prima nella casa; se non altro per la mia intenzione di fregarlo, disse.
E, a questa sua ultima richiesta, pur a malincuore, non potei dire di no.
I primi e gli ultimi, pensavo intanto, che gli avrei dato, visto come s’era messa con Marì.
Mentre la zoccola finiva di bersi le ultime gocce di caff&egrave, mi sentivo un dio; era perdutamente innamorata di me esattamente come Fernà,” o’ ricchione “; per tutta la notte non aveva fatto altro che esaltarmi.
Alle dieci scendevamo dall’ebreo, per la valutazione del bottino.
Essa fu tale che Vinc&egrave e Franc&egrave pensarono di non dover più faticare per alcuni mesi.
Nemmeno Teresì era riuscita ad addormentarsi, quella notte; provava rimorso per non avermi preparato né il pranzo né la cena per tre giorni di seguito.
Quando entrai in casa scoccava mezzogiorno, e nonna, fino all’alba, aveva esaminato la questione sotto tutte le possibili angolazioni.
Il tempo se ne era fuggito via, ecco il fatto, ed io le stavo scappando di mano.
Il vento, risalendo dal golfo, si stava già incanalando fra i vicoli; veniva dall’Africa, e portava una sabbia fina fina che ti raschiava in gola come una carta vetrata.
Non era una zoccola, nonna Teresì; sarebbe stata sempre dalla mia parte; sarebbe stata sempre mia alleata.
Un’ora più tardi ella prese a tremare senza alcuna apparente ragione; improvvisamente nonna si torceva come un capitone preso alla lenza, in una pozza di sudore.
Riuscii ad avvisare la dirimpettaia una mezz’ora più tardi, perch&egrave nonna non voleva che disturbassi per quel nonnulla.
La situazione era peggiorata.
” M’ ammuore………lassame ammurì……….!”.
Appena avvertita, Conc&egrave si era precipitata nel basso con in braccio uno dei nipoti rimproverandomi aspramente, ” a’ vulive fa ammurì……Teresì……..bella mia………..che &egrave success…….a’ vulive fa ammurì……….pecch&egrave nun sì venute primma disgraziate…………?”.
Suo marito Fernà pareva l’unico ad averci sale in zucca, a sapere dove stesse ” o’ dottò “.
Nel frattempo, Conc&egrave mi aveva sottoposto ad un impressionante sfilza di domande, tanto che nonna, pur ottenebrata dai dolori, fu costretta a prendere le mie difese.
” Lassale sta o’ guagliune………. che ha fatte………….? Nun &egrave venute pecch&egrave ci o’ dicitte ie…………!”.
Sulla gradinata dirimpetto alla porta e nel basso, intanto, stava succedendo un mezzo parapiglia; richiamate dalle grida della comare, se ne stavano ammassando un’ altra decina; alcune erano entrate, ognuna gridava cercando di superare il fracasso delle altre.
Il dottore arrivò, ma solo verso le sedici, chiamato per l’appunto da Fernà, e poich&egrave nonna, per essere visitata, avrebbe avuto bisogno della propria intimità, ordinò a tutti, uomini e donne senza eccezione alcuna, di uscire.
Quando potemmo rientrare egli ci comunicò, con espressione serissima, che poteva essere grave:
un’ ” angina pectoris”; così la chiamò lui e, con queste ultime, incomprensibili parole, ci lasciò a macerare nell’angoscia più nera.
Il nome di questa terribile malattia ci aveva talmente messo in apprensione che tutti si aspettavano che nonna morisse da un momento all’altro, ma poich&egrave era impossibile che Teresì dovesse morire da un momento all’altro, ci sforzammo di cavare al dottore qualcos’ altro di bocca.
” Dottò……………quanne ha da murì………… ?”.
Ma lui, zitto.
Finch&egrave una delle comari, esasperata dal silenzio di costui, urlò di chiamare un altro dottore e di mandarlo affanculo, ed un’ altra le fece eco urlando di portare nonna all’ospedale, che quello era un
” ciuccio “.
La situazione si stava pericolosamente ingarbugliando.
” O’ dottò “, che si era aspettato quasi l’acclamazione, ad una diagnosi talmente indovinata, di fronte alla rivolta della piccola folla altro non faceva che scrollare la grossa testa riccioluta, quasi volesse togliersi la spiacevolissima sensazione di dosso.
Si vedeva già negata la possibilità di tornare sulle proprie posizioni, di dire che poteva anche essere una semplice indigestione, quando il coro unanime delle donne lo incalzò di nuovo e lo rimise in sella.
Era, infatti, bastato ad una comare urlare che, in ospedale, un suo cugino era morto appena una settimana prima, perch&egrave il terreno gli si rinsaldasse di nuovo sotto i piedi.
Fu la stessa nonna Teresì, poi, con un fil di voce, a lanciargli l’ ultima ancora.
” Dottò……..nun ce ne stà n’ata…….voglie di…. n’ata malattìa ca’ se pò capì……. ca’ nun se more……………?”.
Il dottore guardò la vecchia Teresì con affetto.
Da medico coscienzoso qual’era, prima di emettere la diagnosi defintiva, avrebbe fatto un’ ultima prova : desiderava darle un’ultima occhiata.
Di nuovo tutti fummo costretti ad uscire ed egli pot&egrave, allora, fare ciò che non aveva fatto prima. Le contò i battiti del polso, le fece tirar fuori la lingua, la vide bianca, tastò l’addome della vecchia e la auscultò nella schiena.
Da ultimo, la fece rivoltare, le batt&egrave le nocche fra le scapole e, finalmente, rialzò quel suo testone dondolante.
” L’ aggio truvato………potrebbe………..potrebbe nun avere diggerito……….. forse dico…………!”.
Diede un’ ultima tastata alla pancia dura come un tamburo e, sempre dondolando quel suo gran testone, andò incontro alla folla sorridendo soddisfatto, ” forse………..nun mettiamo e’ mani avanti……….ce l’abbiamo fatta…………grazie a dio…………forse pare n’indigestione………….!”.
Un ohhhhh ! di consenso unanime lo sommerse, e lo sciame spaziò per il basso travolgendolo.
Rimessosi dall’ attacco d’ ansia, egli aveva cominciato a scarabocchiare su di un foglio, indicandomi, a gesti, di avvicinarmi a lui.
Mi spiegò poi dove avrei potuto trovare una farmacia. Parlava una lingua che non era la nostra, molto aspirata, confusa.
Vedendomi perplesso, mi sussurrò che veniva dalle Calabrie e proclamò ad alta voce che non gli dovevamo niente; tanto gli bastò per ingraziarsi la moltitudine delle donne.
Non me, però, che da subito lo avevo considerato quel che era.
Appena fui di ritorno, nonna Teresì venne aiutata dalle poche amiche rimaste, che le altre erano già andate via, ad appoggiarsi con la schiena al muro onde ingoiare da seduta le pasticche.
C’era chi propendeva perch&egrave le ingoiasse tutte quante una di seguito all’altra, chi solo due o tre a intervalli, chi rideva a gargamella in quanto quelle pasticche assomigliavano tanto a delle piccole mazze.
Nonna si intestardì per ingoiarne solamente una, di scatole, però tutta in un botto, che voleva fare presto a guarire, purch&egrave chi ci aveva le forbici ne staccasse almeno ” e’ mazzelle ” le une dalle altre. Tutte in una volta, con quei bordi taglienti, aveva già capito che non ce l’avrebbe fatta.
” Facimm’ ampress e nun ce penzamm acchiù……….!”, l’aveva ammonita una delle amiche più care.
Tutte, indistintamente, erano d’accordo che berci dell’acqua dietro poteva significare annacquarle, sicch&egrave Teresì ci si mise di buzzo buono finendo di ingoiare tutte le capsule in appena una mezz’ora, ricevendo un applauso a scena aperta.
All’ ora di cena, per coerenza con il suo ruolo di malata grave, nonna rifiutò la marmitta di caponata che Conc&egrave aveva preparato per tirarla sù; così, su insistenza di questa, che non voleva assolutamente riportarla indietro, e per non recare offesa, una metà almeno dovetti mangiarmela io, l’ unico nella casa a non averci le budella intorcigliate.
CAPITOLO IV

‘A luna rossa

La quarta sera da che aveva iniziato a star male, dopo alcune notti passate aggrappata al materasso e agli spigoli del muro, dopo aver ingoiato sistematicamente tutti gli altri cazzetti della seconda e terza scatola fino ad esaurirli, Teresì sentì arrivare il gran momento.
Si stava liberando della malattia.
Lo fece sopra il buiolo di stagno e, dopo una mezz’ ora circa di curiose raffiche e crepitii, la preziosa medicina si portò appresso tutti i suoi tormenti.
Si era dimostrata ottima, e il dottore, anche se ” fureste ” e con il capoccione, un buon dottore.
Anche il farmacista era stato bravo.
La voce ormai si era sparsa, e ” o’ calabbrone “, da quel giorno, pot&egrave avere accesso al rione senza rischiare di venire derubato della bicicletta.
La donna che mi aveva chiesto di nonna giorni prima, aveva potuto finalmente avvicinarla ed avvertirla: alcune comari, estremamente decise, avrebbero proclamato lo sciopero dalla confessione, che don Fernà la pagnotta se la doveva guadagnare. Ammise comunque che qualcosa, in tutto quel trambusto, doveva essersela dimenticata.
Questo aveva fatto venire a Teresì, se possibile, ancor più fretta di rimettersi in piedi.
La parola d’ordine era partita dalla fila di fondo dell’ala di destra, ed era risalita fino all’ altare biascicata sommessamente fra le litanie, ” truoppe iuvene……….. marò………..truoppe iuvene………………”.
Adesso doveva passare il vaglio della ridiscesa fino all’ultima fila dell’ala opposta, in cui Teresì deteneva una posizione dominante; nonna non avrebbe potuto mancare per nulla al mondo. Così, nel giorno designato, ella si fece trovare al suo posto.
Dopo aver attentamente soppesato la questione questo fu il suo verdetto: che, se sciopero doveva essere, avrebbero dovuto pentirsi da sole, che tanto nessuno meglio di loro sapeva quanti paternoster e avemaria occorressero per riconquistarsi la salvezza.
Là in chiesa, davanti a tutti quei dipinti che stranamente non erano mai riusciti a metterla nel minimo imbarazzo pur se seminudi, in mezzo al brusio delle altre cospiratrici, Teresì giurò che si sarebbe aumentata la razione di un rosario al giorno, e che fosse morta stecchita se non lo avesse fatto da quello stesso giorno.
Questa sua decisione riscosse il plauso dell’intera navata, tanto che molte altre la seguirono.
Tornata a casa, convinta di aver trovato la giusta soluzione alle sue e alle altrui ambasce, ella cominciò ad occuparsi di me; ad ascoltare lei, in quella quindicina di giorni ero diventato pelle e ossa.
La cura da prescrivermi di maccheroni e pomodoro a mezzogiorno e a sera, nonché qualche fiasca di vino, le sembrava la migliore.
Verso le due del pomeriggio successivo a questa ultima delibera, nonna aveva gridato alla dirimpettaia che si sarebbe andata a sdraiare per due orette almeno.
Notando in me un certo qual movimento, ella sciolse la tenda che separava i materassi dal tavolo e mi invitò ad uscire con un’ occhiata assai più eloquente di qualsiasi parola.
Con Franc&egrave e Vincenzine, più tardi, arrivammo fino alla casa del ” dottò “, così, tanto per provare.
Era una delle zone che più avevano subito i bombardamenti e non vi trovammo altro che edifici crollati; decidemmo quindi che l’area non meritasse alcuna visita, e ci spingemmo verso il mare.
Sull’ imbrunire, dopo aver messo in agenda alcuni appostamenti in quartieri nuovi, sedevamo in un chiosco prospicente il golfo. Facevano anche di cucina: la solita ” ‘mpepata e’ cozze “.
Poiché ci sentivamo veramente affamati, ordinammo per cinque, innaffiando il tutto con un fiasco e mezzo di buon vino.
L’ essere chiamati ” signurì ” dal vecchio cameriere con la camicia insozzata dalla salsa ed i pantaloni stazzonati, che zoppicava più del necessario per ” accattarsi ” la mancia, oltre a farci sganasciare dalle risate, ci rafforzò nella nostra esaltazione.
” Simme fort………simme fort cumpà………nun servimm a’ nisciune’.. nuie”..!”.
Per finire in bellezza, dopo il caff&egrave andammo sul whisky, quello con il cavallino bianco nell’etichetta, l’unico che avevano, facendoci lasciare sul tavolino l’intera bottiglia.
Ci sentivamo liberi, non più schiavi di alcuno o di qualcosa. Padroni del nostro destino qualunque esso fosse.
Verso la mezzanotte ero di ritorno, comprensibilmente sù di giri.
” M’ hanne chiamate signurì……….capute……….signurì………!”.
Nonna non stette a perdere tempo, certe cose non le capiva; venne al suo dunque, ” sì ‘mbriache………e puro scemm”..!”.
L’esclamazione significava che ora stava meglio e che, con i riposini, s’era ripresa del tutto.
Forse aveva timore che facessi la fine di nonno e di mio padre, fatto sta che quando ruttai per l’ ennesima volta, Teresì cominciò a battermi dei pugni sul petto, da incazzata.
” E che &egrave”’..?”.
L’ ultima volta che l’avevo vista così infuriata era stato cinque anni prima quando, con il coraggio leonino che l’ aveva sempre distinta, aveva preso cappello contro Peppì, fidanzato fresco fresco a Conc&egrave, sorpreso a strusciarsi fra le chiappe di Rosa, mia madre, nell’angolo più buio.
Richiamato dalle loro grida, mi ero fiondato giù per la scalinata, ma solo per assistere all’ultima parte della lite: Teresì che le stava prendendo di santissima ragione dai due messisi insieme.
Mi stavo ancora chiedendo perché mai Conc&egrave si fosse assentata, quando nonna, spinta da quei due, venne a sbattermi contro le ginocchia facendomi franare a terra.
Nonostante la gragnuola di colpi che la stava investendo, aveva continuato a menar pugni dove prendeva prendeva, così come stava facendo ora.
L’afrore di quei corpi, lo stesso che stavo annusando adesso, non me l’ero più scordato, né mi ero mai dimenticato la subitanea ed imbarazzante erezione che m’aveva preso nel sentirlo.
I seni di mia madre, già agevolati dalle manovre di Peppì, stavano riscivolando lentamente fuori e nonna era riuscita quasi ad agguantargliene uno.
La rete di venuzze celestrine, il pallore immacolato, quei grossi, scuri bozzoli traballanti fra la stoffa infeltrita della vestaglia ed il petto nero dell’avversaria, come volessero insieme inbonire ed aggredire, erano state delle vere e proprie pugnalate.
Non mi ero scordato nemmeno il manrovescio sganciatomi da Peppì, ed il suo sarcasmo.
” O’ mammuocce……….! Che vard”..?”.
Mammà non aveva fatto una piega, anzi; s’ era appoggiata al braccio dell’ impunito per accentuare la parte da cui stava.
Solo nonna si era buttata su di me per proteggermi, prendendosi così due calcioni al posto mio.
C’era stata male per mesi, con le costole, e ne portava ancora i segni, se inumidiva il tempo.
Erano anni che soffriva di quel disturbo, così come aveva anche sofferto di una pelosità eccessiva.
Il fatto era che questo secondo guaio era ancor più antico; scoppiatole dalla terza gravidanza, le stava retrocedendo solo ora.
Pelosetta lo era sempre stata, Teresì, ma nei posti giusti; quel tanto che a un uomo può dar gusto.
Ogni volta che rimaneva incinta i peli cominciavano a moltiplicarsi come dei pani e dei pesci; per fortuna che a Vincenzì piaceva.
Più nonna si abbandonava alle voglie legittime, più rimaneva incinta, più rimaneva incinta più peli le comparivano; più nonna ne vedeva, più le cresceva la voglia di far figli.
Come un cane che si mordesse la coda.
Aveva messo su fianchi e seni talmente ridondanti da farla soprannominare, anche per quella sua carnagione pallida ed olivastra ed i capelli e la fronte perennemente ricoperti da un fazzoletto nero, ” a’ Sarracina ” .
A Teresì, anche adesso, si accapponava la pelle solo al pensarci.
” Lor&egrave giura………..ma pecch&egrave a fai ‘ncazzà a Teresì ccu’ stì cose………pecch&egrave nun ce voi ji da o’ prevete…………che t’ha fatte………….?”.
Era Conc&egrave a parlarmi; dal che arguii che nonna doveva aver confidato anche all’ amica la questione dell’ebreo e della zoccola.
Mi vidi pertanto costretto, per far smettere loro la lagna, a promettere a tutte e due che, prima o dopo, quella cosa l’ avrei fatta.
Mi avevano chiesto di tornare, almeno una volta, in chiesa, pensando che in tal modo tutto si sarebbe risolto.
” O’ faccie o’ faccie””.ppe’ l’abbree però…………!”. Per chi avesse voluto intendere.
Nonna lo pensava veramente, ora, che ero cresciuto in fretta, anche se avevo un viso fresco e innocente, che faceva tenerezza.
La morbidezza della pelle, sfiorata mentre dormivo, le aveva fatto venire in mente il raso.
Era stato una delle sue passioni fin da bimba, il raso; l’aveva sognato finanche sul proprio vestito da sposa.
Quanti pianti, il giorno prima !
Due dozzine di gradini sotto il basso in cui Teresì era andata ad abitare appena sposata, vivevano, soli soletti in uno largo e lungo almeno il doppio del suo, due nanerottoli che tutti chiamavano ” i’ curte”. Era lì che aveva potuto accarezzarne l’autentica finezza la prima volta.
Di quei due, il maschio aveva, pressapoco, l’età che Teresì aveva ora.
Lo strano era che nessuno sapeva dire precisamente quale tipo di parentela li unisse.
C’ era chi li dava per una coppia sposata, certuni si ricordavano, addirittura, del loro matrimonio, altri, per il semplice fatto che il maschio era un bel pò più anziano, sostenevano che fossero padre e figlia; qualcuno s’azzardava a dire zio e nipote.
Ma i più li chiamavano semplicemente ” i’ sarture ” o ” i’ curte “, senza porsi altri problemi.
Solo una vedovaccia molto in là con gli anni giurava e spergiurava che fossero fratelli, ma aveva detto molte fesserie tante altre volte.
Loro amavano parlare poco di sé, quindi quella loro parentela, ove vi fosse stata, continuava a rimanere un mistero.
Si chiudevano addirittura nel silenzio più assoluto quando qualcuno vi accennava, così dando credito alle dicerie più varie di cui, comunque, si curavano ancor meno.
Teresì era una delle pochissime persone cui ” i’ curte ” dessero confidenza.
Tutto era partito quando essa s’era innamorata di una canzone sulla bocca di tutti, che faceva all’incirca così: ” e a’ luna rossa me parle e’ te………..ie ‘lle domanne si aspietta a me ………e me risponne si o’ vuo’ sap&egrave……….cà nun ce sta nisciuna………..”.
Se la cantava ogni giorno, Teresì, seduta sui gradini del proprio basso, rammendando o un calzino o un pantalone.
Un giorno, come stuzzicato da quella strofa ripetuta all’infinito, un’altra persona le aveva dato sulla voce:
” e ie diche ancora ch’aspietta a me………… for’o’ barcone sta’ notte e’ tre………….e prega e’sante pe’ me ved&egrave………….ma nun ce sta nisciuna………..!”.
Teresì era violentemente arrossita, perché da quella stessa voce aveva riconosciuto il suo vicino di casa; temeva che quella sua libertà potesse essere scambiata per una provocazione.
Poteva voler dire tutto e niente, quel risponderle, ma fors’anche che egli avesse bisogno di una lavorante, aveva pensato una volta dentro Teresì, ed era ciò di cui ella necessitava.
Così un giorno, passando davanti alla loro porta, aveva sguinzagliato ad arte il piccolo Ciro, che vi si era infilato sfuggendo una presa già stanca, andandosi a sedere in mezzo ai due nani e cominciando a curiosare fra i loro attrezzi e le loro stoffe meglio ancora che se fosse a casa propria.
Prima ancora che Teresì potesse intervenire, il bimbo aveva addossato il capo sulla spalla della
” curta ” tale e quale un angioletto, addirittura baciandole la guancia.
Era stato in quell’occasione che nonna aveva visto fra le dita della nana una fettuccia di raso cremisi che ella stava cucendo su di una camicetta, ed era impallidita dall’emozione.
Da allora, la giovane sposa aveva potuto fermarsi con minor titubanza su quella porta, ed i suoi bimbi e lei stessa si erano sfamati molte volte della minestra di quei due.
Così nessuno, quando Teresì era andata a dar loro una mano, aveva potuto trovare nulla da ridire.
Con essi, fra l’altro, aveva una grandissima passione in comune: ” a’smorfia” ; non passava infatti giorno che fra essi non ci scappassero lunghe discussioni, sempre pacifiche però.
I due fratelli ormai costituivano l’unico sostentamento della famiglia di Teresì, poiché Vinc&egrave continuava a non trovarsi un mestiere, uno qualsiasi.
Lo ricordava perfettamente; era successo subito dopo essere rimasta incinta di Fernà, la sua terza figlia. Durante quella gravidanza, per chissà quale fatto ormonale, i suoi bulbi avevano cominciato ad eruttare come il Vesuvio, e le forbici affilate della ” curta ” avevano finito per diventare l’ unica consolazione di nonna.
Proprio in quel momento, come volesse interromperle i ricordi, il sarto aveva ricominciato a canticchiarle la sua canzone ma, nonostante Teresì si voltasse e rivoltasse da ogni parte, non riusciva ad individuarlo, né a vederlo.
Quel canto, dolce quanto quello di una sirena, così disperato, doveva provenire sicuramente dall’oltretomba, pensò Teresì.
” Se fosse ammuccetute…… ?”, si disse poi.
A quel pensiero, nonna aveva cominciato a ballare sul pagliericcio come morsa dalla tarantola.
Alle sue spalle, qualcuno stava cercando, con tutte le forze, di spingerla nella fossa dove costui era stato sepolto; d’intorno, l’aria si stava impregnando di un odore nauseabondo, ma lei non voleva nemmeno pensarci di essere essa stessa divorata dai vermi.
Finch&egrave un’ anima pia, rispondendo alle sue invocazioni di aiuto, si era sforzata di trarla indietro dalla voragine.
” Ven’ arrete…………!”.
Era una voce roca, e Teresì, sul primo, ebbe a scambiarla prr quella di un adolescente. Invece, si accorse poi, era la nana, che teneva lo stesso tono di voce.
“Ven’ arrete Teresì………..nu poche sole………….famme furnì…………!”.
Con lei, con Nunziatì, usavano appartarsi come due sorelle, di là della tenda che fungeva da divisorio fra la camera ed il laboratorio cucina.
Dopo pranzo, si stendevano strette strette sul materasso con in mezzo i tre figli di Teresì, mentre il fratello lavorava anche per loro, perché di vestiti da consegnare ce n’erano sempre.
Così passavano un’oretta nel più bel passatempo del mondo, parlando; nonch&egrave sforbiciando.
Parlavano senza alcuna reticenza, anche di uomini.
Teresì ricordava che, quel giorno, la nana aveva deciso di portare, sostituendosi al fratello, il vestito alla fornaia; c’era da metterlo in prova e quella era schizzinosa a tal punto che mai e poi mai si sarebbe messa in sottoveste davanti ad un uomo che non fosse stato il marito, anche se nano e gobbo.
” A’ curta ” non dovette insistere nemmeno tanto, che al fratello la negoziante stava oltremodo antipatica.
Quella volta, Teresì dovette rimanere nel basso loro a cuocere ” i’ maccarune ” per Salvatò e per i propri figli, in luogo di Nunziatì.
Fra l’altro, ricordava che a casa propria non c’era nulla, ma proprio nulla, da mettere sotto i denti.
Dopo aver sparecchiato, Teresì aveva chiesto il permesso di prender su le forbici ed appartarsi una mezz’oretta; avutolo, aveva tirato la tenda e s’era seduta sul materasso per rasarsi da sé.
Era talmente concentrata in quella delicata operazione da scambiare quel tocco leggero per la manina di un figlio.
Il nano, invece, proprio lui, la stava guardando come se avanti a sé ci avesse una santa, le dita protese in avanti come in una muta preghiera.
Sorpresa, la donna aveva lasciato cadere le forbici per incrociarsi immediatamente le braccia sul petto. ” Salvatò………..che stai facienn accà”’..?”.
L’uomo aveva sorriso come un bambino, anche se il suo viso era già solcato da molte rughe sottili. Affidando le parole ad un sussurro, l’aveva pregata di lasciarlo fare; voleva essere lui a tagliarglieli, i peli; l’avrebbe fatto meglio di Nunziatì.
Marì, Ciro e Fernà, i bimbi che Teresì si portava sempre appresso, nel frattempo si erano inchinati come lui, al suo fianco, cercando di imitarne i gesti come se fosse un gioco.
La pregò, ” o’ curte “, con tanta innocenza e sincerità, che la giovane, tenendosi sempre stretta la veste sul petto, si trovò alla fine a fargli segno di si.
Una volta finito il lavoro, il nano aveva invitato Teresì a passarsi il dorso della mano dietro le spalle. ” Sient comm’ sì fina mò…………!”.
Gli stessi bimbi, inginocchiati sul materasso a fianco dell’uomo passatole dietro la schiena, ne ammiravano l’opera scimmiottandolo, ripetendo le sue parole ad una ad una,” comm’sì fina mò……..Teresì………siente siente………..!”.
Teresì era sulle spine.
Erano piccole le mani dell’uomo, ma insinuanti come la sua voce.
” Sì accussì bella Teresì……….!”.
” Oh………… curte…………!”, l’aveva ammonito lei, ridendo.
Le dita di lui si stavano infilando dentro le ciocche dei suoi capelli e Teresì ora non sapeva più se far finta di nulla, o cacciarlo via in malo modo.
Goccioline di sudore le stavano scivolando dalla nuca sulla spina dorsale; il sudore colava e colava, mettendola ancor più in agitazione.
I figli era scesi dal letto, considerando il gioco finito; si stavano infilando ad uno ad uno sotto la tenda, per passare di là.
La donna si sentiva abbandonata a s&egrave stessa; l’incombere del nano alle sue spalle stava privandola della soddisfazione per l’ottimo lavoro, nonché di ogni reazione.
Salvatò, accarezzandole i lunghi capelli, cercava di spingerla in avanti il più dolcemente possibile.
” Teresì………………….me ne stò mute t’o’ giure…………ma stu’ sfizie…………na’ vota………..nun te pozz mett’ incinta”’.!”.
Teresì pensava a come sarebbe andata a finire se Marì, la più grande delle figlie, a quel ” t’o’ giure”’.nun te pozz mett ‘ncinta ” del nano, non si fosse messa improvvisamente a gridare da dietro la tenda.
” Mammà”’.Cire s’ &egrave smerdate ………….s’&egrave smerdate tutte quante…………mammà…………corre……….!”.
Nelle settimane che erano seguite, nonna si era ritrovata a sognarsi, ripetutamente come in un incubo, quella scena.
Le dita minute, le gambette senza un pelo, le evocavano in verità, più che una vera e propria ripugnanza, il senso del ridicolo; ella ragionava che le sarebbe bastata una semplice spinta per buttare a gambe all’aria quell’ometto.
Ma il membro violaceo tendente al nero drizzatosi da quelle gambette, quello no. In quello, di ridicolo, non c’era proprio nulla.
L’avrebbe potuto scambiare per una lunga melanzana stranamente cresciuta all’incontrario, se non fosse stato per il simultaneo scappellamento.
” D’o’ sfizie “, ma parlandone sempre in terza persona, s’era arrischiata a chiedere notizia ad una sua amica, la quale, candidamente, le aveva confessato che lei lo aveva praticato ancora prima di sposarsi.
” E comm’ facive sinnò………..?”.
Senza tanti giri di parole, la comare le aveva confessato che, una volta passato il forte dolore, le era piaciuto; che, per di più, in quel modo, aveva evitato ed evitava di rimanere incinta come una coniglia.
Si era molto meravigliata, anzi, dell’ignoranza di Teresì.
” Ihhh………svegliate…………e che……… o’ sanne tutte quante e tu……….ma comm’……. verament nun l’hai mai pigliate ‘ncule………..?”.
Nonostante fosse una pratica contraria ai propri convincimenti, Teresì si era sforzata di provare questa nuova cosa col marito, ma aveva dovuto lamentarsene e di molto.
” A’ cummigliamme accussì…………? Manche na’ bestia…………!”.
Difatti, anche Vinci&egrave lo riteneva una schifezza.
Fino a quando Teresì si convinse di tornarsene alla vecchia via; tant’&egrave che, quando Vinc&egrave, la buonanima, si era dipartito da questo mondo, i due avevano racimolato, fra vive e morte, ben tredici creature.
Con ” o’ curte “, costretta dalla fame a ritornarci, Teresì aveva fatto in modo di non trovarcisi mai più da sola. N&egrave accennò mai di quel fatto con sua sorella.
Teresì faticava a tenersi dentro il risentimento; il riso, l’arguzia, ed il perdono erano cose che facevano parte della sua natura.
Queste sue doti poterono soltanto accrescere l’iniziale simpatia nei suoi confronti.
D’altra parte, non vi erano più stati fatti o parole che potessero crearle diffidenza od imbarazzo alcuno, sicch&egrave, passate quelle tre settimane di assenza, per le quali aveva accampato scuse adatte, fra i due era tornata l’ amicizia, nonché una accresciuta benevolenza da parte dello stesso nano.
Una quindicina di anni prima Nunziatì, che poteva vantare tutt’ora un viso da statuina di Capodimonte, si era innamorata di un cugino di primo grado, un giovane di carattere violento ma di altezza normale e, all’età di circa dodici anni, se n’ era fuggita con lui.
Dopo due aborti ed una serie ininterrotta di sevizie, di freddo e di botte, che l’avevano resa sterile per sempre, la ragazzetta era riuscita a scappare dalle sue grinfie.
Essendo già morti i genitori, aveva chiesto di riprenderla a questo fratello, perlomeno per qualche mese, ed egli l’aveva accontentata rintuzzando altresì le violentissime rivendicazioni del protettore deluso.
A causa di quella disgraziata parentesi, durata poco più di quattro anni, Nunziatì aveva rischiato seriamente di morire ma, una volta al sicuro, cominciò rapidamente a riprendersi.
Mise su prima un pò di colore alle gote, quindi pensò bene di rimpinguarsi culo e tette.
Una volta bene in carne, iniziò a guardarsi intorno.
Praticando il mestiere, aveva imparato a sculettare nel modo più appropriato per attirare l’attenzione, se si vuole in modo un pò troppo appariscente, ma quello era una maniera come un’ altra per dire ” ci sono anch’io “.
” O’ curte “, a quel tempo, era ancora vergine. Non a causa di un qualsiasi difetto fisico o mentale, ma perché era cresciuto facendo prima il chierichetto e poi, di mano in mano che diventava più adulto, il sagrestano nella parrocchia.
Aveva una voce intonata, molto melodiosa, era mite e, questo, gli aveva conservato il posto.
Alla soglia dei trent’anni, tanti ne aveva quando la sorella era tornata, le femmine le vedeva sotto la medesima lente con la quale le vedeva il vecchio prete presso cui era a servizio: o rompiscatole o demoni.
Non era stupido, però; a veder quelle chiappe messe in mostra, capì presto che ci si poteva perdere la testa.
In crisi per l’improntitudine della sorellina, si sforzava comunque di resistere alle continue tentazioni confessandosi e comunicandosi giornalmente ma, di volta in volta che le settimane e i mesi passavano, gli diveniva sempre più difficile.
Bisogna aggiungere che, a causa delle passate esperienze, la nana nutriva un disprezzo fortissimo verso l’ altro genere. Fra i maschi, tollerava appena quelli di bell’aspetto, giovani e puliti, alti e chiaccherini e, manco a dirlo, ben dotati.
Quel tipo di maschio era sempre riuscito a metterla in soggezione, naturalmente, solo per quel tanto che ci si era ritrovata sotto, a gambe aperte.
Il fratello, aveva scoperto, tranne per quel che riguardava l’altezza, apparteneva al tipo da cui Nunziatì si riteneva soggiogata.
Lo aveva tenuto sotto osservazione fin dall’inizio della loro forzata coabitazione.
Aveva notato che, quando aspettava delle clienti di una certa avvenenza, Salvatò era solito farsi la barba lavandosi il viso con l’acqua profumata dalle bucce di limone o di mandarino e si inamidava la camicia; ai primi accenni di erezione girava dietro di esse per non mostrare l’imbarazzante gonfiore nella patta.
Il che, per lei, significava averci una certa sensibilità.
La sua parlantina inoltre si faceva più fluente, e gli occhi brillanti; per l’arguzia e la simpatia, poi, sembrava esserci nato.
Insomma, era un tipo d’uomo che poteva piacere.
Una delle prime cose che l’aveva impressionata di lui era stata come Salvatò, in ogni occasione, riuscisse a farle ridere, le donne; come riuscisse a metterle sempre a loro agio.
Per quelle sue particolarità, quindi, lo considerava pieno di fascino e ne era istintivamente attratta; d’altra parte, in questo suo sentire, veniva repressa dallo stretto legame di sangue.
Tendendo fondamentalmente, poi, ad un rapporto stabile e sicuro, quando queste sue fantasie prendevano il volo, Nunziatì si sforzava di tenerle a bada pungendosi più volte con l’ago.
Quel pomeriggio, la nana era intenta a lavare il pavimento del basso; voleva sbrigarsi perché aveva un appuntamento e si voleva far trovare pronta e rassettata.
Un bel moro, alto, aveva già risposto con sguardi ardenti ad alcune velocissime occhiate e, quel pomeriggio, sarebbe passato davanti alla sua porta.
Il fratello era andato a riposarsi, raccomandandosi di non disturbarlo.
Nunziatì si sentiva tranquilla.
Quel ragazzo era un guappo, o almeno lui così si riteneva. Credette di poter fare il proprio comodo nonostante la nana si sbracciasse a fargli segno di proseguire e non fermarsi; ad un certo punto, egli cercò di entrare dentro il basso, convinto com’era che Nunziatì fosse sola.
Voleva prendersi delle libertà che nessuno gli aveva consentito, già al primo incontro.
Svegliato dallo schiamazzo, realizzando quanto avveniva,” o’ curte ” si era gettato giù dal letto precipitandosi a testa bassa contro il malcapitato, non senza fermarsi a raccattare le forbici dal tavolo.
Il giovane guappo poté salvarsi unicamente perché aveva le leve lunghe il triplo di colui che lo inseguiva e quindici anni di meno ma, da allora, evitò accuratamente di aggirarsi anche solo nei paraggi.
Una volta cacciatolo, il nano aveva pensato bene di chiedere ragione anche a chi rimasto.
Sentite le scuse frammentate e confuse, cominciò a suonargliele di santa ragione.
La nana scappava da ogni parte, ma la porta era già stata chiusa.
Per non rischiare di rovinarle il viso, ” o’ curte ” le menava i colpi nelle gambe, ma, ad un certo punto, Nunziatì ebbe l’infelice idea di andare ad infrattarsi sotto il tavolo.
Lui correva di qua e di là e, per continuare a colpirla, si era dovuto sfilare la cintura; lei, onde non farsi rovinare, si faceva scudo con le gambe dello stesso tavolo.
Finch&egrave i calzoni del nano, non più sorretti dalla cinta, iniziarono a scivolargli.
” Perdoname”’..!”, gridava lei.
” Cco’ stu’ strunze……….!”, le urlava Salvatò, incazzato perché non riusciva a beccarla ed i calzoni, messi così, lo facevano cadere.
Menava cinghiate su cinghiate, perché la sua era, e doveva rimanere, una casa onorata.
Finch&egrave la nana, uscita da sotto il tavolo che ormai le stava stretto come una prigione, pensò bene di avvinghiarglisi alle gambe.
” Perdone”’.? Perdone stu cazze…………..! “, continuava a ripetere Salvatò, che si sentiva ormai stanco, e stranito.
Nessuno dei loro conoscenti, passando di fronte alla porta, avrebbe potuto pensare che l’ improvviso silenzio stesse a significare la fine di ogni punizione.
Erano tutti d’accordo, dal primo all’ultimo: il sagrestano stavolta era stato troppo accondiscendente; l’avrebbe dovuto fare prima, di insegnare alla sorella a non scambiare la scalinata per un marciapiede.
La punizione doveva essere esemplare, e lo fu; non ne volevano in giro, di mele marce.
C’era voluta la frazione di un secondo per far realizzare alla nana quanto stava intanto avvenendo.
L’ autorità riconosciuta al fratello fino a quel momento, nello stesso istante si ebbe il suo primo scricchiolio.
Era successo, infatti, che, in luogo di afferrare la fibbia della cintura di Salvatò, nella confusione Nunziatì gli avesse afferrato qualcos’ altro.
” O’ sarture ” aveva cercato, sulle prime, di scrollarsela di dosso, quella mano, ma quando la stretta si era trasformata, egli aveva compreso di stare perdendo il controllo della situazione.
” Lassa……….eh lassa”’!”.
” Salvatò………….ma……….!”.
Bastò quel ” ma”’. ” per far si che i due fratelli si ravvedessero.
Non tanto presto, però, da non lasciare nel palmo di Nunziatì un’ indelebile impronta.
La punizione continuò, dopo una notte quasi insonne, pure il mattino successivo.
Questa volta la nana, che se l’aspettava, non si fece sorprendere.
Appena l’uomo mostrò le proprie intenzioni, invece di fuggire qua e là come il giorno prima , Nunziatì si inginocchiò per terra chiedendo di perdonarla.
Si mostrava sinceramente pentita, lo implorava di comandargli qualunque cosa avesse voluto, che per lui l’avrebbe fatta.
Non era affatto pentita, Nunziatì, né pensava che Salvatò potesse comandarla; in fondo era solo un fratello.
Quando lui la tirò sù, ella gli appoggiò la guancia addosso ripetendogli che non avrebbe mai voluto mancargli di rispetto, che quello, il guappo, l’aveva fatto contro la sua volontà, probabilmente per sfregio al maschio di casa. Lo rimirava da sotto in sù pendendo completamente dalle sue labbra.
Così, non ci fu storia.
Sotto la trepida e lacrimosa pressione di Nunziatì, il sarto sentì il membro sfondare nuovamente oltre la vita.
Per lei era una cosa già risaputa, fatte le debite proporzioni.
Senza mai sfidarlo con gli occhi, ella iniziò a palparne l’erezione con la sua guanciotta.
” Che colpa n’ aggie ie si chille &egrave sceme………….?”, si lamentava Nunziatì.
Di fronte alle labbrucce arricciate, agli occhi pieni di pianto, a quelle gote di porcellana, alla freschezza della sorella, Salvatò si lasciò scappare un illibato ” e chi o’ canusce”’?”.
” Salvatò………..ce pozzene ved&egrave………….!”, fu la pronta risposta della ragazza.
Il sarto stava cercando, a fatica, di staccare le parole l’una dall’altra, gli occhi ormai fuori dalla testa, ” st’infame……….pecch&egrave a me………….? “.
Egli trovò comunque la forza di andare verso i vetri, a fissare la dirimpettaia seduta sullo scalino di fronte che, alle prime grida di Nunziatì, aveva voltato la testa verso di essi e, rivolto proprio a lei anche se non poteva sentirlo, agitò minacciosamente una mano, ” che………….&egrave fesse Salvatò”. eh………..?”.
La donna teneva tre figlie, una più brutta dell’altra ma vergini, da maritare; lo sguardo che
lanciò a ” o’ sarture ” era più che eloquente. Nunziatì andava punita, eccome !
” A’ guagliuna “, intanto, non aveva posto tempo in mezzo dirigendosi oltre la tenda, nell’angolo più nascosto della stanza.
In testa già l’idea di non farlo assolutamente venir dentro.
Era, il suo, un istintivo moto di difesa, in quanto Nunziatì, incinta, non ci poteva più rimanere.
Una volta che Salvatò ebbe richiusa la porta, ella, che lo aspettava al varco, gli si gettò contro come una furia.
Piangeva, gridava; lo percosse sul petto mentre cercava di pensare con la rapidità di un falco.
Quasi per caso, le sue dita si impigliarono nella bottoniera del calzone, strapparono.
La pelle, aggrovigliata dal sangue che vi ribolliva, era setosa quanto quella di un neonato, la mazza, la più tosta che avesse mai toccato.
In poche parole, Nunziatì avvertì i pori della pelle sollevarsi e diventarle come quelli di un’oca.
Per far si che il piacere non svanisse, ella ebbe la forza di imporsi una calma assoluta. Spinse delicatamente le falangi dentro e portò l’altra mano sotto la propria veste, inginocchiandosi per menarsi meglio. Tutto in una perfetta sintonia delle dieci dita.
In tal modo ella ne ricavò, nonostante il maschio fosse di un primitivo totale, un piacere intenso e prolungato, nonché la convinzione di averlo fatto suo.
Si rendeva conto però, Nunziatì, che c’era tanto da fare ancora: per prima cosa quel silenzio improvviso, che avrebbe potuto essere equivocato dalla vicina.
Così, dopo aver fatto venire il fratello la seconda volta con le sue labbruzze, ed essere a sua volta venuta con la stessa mano mai staccata, essa gli cacciò un delinquenziale morsetto sulla punta, onde dargli il pretesto per una reazione.
Quindi, con quei due ceffoni stampati sulle gote, andò ad offrirsi, gli occhi gonfi e lacrimanti, la veste sporca, strpicciata, alla madre sullo scalino, che da allora non ebbe più il coraggio di guardarla.
I due fratelli decisero poi, alquanto saggiamente, che Salvatò avrebbe potuto far ciò che più desiderava solo una volta serrati i battenti per la notte.
Di giorno era troppo pericoloso, ne sarebbe andato dell’onore di tutti e due.
Siccome, per dare maggior piacere a chi la stava fottendo, Nunziatì era stata ammaestrata ad emettere piccole grida, lamenti e sospiri, ella si guardò bene, quella notte, di dimenticarsene, mantenendo, però, dei toni alquanto più bassi del solito.
Succube del proprio furore erotico, ella sperava di adeguarsi al più presto alla spropositata dimensione di quel pene, sopportando addirittura le lacerazioni che il nano, da inesperto qual’era, ebbe ad infliggerle.
C’erano, inoltre, altre valutazioni che non facevano pentire Teresì per essersi sottoposta alle sue voglie; in primo luogo il fratello era un generoso, simpatico per natura.
Salvatò, tranne che in quell’occasione, con lei era stato sempre affettuoso; in più, aveva un ottimo mestiere per le mani, sicch&egrave avrebbe potuto fornirle cibo e un tetto per tutti i giorni a venire.
La giovanetta, che mai prima di allora aveva provato veri orgasmi, si convinse quindi di aver trovato l’uomo giusto.
Messasi tranquilla, dopo circa un mese trovò il modo di fargli conoscere il gioiello più prezioso della propria collezione: ” o’ sfizie “.
Ai primi tentativi dovette però scrollarselo di dosso come se sulla schiena ci avesse avuto un gatto arrabbiato.
Salvatò, scalzato mentre stava ancora tentando di appoggiarsi, giaceva di lato pensando di aver combinato chissà cosa, quando Nunziatì, cui la fantasia non difettava, si alzò per correre alla
” Singer “, la vecchia macchina da cucire a manovella data loro in prova appena all’inizio di quella settimana.
Si era ricordata, improvvisamente, della pompetta metallica per oliare i meccanismi arrugginiti, raccomandatale dallo stesso rigattiere che gliel’aveva venduta.
La trovò, e tornò a letto con quella.
Se serviva per il ferro, pensava Nunziatì, meglio ancora sarebbe servita a sbloccare la carne.
La pompetta venne puntigliosamente svuotata sul sito prescelto, ma la zoccoletta non pot&egrave fare a meno, al momento in cui Salvatò ne oltrepassò la soglia, di emettere un urlo belluino.
I vicini più anziani credettero che, per qualche buon motivo, il fratello avesse ricominciato a picchiare la sorella; non potevano farci niente, e nulla fecero.
Altri, insonni per ragioni diverse, a quell’urlo cercarono istintivamente di tappare la bocca alla loro compagna.
Ma una volta appurato che quella stava soffocando, che nessun grido era venuto dalla sua bocca, tolsero la mano e continuarono a fare ciò che stavano facendo, sbattendosene altrettanto.
Alcuni, ma pochi, dovettero subirsi lo scherno del culo sottostante, che aveva capito tutto; furono, quelli, gli unici a raccontare nella piazzetta di quel grido.
Salvatò procurava sempre, comunque, di trattare in pubblico Nunziatì come una sorella da maritare.
In effetti, non era che ella si risparmiasse sul lavoro; era giovane, carina, bene in carne, ed aveva acquisito in quegli anni una grande abilità nel cucire che nello stirare.
Il taglio era affar suo.
Soprattutto, però, essa teneva una dote; cosa che altre nubili del rione nemmeno si sognavano. Il che, se da un canto fomentava l’innata gelosia di questi due fratelli, dall’altro dava alla nana il senso più tangibile della generosità fraterna.
Ormai diciannovenne, con queste premesse Nunziatì si procurò, una susseguente all’altra, addirittura quattro domande di matrimonio.
Le rifiutò per motivi ritenuti validi sia dalle donne che avevano anch’esse delle figlie da maritare, sia dalle clienti; sia, soprattutto, da lei stessa.
La prima volta si trattò di un altro nano, un lontano parente che fungeva da custode agli orsi dello zoo della città.
Era un buon lavoro, sicuro, il ragazzo un tipo tranquillo e gioviale, ma sui vestiti, anche quelli della domenica, aveva lo stesso odore degli animali che accudiva.
N&egrave, ebbe modo di appurare la nana zampettando con questi fra le siepi dello stesso zoo il primo giorno di festa, era dotato come Salvatò.
La seconda, si sarebbe dovuta trasferire verso san Giuseppe, da un piccolo possidente fornitore di mozzarelle, scambiando quella sua abilità per un lavoro fra le bufale; così non solo perdendo le professionalità acquisite, ma andandosene a sudare.
Disse di no senza farla tanto lunga.
La terza, si trattava di un vedovo: un venditore di olio e vino con una cantina in ottima posizione.
Teneva quattro figlie femmine ed un bellissimo giardino di limoni ed ulivi verso Torre Annunziata.
Questa venne da lei considerata la domanda migliore, per l’aspetto dell’uomo, nonché per la sua determinazione quando la nana, non tanto incautamente quanto si potrebbe pensare, inciampò sotto la seconda tettoia dei limoni.
Alla fine fu scartata anch’essa, perché tutte e quattro le ragazze erano, a detta delle clienti della bottega, tali e quali la madre appena morta: secche, smunte e dispettose.
Sempre a detta di costoro, si sarebbero fatte servire fino a quando si fossero sposate, e poi a Nunziatì, una volta deceduto il maschio, della sua eredità sarebbe certo rimasto ben poco.
L’ultimo pretendente, un ventenne dagli occhi perfettamente azzurri, in luogo di farsi zitto zitto il suo servizio di leva, magari facendosi scartare, all’improvviso s’era messo in testa di far domanda nella polizia.
Come non bastasse, voleva pure trasferirsi al Nord; sognava Roma.
Era un rosso lentigginoso, di media statura, ben messo e pure focoso.
Nunziatì lo aveva classificato tipo fedele in quanto fesso, ma furono quegli aspetti: la polizia ed il Nord, a farglielo destinare come il peggiore dei quattro.
Così, ella pot&egrave scartare tutte quante le proposte con animo sereno, rimanendosene a vivere con il suo ” sarture “.
L’unica incertezza che ebbe nel frangente, fu di tenere in ballo per tre mesi circa questo vedovo;
sia perch&egrave era un vero benestante e, quindi, su quel lato, le dava uguale sicurezza del fratello, sia per approvvigionarsi, a costo nullo, di vino, olio e limoni.
Pesò anche che, fin dalla prima visita nel giardino di Torre A., costui l’avesse fottuta dando la stura ad un prolungato digiuno della fantasia, il che per Nunziatì era molto più che un gradito ritorno alla giovanile spensieratezza.
Era accaduto, infatti, che dopo la caduta egli, senza profferire verbo, l’avesse sollevata di peso portandole i piedi ad allacciargli il collo e che l’avesse quasi tramortita a forza di leccarla, pretendendo che facesse altrettanto; che, dopo, l’avesse rivoltata nella posizione opposta, scandagliandola come un trapano, più e più volte.
Salvatò, pur soffrendoci da bestia, aveva sopportato anche quei tre lunghi anni.
Non sapeva che a pesare alla ” curta ” era proprio ” o’ sfizie “, d’averglielo concesso tanto facilmente.
Perché ciò per cui il fratello andava pazzo, lei lo sopportava a fatica, nonostante alle spalle ci avesse quasi cinque anni di mestiere.
Era poi la cosa per cui, a volte, scoppiavano fra loro delle liti furibonde.
Da allora era passato circa un ventennio, e quella convivenza, inizialmente messa alla berlina dalla gente più che altro per la loro deformità, era stata poi sepolta sotto la più totale indifferenza.
Anche il vecchio parroco, una volta venuto a conoscenza della cosa attraverso la confessione del pupillo, si era limitato, pur a malincuore, a cercarsi una perpetua, non arrischiandosi ad andare oltre.
Giudicava infatti che, data la religiosità del soggetto, la sua colpa fosse compensata dalla improvvisa generosità nelle offerte; che bisognasse, inoltre, tenerlo sotto continua osservazione.
Per cui Salvatò se l’era cavata con ancora qualche servizio in sagrestia, ed una quindicina di paternoster in aggiunta ad ogni confessione.
Più la raccomandazione, quella si, di prestare la massima attenzione a non “impregnare ” la sorella, nonché di convincere anche la disgraziata a confessarsi.
E Nunziatì aveva loro dato retta.
Così i due fratelli, tutte le domenica mattina si pentivano, quindi facevano la loro passeggiatina fino alla piazza grande; l’uno davanti e l’altra appena dietro.
Se c’era da dare consigli, anche volanti, non si facevano mai mancare.
Il resto della giornata, dalle undici in poi, lo trascorrevano seduti sull’uscio di casa, scambiando ulteriori quattro chiacchere con chi saliva e chi scendeva.
Una volta pranzato, chiudevano la porta per un sacrosanto riposino e, una volta a letto, riprendevano a peccare.
Se la nana avesse subodorato un qualsiasi pericolo per quel menage ormai consolidato, si sarebbe messa di traverso a chiunque, compresa l’ amica più cara.
Prima che ” i’ sarture ” lasciassero definitivamente questo mondo, era accaduta infatti una cosa che Teresì aveva riposto quanto prima nel dimenticatoio, poiché certi episodi vanno giustamente sepolti con chi li ha compiuti, ma che, ogni tanto, specie quand’era rimasta sola, le era tornata in mente.
Salvatò non poteva alzarsi dal letto se non assistito, per i bisogni corporali.
Per portare un vestito alla moglie del pizzicagnolo s’era infatti beccato una brutta polmonite.
Le due donne erano veramente preoccupate, perché come tagliava lui non tagliava nessuno, ed erano molto indietro coi lavori.
Teresì stava discutendo con la nana di ciò che non andava avanti, quando Nicò la venne a chiamare; Assuntì aveva fatto a botte con Ciro, spaccandogli la testa, ed il figlio di mezzo stava pisciando sangue da ogni parte.
Nonna era saltata sù correndo a perdifiato, per accorgersi poi che era solo un taglietto da coprire con una passata d’aceto.
Dopo circa una mezz’ora, era tornata nella sartoria.
Lui l’aveva guardata con lo stesso sguardo attonito di tanti anni prima, quando l’aveva vista con la schiena nuda, per rantolarle sul volto, ” Nunziatì s’&egrave ghita………..a purtà a’ vunnella………!”.
Era mezzo fuori dal letto, e Teresì, compassionevolmente, era andata a prendere una pezzuola bagnata da mettergli in fronte.
” M’ammuore Teresì…………!”, stava farneticando l’uomo, e lei si era alzata per tirare la tenda e mostrargli il sole.
Era già bello alto, splendente; l’astro sprizzava salute da tutti i buchi.
” Viste………ce sta o’ sole………….quante &egrave belle………..caude………..!”.
” M’ammuore Teresì…………..!”, aveva rantolato lui di nuovo e, sforzandosi tutto, aveva fatto l’atto di tirarsi sù.
Teresì era corsa per fermarlo, accorgendosi solo allora che il letto ove l’uomo giaceva era tutto un bagno di sudore.
” Mò ve mittite accà bbuone bbuone………..e ie ve rifacce o’ lett………………..!”.
” Teresì………….me ne stò a murì………….!”.
” Susete Salvatò……………da brave……….!”.
” Quante ………..bella………..Teresì……….
t’arricuorde d’a’ luna rossa ………..?”.
” Chiane………….accussì…………arrassateve……… accà…………!”.
” Teresì…………t’o’ giure…………o’ basse &egrave toie e d’ ‘e figlie toie………..gliel’aggia a dì a Nunziatì………….cà nun ce sta nisciune………!”.
Teresì, preoccupata, aveva guardato l’uomo e il sole scuotendo più volte la testa; pensava a cosa ne sarebbe stato di lei e dei suoi figli quando Salvatò fosse schiattato. Il marito continuava a non trovare lavoro, e chissà, forse Nunziatì se ne sarebbe andata, avrebbe chiuso.
Finalmente, il nano se ne era stato zitto.
Per non fargli prendere ulteriori malanni, la donna l’aveva appoggiato seduto alla parete, ben avvolto in una pesante coperta di lana, il viso rivolto alla porta.
” Steteve qua che facce subbete………vardateve stu’ sole……….!”.
Teresì s’ era affrettata quindi a stendere su tutti e due i materassi delle coperte pulite.
Mentre stava tirandone gli angoli, si era ritrovata schiacciata su di esse; con il nano che aveva ripreso a farneticare.
” A luna Teresì………….quante &egrave bella sta’ luna………….rossa………. ruossa……….!”.
” Salvatò…………ve schiattate accussì…………….!”.
” Primma e’ schiattà a voglie ved&egrave sta’ luna…………!”.
” O’ curte ” si stava producendo in uno sforzo immane, moltiplicando le forze, avvinghiandosi sempre di più a Teresì, pesante come il piombo.
Se l’era ritrovato a puntare diritto fra le natiche e, finalmente, aveva capito il senso di quelle sue parole.
Nonna si era sentita dischiudere, meravigliandosi di non provare quel gran dolore che Nunziatì, in gran segreto, le aveva confessato.
Salvatò, prima di scostarsi dal muro, non era riuscito ad umettatarsi ben bene di saliva, ma Teresì, al contrario della nana, il cratere della propria luna ce l’aveva bello elastico come una molla, pur avendolo utilizzato, in quel senso, poco e niente.
” Ppe’ carità……….nun ce lo dicite………..!”, stava gorgogliando la lavorante, vergognandosi di essersi fatta sorprendere a quel modo.
” O’ curte ” la stava invadendo sorridendo come un bambino goloso.
” Eccheme Teresì………..eccheme…………che bella sta’ luna rossa………..!”.
” Manche ppo’ bass…………nun ‘o voglie………..lassatele a Nunziatì………..!”, farfugliò lei, paralizzata dalla mistura di dolore e di piacere insieme.
Dopodiché ebbero due disastrosi orgasmi.
” Oh curte………….che hai fatte………..?”, si era ritrovata ad esclamare Teresì, dopo il primo.
Ma, invece di rialzarsi, era rimasta lì.
Glielo aveva ripetuto dopo il secondo, ma Salvatò, i denti affondati nella sua scapola, i polpastrelli attanagliati ai suoi capezzoli, ormai non poteva più sentirla.
Poi era toccato alla ” curta “, il medesimo inverno; stessa broncopolmonite fulminante.
Teresì, per tirare avanti col lavoro, ancora molto prima di accompagnarla al camposanto, era stata autorizzata dalla stessa a traslocare figli e marito nel basso dei ” sarture “.
Anni dopo, quando la prima figlia ebbe a sposarsi seguendo il marito in un rione diverso, oltre a tirarsi sù zia Peppina, nonna Teresì aveva preso la giovane Rosa come lavorante, la prima, al di fuori della famiglia, con l’ambizione di formarsi un suo atelier.
Il lavoro stava prendendo piede, e lei doveva lavorare diciassette, diciotto ore al giorno. Era andato, poi, sempre più diminuendo fino alla improvvisa morte di Vinc&egrave, quando ormai lavorava a sprazzi; le clienti andavano ormai, quasi tutte, a servirsi nella piazza grande e, le poche rimaste, si lamentavano sempre più spesso di ogni cosa, compresa la sgarbataggine ” de sta’ uagliuna “.
” Teresì ………ma che cazz tiene Rò………..sta’ nammurata………..?”.
Quella notte, per Teresì, era stato come se le si fosse spalancato un baratro davanti.
” Eh………..&egrave annata accussì Vinci&egrave………..tu de là………..e ie de qua oramaje………..!”.
Nonna non ci aveva visto più nel sentire la sua risposta; ma come, se lo era preso pure fesso !
Mentre ancora le risuonavano nelle orecchie la musica e le parole, ” te sì fatta na veste scullata……….. nu cappiello cu ‘e nastre e cu rrose…………”, mentre ancora ” ‘o cardillo ” svolazzava qua e là trasportando nella stanza le ultime note del suo Vinci&egrave, ” t’hé a truvà na padrona sincera………… ch’&egrave cchiù degna ‘e sentirte ‘e cantà…….”, Teresì s’era catapultata giù dal letto arruffata più che mai, giusto in tempo per ascoltare le grida concitate di Conc&egrave.
” Cummà………..cummà…………!”.
Conc&egrave stava urlando a perdifiato, salendo la gradinata di corsa.
” Se n’&egrave annate………..!”.
” Comm’ …………annate chi…………?”, gridavano altre comari, già sull’uscio.
” Muorte………. sicche………….attuorne e’seje………..don Franc&egrave………..!”.
Afflosciata sulla sedia, nonna sembrava una sciacquetta qualunque.
Conc&egrave, invece, aveva il viso fiammeggiante come un tizzone.
” Chiste nun a passa ‘a nuttata……….’o dicive ie…………!”, blaterava Conc&egrave abbattendosi sulla nostra seconda sedia.
” Nun &egrave ‘o vere………..nun pò esse………….nun &egrave vere……….don Franc&egrave…………!”.
” Ihhhh……….me siente male Teresì…………vulisse ddie che………..!”.
” Che guaie………..marò…………….! “.
” Eh…………? “.
Conc&egrave passò più di tre minuti in silenzio, affranta, poi riprese.
” Sapiss………….!
” Sapiss…………?”.
Abbassando improvvisamente la voce, ” ‘o pecuozze…………….dicce che steva…………”, un singhiozzo, uno sguardo in giro, poi, ” cco’ bastune ritt……….!”.
” Ma va………….vattenn………..!”.
” Patite comm ‘o criste………..tutte capasotte………….ma cco’ bastune ritt…………..int’ospitale………..!”.
” Nu’ sant’ uomm comme chiste………….int’ospitale…………cco’ bastune…………?”.
E Conc&egrave, d’impeto, ” ‘o core………….’o dicitt ……..’o core don Franc&egrave…………steteve accuort………….nun a putiva passà ‘a nuttata………truoppe sicche……….!”.
” O’ core………….?”.
” Che ‘nzuonne Tereresì………….che ‘nzuonne………..!”.
” Puro ie l’aggie ‘nsugnate”’.ppe’ Lor&egrave”….ce steva a cuntà de Lor&egrave che…………!”
Il povero don Franc&egrave, per non far torto a nessuna, aveva voluto lasciare il proprio ricordo a tutte e due.
Forse era per quell’unica volta, pensava Teresì, che s’era ritrovata poi con tre lutti in famiglia.
Avrebbe potuto sognare quanto e chi voleva, da adesso, ma non le sarebbe mai più capitato, di perdersi.
Come averle letto nel pensiero; era trasparente nonna, quello si !
Ormai, pure se spaesato, ” fòra ‘a cajola “, mi sentivo libero comm o’ cardillo; non ci avrei voluto certo ” chiagnere ccà “, io.
Né ccà, né là. Intendendosi per là la casa del mio amico Vincenzine.

CAPITOLO V

Maddal&egrave se chiamma””!

Molto prima che fosse l’alba, Vincenzì propose un’altra sosta nel suo basso, ” ppe’ nu’ surzietielle e’ caff&egrave…………!”.
Per sua madre mi ero definitivamente accordato su di un forfait, togliendomi per sempre dai piedi quella fottuta maggiorazione.
C’erano voluti tre ceri intonsi del diametro di un pugno, alti sul metro e mezzo, che, tagliandoli per benino, Marì avrebbe potuto risparmiare sull’olio della lampada per un bel pezzo.
Li avevo adocchiati recandomi, in obbedienza alla promessa fatta, da don Gaetà.
Già che c’ero, avevo svuotato anche la cassetta dell’incenso e quella delle elemosine, e portato via alcuni paramenti coi pizzi, per tentarci con l’ebreo.
Non ci fosse stato Franc&egrave ad aiutarmi a portare il tutto fuori dalla chiesa, se ne sarebbero stati là a marcire per chissà quanto tempo ancora.
Lui, il culo pelosetto che scompariva e ricompariva in mezzo alle carni della donna, si stava drizzando sulle reni come una serpe, e con la destra si menava il pene mingendole soddisfatto le ultime gocce sull’ombelico.
Noi, io e Vincenzine, discosti, stavamo discutendo se, per la settimana entrante, fosse stato meglio andare in un nuovo quartiere, oppure rimanercene in quello in cui avevamo razzolato fino alla settimana prima.
” Ppe’ mme &egrave na strunzata “, aveva detto Vincenzine della mia proposta, quella del nuovo quartiere.
In effetti, quello che stavo studiandomi non era così antico come l’altro e la refurtiva, di conseguenza, avrebbe potuto essere di qualità inferiore.
Siccome, però, ero io a dovermi caricare sulle spalle la maggior parte del peso, che Vincenzine fumava troppo e Franc&egrave, piccolo com’ era, sembrava un furetto più che un palo, stavo cercando di far valere le mie buone ragioni, ” siempre ie aggie a penzà a purtà i’cose………mò basta……….me sò scucciate…………!”
” E pecch&egrave………..?”.
Vincenzine aspettava di vedere dove andassi a parare, essendo pacifico che lui era la mente ed io il braccio; Franc&egrave non contava.
Questi, intanto, al grido di ” &egrave ‘a primma, &egrave ‘a primma “, cercava di crearsi una seconda chance fra le cosce strette della donna.
” Nun aggie furnute……..’a primma………..!”, continuava a gridare.
Vincenzine, che aveva indovinato tutto fin dalle sue prime mosse, gli si buttò sopra per toglierlo di lì, ” t’aggie viste……… spaccimm e’ merda…… chista &egrave ‘a secunda…………!”.
In quel momento, illuminandoci con una lampada ben più potente di quello che c’era nella stanza, il giudeo che aveva bottega nel rione, che trafficava con noi, completamente indifferente a quanto stava avvenendo sotto i suoi occhi, scese la soglia con la sua tipica berretta di lana in mano.
Veniva considerato il riccone del quartiere; si favoleggiava possedesse una fortuna in denaro e merci, e che avesse addirittura un caveau sotterraneo.
In meno che non si dica, con una velocità insospettabile in lei, la donna si era stappata, letteralmente, Franc&egrave dalle gambe buttandolo al suolo.
Vincenzine guardava ora lui ora mammà; un istante ancora, e ci avrebbe ordinato di sgombrare.
L’ometto, invece di togliersi il cappotto e accomodarsi, aspettò con una calma estrema che Franc&egrave si rivestisse, poi sussurrò rivolto alla ” zoccola “, con voce appena appena percettibile, ” Marì t’aggie a’ parlà…………. !”, e noi vedemmo Vincenzine farsi d’ un tratto più pallido di quel che abitualmente fosse.
Spingerci fuori insieme, me, Franc&egrave e Vincenzì, una volta copertasi con la vestaglia, fu la seconda cosa che la zoccola fece.
Una volta visto serrarci la porta in faccia, io e Franc&egrave cominciammo a chiedere a Vincenzì quale poteva essere la ragione di quella visita, ma Vinci&egrave rispose che nemmeno lui la sapeva.
Erano passati si e no cinque minuti da quando eravamo stati buttati fuori che il giudeo si affacciò sulla porta con quel suo viso triste, vestito impeccabilmente com’era entrato.
” Hai fatte già abbree……… ?”, lo apostrofò allora quell’insolente di Franc&egrave, che non aveva rispetto per niente e per nessuno.
Vincenzine aveva fatto l’atto di allungargli un manrovescio, ma visto che l’amico era lontano di quel tanto, si accontentò di dirigergli uno sguardo al fulmicotone.
” Che &egrave…………..o’ frate toie………….? Scusasse abbree…………..!”.
” Cierte””cierte””.!”.
Sembrava che l’uomo sorridesse.
” Jattevinne”’a durmì………….tu Vinc&egrave………..vene ccu’ mme………..!”
E il giudeo si incamminò con il ragazzo prontamente al suo fianco.
Franc&egrave, tremante, mi stava prendendo la sigaretta di mano, ” ruospe………. !”.
” Pecch&egrave ruospe………… ?”.
Franc&egrave continuava a tremare.
” Franc&egrave…….che t’&egrave pigliate…………stai a tremà………… !”.
” M’ha fatte lassà i pantalune……… !”.
Lo guardai meglio e mi accorsi che, in effetti, il mio amico era seminudo dalla cintola in giù, ” valle a piglià no……. !”.
” Dicci……?”.
” Comm’ dicche……… ? “.
Avevamo già fatto una cinquantina di passi; mi voltai per tornare al basso della zoccola e, con la coda dell’occhio, vidi Franc&egrave che mi seguirva. Allora accelerai.
Dovemmo bussare, perche l’ebreo s’era tirato dietro la porta con troppa forza e il chiavistello era incastrato.
Dopo alcuni minuti, vedemmo una lampada accendersi di là dai vetri e sentimmo la voce della
donna, ” chi sì……. ?”.
Franc&egrave si stava trasformando in un ghiacciolo.
” I pantalune………sò Franc&egrave……….!”.
” Vinc&egrave nun ce sta………!”.
” I’ pantalune…….i pantalune……. ‘o sape”’.”, si lamentava adesso Franc&egrave.
” Spietta……..mo li cerche…….”.
Alla fine, poich&egrave la ” zoccola ” non si sentiva più e Franc&egrave si era fatto piccolo piccolo a ridosso del muretto, fui costretto a dare una spallata al battente. I pantaloni erano ancora ai piedi del letto dove Franc&egrave li aveva fatti cadere quel mattino; la donna non li aveva nemmeno cercati.
Li raccolsi e li andai a portare al mio amico, che si alzò e cominciò ad infilarli ma, intirizzito com’ era, dovette fermarsi con i pantaloni a mezza gamba; doveva però avere sette vite come i gatti, perch&egrave, appena indossatili, vidi comparirgli un lampo negli occhi.
” Vulimme sfruculià……. puro si nun ce sta ‘o figlie soie………..?”.
Finsi un gancio al mento e gli risposi,” te ne sì fatte doie, aggie viste ……..vatte a durmì””!”.
Franc&egrave mi aveva parato il pugno ridendo.
Solo a quel punto la zoccola si fece sentire, ” a’ vulite ammarrà sta’ porta……… iattevinn…… turnate quanne ce sta Vincenzine………. !”.
Franc&egrave era improvvisamente divenuto circospetto,” Lor&egrave……..!?”.
” Nun hai cchiù voglia e’ sfruculià……..eh”’?”.
La donna se ne stava coricata sul fianco, la guancia su di una mano; se non avesse parlato sarebbe parsa una statua di marmo, invece, ” vedi d’ammarà sta’ porta brutte fesse……..!”.
Non mi mossi; non avevo alcuna intenzione di farlo; le risposi invece, ” l’ammare l’ammare……. cierte che l’ammare…………..!”.
Non volevo contrariarla, non era mia intenzione.
Avevo notato sul letto la coperta di raso fine che prima non c’era; doveva averla tirata fuori in fretta e furia quando era entrato il giudeo, dimenticandosi poi di riporla.
La zoccola stava aguzzando gli occhi nella penombra, ” sìte surde…………..? Jattevinn”’.”.
Quella sua voce improvvisamente abbassata ad un sussurro mi aveva fatto venire in mente la notte in cui Franc&egrave e Vincenzine se l’erano dormita alla grossa, e lei s’era data a me senza alcuna riserva.
La desideravo enormemente, e ciò fece scattare in me lo stesso impulso di averla fuori da ogni regola.
Temendo però di essere buttato fuori, risposi la prima stronzata che mi venne in mente, ” aggie pavate già………a Vincenzì”’.!”.
Pensavo che mi sarebbe poi stato facile fare un’accordo con Vinc&egrave, data la sua proverbiale ingordigia.
Franc&egrave, a quel ” site surde ?”, invece, s’era messo ancor più a tremare, pure se ora era vestito. Era scappato via come una lepre, nonostante l’ avessi richiamato indietro col fischio.
Lui, il nostro amico, camminando quatto quatto dietro l’uomo con le spalle ricurve che non si fermava ed anzi, ad ogni gradinata accelerava il passo, era finalmente giunto a destinazione.
Il giudeo spalleggiava tutta la malavita del quartiere e non solo, ed era, a sua volta, spalleggiato dalla stessa.
Un giovane sui vent’anni circa, con una cicatrice lunga per tutta la guancia sinistra, la schiena e il piede destro appoggiati indolentemente al muro del cortile, assistette al breve colloquio fra lui e Vincenzine senza mai intervenire, guardandosi ora le punte delle scarpe, ora la punta del coltello con cui si stava pulendo le unghie.
Il ricettatore, per tutto il tragitto, non s’era degnato di una parola, ma una volta entrato nel lungo corridoio, aveva iniziato a parlargli così, ” ppe’ l’argiente che t’aggie pavate……!”.
Era un’ argenteria importante quella rubata quella famosa notte, tanto che Vincenzine, e pure noi, ci avevamo lasciato il cuore a vendergliela.
Ero stato addirittura io il primo a farne un accenno di scherzo, ” cierte che quase quase…………!”.
Il garzone dell’ebreo che aveva fatto capolino per salutare, ricevendo immediatamente un’ occhiataccia del padrone, conosceva molto bene il ragazzo; quel garzone, infatti, era il cugino di primo grado di Vincenzine, Ciro.
” Cire, chi se l’&egrave accattata a’ robba mia………stu’ cufenature…….. ?”.
Ciro era rimasto in forse, ma poich&egrave Vincenzine era una ” chiatta” e lui voleva avere mano libera con la zia, che ormai vedeva solamente di rado, glielo aveva sussurrato a malincuore.
” O’ Mmeriuse………… penze……. mo però aggie a parlà cco’ Marì…………..!”.
E Vincenzine, nonostante quella intimità non la sopportasse, nonostante il vederli insieme lo facesse quasi vomitare, li aveva lasciati soli non per un’ ora, ma per ben sei ore, andando a rimirarsi ciò di cui sia lui che noi eravamo rimasti così tanto incantati.
Peccato che qualcuno avesse visto ” ‘o guagliune cco’ ‘a pezzella ” saltare, appesantito da un grosso sacco sulle spalle, il muro di cinta del guappo che ” ‘a robba se l’era accattata “; ” o’ Mmeriuse “, per l’appunto.
” Na’ disgrazzia st’argient………….! Salvatò……………diccele puro tu a Vincenzine…………poi falle ascì”..!”, aveva sospirato il giudeo indicando il ladruncolo allo sfregiato la cui espressione, alla luce del lampione, mostrava un’indifferenza a tutto tondo e, all’amico nostro, nello stesso istante, i polsi avevano cominciato a tremare.
Poi il giudeo, chiamando a squarciagola Ciro, si era allontanato senza più interessarsi di quei due, e Vincenzì, il cuore più sollevato, aveva visto il guardaspalle riporre il coltello in una tasca ed incamminarsi verso il portone.
” Che t’aggia a dì Vincenzì…………mannaggia a te…………te sì fatte truvà cco’ larde ‘ncuolle………..? Vattenne”’.va”’..!”.
” Ie……….stu’ spaccimme………….!”, aveva sorriso il nostro compare, ed erano state le sue ultime parole prima che un’infernale gragnuola di pugni e calci gli piovesse addosso.
Lo stesso intercalare lo aveva ripetuto per due volte sua madre, ai piedi del letto, sul pavimento su cui, in quel momento, giacevamo stremati.
Mi aveva fatto godere che più non si poteva.
Un’ora prima le avevo lanciato il fazzoletto appallottolato sulla sua bella coperta rossa, ben sapendo che più di cinque soldi dentro non potevano esserci.
La donna aveva ansimato, aprendolo, ” o’ duppie eh…… hai ritt che pavave o’ duppie………e chiste che &egrave…………? Sò spicce chiste………..!”.
Stava sbarrando gli occhi davanti alla mia terza erezione.
Il sospetto che fossi venuto apposta, mentre Vincenzì non c’era, le era passato nella testa fin dall’inizio, ma se l’avesse presa di punta avrebbe dovuto rinunciare alla sua lussuria. Perciò aveva rimandato il chiarimento al giorno successivo.
” Vincenzì te tiene int’ ‘o core comm si te fosse frate………!”.
” Puro ie pp’e chiste…………….!”.”
” Però sì venute sole…………!”.
” Verament………..?!”.
Pensavo alla figura che avrei fatto se avessi detto la semplice verità, che ero tornato solo per i pantaloni di Franc&egrave, e così tacqui.
Marì stava rimirando la testa lucida del pene come se davanti ci avesse una reliquia, non gli staccava gli occhi di dosso.
” Quant’ anne tiene……….verament……….?”.
” Sìdece…………pecch&egrave………..?”, le risposi eccitato.
La zoccola aveva fatto scivolare la mano fino a metà corsa strozzandomi l’asta, così facendo diventare il glande ancor più gonfio di quel che fosse.
Lo rifece una seconda volta, divertendosi, mentre la guardavo con occhi adoranti.
” Che guarde sceme………….?”.
Fregandosene della risposta, Marì mi aveva invitato con un gesto a salire sul letto.
” O’ sape che”’.delinquent……….!”.
Dapprima mi aveva tenuto a distanza, frapponendo il braccio fra noi; mi fissava con quei suoi occhi strabici appena, e per questo misteriosi, come volesse perforarmi; prima di lasciarsi andare avrebbe voluto giocare ancora un pò.
” Te stai ammuttenn………….?”.
” Nonna dicce che m’aggie ammuzzà……… !”.
” Accussì dice……….pecch&egrave…………te la fotti………te fotti a’ vieccia………..?”.
Rise. I capelli le ricaddero fin quasi sulle reni, le natiche tremarono sulla coperta; tremolavano ancora quando, cosciente del loro potere, ella se le squarciò completamente.
” O’ butirre……………comm’ dicce Vincenzì…………te piace ‘o butirre………….?”.
Non c’era confronto, n&egrave poteva esserci, con nessun’altra.
Avvertivo l’afrore della spacca punteggiata di rosei coralli, e mi strussi.
Marì sentì la mia emozione, senza guardarmi.
” Famme comm na’ vàcca………….t’accide si rire………….!”.
Obbedii montandola come un toro, ma ella mi sfuggì con un urlo, ” sì pazze………….?”.
Un istante dopo, strisciava nuovamente sotto di me.
” Carezzame i zinne cco’ i mmane………..cacciame ‘a lingua in ta’ vocca primma……….. me vuoi sfunnà disgraziate………..? Voglie sta’ bbene puro ie………….!”.
Dopo essersi fatta straziare, ed essersi ripulita la schiena dal seme che colava come una fontana con la stessa coperta, Marì, esasperata da quella bestiale penetrazione alla pecorina, volle rifarlo, questa volta sul davanti.
” Dille……….te pozze chiavà Marì………pozze fotte ccu’ te……….ppe’ favore………..? Dille brutte fetent……. sì sputate a’ Vincenzì………false accussì……….pavate eh…………hai pavate………..? Stu’ cazze hai pavate……….!”.
” Te voglie bben……………!”.
” Statte zitt………….!”.
Dopo di che, con lo sguardo trasognato, smise di prendersi gioco di me ed iniziò a catturarmi la lingua scavandomi come ci avesse un cavaturaccioli, baciandomi sugli occhi, sul collo, sul petto; prese quindi a circondarmi la schiena e i fianchi come tenesse non due ma dieci gambe, slavandosi sempre più in viso.
” Ah che bell sarebb si v’avisse a tutt’ e’ doie………une arrete………..l’ate annanz……….sì ve putiss fott tutt’e’doie……….nun ascì……….nun ascì…………!”.
Godette insieme a me, impedendomi di uscire.
” M’hai scassate tutt’e’ quanta spantecate……….marò……….che ora avimme fatte……….? M’&egrave piaciute verament……….puro tu me sì piaciute………..!”.
Marì aveva ricominciato a carezzarmi.
” Nun te voglie spurpà…………ce vidimme dimmane………..va bbuone……….?”.
” Verament………… ie………..!”.
” Sì strutte………….figlie belle………..strutte………..!”.
” Strutte ie………..?”.
Meravigliata della mia resistenza, ridendo, la madre di Vincenzine era venuta a porsi su di me, sfidandomi.
” Mo sta vota ‘o tore ‘o faccie ie però…………!”.
Giocava con le labbra della vagina spingendosi avanti ed indietro, si strusciava venendosene, di tanto in tanto, a mettermi in bocca un capezzolo, a darmi la lingua.
” Te piaccene ‘i zizze e’ mammà……….? Vasale…………..suca allò…………brutte puorche………..!”.
D’un tratto, mi aveva lasciato per bere alla brocca di fianco al tavolino, gli occhi dilatati su quel cazzo spasmodicamente teso sull’ombelico.
” Quant’&egrave bell………….bell comm a te…………..!”, aveva poi detto.
Quindi era venuta a rimontarmi, mantenendo uno dei piedi sul pavimento per darsi più forza.
Tenendomi ferma l’anca con la mano sinistra, con tre dita dell’altra si era scoperchiata il clitoride e mi era salita sopra, facendomi ammirare la vulva che sembrava muoversi di vita propria.
Mi aveva montato facendo lei il toro come promesso, schiacciandomi le spalle sul materasso, impedendomi ogni iniziativa; la fronte, le ascelle pregni di sudore, sturbandosi, facendo risuonare la vagina come una trombetta, finch&egrave non mi era caduta sul petto sfatta, con le labbra tenerissime, la lingua un confetto tanto era dolce, amorosa e tremante.
” Ah………..mmmhhh………….brave………vasame Lor&egrave…………sì proprie bell””.!”.
L’alito che mi stava offrendo sapeva, da tempo, del suo sesso.
” Mo me tire cchiù annanz………….’a fessa nun surca a’ nisciune……….alliccame”..allicca belle………….!”.
Ed io l’avevo accontentata, ” alliccandola ” come voleva lei.
” Vincenzine se ne pò turnà…………mo te ne devi annà…………vattenn…………..dimane………….!”.
Perciò ero andato via tranquillo che anche lei fosse pazzamente innamorata, come lo ero io.
Vinc&egrave, il suo Vinc&egrave, era tornato di lì ad una mezz’ora, buttandosi sul materasso senza spogliarsi. La zoccola non aveva più alcuna voglia di allungare le mani su di lui, ma l’affetto &egrave un’ altra cosa.
” Cumm &egrave annata……….?”.
Vincenzine stava sprizzando paura da ogni poro.
Sbuffando per le vampate di calore che la stavano assalendo, la madre cercò di liberarsi della coperta e, nel contempo, di trovargli il membro; era il modo migliore per tranquillizzarlo.
” Cumm &egrave annata……….?”.
” Azz…………!”.
Doveva calmarsi e calmarlo.
” Nun la ammarra mai nisciune sta’ porta……..!”, sbuffò la zoccola, andando verso di essa.
Vinc&egrave aveva finalmente risposto, pur se con una secca bestemmia, ed ella si chinò nuovamente accanto a lui.
” Che &egrave success………..l’ abbree……… che ha ritt………..?”.
Avrebbe dato l’anima, per saperlo, ” dille a mammà…………. che ha ritte l’abbree……….?”.
Vincenzì cercava spasmodicamente una risposta, il labbro leporino oscenamente dischiuso sulle gengive, alcune ormai scavate fino alla radice.
” T’ intenn sole e’ cazz tu……….l’abbree……….fancule……….!”.
Pochi centimetri in avanti, per stilettargli il prepuzio, pochi centimetri per arrivare a ciò che stava attanagliando la mente del figlio.
” Marò quant’&egrave belle gross………….!”, mentì Marì, spudoratamente.
Onde alleviargli ogni apprensione, mammà gli stilettò il minuscolo forellino, quindi scese a mordicchiargli le palle.
Il figlio aveva cominciato a succhiarle distrattamente una zinna come un poppante, senza grazia alcuna, la ” scumma ” agli angoli delle labbra, e Marì cercò di non curarsi dello schifo che la prendeva ogni volta per quella bava giallastra, n&egrave che quella sera, a Vincenzì, non gli si drizzasse.
Pensava invece che vita grama sarebbe stata la sua, senza di lui.
Improvvisamente, la fronte della zoccola s’ era corrucciata.
” L’argient……….se l’&egrave pigliate………ce steva Cire”’?”.
” Eh………..?”.
” L’argient…………..se l’&egrave pigliate…………?”.
Vincenzì si stava tirando sù, ” zuca Gerà………..zuca………..!”.
I nonni materni di Vincenzine proprio così avevano chiamato la loro quarta figlia, avuta sei anni prima di partirsi da una landa sperduta della Lucania, per approdare a Napoli.
Il loro primogenito, precedutili sul posto, sulle prime li avrebbe ospitati per dare loro il tempo di trovarsi un basso.
La donna, cui Vincenzì con quell’invocazione aveva ricordato il proprio nome di battesimo, stava abbassando il capo, celando il fastidio. Continuava a leccarlo, Marì, e le veniva in mente il passato.
Le altre due sorelle più grandi, già maritate, erano rimaste sulle montagne con le loro famiglie, ed ella non sapeva neppure se, a tutt’oggi, fossero ancora vive.
Non le aveva più viste, n&egrave sentite.
Un anno dopo essere arrivata nella città c’era stata la morte da parto della madre; così s’era presa cura lei, al suo posto, del padre e della sorellina appena nata.
Poi, alla morte della cognata, che s’era portata con s&egrave anche la creatura che aveva in grembo, s’era pure presa cura del fratello maggiore e del loro figlio maschio, Ciro.
Quando era rimasta incinta a sua volta, anni dopo, quei due, che nel frattempo avevano fatto a gara a spartirsela, sentendosi dinonorati dall’inattesa gravidanza, avevano cominciato a picchiarla senza alcuna ragione o pretesto che fosse.
Non se l’aspettava veramente, Gerà, l’ingratitudine dei suoi congiunti più stretti; ricordava pure quanto avesse pianto perché Vito, suo fratello, non avesse a far venire la ” mammana “.
Fortuna aveva voluto che, una volta chiamata, la vecchia fosse arrivata mentre quelle due bestie erano assenti
E Gerarda tanto aveva fatto, tanto aveva pianto, che questa l’aveva risparmiata.
” Fammece parlà a mme però……….muta”’!”.
Così, non solo la piccola Gerarda si era salvata da una quanto mai probabile morte per setticemia, ma la vecchia, in seguito, aveva proposto di prenderla al proprio servizio.
” A tenghe ie sta’ zucculella………….accussì facimm pari e patta…………cierte………..finch&egrave nun ha a sgravidà…………!”.
Gerà non si era potuta sottrarre, però, ai doveri familiari suoi propri; il che voleva dire continuare a lavare, spazzare, a tenere i bambini, e a sollazzare quei due quando gliene veniva voglia.
Il fratello maggiore, poi, si era riaccompagnato. ed il padre, col suo beneplacito, aveva preso ad approfittare, perché solo, del nuovo arrivo: una lucana come loro, tra i venti e i trent’anni, gelosa come una capra, molto più in carne di Gerà.
I suoi non erano, fino ad allora, riusciti a sposarla in quanto, cadendo dalla groppa di un asino da bimba, si era rotta ambedue le caviglie, e queste si erano malamente rinsaldate.
Sicch&egrave ella camminava, certo, ma sbilenca.
Essendo storpia, appena entrata nel basso, aveva chiarito subito: non voleva concorrenti attorno; nessuna che potesse mettere in forse il suo ruolo.
Cogliendo l’occasione, la ” mammana ” s’era presa con s&egrave Gerarda, definitivamente, cambiandole addirittura nome, dandole il primo che le era venuto in mente, il più semplice di tutti: Maria.
Quello era il nome femminile per antonomasia, non ostico come il primo, e alla bambina, ormai integrata, fra l’altro piacque molto di più dell’originale.
Conclusa la breve trattativa la vecchia aveva poi immediatamente iniziato Marì al mestiere con cui effettivamente campava, nonostante la ragazzina fosse già avanti di sedici settimane
Per tener buone le pretese del padre e del fratello, la mammana aveva comunque dovuto promettere loro qualche ” extra “.
Ma questo a Marì non aveva pesato, poich&egrave le loro visite erano ormai veramente sporadiche.
Continuavano a pesarle, invece, gli insulti dei due energumeni, mentre lei si dava da fare per accontentarli in tutto e per tutto.
Se fosse rimasta lassù sulle montagne, ridacchiava il padre tirando la maglia al figlio per prenderne il posto fra le ginocchia sbucciate della ragazzina, oltre alla loro avrebbe dovuto succhiare la ” minchia ” a qualche schifoso pastore, magari ancora sporca di qualche residuo pecoreccio.
Quindi che non si lamentasse, concludeva inchiodandosi in mezzo alle sue gambe con un ghigno da scimmione; suo figlio sarebbe sempre stato un bastardo.
Fu in uno di quei particolari momenti che Marì si ancorò ad una certezza, per sopravvivere: che nessuno, mai, sarebbe riuscito a staccarla da chi le si stava muovendo in grembo.
Sarebbero stati, sempre, un’unica persona: ” ie e isse………….ie e isse”’sulament………..!”.
Aspettò, quindi, per tutto il tempo che le rimaneva, quel figlio come si aspetta un salvatore.
L’uccello, rosa delicato come una cotenna le stava già ballonzolando davanti alle narici, senza diventare duro.
” Pecch&egrave nun surchie………….?” .
Marì arricciò il naso; mai che, almeno lui, lo ripulisse da quella putrida morcia giallognola sotto il glande, micidiale anche per il suo odorato.
E si che gli si era raccomandata centinaia di volte, ormai.
” Cazze ……..si lo faccie ie…………lavate puro tu…………!”.
” Tu pecch&egrave sì zoccola………….ppe’ forza te devi da lavà…………!”.
Vincenzì la stava tirando dolcemente per le orecchie, ” falle bbuone stu’ bocchine cacciutti&egrave………..falle bbuone…………!”.
Pur preoccupata, Marì rise ugualmente.
Come la teneva allegra Vincenzine con le sue battute, non la teneva nessuno. Ma guarda cosa si era andato ad inventare : ” cacciutti&egrave “, che buffo nome !
” Nun me tirà ppe’ recchie……..t’ o’ faccie bbuone si………….nun me tirà però……….!”.
A quell’altro non voleva pensarci; ” puro che avrebbe pavate o’ duppie m’ ha ritte………….!”.
Marì cercò quindi di concentrarsi sull’uccellotto del figlio; provò ad aiutarlo velocizzando le dita come un colibrì, sfiorandone continuamente il prepuzio con la lingua. Lo avrebbe voluto già duro e pronto, ma non succedeva nulla.
Marì si chiedeva cosa le stesse accadendo; davanti agli occhi aveva sempre quello, Lor&egrave, o, meglio, la sua spanna abbondante.
Scosse il pene del suo ragazzo quasi lo volesse sradicare e “Vincenzine o’ muoccole “, con due palle d’occhi così, cercò di tirarsi via.
” Scemma…………..!”.
A Marì, a vedere che il figlio non si decideva, stavano venendo le lacrime agli occhi.
Gli avrebbe voluto buttare in faccia gli orgasmi multipli provati appena alcune ore prima, ma si trattenne.
Sputò fuori, invece, tutto il rancore perch&egrave si era fatto fregare, ” te sì fatte fotte puro l’argiente scimmunite……. e tu si nate a’ mme……….. ? No……..tu si fesse……..bburiuse……….!”.
Istintivamente, aveva fatto seguire alle parole un ceffone.
Il dolore, e insieme lo sfogo della madre, insperatamente avevano ottenuto l’effetto: di far drizzare le orecchie a Vincenzì come a un cane di razza, e non solo quelle.
Scosso da una scarica epilettica, il figlio aveva iniziato a dimenarsi eccitandosi; in un solo colpo, stava riempiendo la mano e la bocca a mammà come mai era successo prima.
Alla zoccola, già accortasi che nel figlio, quella notte, qualcosa non andava, era quasi preso un colpo. Cercò di farglielo capire come meglio poteva.
” Mmhh………..ffhh…………..accussì dure………..che bell…………..mmhh……….!”.
Confondendo i propri pensieri con quegli inconsulti bofonchii Vincenzine, mentre lei cercava di non farlo uscire di bocca, si produceva in un enorme sforzo mnemonico.
” Bburiuse…………bburiuse”’.? “.
Continuava, Vincenzì, con grande soddisfazione della donna, a crescere e a parlarle, ” Marì……..si &egrave bbuone stu’ bucchine…………comm”.. pecch&egrave bburiuse………..?”.
” Faccie tutte ie…………statte ferme………..mmhh……………..nun ascì mò…………nun ascì………..guluse……….bbuone………….comm sì bbuone………!”.
” Che m’arrecuorda…………che…………?”, continuava a dirsi Vincenzì.
Dopo circa una mezz’ora, Marì cercò, con il lenzuolo, di togliersi dai capelli tutta la sua zacchera.
Vide così, alla luce della lampada che aveva smesso di far fumo, il polso bitorzoluto, i muscoli arricciati, la mano bluastra, e la paura prese il posto del languore.
Si spaventò ancor di più quando le parole del figlio le echeggiarono nelle orecchie come un battacchio a morto.
” Ce lo putiva dì isse sole a ‘o Mmuriuse………ecche chi ha parlate………..Cire………uomme e’ merd…………! “.
Se c’era un’ altra persona cui Marì si sentisse legata, questi era il nipote, che non aveva mai smesso di considerare come un figlio.
Una volta medicato Vincenzine, Marì aspettò di fianco a lui che si addormentasse, carezzandogli lentamente le tempie.
Sentiva, impellente, la voglia di ripulirsi una volta per tutte della lordura che aveva dentro, per potere tornare quella di una volta.
Mentre il figlio dormiva, si sorprese a parlare con s&egrave stessa, la voce dura.
” Gerà……. zoccola e ‘ncora zoccola………..viste cumm l’hanne cumbinate………..?”.
Per uscirne, doveva tornare ad occuparsi solo di lui, di Vincenzì.
Dopo alcune ore di sonno, il figlio si scosse; conoscendo bene la madre le bofonchiò in un orecchio, ” m’hai accise……….o’ meglie bucchine d’ a vita mia……….!”.
Era tutto ciò che la donna voleva sentirsi dire.
” Sì cuntent……….t’aggie fatt cuntent…………?”.
Quella notte, particolarmente, Marì sentì il bisogno di tanto affetto.
Prese ad accarezzare il figlio; aveva gli occhi intelligenti e dolci come i suoi, peccato quelle labbra rovinate dal forcipe. Parlava con lui come se ce l’avesse ancora nella pancia, ” ce lo vuoi nu’ poche e bbene a mammà………..?”.
Lo baciò sulla bocca senza guardargliela troppo di fino, e scese a baciargli il petto e l’ombelico; il tutto con una enorme tenerezzza.
Mentre Vincenzì si predisponeva a quella goduria allungando le braccia e le gambe, ella andò ad inanellargli un alluce con i capelli, continuando a giocare con la lingua sulle sue caviglie, finché non lo sentì teso e duro.
” Sò tutta n’ fusa……..!”, gli sussurrò allora, rapita dalla sua nuova erezione, e dovette socchiudere gli occhi per il desiderio cocente di una lingua altrettanto carezzevole quanto la sua.
Non chiedeva altro, Marì, che di essere leccata, amata.
Si offrì allora retrocedendo, ponendogli le cosce sul viso, poggiandogli il pelo sulla bocca,
” ‘ncacciala rent sta’ lenguazza bella………….’ncacciala tutta rent……….allicca……………..!”.
A Vincenzì aveva cominciato a colargli il moccolo, non ce la faceva quasi più a respirare.
Non era tanto il misto di umori e sudore a respingerlo, non tanto i peli puntuti con cui la madre gli stava tappando le narici, quanto quel suo delirio di sopraffazione.
Per sfuggirle, egli si divincolò dalla presa che si stava chiudendo a tenaglia.
Che pretendeva da lui, Marì, lo stesso trattamento fattole da Ciro, da quei vecchi schifosi ?
” Famme chiavà…………voglie chiavà ie……….!”.
Marì lo accarezzava sulla testa ricciuta, stordita; quanto sapeva essere più comprensivo Ciro, il nipote.
” Zì……….. che &egrave stu’ settantott……….?”.
” Fesse………sessantanòve ………ma comm’l’hai m’parate………? “.
” Va bbuò……….settantott…………sessantanòve………….che m’amporta”..!”.
” M’hai a’ alliccà, a surchià comm’ e quann ‘o faccie ie…………!”.
” T’ aggia a’ fa ‘o bucchine pur’ a te…………?”.
” Scemme………….ci hai a mette a lingua rent……….chiste si……….te fa schife che m’hai a alliccà………..a surchià………..?”.
Marì gli si era messa cavalcioni, il sesso spaparanzato sul suo petto, solleticandogli contemporaneamente il viso e i capelli con le tette e con la lingua, fino a fargli tirar fuori la sua; dopo qualche istante, spostatasi più sù, aveva passato ambedue le mani dietro ad allargarsi quanto più poteva. Le avrebbe dato delle enormi soddisfazioni quel ragazzo, pronto d’ingegno com’era.
” Va bbuone accussì zì…………..?”.
” Pare na cerasa vere…………? T’ampare subbete tu………….spietta………che me mett longa puro ie………..!”.
Si era impegnata a rallentare quel sessantanove il più possibile, Marì, perch&egrave il nipote imparava svelto, smettendo, per una volta tanto, quel suo vezzo di sorvegliare la sveglia che lo stesso Ciro le aveva regalato.
” Venghe……….. zì…………venghe………..!”.
” Me mett ‘ncoppa…………spietta…………!”.
Mentre cercava di rivoltarglisi sopra, Ciro l’aveva fermata, ” no”’.m’hai a scialà ‘nta vocca”’!”.
” Brave………….accussì””!”.
” Accussì zì…………?”.
In quel momento, la zia aveva cominciato a tremare come un gattino; aggrappatasi all’asta di Ciro con tutte e dieci le dita, risucchiandolo come una ventosa, non avrebbe saputo più cosa rispondergli.
In mancanza di parole, colava tutto quanto poteva nella bocca del nipote, che testardamente continuava a tormentarla, a tratti irrigidendo la lingua dentro, come Marì gli aveva insegnato poco prima.
Poi, di lì a quattro anni circa, Vincenzine era diventato uomo, ed allora la madre non aveva più avuto occhi che per lui.
” Cire………….me vergogne mo…………Vincenzì……….chille ce varda………sta attient………!”.
” E tu falle smammà……….!”.
” Eh………..fusse semprice accussì……….&egrave n’omm oramaje…………!”.
Così, a malincuore, il nipote era stato costretto a diradare di molto le sue visite.
Poi, un bel pomeriggio, Marì aveva riscontrato evidenti chiazze sul tessuto del divanetto e, a notte fonda, aveva avvertito Vinc&egrave masturbarsi.
” Vincenzì…………che vai vacienn…………?”.
” Nient………..!”.
” Comm nient……….?”.
Vincenzì era ormai giunto al termine, e Marì aveva dovuto ascoltare, con senso di fastidio, il suo gemito strozzato.
” Te fa mmale…………ce stanne i femmene ppe’ chiste……….!”.
Il figlio, in luogo di starla a sentire, aveva continuato a masturbarsi in modo sempre più assiduo; finch&egrave s’era messo finalmente con Antoni&egrave e, lì, Marì aveva cominciato a vedere i sorci verdi.
Era arrivata che non ce la faceva più, a vederli rugolarsi tutto il pomeriggio sul divano e, per di più, le davano fastidio coi clienti.
” O voglie libbere…………ha da venì une………..!”.
La ragazzina ci teneva a rimanere illibata, almeno fintanto che non si fosse fidanzata ufficialmente.
” Addò ce mittimm’ allò…………?”, ella aveva chiesto infastidita a Vincenzine.
Marì fingeva di continuare nei suoi pisolini pomeridiani.
” E issa………..addò a’ mittimm’ issa………..? A’ voglie fora…………ma che………pazziamm………. fora…………a’ voglie fora………..sinnò ie………….!”.
Quelle stesse frasi, Marì le aveva già ascoltate quando aveva l’età di quella sgualdrinella, nel basso di papà, e ne aveva gioito.
Ora le procuravano un dolore da impazzirne.
Le ci volle poco a bloccare letteralmente la mano del figlio, un fine settimana di crisi, fra quei due.
” Ah………….basta che ‘a sciacquetta ppe’ nu juorne nun ce sta………….!”.
” Fottete………….!”.
” Ha lassate ‘a pisciazza soia puro accà…………int ‘o’lett mie………..siente che fiete……….!”.
” Te sta ‘ncopp ‘o cazz eh…………..?”.
” Ie nun vede e nun sient…………però……….!”.
” Nun te piace…………….!”.
” Na perucchiusa………… nun &egrave ppe’ tte……….!”.
” E chi &egrave ppe’ mme…………..te………..?”.
” Una che te vò bbene verament………..!”.
Marì lo sapeva cosa poteva dire voler bene veramente.
Vincenzì, a sentire quei discorsi della madre, era entrato ancor più in crisi
Aveva ripreso a spugnettarsi nonostante Antonietta, la settimana dopo, si fosse fatta convincere a tornare. L’ albina, adesso, lo stava mettendo alle strette.
” Sta ‘ncora qua………..? Mò ce sta puro Tonine che sta a fà ‘o stuppede…………!”.
” T’accide………..ie…………….!”.
” Provace……………Tonine &egrave ‘o duppie e te………….isse si che &egrave n’omme………..m’ha ritte che tiene ‘o basse sole ppe’ s&egrave………..!”.
” Pecch&egrave………….ie no…………?”.
” Ie te voie bbene ma…………!”.
Quel ” ma ” lo aveva affossato, a Vincenzì; mammà lo aveva dovuto raccogliere da terra.
Esattamente tre settimane dopo, Antoni&egrave si dava, appassionatamente, al figlio del bottegaio nella piazzetta, irridendo insieme a lui il suo vecchio spasimante.
Pure Marì, però, non se n’era stata con le mani in mano.
” Te sta comm’ nu vestite nuove belle mie………..!”.
” Fottete…………!”.
” T”o’ dicive ie………..ce sta femmena e femmena………….!”.
” Sta zoccola…………!”.
” T”o’ dicive ie…………!”.
Intanto, s’era fatta l’ora della merenda.
” Piglia o’ pane Vinc&egrave…………’o sale sta là………..!”.
Il primo dei clienti di quel giorno, essendo maggio, dal suo orticello aveva portato qualche fava fresca ed un formaggetto.
S’erano messi a sbocconcellarli sul letto.
Marì, da sempre una buongustaia, non avrebbe mai rinunciato ad una merenda talmente sfiziosa; fra lei e il figlio, se ne stava partendo quasi una bottiglia di vino.
Le era venuto istintivo, vedendo muoversi qualcosa nel figlio” che”.te sì abbuscate………….?”.
La reazione di Vincenzì al pecorino e al vino, ed al fatto che mammà se ne stesse bellamente in mutande, infatti, non si era fatta attendere.
I giovani come lui, per Marì, avevano qualcosa di speciale: li poteva plasmare a modo suo, come aveva fatto con Isaac.
” Ma”’. cco’ Antoni&egrave…………’nsomma…………..nun l’hai mai fatte………..?”.
” L’avimm fatte si………….na vota……….!”, aveva tentato Vinc&egrave per non apparire stupido.
Marì aveva riso.
” Nun ce cree………………pò esse che magare t’o pigliava ‘n mmane………….!”.
” L’ha pigliate puro n’vocca si &egrave ppe’ chiste………….magare l’ha sputate………..!”.
” T’ha fatte ‘o bucchine…………..Antoni&egrave………….? Nun ce cree…………!”.
” Cierte che si………….!”.
Convinta che Vincenzì si facesse beffe di lei raccontandole una balla, sfidata, la zoccola lo aveva messo immediatamente alla prova.
” Sole che……….. si ha sputate………….nun te vuliva bbene………….’o saccie ppe’ sicure chiste………..!”.
Per quella giornata aveva guadagnato abbastanza Marì; poteva permettersi di chiudere la porta e starsene a parlare con il figlio.
” Ce mittimm’ accà……….frische frische………..e parlamm…………quant’&egrave che nun parlamme…………..o vuoi addurmì…………?”.
” Ma che addurmì e addurmì…………!”.
” Allò…………ne tieni n’ata…………..?”.
” O vedi quante sò dure mò………….? Pecch&egrave sto a suffrì………!”.
” Va bbuone………..&egrave………..dure ………….ma pecch&egrave stai a suffrì…………..ce ne stanne mò………….!”.
” Sò meglie e’ toie però………..e’ zizze”’..!”.
” Chiste &egrave sicure…………..!”.
Marì si sentiva più sollevata, in quel momento; Vincenzì stava cominciando a vedere le cose nel modo giusto.
” Pure ‘i cosce toie sò meglie che Antoni&egrave………..!”.
” Cierte………….!”.
” Si mme spoglie parlamme cchiù spassuse………..!”.
” Spassuse………..? Ie sò ià spugliata…………!”.
” Vuoi parlà o no………….?”.
” Cierte che voglie parlà…………che vade facienn…………?”.
” ‘Ntoni&egrave o faciva…………de tuccamme………….!”.
Marì, non senza un certo imbarazzo, aveva preso fra le proprie mani il viso del figlio e gliel’aveva baciato, trattenendogli le labbra sulla fronte.
” Sì frisca………….!”, aveva allora esclamato il ragazzo, liberandosi della stretta per andare ad affondarle il viso nel collo.
” Tu sì caude……………..!”.
” ‘ Mò mme spoglie…………!”.
A quel punto, Marì non era più stata capace di fermarsi. Era discesa con la mano ad accarezzarlo, lo aveva sentito bello duro come lui diceva e glielo aveva tirato fuori ma, prima ancora di pensare a sé stessa, ne aveva dovuto raccogliere i fremiti nel palmo.
” Sì venute………..già………….?”.
” Viste quante………..che spaccimm……………?”.
” T”o’ dò ie ‘o spaccimm’…………..disgraziate………….!”.
” Pecch&egrave………..ch ‘aggia fatte………..?”.
” Ma comm’…………..ciuccie…………!”.
Convinta che quell’abbraccio non le stesse pesando, che il pomeriggio si stesse rivelando più
” spassuse ” di quanto avesse pensato, che più somaro di così non si poteva, Marì aveva quindi preso su di s&egrave l’incarico di insegnare pure al figlio.
” Ppe’ forza t’ ha lassate………….ciuccie…………mò stamm’ a sintì………..!”.
Erano andati avanti fino a tarda sera, quando la madre aveva portato sul letto l’ ultimo spuntino.
” Jamm””.annanz………..!”.
Vincenzì l’aveva una cosa buona: i suoi anni.
Non era mai riuscita Marì, però, ad insegnargli ad essere paziente come lei stessa.
Anche adesso, il suo Vinci&egrave si stava alzando con una maschera di disgusto dipinta sul viso.
” Sò n’omme ie…………voglie chiavà…………..quante volte l’aggie a dì………….?”.
L’unico vero amore della sua vita le stava spalancando le ginocchia come fossero i battenti di una finestra, la spingeva sul materasso con violenza, convinto com’era che era lui a dover star sopra.
Eppure, Marì non era una che si disperasse tanto facilmente.
A mattino avanzato, Vincenzì trovò accanto a s&egrave una tazza di caffelatte fumante ed un cartoccio con quattro brioscie ancora tiepide.
Lui e mammà fecero colazione a letto, che ella, per sbocconcellarne una con lui, si era di nuovo spogliata rituffandosi fra le lenzuola.
Non appena il figlio ebbe finito di ingozzarsi, ella cominciò a parlargli lentamente, ” famme ved&egrave stu’ vraccie………..!”.
L’avambraccio era molto gonfio; i muscoli della mano, però, supportati dalla stecca di legno messa la notte, non stavano più aggrappati al polso come prima.
Nonostante Vincenzì recalcitrasse, la zoccola, dopo averglielo liberato, gli aveva immerso il braccio nell’acqua gelida del secchio.
Poi, senza ascoltare i suoi lamenti, aveva fissato ben stretta l’asticella.
” Te sò piaciute i briosce e’ mammà………..?”.
Era così calda la sua voce, così umide le sue labbra sulla fronte, così zuppe le sue mutande là dove vi spiccava il taglio, che Vincenzì, con un groppo in gola, si ritrovò a desiderare Marì.
” Mettece ‘i mmane…….!”, gli ingiunse lei, ” sò zuppa…………chiavame cco’ ‘i mane…………..!”.
” Mà………..’i mmane”’cazze………..!”.
Vincenzine gridava, strappandola da sè ella non capiva.
” N’ficcale…………!”.
” ‘I mmane………cazze………….smiett…………!”.
Marì si era accorta, finalmente, di avergli afferrato la mano sbagliata, ma ormai era tardi; Vincenzì s’era ammosciato e si stava velocemente allontanando.
” Zoccola………..!”.
La donna sperava ancora di persuaderlo, stillando le sue parole come gocce di miele.
” L’abbree…………ma cco’ cazze che…………! “.
Determinata a perseguire la propria e la sua salvezza, Marì ricominciò a spingersi in avanti: sarebbe stato un capolavoro di saggezza e di strategia, il suo.
” Quase m’ assevuliva……….!”.
” T’assevuliva ……. chi…………?”.
Mammà serpeggiò il braccio sinistro verso il soffitto dandogli la massima estensione, quindi, con l’altra mano, vi batt&egrave proprio nell’incavo facendo impennare ancor di più quell’estensione nell’aria.
” M’assevuliva quase…………..!”.
Vincenzine provò una fitta al cuore, come l’aveva provata con Ciro,” e mò………. che vuoi dì mò………?”.
Nel vederlo improvvisamente fragile, Marì dovette farsi forza. Continuò a giocare con lui come il gatto con il topo ma, in quel momento, pensava solo al figlio.
Gli baciò il membro con la massima dolcezza.
” Nun ce penzà…………ce sò ie qua…………si Cire t’ha tradite ce pienze ie………….si t’ha tradite ‘o Malament ce pienze sempre ie”’.!”.
” Cire……..sempre Cire…………ce l’ ha ritte isse a ‘o Mmuriuse……….che crei…………che c’entra ‘o Malament…………viste che m’ha cumbinate stu’ scurnacchiate do’ nipote toie………..stu’ fetent………..?”.
Si stava muovendo tanto sapiententemente la lingua di lei, nel suo orecchio, era tanto leggera la mano che lo masturbava, che il papponcino cedette.
Dall’orefizio, cominciava a sgorgargli una perla biancastra.
Marì, che aspettava solo quel momento, ne approfittò per prendersi ciò che voleva: sormontò Vincenzine e gli calò la vulva sul viso.
Si voltò a guardare la sveglia che stava trillando, la sveglia con cui Ciro si era presentato per la prima volta nel basso. Non le era piaciuto subito, quel ragazzo.
” E tu chi sì…………?”.
” Cire…………….!”.
” Cire chi……………?”.
” O’ figlie e’ Vite………….!”.
” Mo me chiamme Marì………….piacere”’..!”.
Vincenzine, di parecchi anni più piccolo rispetto al cugino, giocava sugli scalini.
” Me sò permess…………..aggie purtate na’ cosa puro ppo’ guagliune……………!”.
” Vincenzì…………..varda chiste che t’ha purtate …………..!”.
Vincenzì guardò la scatola che il ragazzo gli porgeva e non si interessò più d’altro.
” Che &egrave………….na’ pistola……….?”.
” ‘ Ntelligent o’ guagliò…………bum bum…………..no &egrave nu’ fucile…………..nun vuoi sparà…………?”.
Marì ripensava ancora a quante scopate erano seguite, alle risate che si era fatta, perch&egrave Ciro, il nipote, una volta accettato, si era dimostrato veramente uno spasso.
” E’ vere zì che m’avite date ‘o latte vostre…………?”.
” No……….chiste no…………però bastunate assaie……….pecch&egrave me varde…………?”.
” E stu’ belle guagliune…………? E’ sputate a mamma soia…………!”.
” Eh………..chiste &egrave Vincenzì…………belle eh………….?”.
” ‘O marite vostre addò sta…………?”.
” Ihhhhh………..quante ccose vuoi sap&egrave……….&egrave muorte………..!”.
” Papà puro………..dateme ‘i mane zì……………simme sole”’!”.
Marì, cautamente, gli aveva messo le mani fra le sue.
” Che ce vuoi fa cco’ ‘i mmane………..?”.
” E’ voglie vasà…………ce piaccene e’ sfugliatelle a ‘o guagliò……….?”.
” Piense………..che ne saccie…………..?”.
” Cco’ sti’ sorde quanne se ne pò accattà…………..?”.
” Che ne saccie ie…………….? Però accussì o’ fai allupà………..!”.
” Allupà………..? Bbona chista…………!”.
E Ciro, così dicendo, aveva deposto la manciata di monetine nelle mani della zia, per le sfogliatelle del cuginetto.
” Vattele accattà………..Vincenzì………..!”.
” Aspiette une mò………….grazie ppa’ tutt’e cose ma………….si vuoi turnà me fai sole che piacere…………n’ata vota però…………!”.
” Mò che v’aggie truvate………….sò cuntent……….allò tuorne n’ata vota………..!”.
Anche Marì era felice che una ventata di giovinezza avesse bussato alla sua porta.
” Allò tuorne…………. cco’ e’ sfugliatelle…………!”.
” Tuorna……….. che te prepare ‘o caff&egrave…………..!”.
E Ciro era passato per la seconda volta, il venerdi a mezza mattinata.
” Quant’ &egrave bell stu’ guagliò…………v’aggie purtate e’ sfugliatell………..!”.
Le veniva da ridere, al ricordo dell’enorme vassoio di paste, pure se Vincenzì, in quel momento, stava mordendole una spalla come un cane affamato.
L’aveva fatto sbavare per più di due settimane, quel nipotino, e il giorno che gli aveva permesso due carezze, là sul divanetto, se n’era venuto dentro i pantaloni senza nemmeno riuscire a slacciarseli.
Era un gran bel giovane, Ciro: viso squadrato come il nonno, la parlantina sciolta, sempre pronto all’erezione come può esserlo un sedicenne.
Di statura media, ma i muscoli tirati come le corde di un violino, il cazzo sempre incollato al ventre.
” Ma comm’ hai fatte a truvacce………….?”.
Non le aveva mai detto, Ciro, che accompagnava da lei il proprio padrone, rimanendosene poi ad aspettarlo alla dovuta distanza.
Gli si era affezionata man mano, dopo quella volta; sperava solo che non l’avessero fatto soffrire troppo, quel povero ragazzo, pure lui sangue del suo sangue.
Così era cominciato l’ ultimo colloquio fra Maria ed Isaac, il giorno che ci avevano cacciato fuori dalla stanza.
” Prepare ‘o lett………..?”.
” Me vogliene fa passà ppe’ fesse………..!”.
” Chi…………?”.
” L’argient…………..se sò rubbate stu’ cazz d’argient………….!”.
” Ma chi…………?”.
” Quarcune l’ha a’ pavà………..no…………..nun preparà”’.sò venute accussì…………!”.
Marì si era resa conto, in quel momento, che erano soli in questo mondo di merda, sempre più soli, lei e il suo Vinc&egrave.
” Pecch&egrave sì venute allò…………?”.
Mentre glielo chiedeva, si stava spegnendo la voce in gola, a Marì.
Isaac stava guardando fisso Vincenzì, là fuori dalla porta.
” A’ pezzella………..sta’ chiaveca…………!”.
” Che &egrave………….che guarde………..?”.
” E’ state isse………….a’ pezzella”’!”.
” Isse chi………….?”.
” Mò &egrave grand e gruosse………..stu’ fetent…………!”.
” Sarà state n’ate”.! Che &egrave sta pezzella”’.?”.
” Pure e’ chiste duvimme parlà…………!”.
” M’hai a passà ‘ncoppa si pienze…………!”.
” Fammele arripurtà arrete………….subbete””!”.
Quando poi l’ebreo aveva fatto l’atto di togliere il disturbo, Marì era corsa alla porta per sussurrargli un’ultima volta, ” chi ………..e chi gliel’avrebbe ritt……….?”.
O’ dicivene ca’ ce futtivi………..!”, gli aveva allora buttato là lui, per tutta risposta.
” C’hai lasciate sole comm ‘i cane………..peggie””ce venghe ie a casa toia…………ce voglie parlà ie cco’ a’ mujiera toia…………!”, l’aveva ammonito allora Marì.
” Bada………..fammele arripurtà stu’ cazze d’argient…………..e subbete………..!”.
Fesso era e fesso era rimasto Isaac, e poi era giudeo.
” Nun me l’hai a tuccà o’ figlie mie………..pigliate a’ mme chiuttoste…………ma isse nun l’hai a tuccà………..t’accide se………..!”.
” Quarcune ha a’ pavà………..e forse cchiù d’une…………stò figlie toie………..lassale venì ccu’ mme mò………….!”.
” Pure figlie a te &egrave””..!”, aveva allora detto Marì, sbattendo le ciglia.
” Ammore mie…………. accussì………brave…………allicca……….suca……….. suca ………..falla venì a mammà…………ohhhh…………ohhhhhhh…………ammore mie belle………..tesore mie………….falla venì a mammà…………!”.
Non l’aveva mai detto a nessuno tranne che a lui; come si fa a dire ad uno quelle parole, se non le senti veramente ?
Perché avrebbe dovuto avere sentimento per altra gente, Marì, dopo quel colloquio con l’ebreo ?
Per togliersi tutti gli umori di dosso, dopo essersi fatta leccare aveva provato a farsi sodomizzare, trovando il figlio, però, pronto a dormire.
Che gliene importava più, a lei, di due belle labbra, di un cazzo grosso e lungo sempre pronto, di un amore impossibile che non avrebbe portato altro che danni ?
Nel tardo pomeriggio, la vagina impuzzata, Marì aveva sollevato le sue rosee natiche dal letto per andarsi a ripulire.
Vincenzì l’ aveva raggiunta, ma lei lo spintonò via.
” Hai futtute tutt’a iurnata……….mò basta………!”.
A mente fredda, era sicura che di far pagare la colpa esclusivamente ad uno, al vecchio Isaac non sarebbe bastato, che quel braccio era solo un avvertimento.
Non sapeva che Ciro a quell’ora era già morto, ma c’erano in circolazione due individui da prender con le molle, che avrebbero potuto parlare, e dire come stavano veramente le cose.
Dovevano sparire, e doveva essere lo stesso Vincenzì a darli in mano all’ebreo.
Io e Franc&egrave, quindi, dovevamo pagare perché il suo figlio fosse in salvo.
Dopo aver cenato, la sera la donna aveva aiutato il ragazzo a tirar fuori da sotto l’impiantito, e ad ammassare in un angolo, l’argenteria trafugata a ” ‘o Mmuriuse “.
Si era raccomandata, ” nun ce lo dì che te l’aggie ritte ie………….tu………..ce devi addì accussì……….che………….che &egrave state Lor&egrave………..ch’hai truvate l”argient int’ ‘o basse soie………..!”.
Gli aveva sorriso con aria complice, provvedendo poi a chiudergli il fagotto e a caricarglielo sulla schiena.
Quindi si era fatta promettere, con l’angoscia nel cuore, che sarebbe tornato a casa non appena avvenuta la restituzione.
” Tu e mammà………..simme sole…………..t’aspiett………..!”.
” Si o’dice tu …………!”.
” Tu e ie, Vincenzì………tu e ie…………fa ‘mpress……….. !”.
E Vincenzì aveva preso la porta.
” Nun te fermà………..!”.
” Ma comm ha fatt…………?”.
” Chille tiene cent’uocchie e cente recchie…………!”.
Isaac, il giudeo, era stato il primo cliente di Marì; la loro conoscenza risaliva addirittura al tempo in cui lei aveva appena saputo di essere incinta, quando la “mammama” se n’era presa cura.
Su consiglio della vecchia, a quel giovannottello tutto brufoloso, con le spalle già ricurve e i denti macchiati di ruggine, furbo ma non di cose di donna, la ragazzina aveva permesso di fare tutto ciò che la bigotteria della promessa sposa non gli avrebbe mai permesso.
Lo aveva trattato come un re, gli aveva dato tutto di sé stessa, poi gli aveva fatto ascoltare i battiti del bambino come ne fosse il padre, ed egli aveva abboccato in pieno.
Tutto ciò doveva pur contare qualcosa !
Marì sperava che l’ebreo non le avrebbe mai inflitto un dolore tanto crudele, che non avrebbe mai ucciso la ” loro ” creatura.
Lei lo conosceva bene Isaac, anche se molto tempo era trascorso; Vincenzì l’avrebbe scampata, ne era sicura.
” Parlamme o’ figlie toie……… Isacche………d’ ‘o figlie toie………..!”.
Soltanto, quel suo ragazzo doveva offrire ad Isaac una disponibilità totale, mettersi nelle sue mani come, per l’appunto, un figlio.
I capri espiatori dovevano essere altri, non lui.
Tenendosi quel sacco dietro le spalle, Vincenzì s’era affacciato a guardare nel buio del vicolo.
Alle dieci precise, mentre tutti erano a cena, il ragazzo, annusando l’aria e rasentando il muro come un topo di fogna, era risalito per la lunga scalinata fino alla cima.
Lì giunto, aveva svoltato a sinistra scendendo fino al muretto a gomito, dove si era fermato ad accendersi una sigaretta.
Tremava.
Era stato in ascolto un minuto o due per udire se qualcuno lo avesse seguito, poi era tornato sui suoi passi e , preso per la stretta viuzza a destra, l’aveva seguita fino alla fine.
Alle dieci e trenta esatte entrava con il fiato in gola nel portone dell’amante di sua madre.
Le finestre erano completamente aperte per evitare di accendere le lampade. L’intera famiglia era a tavola.
L’usuraio aveva aspettato con fare indifferente che il giovane posasse il sacco e, con voce appena percettibile, ma facendo cadere ogni parola come un masso, lo aveva gelato dove si trovava,
” Ah……… sì tu………….. ?”.
La sua fedeltà a Marì era risaputa, anche ” ‘o Mmuriuse ” la conosceva.
Questi però, ” guappo ” non di primo pelo, onde lavare a modo suo l’onta subita, rischiando, aveva pensato di procedere per prima cosa sull’infame che aveva parlato provocando lo sconquasso: Ciro, per l’appunto. Anche se era al servizio dal più grosso ricettatore di Forcella.
Erano cose e sistemi che il giudeo capiva, ma sgarri che non poteva perdonare; ” ‘o Mmuriuse ” era stato segnato come le porte d’Egitto.
Già nella prima mattinata, accortosi della improvvisa sparizione di Ciro, attraverso i propri intermediari l’ebreo si era procurato una protezione a prova di bomba, chiedendo ” consiglio ” sul da farsi agli altri suoi pari.
A parziale copertura della perdita umana subita, il mite Isacco avrebbe potuto rivendere, per prima cosa, l’argento recuperato, come fosse suo.
Era inoltre inteso che si sarebbe adoperato personalmente perché i balordi che avevano compiuto il furto rendessero ragione di tutto quel guazzabuglio.
Dalla non prevista eliminazione di Ciro, il giudeo aveva tratto quindi un duplice profitto: avrebbe potuto rivendersi l’argento e recuperare un servo meno ingombrante al posto di quello morto, fors’anche più fedele.
Questo era il messaggio, detto a mezzo fra loro, che l’ ” abbree ” aveva anticipato a Marì, comunque senza promettere nulla.
” ‘O Mmuriuse “, dieci giorni dopo, sarebbe stato scannato da uno sfregiato che lo accompagnava come un’ombra, suo fratellastro, ed io, indicato dalla zoccola a Vincenzì come istigatore ed esecutore del furto, e da lui all’ebreo, avevo il destino segnato.
Anche se quella sera l’avevo fottuta come nessuno mai.
A ruota avrebbe seguito Franc&egrave, pedina senza importanza.
Risentita per aver dovuto servire personalmente la cena, e all’oscuro di tutto, la moglie di Isaac, imparentata con un rabbino, la quale disprezzava il marito, nient’altro che un rigattiere di un quartiere sordido quanto lui, il fiato puzzolente, per averla portata a vivere lontana dalla sua famiglia, si stava lamentando dell’assenza ingiustificata del servo.
Da alcuni mesi era invaghita di quel garzone con i muscoli come l’acciaio che leccava come un dio; non vedeva l’ora di incontrarlo dopo la mezzanotte, ed egli non c’era.
L’ebreo, che da tempo sospettava della tresca, si fregò le mani sotto il tavolo e, chinate ancor di più le spalle, sorrise melenso alle figlie e alla moglie.
” Nun se trova………… &egrave sparite……………….!”.
Sia Marì, che il giudeo, avevano deciso unilateralmente che il sodalizio d’ affari instaurato fra noi: me, Vincenzì e Franc&egrave, che aveva funzionato così bene fino a quel momento, dovesse essere sciolto per sempre.
Pur non conoscendo i termini della questione, non essendo stato nemmeno interpellato, non potevo accettarlo.
Neanche un’ora dopo che Vincenzì, stringendo i denti per non urlare davanti a delle femmine, uscì dal cortile, Franc&egrave, alla luce di una candela posata sul tavolo, storpiava, nella mia cucina, la camminata del nostro ex compare ripetendomi, parola per parola, quanto era stato detto e fatto nel basso di Marì, per la strada, nel magazzino, e sotto la veranda fiorita dell’ebreo.
Rideva a crepapelle, cercando di imitare quel vigliacco chino sotto il peso del fagotto, mentre rasentava i muri cambiando continuamente direzione come un topo.
” Eh Lor&egrave………st’infame………..capute……….ce steva puro a’ mujera,,,,,,,,,,,na’ fessa tanta……….. fammele accide st’ infame…………hanne jettate tutt’ ‘a colpa addoss a nuie………..!”.
” Comm se chiamma””’?”.
” Chi””.?”.
” Sta fessa””!”.
” Maddal&egrave se chiamma ”’..pecch&egrave”’..?”.
Era presente nonna Teresì, che invece di partecipare alla conversazione sedeva impettita, lo sguardo fisso; a metà pomeriggio le era sembrato di aver visto la figlia minore della sua dirimpettaia lanciarmi uno sguardo troppo insistente per una donna maritata ma questo non era, per il momento, il suo solo assillo.
Su sua espressa richiesta, avevo fatto avere, una ventina di giorni addietro, ” na’ vunnella ” alla sua amica Conc&egrave, e alcuni giorni dopo, mi ero interessato per ” na’ cammisella ” a Fernà, sua figlia, che l’aveva richiesta a gran voce dopo aver visto la sottana della madre.
L’avrebbe voluta rosa confetto, da mettere la domenica per il passeggio, e voleva pure un paio di scarpe di pelle fine, nere lucenti, da abbinarci.
L’ incarnato di un pallore lunare, di altre terre lontane, fianchi da cui traboccavano messaggi proibiti, bocca carnosa quasi prolassata dalla grossezza delle labbra, sempre semiaperta per una difficoltà respiratoria, l’ espressione degli occhi da pesce lesso, Fernà poteva avere diciassette anni, non di più. Cio&egrave un anno più di me.
Alla moda delle giovani, portava le sottane appena sotto il ginocchio lasciandolo intravedere, e camicie colorate, aderenti, con il primo ed il secondo bottone slacciati.
Fino ad allora mi aveva completamente snobbato, ma dopo aver saputo che potevo procurarle quel sogno di camicetta, quel pomeriggio i suoi occhi si erano incollati ai miei, anche se soltanto per un attimo.

Capitolo VI

C’avimm a fà””.?

Fra le figlie di Conc&egrave, Fernà era quella che meno assomigliava alla madre, vuoi per l’altezza, vuoi per il comportamento; ella sembrava indifferente a tutto ciò che la circondava, mentre Conc&egrave era un pendolo in perenne movimento, attenta a tutto e a tutti, sfrontata, e sboccacciata come può permettersi un’anziana.
Di uguale non avevano nulla, eccetto la procacità delle forme.
Tutto era successo nemmeno un mese addietro.
” Teresì……..ce sì……..?”.
Conc&egrave aveva sempre dei nipoti per le mani.
Era venuta avanti apppoggiando infine il piccolo sul mio materasso, ” nun se finisce maie………s’&egrave pisciate……….addò sta Teresì………..?”.
S’era chinata su di lui senza minimamente preoccuparsi né di me, né del pericoloso ballonzolare dei propri seni.
Quando s’era accorta del mio sguardo stralunato, era tornata ciabattando fin sulla gradinata e, lì, aveva stazionato fino al ritorno dell’amica.
” Teresì…………diccele tu a Lor&egrave…………. !”, l’avevo poi sentita gridare.
Nonna, con l’amica dietro già sicura e sorridente, me lo stava già urlando, ” Lor&egrave……..a poi truvà o no na’ cammesell rosa cunfett…………e puro ‘e scarpetelle”’..ppe’ Fernà”’..?”.
Seduto sulla sedia all’incontrario, Franc&egrave guardava ora me ora Teresì, incredulo del fatto che nessuno dei due dicesse una parola su di un fatto tanto importante.
” Allò…………?”.
” E comm’ m’ appresente………..?”, aveva risposto quasi sbadatamente Teresì.
L’amico mio era lì che aspettava la proposta di una nuova alleanza, ” capute st’infame…….capute sta””. zoccola…….. ?”, ed io, invece, mi mettevo a fantasticare su delle stupidaggini.
Quel giorno Teresì, vestita di tutto punto, camicia bianca e gonna nera, zoccoli spolverati, aveva fatto tutto ciò che poteva fare.
Arrivata all’estrema unzione della cugina tinca come uno stoccafisso, si era discretamente pavoneggiata del mio regalo con le parenti, parlando di me come mai le era capitato.
Pur stanca morta per la lunga camminata, vedendomi teso, una volta tornata mi aveva fatto trovare per cena delle zucchine superlative.
Ed io, per tutta risposta, stavo a perdere tempo con Franc&egrave e con quella sciocchina.
Era troppo, anche per una donna paziente come lei.
” Va bbuò uagliò…………nun tenite suonne………..!?”.
” Vuoi che ce pienze ie Lor&egrave………….?”.
Era ancora troppo presto per andare a letto.
Versai per Franc&egrave l’ultimo bicchierino di limoncello.
Perch&egrave avrei dovuto rovinarmi per una zoccola, per un giudeo, per un vigliacco ?
Non era giusto.
Franc&egrave era giovane, impulsivo, commosso, ” addò ‘o trove n’ antre comm’ a te…………..ce pienze ie Lor&egrave………….fammece penzà a mme”’..!”.
Il tempo, ormai, era agli sgoccioli.
Lo accompagnai fuori, per alcuni gradini, ” avimme a spittà…………ce piense ie…………….nun te preoccupà…………però puro tu hai a scumparì………nun &egrave furnuta accussì Franc&egrave………….belle mie”’.!”.
Lo guardai ben bene negli occhi per essere sicuro che avesse capito, e solo quando vi vidi un lampo d’intesa, posandogli il braccio sulle spalle mi incamminai con lui fino all’ultima parte della scalinata, quella più lunga.
Lì, gli sussurrai il nome di una viuzza, dove esercitava tutta una famiglia: una vedova e le sue quattro figlie e, Franc&egrave, finalmente poté tornare a sorridere.
” Cinquo…………sò cinquo””.?”.
” Corre Franc&egrave………….corr……….ma sta accuort………!”.
Imitò Vincenzì un ‘ultima volta, per il piacere mio, poi si involò divorando a tre a tre gli ultimi scalini.
” Ce vidimm………..!”.
Avevo sentito la sua amicizia.
Decisi di rimanere ad attenderli a pi&egrave fermo, almeno per quella notte.
La camicia nuova di zecca di Teresì riluceva nel buio come una madreperla.
” Comm ci appresentamme”’ ? “, sussurrò di nuovo ella, dubbiosa.
Per ambedue là fuori c’erano Vincenzine, la zoccola, c’ era il giudeo, Fernà; ognuno di loro, a modo suo, più pericoloso dell’altro.
Non sapevo quanto tempo mi ci sarebbe voluto per mettere ogni cosa al suo posto.
Nonna pure era preoccupata, ” rummane stu’ vascie……….?”.
Una cosa era certa, che non sarebbe più stato lo stesso.
” Cierte che rummane………. !”
Voleva che quel basso rimanesse per sempre, che passasse saldamente, fosse dato il caso, dalle sue nelle mie mani, in quelle dell’unico nipote rimasto con lei.
” Comm &egrave mie &egrave toie………!”.
Andai a chiudere la porta.
” ‘O lassamme ‘nserrate……….tante tuorne………!”.
Dopo tante insistenze, s’era convinta.
Quella era l’ ultima notte per lei; quella sera, era come morire.
Nel mentre, stavo pensando a Fernà.
Il medesimo giorno che le avevo fatto pervenire ” ‘a cammesell “, la figlia di Conc&egrave aveva fatto in modo di godersi il suo momento di gloria.
Indossate la camicetta e le scarpe in casa di mammà, era poi andata a ” strusciarse “, sottobraccio al marito, sia in chiesa che nella piazzetta, suscitando decine e decine di sguardi e pettegolezzi.
La stessa domenica dopo mezzogiorno, io e Franc&egrave, mogi come due cani senza padrone, ci eravamo trovati sopra l’ultimo muretto scalcinato, dietro la chiesa sconsacrata.
” Treje………..simme n’ troppe…….!”, avevo pensato nell’istante in cui l’ avevo vista apparire con in testa la brocca, andando verso l’unica fontana.
Ci aveva guardato appena, da lontano.
Pressapoco verso la stessa ora, in piedi dietro il muretto, sotto un sole infuocato, il giorno successivo, ella mi faceva giurare di amarla e spergiurava a sua volta; il suo matrimonio era stato un errore, ed io ero l’unico uomo della sua vita.
I suoi occhi, quando mi diede le labbra, rilucevano come braci, altro che pesce lesso.
La pelle l’aveva come l’avevo scorta, sognata, e la sua lingua era un misto di latte condensato e delle cozze mangiate appena poco prima.
Mi si era arrampicata addosso come un’ edera, avvolgendomi tutto quanto nella morbidezza dei fianchi.
” Lor&egrave…………..nun &egrave cosa ……….. smette”’.’nsomma………….tenghe marite………….!”.
Sapevo solo risponderle, ” Fernà………….Fernà………..Fernà…………!”.
Ci rivedemmo una terza volta, dietro i bassi in cui m’ero incontrato per alcuni mesi con Gioacchì e Fernà.
Mentre inciampava nella sterpaglia trascinandomi per mano, ella mi fece giurare che non ne avrei mai fatto parola con alcuno.
Quindi, aveva cominciato a progettare la nostra fuga.
” Lor&egrave………ammore mie………..Lor&egrave siente……..stamme a sentì……….ce ne duvimm ji………….!”.
In non più di tre, quattro minuti, tanto durò quel nostro primo amplesso, era riuscita a programmarmi tutta una vita.
” Lor&egrave………….comm te siente………..marò………..comm”’.quante sì doce…………l’hai a’ accide stu fetent……….giura………..manche na’ cammesella…………disgraziate”’..!”.
Pur nella confusione più totale, capii però che non potevo fidarmi.
Quella femmina stava lasciando il marito e gli portava via un figlio; non ci sarei mai fuggito con la figlia di Conc&egrave.
Eppure, sentivo di amarla.
Al nostro quarto incontro sbatt&egrave i suoi meravigliosi occhi coi riflessi color viola; non riusciva a capacitarsi di come potessi ancora ” sfrucuglià ” sui ” nostri ” programmi.
” Comm ce devi penzà………comm………. ? Te siente……….comm te siente””.dimme che mme vò bbene……….dimmele………..mò”’..mò”’..!”.
Facendo all’amore, passava dalla dolcezza alla rabbia; di nuovo alla dolcezza.
Quella volta Fernà lo volle rifare una seconda volta, perch&egrave il marito avrebbe tardato un’ oretta ancora.
Le pareva impossibile che non fossi ancora del tutto convinto.
Era bellissima, un incanto; sarei stato lì a scoparla all’infinito, ma non sarei mai fuggito con lei.
Il sabato dopo ella passò in anticipo, con l’orcio già riempito, fissandomi con un sorriso sprezzante, sibilando alla sorella che il posto era pieno di pupazzi.
Aveva saputo che sarei rimasto da nonna Teresì.
Mentre me la spassavo così, una sera mi era parso di vedere, in piazzetta, due visi che mi sembravano noti. Avevo avuto la netta sensazione che anch’essi mi guardassero ma, quando mi ero voltato indietro, non li avevo più visti. Non erano, comunque, visi amichevoli.
Una volta nel basso, mi ero ricordato dove e, nemmeno due minuti dopo, mi ero raccomandato a Teresì.
” Sta vota nun ve pozze cchiù spettà”’.!”
La mia salvezza, perché, come avevo poi saputo da Franc&egrave, l’ebreo stava per dare mandato di farmi secco.
Aveva incaricato come sovrintendente dell’operazione quel fesso di Vincenzine; il fatto che la moglie del giudeo l’avesse trattenuto per un quarto d’ora, per una scemenza, la sera designata l’ aveva fatto arrivare in ritardo all’appuntamento coi compari.
Sapendo che Vincenzì conosceva la nostra zona al pari di me, ci eravamo nascosti, nonna e io, ad un centinaio di metri dall’abitazione del mio potenziale assassino, in una catapecchia tanto malridotta che nessuno avrebbe mai pensato vi si potesse trovar rifugio.
Uscivo solo a notte fonda, con tutte le precauzioni del caso, per procurare qualcosa da mangiare; per il resto del tempo ce ne rimanevamo acquattati, io ad immaginarmi pieno di donne e di soldi.
Quel rudere aveva di buono che, da una fessura fra le macerie, potevo godermi la panoramica sul cortile dell’usuraio.
Avevo visto quindi, il mattino dopo, i mancati killer fermarsi a parlottare per ben tre volte, e li avevo visti, ancor più spaventati di me, sostare a colloquio con il padrone.
In quel periodo, oltre che a capire che erano stati unicamente la fortuna e Franc&egrave, a salvarmi la pelle, ebbi modo anche di convincermi che i sogni che avevo fatto erano tutta un’illusione.
La zoccola non aveva più posto nelle mie nottate, né Fernà.
Né mi veniva da pensare a nonna, impossibilitata, stavolta, a lavarsi anche quel minimo.
Teresì, invece, si era sorpresa alcune volte a sognare di Franc&egrave.
Il giovane era di una gentilezza innata; le aveva raccontato anche dei suoi due ultimi anni in famiglia: un inferno.
Era stato il primo a notare la madre piangere in silenzio, incinta per l’ottava volta.
” Stu’ fetent tiene n’ata ……….’o sient ‘o sient………….!”.
Franc&egrave sapeva già, ma per tranquillizzarla, aveva mentito.
” State siempre a pazzià……..!”.
” O’ siente……… si diche accussì &egrave pecché ‘o saccie………!”.
Una decina di giorni dopo, la madre l’aveva avvicinato per dirgli che questa volta non c’erano più dubbi; teneva le prove.
” L’ha viste Caterì………..’a cummare mia…………!”.
A darle fastidio erano state non solo e non tanto le puntigliose descrizioni della donna in questione, ma il fatto stesso che Caterì avesse saputo prima di lei.
Questa Caterì l’aveva messa a conoscenza anche del giro di amicizie del figlio: che, cio&egrave, da qualche tempo egli frequentava Vincenzine e ” ‘a zoccola “.
Da quella volta ella, considerandolo non più bambino, si era lasciata andare ancor più nelle sue angosciose lamentele.
Franc&egrave era preoccupato della sua salute e, alla prima occasione, le aveva procurato una grossa coperta di lana, che tenesse caldo.
Quel dono glielo aveva fatto lo stesso giorno in cui ero stato suo ospite; quello in cui sua madre non mi aveva nemmeno offerto ” i maccarune “, ed io mi ero offeso.
Già al secondo mese, la donna ormai dormiva sempre con il suo plaid addosso e, per questo, era un pò meno scontenta.
Si era alzata a preparargli un caff&egrave al ritorno da una delle nostre scorribande, e, sorseggiandolo ed offrendogli l’altra tazzina, come sempre quando il ragazzo tornava all’alba, avevano cominciato a parlare del padre di Franc&egrave.
Per non svegliare gli altri figli con il chiacchericcio, si era accucciata insieme a lui sul materasso del più grande, appena discosto dagli altri.
Così li aveva trovati il padre, ubriaco, aprendo la porta, addormentati insieme sotto il plaid.
Né a questi era venuto in testa che il figlio stesse a rincuorare la madre al posto suo.
Franc&egrave, onde evitare l’ accoltellamento, s’ era visto costretto a togliere le tende di gran corsa.
” ‘Nsomma………….t’a futtive…………?”.
” Comm teniva calde ‘o plaid………..!”.
” Allò………t’a futtiva””.?”.
Ce ne stavamo appoggiati con la schiena contro i sassi della catapecchia, senza poterci permettere quel bellissimo tramontare di fuori.
Nonna, distante di qualche metro, non poteva sentirci.
” Mammà diciva che a durmì sole &egrave brutt …………!”.
Seguivamo, ognuno, un suo percorso.
” Comm hai fatte a truvacce””?”
” I muccille””.!”.
” I muccille””..?”
” Nun ce ne sta cchiù une”’..!”
” Ppe’ forza””’che duviva magnà…….? T’ ha tuccate issa………….?”.
” Tutt’ ‘a nott a pepetià ……….famme durmì dicive ie………….oh………imò era già ritte quann’ ere ppe’ stràta…………sò sempre ritte ie………..!”.
” Quanne mai nun simme ritte nuie…………?”.
Solo alla fine di quella surreale masturbazione, Franc&egrave pot&egrave completarmi il racconto.
” Diciva………tenghe fridde………..!”.
” Issa………..?”.
” Arripetiva………….ha da esse mascule………a’ panza &egrave tunna……….ecche…………s’&egrave mosse ! ”
” Chiste issa………..!”.
” L’hai sintute………..? Aggie dimannate……….”.
” Se move…………..se move…………oh……..me pare…………mò ‘o carizz …………facce na’ carizz puro tu…………….’mpress………….!”
” E ie……..ca duvive fà ie………..? Aggie pigliate a carizzà…………….!”.
Nonna lo guardava serena.
Quel ragazzino era una miniera di battute, anche di quelle più spinte, che a Teresì piacevano tanto se raccontate in modo non scurrile.
E lui scurrile non lo era.
Nonna trovava che Franc&egrave, nel sogno, dentro le ballasse parecchio, ma gli era affezionata ugualmente per quanto era gentile e simpatico, e per quanto mi voleva bene.
Mezz’ora prima, dopo vari appostamenti andati a vuoto, ero riuscito a sorprendere il giudeo.
Con lui era stato come giocare a rimpiattino.
Se ne tornava dal basso di Fernà, la mia ex fiamma, fischiettando solo soletto, avendo lasciato a casa della sua nuova zoccola il guardaspalle che ve lo aveva accompagnato, cio&egrave il marito della stessa ragazza.
Si credeva al sicuro.
Avevo atteso che si allontanasse dalla casa almeno duecento passi e gli ero andato dietro comparendogli davanti senza dargli nemmeno il tempo di comprendere come avessi fatto.
” Te deve parlà”’..!”
” Chi sì””.?”.
” So Lor&egrave””.l’ ammiche ‘e Vincenzine””.!”.
L’avevo visto mettersi a tremare.
” Sulament ppe’ ditt che nun sò state ie””si vuoi accide a quarcune nun sò ie”’..!”
Lui non solo s’era messo a tremare, ma anche a cincischiare.
Gli avevo stretto la carotide perché non strillasse, e mi ero scoperto del tutto il viso.
” Nun te voglie accide””voglie sole parlà””..!”
Ma lui s’era messo la mano in tasca, dove forse teneva il coltello.
Lo avevo costretto al muro, ma lui m’era sfuggito di sotto; allora lo avevo sgozzato con un’unica rasoiata, lasciandolo dove si trovava.
Anche la prima volta, l’avevo fatto soltanto per difendermi.
Era stata un’esecuzione fulminea, tanto pulita che, come pensavo, la colpa non poté essermi attribuita.
Non la potevano addossare a ” nu’ guagliune ” scomparso da più di un mese dalla propria casa per la paura, asseragliato sicuramente da qualche parte, spaventato come un coniglio.
La colpa, infatti, venne affibbiata ai ” cumpà d’o’ Mmeriuse ” che, all’alba stessa, Vincenzì e i suoi sorpresero nel sonno e sgozzarono ad uno ad uno, senza nemmeno dar loro il tempo di aprire bocca.
Dove più mi ero divertito, però, era stato quando avevo scelto il mio secondo nascondiglio, lasciando da sola nonna: l’immenso ” caveau ” dell’ebreo strapieno di ogni ben di dio.
L’ idea me l’aveva data proprio la moglie di lui, Maddal&egrave, che da subito avevo iniziato a seguire come un’ombra.
Mi ci ero scontrato come fosse per caso mentre usciva dal più elegante negozio del ghetto.
Grata che stessi raccogliendo la merce caduta a terra senza rubargliela, e che gliel’ avessi portata fino alla fermata dell’autobus senza nulla chiedere, anzi profondendomi in mille scuse, aveva apprezzato tale mio comportamento fino a chiedermi di chi fossi figlio.
Equivocando sulla forma del mio naso.
Alla mia risposta era rimasta perplessa; si raffreddò di più aspettando il mezzo.
Era addirittura annichilita, quando le confessai che non sapevo né leggere, né scrivere.
” Ma comm’…..nu’ brave guaglione accussì………….e comm ‘e leggi ‘e scritture sinnò………… ?”
Capii che aveva la vocazione della missionaria.
Poich&egrave facevo di tutto per aver l’aria del bravo ragazzo e le avevo inoltre raccontato di essere un orfano, mi disse che avrebbe chiesto ad un suo parente, imparentato a sua volta con un rabbino, di prendermi a lavorare da lui; o, se preferivo, avrebbe chiesto al marito.
Purché mi accontentassi del solo vitto di mezzogiorno; così avrebbe potuto impartirmi personalmente le lezioni.
Doveva tornare nello stesso negozio anche all’indomani; fu così che, il giorno seguente, dopo essermi fatto trovare per aiutarla, imbarazzatissimo le confessai che ciò che mi offriva mi sembrava troppo; non mi sarei mai arrischiato di arrecare disturbo a lei e ai suoi familiari.
Ella mi aveva fatto salire sull’autobus carico come un mulo, e mi aveva permesso di lasciarla, con pacchi e pacchettini, a meno di cento metri da dove abitava.
Dopo essersi avviata per la salita, Maddal&egrave si era voltata alcune volte, come colta da un pensiero improvviso; ricordava di avere una vecchia bibbia da qualche parte, ormai fuori uso, e me l’ avrebbe voluta regalare.
L’avrebbe cercata e se, fra due giorni, a quella stessa ora, mi fossi fatto trovare in fondo al vicolo cieco che correva parallelo sulla destra di quella via, me l’avrebbe consegnata molto volentieri.
Intanto, avrebbe parlato con quel suo parente rabbino.
Mi ero profuso in mille ringraziamenti ed inchini, alla moda giudea, e ci eravamo lasciati con quell’ unica promessa; ormai si fidava: non poteva sbagliarsi.
Che disprezzasse il marito lo avevo capito dal tono con cui si era espressa nell’occasione in cui ne aveva parlato; dalle profonde occhiaie sotto gli occhiali di corno, dai fianchi pieni, dalle cosce e ginocchia arcuate, dalle labbra sottili, da come si muoveva, studiatamente ma per nulla volgare, avevo dedotto di avere davanti una femmina insoddisfatta e di grandi pretese.
Due giorni dopo, all’ora prefissata, mi trovavo nel posto indicato.
Quel vicolo finiva con un muro altissimo, senza sbocchi da qualunque parte lo si guardasse; per una cinquantina di metri circa, le porte dei bassi erano state murate, sicché lo stesso risultava del tutto disabitato.
Grande era stata, quindi, la mia sorpresa, nel vederla sbucare da dietro il torrione che chiudeva quel muro, dalla sinistra.
Aveva in mano il libro promessomi, ci avrebbe tenuto moltissimo a leggermelo. Il libro era illustrato.
All’inizio credetti che ella volesse soltanto convertirmi, poi, discorrendo, capii quanto si sentisse sola.
Allora le avevo a detto, senza mezzi termini, ciò che pensavo: che, senza di lei, non ci avrei neppure provato.
Dopo molte insistenze, riuscii a strapparle un secondo abboccamento, per la prima lettura. Sarei dovuto entrare dalla stessa porticina da cui era uscita lei.
Era severa, e si raccomandava ogni volta che uscendo dalla grotta non mi si attaccasse alcunch&egrave, che altrimenti se ne sarebbe subito accorta e mi avrebbe fatto spellare vivo dai propri servi.
Continuò a raccomandarsi delle stesse cose anche la settimana successiva quando, raccontandomi di un certo Salomone che aveva più di cento mogli e nella vecchiaia si faceva riscaldare dalle più giovani, scoprì le carte e chiese se la trovavo poi tanto brutta.
Ad essere sinceri non lo era, anche se non era la ” fessa ” che aveva detto Francé.
Le spalle erano magre, una spilungona alta quasi quanto me, ma aveva un culo e delle cosce portentose, eppoi l’espressione, la raffinatezza.
Le avevo risposto, arrossendo, che la trovavo bella, specie quando si infervorava così tanto nelle letture.
Il mento tremante, Maddal&egrave m’aveva strillato, stranamente sottovoce, che non c’ero obbligato a mentire, che altrimenti i suoi insegnamenti non sarebbero valsi a nulla. Che tutti i suoi sforzi sarebbero stati inutili e, all’improvviso, mi aveva mollato un ceffone.
Ce ne stavamo seduti sul gradino più basso di una terrazzetta incavata nella roccia, stipata di crine, e quella faceva ancora delle storie.
” Aggie ditte ‘a verità……..na’ bella vocca………!”, esclamai, riparandomi la guancia colpita.
” ‘A vocca……….?”.
” Eh………..’a vocca………..!”.
In effetti la bocca, sottile, ben disegnata, insieme a quelle gran cosce, erano più che sufficienti a farmi nascere il putiferio.
La rabbia, ormai, le stava sbollendo.
” Mascalzune………..!”.
” Me piace chille che me raccuntate………..!”.
Quell’ultima cosa m’ era venuta su istintivamente; in effetti, le sue storie erano avvincenti.
Anche se, per me, erano soltanto vecchie storie.
La donna aveva passato quel suo braccio lungo, come una pertica, sopra la mia spalla e vi si era spiaccicata sopra.
Stava piangendo.
” Piccerì……………!”.
” Na bella vocca………verament……….!”.
” Basta accussì………..!”.
Si sarebbe potuto pensare fosse isterica, e forse lo era.
Non aspettò che fossi io a farmi avanti; tolse gli occhiali, che pendettero sul seno attaccati al collo dal nastro, e si chinò più ancora.
” Yoshuà…………!”.
Usava chiamarmi così, ormai.
” Sì sincere Yoshuà…………..?”.
” Comm sò sincere…………?”.
Un attimo dopo mi palpava le cosce stuprandomi la bocca con una lingua che sembrava carta vetrata.
” T’aggia ditte”’.e levate”’che me chiamm Fernà………!”.
Non mi ci voleva chiamare, con quel nome.
” Fà ampress………..spogliate…………!”.
Mi gettai sul crine e Maddalena, strisciando goffamente il seno sul pavimento per non perdere il contatto con me, cercò a sua volta di tirar sù il culo dallo scalino.
Non aveva molto tempo, ” sì spugliate…………?”.
Le allungai la mano ed ella rimase per qualche istante su di me, miope e seria, poi mi si accovacciò addosso.
Prima di infilarsi sullo spiedo si era diligentemente arrotolata la sottana sopra i fianchi, fermandosela con lo spillone.
Più che della mia età, sembrava preoccupata della mia inesperienza, ” nun m’ hai a ‘nguacchià però……… !”.
Come capii subito, non gliene importava un fico secco di rimanere incinta, per di più di un estraneo.
” M’ hai a’ venì rint…………accussì nun mme ‘nguacchi………!”.
Pensava alla sottana, alla mutanda di raso.
Mi era parsa una donna tutta religione e benvolere, invece, era una zoccola.
Essere stato scelto da una donna tanto intelligente ed elegante, così ricercata anche nei profumi che si metteva, mi aveva comunque dato la carica.
Era lei a comandare, lei a prendere l’iniziativa, lei a scegliere le posizioni mettendosi come e dove voleva. Una volta toltasi la maschera, non aveva più avuto alcuna remora.
Né me ne dava.
Unica proibizione, il culo; quello doveva rimanere tabù.
Mi disse, poi, che era un’imposizione della religione, cui non voleva mancare di certo con uno che non sapeva nemmeno chi fosse.
Non puzzava né di urina né di sudore, solo di un forte odore che a me sembrava di pesce; scaturiva, fortissimo, dalla vagina e da tutta la pelle tutta, specie se la fottevo andandomici ad impigliare dietro.
Era puntuale come una campana, al contrario delle donne conosciute fino a quel momento, che non sapevano nemmeno cosa fosse; scendeva da quel suo scalone interno immancabilmente negli orari dettimi, al tocco del quarto dopo le quattro del pomeriggio, oppure alle undici e trenta spaccate della sera; io dovevo già essere lì, senza farle perdere nemmeno un minuto.
Stava con me non più di tre quarti d’ora, e poi se ne ritornava in alto raccomandandomi di uscire, ed anche ad essere puntuale al prossimo incontro.
Naturalmente, Maddalé veniva se poteva.
Le obbedivo in tutto; tranne che, nella guardiola zeppa di cartacce ed escrementi, al riparo del torrione, ci tornavo pure a dormire.
Non intendevo abbandonarli un attimo e, poi, lì, il muro alla base era largo almeno un metro; non lasciava passare né il freddo della notte, né la pioggia.
Né sguardi indiscreti.
In tal modo, potei scoprire che la sua puntualità era dovuta a quanto accadeva di sopra; il pomeriggio, se non c’erano traffici, sia il marito che le figlie, sia i tre giannizzeri al loro servizio, a quella stessa ora se ne andavano a riposare.
Gli stessi tre giovani, tranne Vincenzine, tornavano alle loro case al tramonto; così, Isaac risparmiava sul vitto e sull’alloggio.
Sempre suo marito e il ruffiano, invece, di martedì e di domenica, immancabilmente alle dieci e trenta, uscivano per andare a zoccole, e allora anche lei, che nel frattempo aveva già messo a dormire le figlie, veniva a prendersi la sua brava porzione.
Era stato proprio Vincenzì ad averle messo involontariamente il tarlo addosso, salutando Fernà da lontano, mentre quella usciva da un negozio.
Neppure il fatto di cavalcarmi al limite della sopportazione era riuscito a far dimenticare all’ebrea le scarpette di quella vanitosa, la cui pelle riluceva come uno specchio, il tacco oltre ogni misura consona a donne maritate, la borsetta della stessa vernice delle scarpe.
Proprio il marito di Fernà, un recente acquisto della compagnia, era stato per mettere in forse tutti i miei piani scendendo, durante l’ultima settimana, nella parte ove alloggiavo, arrivando perfino a rovistare nella nicchia dove io e Maddalé ci ritrovavamo.
Sotto il crine, addossata alla parete di fondo, era stata nascosta parte dell’ ultima refurtiva ricettata e, probabilmente, Isaac voleva che fosse controllata a puntino.
Oppure, caso ancor più probabile, stava già trattandola.
Fortuna aveva voluto che egli non si accorgesse di nulla; la donna del suo padrone, infatti, dopo averci fottuto, sapeva rimettere tutto com’ era, cancellando perfettamente ogni segno di passione.
Messo sul chi va là da quelle visite, io intanto stringevo i tempi; sapevo ormai dove e quando incontrarlo.
Il ladro, ciò che ruba, lo segna tre volte; l’avevo già imparato a mie spese.
Quindi, come la giudea mi aveva più volte ripetuto, avevo prestato la massima attenzione a che nulla di ciò che era nella grotta mi rimanesse attaccato alle mani.
Così, non avevo lasciato loro riferimento alcuno.
Dopo aver fatto fuori chi mi aveva voluto morto, il giorno successivo ero andato a tirar fuori dal nascondiglio dove li avevo riposti, tutti i miei risparmi, frutto delle imprese compiute insieme a
” Vincenzine o’ muoccole ” e Franc&egrave.
Ero deciso, e Teresì con me, ad iniziare la nuova vita.
” C’avimm a fà”’..’o vulimme lassà stu ciess ‘e mierda”’.?”
S’era veramente decisa, Teresì.
” Cchiù degna ‘e mme ha ritte………..cchiù degna ‘e mme steva a cantà………….brutte muorte mazzate……….e tienile stu’ vascie…………tante Loré nun ce le fà venì i zoccole toie………tante ‘o sta ‘nserrà brutte muorte……….!”.
Era venuto il momento di tornare da Pascà ” ‘o cavallare “.

PARTE SECONDA

Capitolo VII

Flotante en el medio de la nada

Come avevo previsto, per evitare che compissi mosse avventate tipo cercarla, Maddalena era venuta giù per un’ ultima volta, ad avvertirmi di aspettare perché le avevano ammazzato il suo Isaac, e in quei frangenti incontrarsi sarebbe stato estremamente pericoloso per chiunque.
Non sospettava nemmeno lontanamente chi fossi e cosa avessi fatto, ma non si trattenne se non qualche minuto; questo, a quel morto ammazzato di fresco, almeno glielo aveva concesso.
Ora si trattava di fare il più in fretta possibile a scomparire per sempre e, così, subito dopo averla lasciata, corsi dal cavallaro che si chiamava così perch&egrave una volta l’aveva avuto il cavallo, prima della guerra, ed ora abitava in capo al rione insieme al suo ” ciucciarielle “; sempre famiglia e bottega, comunque.
” Don Pascà, me duvite fà na cosa granda, ce sta nonna ca nun cammina cchiù…….sta malata gravament…….l’aggie a purtà da mammà………!”.
” Ca’ vulite…….o’ciucciariell ?”, rispose lui, ” li tenete cinqua sold……….?”.
” Ce sta ‘o caless……….cumm ‘a port sinnò……..?”
” Siette sold allò……. !”.
” Ppe’ stasera…….. ?”
Accarezzava il collo di quel ” ciuccio ” con un affetto degno di una persona, ” nooo……..ppe’ dimane…….ha da magnà……..ha da durmì…….. !”.
” E si s’ammuore………?”.
L’ uomo sghignazzò, ” si s’ammuore ehhhh………?!” .
Non gliene importava più di tanto.
” Quanne dimane……….?”
Eravamo tutti e due già stanchi di parlare; mi sembrava che non vedesse l’ora che uscissi.
Infatti, egli mi fece il segno delle cinque con le dita e che aveva altro da fare: doveva ancora riempire il sacco della biada e incastrarlo attorno alla bocca della sua asina.
Per rientrare a casa dovetti aspettare i tocchi della mezzanotte; volevo andare sul sicuro.
Teresì non s’era arrischiata nemmeno a preparare qualcosa da mangiare, per il timore.
” Addò si state………?”, mi aveva chiesto sottovoce.
” Aggie fatte tutte………!”
” Tutte che……… ?”
” L’aggie ditte a ‘o Cavallare………facimm ampress………a ‘i cinquo………!”
Non avevo fame; nel buio più nero, in una fretta indiavolata, facemmo una legaccia in mezzo alla stanza di ciò che era nella madia, nella vetrinetta, nel baule, lasciando stare solamente i due materassi, per dormirci almeno sopra qualche ora.
Alle due e mezzo nonna mi aveva svegliato; un quarto d’ora più tardi partivo per un primo viaggio, timoroso che, scendendo gli scalini, le padelle si toccassero e mi facessero scoprire.
Il cavallaro era già sull’uscio, ” i tieni ‘i sord……….?”
” I tengh………..i tengh………!”
Passate da poco le quattro e mezzo, sorbendomi gli ultimi cento metri con tutti e due materassi sulle spalle, ero davanti a lui per la terza volta.
” Allo………i tieni ‘i sord…………?”
L’asina era bardata di tutto punto, ma non vedevo il carro.
” E ‘o caless………?”
” Primma i sord………!”
Nonna, arrivando in quel momento, lo apostrofò malamente.
” Nun ‘arriconosce………vergognate………..!”
” Cummà………………?”.
Ella lo aveva tenuto a balia.
Alle cinque e un tocco precisi don Pascà, dopo essersi profuso in scuse, sproloqui, aveva caricato tutto quanto sul carro, compreso la mia vecchia.
Il viaggio lo avremmo fatto gratis.
Così potemmo partire; io e don Pascà, era inteso, dovevamo arrangiarci a piedi.
Dopo essersi fatto dare le prime indicazioni sulla zona ove dirigersi, il cavallaro aveva deciso,
” motu proprio “, che nonna dovesse vedere la parte a mare , la più bella; così era andato sulla destra invece che a sinistra, facendoci arrivare addirittura a Mergellina.
Nonna mirava, stupefatta dello spettacolo che il figlioccio le aveva offerto, il mare blu, sconfinato e profondo in lontananza, via Caracciolo, il grande Mastro, fregandosene altamente di aver allungato la strada.
Unica fermata per tutti, prima di mezzogiorno, la posta dei cavalli, a destra del castello, dove Pascà si rifornì di biada.
Teresì s’era portata due pagnotte di pane e l’uomo fiasca di vino e un sacchetto di noci; ce le dividemmo, e poi don Pascà disse che si sarebbe disteso almeno un’ oretta.
Alle sette del pomeriggio ancora dormiva.
Quando ebbe a svegliarsi, egli decise che ci saremmo rifatti calmi calmi la strada da dove eravamo venuti, godendoci lo struscio serale; poi ci saremmo fermati là dove ci avesse sorpreso il buio.
Alle dieci di sera eravamo, in linea d’aria, pressappoco nel luogo da dove eravamo partiti, e lì don Pascà volle fermarsi.
Alle nove e mezzo spaccate del giorno successivo, quindi dopo undici ore e mezzo, giungemmo finalmente in prossimità degli ” alveari ”
Mi ero premunito facendo seguire una prima volta don Peppì dall’amico mio Franc&egrave, poi c’ero andato da solo per vedere se sarei stato capace di ritrovare quegli alveari seguendo i sentieri carozzabili; così avevo potuto tranquillamente indicare la strada a Pascà, pure alla luce della sola luna.
Grazie al cavallaro, che s’ era caricato sulle spalle ambedue i materassi ed una legaccia, riuscimmo finalmenter ad arrivare in cima a quelle rampe.
Lì vedemmo Gaetà aspettarci su di una porta.
” Gaetà…………vene……….damme nu vase……….belle e’ nonna…………!”.
Ma, appena entrati, “futtene” annunciò nonna, esausta, con Gaetà in braccio che se la sbaciucchiava.
” Eh già………..futtene”””’. ” aveva ribadito don Pascà.
Forse, non avevamo scelto il momento migliore.
Don Peppì, l’anfitrione, nel sentire degli strani rumori, s’era immobilizzato.
Un istante dopo, aveva cominciato a gridare.
Gli stava facendo eco un urlo come il suo, ma molto più stridulo.
A quel punto, non rimase altro da fare che chiedere permesso. ” Permess……….!”
Nell’ unica stanza da letto sembrava essere scoppiato un parapiglia: mentre stavamo affacciandoci, Peppì era intento a liberarsi da due braccia che non volevano mollarlo; gli occhi bovini di mammà stavano sprofondando sotto il lenzuolo.
Mi sentivo in colpa per aver trascinato nonna fin lì, io che lo sapevo; molto di più mi sentivo in colpa per averci trascinato don Pascà.
Per cui altro non mi venne da pensare che, ” sì na zoccola………ma zoccola proprie……!”.
” Sì na zoccola………… !”, aveva ripetuto Teresì , gettandosi sulla sedia spagliata che le tagliava il sedere in due.
” Allò ie me ne trase…………..ca ce sta tutte cummà………….!”.
” Grazie ‘e tutte quante……….grazie veramente Pascalì…………..!”.
Don Pascà stava partecipando alla nostra umiliazione. Gli dispiaceva veramente di aver assistito, ma non voleva entrarci.
Ringraziava solo Iddio di avergli dato la sua
” Nennar&egrave ” che non lo aveva mai tradito,
a cui bastava dare un po’ di biada per averla tutta per s&egrave.
Mammà, non so come, era riuscita a scappare da sotto quel pennuto, avvoltolata nel lenzuolo.
Io, intanto, mi ero gettato istintivamente sul letto e su di lui. Peppì mi aveva messo sotto, mi aveva preso per la gola, e la serrava.
C’era voluto uno sforzo sovrumano per ribaltare la situazione.
Rosa, strillando come una gallina, s’era stretta al petto il figlio più piccolo e s’era incantucciata in un angolo, per vedere chi fosse il più forte. Pentita, mille e una volta, di essere stata a sentire Concettì.
A forza di ballare sul letto, intanto, avevamo svegliato anche quest’ultima, che inviperita stava gridando, ” cca’ nun s’addorme cchiù…………!” e aveva mollato uno sganassone alla faccia più vicina, per l’occasione quella del compagno.
Io, allora, ne avevo approfittato riuscendo a passargli sopra, stringendogli il collo ancor più forte di come stringeva lui.
Non avevo, però, tenuto conto di mia sorella, che vedendo Peppì diventare tutto paonazzo, mi si era buttata sopra a sua volta.
” Che……..’o vuoi accide………..?”
Mammà, presa la palla al balzo, si era buttata anch’essa sul groviglio, lasciando cadere a terra il piccolino.
Stranamente, aveva però preso le mie difese, ” viste che me steva a lardià…….. stu’ puorche”’..!”.
” Pecch&egrave sì nuda………. ?”, le aveva allora urlato nonna dalla sedia; fino a quel momento, era stata solamente a guardare.
Conc&egrave era finalmente riuscita a liberare Peppì dalle mie grinfie; ma solo per arrivarci lei.
” Zoccola……..!”, urlava sul viso di mammà, mentre se lo stringeva.
Quello era l’ambiente dove eravamo capitati.
Peppì, anche lui, era su tutte le furie.
Mammà, subdolamente, era venuta a posarmi una mano sulla spalla, ” digliele”’. che me steva a lardià……….!”.
Dovevo rimanere, c’ero costretto, che se fossi tornato nel basso mi avrebbero fatto la pelle.
” Aggie sintite che stevi a urlà…………….!”
Mammà, allora, aveva guardato la figlia con aria di sfida, ” viste……. pure isse……….?”.
Peppì non si era fatto sfuggire l’occasione, ” nun tiene ‘ncazze fà………nun hai voglia ‘e nient………..manco ‘o caff&egrave sai fà……..!”.
Concettì forse non voleva perdersi il suo uomo, così aveva sputato fuori tutto d’un fiato, ” &egrave vere……..l’aggie a fa ie………!”.
Concettì e Peppì, per il momento, erano di nuovo in pace; mammà se l’era scampata.
Solo Teresì continuava scuotere la testa.
” Chista &egrave zoccola……….!”.
” Vieccia e fetent………!”, la scansò mammà, buttandosi la vestaglia sulle spalle e uscendo.
A vedermi, Rosa s’ era rincuorata; forte com’ero, forse avrei potuto darle una mano nei suoi progetti.
Concettina mi aveva messo una mano sulla spalla, ” basta Lor&egrave……….!” l’ altra l’ aveva protesa verso Peppì,
” Eh Peppì……faccime basta………!”, ma non pot&egrave impedire, mentre il peppiniello passava lisciandosi i baffetti, che glieli accarezzassi a mia volta.
Lo avevo perfettamente a tiro, mentre lui avrebbe dovuto voltarsi.
Il papponcello si era mostrato contrariato dalla confidenza, ma aveva proseguito verso il bagno senza reagire.
Anche Peppì pensava che ci sarebbe stata un’occasione più propizia.
Si era fottuto mammà sotto i miei occhi; nel basso, un giorno non lontano, mi aveva massacrato di botte, il fiato continuava a puzzargli, e la voleva far da padrone.
A tavola, mi mostrai più diplomatico, ” tutto a post Peppì……….?”
” Secure…….. e che &egrave success………..?”
” Nun ce ne sta n’antre d’ appartament in stò ciesse…………..pp’e nuie……… ?”.
Gli stavo mettendo la soluzione su di un piatto d’argento.
Peppine si rivolse a Concettì con un sorriso che voleva essere gentile ed era invece tagliente come i denti di uno squalo, ” chille ‘o Scugliuse………….no………?”
Era il secondo appartamento di fianco, nel quale, per non farselo fregare, appena arrivato aveva ammassato un materasso, due o tre pentole, una sedia ed un tavolaccio.
Finito il pranzo, io e nonna ci trasferimmo in questo secondo appartamento, ma nonna su quel materasso non ci voleva dormire, perch&egrave era pieno di zecche.
Io invece insistevo, ” &egrave perfett………. nun ve state a sturbà……..ppe’ ccosa”’.?”
Finalmente, mammà venne e lo attaccò al muro, e al suo posto stendette il materasso che nonna si era portata dietro.
Era diventata davvero premurosa, mammà.
Anche Teresì stava cambiando, ” &egrave già tante Rò………..grazie”’.!”.
Nonna si era fatta prestare la scopa e spazzò, poi disfece i legacci, lasciando intendere che quando avessimo trovato anche un fornello avremmo fatto a meno di approfittare della loro cucina, ma mammà insistette tanto, ” me date na mmane cco’ i piccerì…………venite quann ‘e vulite………!”.
A metà pomeriggio, finalmente, Rosa e Conc&egrave ci avevano lasciati, ” addurmiteve nu poche…………mangiamme a i seje……….!”
Mancavano le porte, ma Teresì aveva tirato fuori due teli che potevano assumere la medesima funzione.
” Ce vidimm a i seje allò……..!”.
Peppì se ne era già andato da un pezzo.
La vicina che stava urlando sembrava ci urlasse dietro la schiena.
” Se siente tutte………..!”, aveva detto nonna.
Comunque, riuscimmo a dormire almeno due ore.
La sera, dopo essermi riempito la pancia con due piatti di ” maccarune ” e una mezza bottiglia di vino, era pacifico che mi fosse venuta una certa voglia.
” Tante so zoccole “, avevo pensato, sentendomi eccitare, ed avevo sbirciato Concettì.
Da quant’era che non la vedevo ?
S’era dimagrita, aveva riacquistato le sue forme più belle. M’era sempre piaciuta Concettì, anche se mai l’avevo pensata con quell’intenzione.
” Statte buone………duorme”’!”, aveva bofonchiato Teresì mezza svegliata, prima di cadere di nuovo in un sonno profondo.
Quasi mi dispiaceva di averla portata fin lì; stavo scoprendo tutti i suoi limiti, quelli di chi non &egrave zoccola abbastanza per poter vivere in un luogo come quello.
Durante la cena, Concettì aveva buttato là, ridendo, se fossi pronto anch’io.
Il sangue mi era corso più forte nelle tempie e nei polsi mentre mi schermivo, ma prudeva sotto la pelle.
Mammà se ne era accorta, ” magare te pigli ‘o caff&egrave con Peppì……….!”.
Nonna Teresì aveva masticato amaro; un conto era essere lì per cambiarci la vita, un altro diventare un lenone.
” Ce stanne i’ fimmene……. ?”, avevo risposto, ridendo come uno sciocco.
Conc&egrave si era lasciata scappare, ” hai voglia……..!”, poi si era tappata la bocca con la mano.
Peppì, non sospettando le mia natura, aveva creduto di trattarmi una volta in più come uno sbruffone.
Mi si era rivolto annoiato, girando il pollice e l’indice aperti, ” meglie che t’o pigli accà o caff&egrave………!”
Per distrarlo dai reconditi disegni suoi, Rosa aveva annuito seriosa, ” cierte”’.!”.
Ci avrebbe pensato lei, a tempo debito, a preparare il terreno come si doveva.
La conversazione era stata interrotta dall’entrata dei vicini, che lasciavano il loro figlio a mammà.
La donna era minuta ma ben fatta, quasi negroide, il suo uomo allampanato, più giovane, ma con le spalle già ricurve.
Mammà ebbe appena il tempo di presentarci,
” chiste &egrave Lor&egrave……..’o figlie mie………issa Teresì…………n’ avimme parlate””..Rosetta e Mich&egrave………!”.
L’uomo si era avvicinato a stringermi la mano, la donna ci sorrise; il figlio che aveva in braccio dormiva, e non voleva svegliarlo.
Lo era andato ad appoggiare direttamente sul lettone in camera di Conc&egrave, e quando ne era uscita, poich&egrave il suo uomo, Peppì e Conc&egrave stavano già scendendo le scale, li aveva rincorsi in tutta fretta.
Partiti loro, mammà aveva preparato il caff&egrave per noi che eravamo rimasti, ” ‘o mie &egrave cchiù bbuone ………puro fess”..!”.
Sembrava che le due donne ora si odiassero di meno, o che, perlomeno, essendosi appena riunite, si sforzassero di dimenticarsene.
S’erano divisi i due delinquentucoli, nonna e mammà, prendendoseli sulle ginocchia mentre si raccontavano.
Questa volta, Teresì aveva optato per Simò.
Rosa, naturalmente, per quanto aveva potuto, aveva bypassato tutte le peripezie del suo nuovo mestiere; nonna, invece, s’era dilungata sulla mia trasformazione fermandosi, però, ad un certo punto: quello riguardante l’ebreo, capitolo del quale non aveva ben capito la fine.
Mammà s’era mostrata oltremodo riservata anche sulla presenza del nuovo marmocchio, che stava allattando.
A quel punto, avevo loro detto che sarei sceso una mezz’ oretta, giusto il tempo di guardarmi intorno.
Fernà, cogliendo la palla al balzo, s’era scaraventato dalle ginocchia della madre, catapultandosi giù per la rampa onde farmi da guida.
Egli mi aveva accompagnato per tutto il periplo dei tre alveari indicandomene, per nome e mestiere, ogni abitante, finch&egrave non m’ero stancato.
Una volta tornati di sopra, Rosa, dopo aver fatto sgattaiolare Fernà dalla fessura della porta, aveva chiamato dentro pure me. Nonna era già andata a dormire prendendosi dietro Simò, ed ella stava preparando una seconda caffettiera.
Non c’erano ancora lampadine né elettricità, nell’ appartamento, ma ci si poteva vedere benissimo al chiarore della luna, che entrava dalla finestra.
Rosa mi aveva detto di togliere pantaloni e scarpe a Fernà, sedutomi accanto, mentre badava il caff&egrave, ed io m’ero chinato per farlo.
Quindi, appena tolta la cuccuma dal fuoco, ella era venuta ad aiutarmi, perché quest’ ultimo non ne voleva sapere.
Mammà aveva fatto leva con il petto sulla mia testa, aveva afferrato con ambedue le mani i polpacci del figlio e, senza tanti complimenti, aveva tirato tutto quanto verso sé, quasi scalpandomi.
Poi, dopo aver spinto Fernà verso la camera, s’era finalmente seduta, poggiando cucchiaini e zuccheriera sul tavolo.
” ‘O vuoi……….verament……….?”
” Ppe’ nu caff&egrave…………!?”
” ‘Nfatt…………!”
Non ci eravamo detti altro, sorbendoci quel caff&egrave veramente caff&egrave.
Mentre mi stavo alzando, forse a causa della strettoia fra il muro e le sedie, per il buio ormai pesto, forse perch&egrave effettivamente le faceva piacere avermi lì, passandomi dietro per andare a riporre le tazzine sul lavatoio, Rosa si era stretta affettuosamente contro di me, incrociandomi le braccia sul petto.
S’era trattenuta sulle mie mani per qualche minuto con le dita grassocce, carezzandole lievemente, per sussurrarmi infine all’orecchio, ” figlie ‘e ‘ntròcchia………..!”
Sinceramente, anche a me faceva piacere essere lì, che altrimenti non avrei saputo dove riparare; anche a me quei seni tiepidi che facevano violenza alla maglietta, quei capezzoli come nocciole fra le scapole davano una sensazione di accogliente benessere, di divagante eccitamento ma, per essere altrettanto sincero, mammà non possedeva né la dirompente sensualità, la carnalità della zoccola, né gli esotici profumi di Maddal&egrave, né la gioventù passionale di Fernà.
Era, per dirla tutta, una mezza calzetta di donna, con quel culo troppo vicino a terra, quegli occhietti furbi, tutte quelle zinne.
Nondimeno, Teresì aveva dovuto poi sopportare tutte quelle mie smanie, avvertendole pure da un materasso tre metri lontano.
Ero stato in forse fino all’ ultimo, se alzarmi e tornare di là a chiaccherarci, magari a stendermi di fianco a lei.
Soltanto la vergogna di mostrare a nonna quanto debole potessi diventare, quanto senza ritegno, aveva fatto che me ne rimanessi lì. CAPITOLO VIII

” Chista &egrave zoccola !”, aveva continuato a ripetere nonna Teresì nel sonno, tutte le altre notti che seguirono, ” &egrave zoccola ……….i me ne tuorne”’.!”.
Avevo appena iniziato ad intravedere uno spiraglio: Peppì, oltre al vicino che avevo già conosciuto, aveva altri due compari di cui uno non era del palazzo. Passavano a prenderlo tutti i pomeriggi. Quello che abitava fuori, un galletto, faceva a Rosa una corte discreta, che a lei sembrava non dispiacere, ma Peppì, altrettanto discretamente, faceva capire a tutti e due che stava sul chi va là.
Ciò rafforzò la mia idea di dover uscire quanto prima dallo stallo in cui mi trovavo.
In quella quindicina di giorni mammà, avendo messo alla prova la mia caparbietà, si era convinta, probabilmente, di poter fare affidamento sul figlio.
Mi sembrò di aver capito, inoltre, da alcune sue vaghe allusioni, che sospettasse addirittura che io e nonna stessimo insieme, insomma, che fottessi la vecchia e che, questo, le stesse dando più forza.
Mi aveva anche messo alla prova; astutamente, in assenza di Teresì. La quale, dopo pranzo, aveva preso il vezzo di andarsi a sedere di sotto, nell’angolo più fresco del palazzo, dove altre donne, similmente vestite di nero, potevano chiacchierare con lei.
Nonna non avrebbe avuto alcun motivo per non andarci, perch&egrave mammà e Conc&egrave, nelle stesse ore in cui ella scendeva, riposavano insieme ai loro figli ed io, il più delle volte, me ne andavo a perlustrare in giro.
Uno di quei pomeriggi, dopo aver fatto la posta, sicura di non dover incontrare ostacoli, Rosa era capitata nel nostro appartamento, con il pretesto che i materassi fossero pieni di polvere.
” Damme na mane………. che ‘i voglie revutà”’..!”.
Aveva sudato e, nella camera, l’unico posto dove riposarsi erano proprio gli stessi materassi. Si era quindi appoggiata sul mio, facendosi vento con il lembo inferiore della vestaglia.
Era elegante, secondo lei, portarla abbottonata solo con tre, quattro bottoni, così come lo erano le mutande di cotone bianco che ci portava sotto senza sottoveste, ed il reggipetto del medesimo colore, comprati al negozio sulla piazzetta.
Poco importava che, a volte, quella vestaglietta si aprisse, lasciando intravedere le parti più intime.
La visione delle cosce senza alcun riparo, dell’inguine gonfio e gialliccio, del poderoso davanzale semiscoperto, quell’essere soli sul materasso e quella malcelata contiguità mi faceva andare in bestia. L’eccitazione che non potei nascondere mi stava suscitando enorme imbarazzo.
Mi sentivo come la notte in cui mi aveva offerto il secondo caff&egrave, e s’era strusciata alla mia schiena.
Era poi lo stesso, irrefrenabile stimolo che da qualche tempo, purtroppo, mi faceva compagnia nelle ore più solitarie, quando nonna scendeva.
Mentre si sventolava con l’altra mano, la sinistra le era scivolata sul ginocchio di fianco.
” Che furtuna sì venute………t’ ‘o vuliva proprie dicere………’nsomma……..l’hai capute no………..Cuncettì &egrave nammurata ‘e Peppì…………e ie me ne sto accà ………..comm na fessa……….!”
Non l’avrei sopportato che mi parlasse di Peppì. Ella invece aveva continuato, insistendo ” ‘nsomma……..ie……..che ce sto a fà ie accà si Peppì nun m’accumpagna………?”
” T’aggie viste hue………..!”, avevo risposto risentito.
” T’o giure………….nun ce sta nient”’.!”
” N’ata vota e v’accide tutte e’ doie …………!”.
” Che vuoi accide………….ppe’ nu’ sturnariell………?”
Mammà si era sventolata più forte, affannandosi; stava pensando, in quello stesso istante, che forse s’era sbagliata, che, forse, potevo essere solo un pericolo, una scheggia impazzita.
” Mettete a post…………chiuttost……….!”
” Chiuttost………. ?”
” Ah l’omme………..te piaccene ‘i fimmene”’..!”
Aveva poi soggiunto, ” va bbuone……. parlamme serie…….se diciss che voglie faticà………..voglie di ………ie no Cuncettì………tu………….che vuliss fà tu”’.?”
” Addò sta ‘o problemm………..?”.
” ‘I piccerille………..Peppì…………’a gent”’..!”
Naturalmente, era all’ obbiettivo di farmi diventare il suo pappone che mammà tendeva; ciò l’avevo capito anch’io.
In caso contrario, ella si sarebbe scelto un altro maschio con più palle di me, che mi avrebbe buttato fuori a calci; questo il succo del discorso.
Secondo il proprio giudizio, ella invece mi stava tendendo una mano,
La cosa poteva farsi importante, pensai. Quindi le risposi, ” ppe’ ‘i piccerill ce sta Teresì………addò sta ‘o problemm……addò sta ?”
Rosa aveva smesso di civettare, si alzò.
” Te ne fotte……….. ……..!”
Mi aveva risparmiato un sì comm Cire……….comm papà che, probabilmente, avrebbe spezzato quel tenue filo.
” E Peppì”’..fora accussì……….e nun dicce nient………..?”
” E pecch&egrave………….vade a faticà ie……….!”
” Ce so ie accà mò”’!”
Stavolta no, stavolta non me lo avrebbe risparmiato.
” Comm iss””.dure accussì……….sò ie che voglie faticà………….e……….giustamente………Peppì tiene a Cuncettì”’..’a donna soia……..”.
Rosa era andata all’osso: Peppì era riuscito a piazzare solamente mia sorella, lasciandola ai margini, al di fuori come una puttana da strapazzo, una mendicante. Per lei era un cacasotto.
Si era scoperta, finalmente; mammà teneva bisogno di un uomo, uno suo.
Ci rendevamo conto, tutti e due, che la cosa avrebbe potuto marciare sul filo del rasoio.
Lei cercava uno che se la prendesse a cuore e non avesse paura ad imporsi e a tenersela; io, invece, con lei potevo trovare quel che andavo cercando, ricominciare a far soldi. Ma non ne volevo, di complicazioni.
A ben guardare, per lei il problema, rispetto al mio, era molto più complesso: certo, si trattava di una questione di lavoro, ma anche di dignità.
Una zoccola il cui pappone avesso sbavato dietro ad altre, magari tenendola fuori dal letto, a pensarci bene, non era poi gran cosa. Perlomeno, in giro non se ne sapeva di casi simili.
A breve o lungo termine, se ne poteva esser certi, ne sarebbe andato della saldezza del legame.
Cosa sarebbe successo, ad esempio, se mi fossi innamorato di un’ altra e di un’altra ancora, giovane com’ero ?
Mammà si rese conto, d’un tratto, che la sua proposta presentava ancora molte facce non risolte.
Si alzò, ” mò vade………!”
L’amico di Peppì, quello che la corteggiava, forse era più spavaldo, sicuramente più maturo; forse, con lui Rosa ci sarebbe riuscita.
Non ci volevo nemmeno pensare, ad attaccarmi a mammà; non mi veniva proprio.
Ma allora avrei potuto dire addio ai miei sogni e, forse, subito all’appartamento.
” Sò geluse pazz………..si ve piglie con Peppì ie………..!”
Era già ad un metro dall’ uscita.
” Famme trase………..!”.
Perché sprecare quell’occasione, perché non pensare a quanti soldi ci avrei potuto fare prima che sfiorisse; mammà mi stava offrendo un’ opportunità immensa, unica ed io la rifiutavo, ed io ero semplicemente capace di sbatterle in faccia soltanto il mio disprezzo.
Non era niente male, in fondo, anche se già più vicina ai quaranta che ai trenta: pelle bianca come il latte, un gran culo; solo la statura, per quanto ero diventato alto, lasciava a desiderare.
Ma mica era per me, e invece, ” Si te vede ‘ncora con Peppì ie………..anze ‘o facce mò ……..che tante……….!”
Rosa era sbiancata.
Avrebbe mai potuto immaginare in quel figlio, in Lor&egrave, un tormento di quella fatta ?
Aveva risposto disinvoltamente, anche per prendersi più tempo, ma ne era rimasta scossa,
” comm facive a penzalle………siempre ‘ncazzuse…………ce tieni puro tu a mammà vere………..?”
Era la prima volta che mi sentiva così appassionatamente vicino.
” Brutte ‘ncazzuse………….!” era tornata a dirmi, con una carezza.
Non me ne voleva più; anzi, mi sentiva come creta nelle sue mani.
Avrei dovuto essere più forte, come una volta.
Invece le afferrai i polsi, dolcemente, ” ve n’ aggie vulute sempre………. bbene…………..!”
Ci eravamo abbracciati, non me lo ricordavo quasi.
Era impossibile per me non rivedermi davanti quella scena improvvisa, inaspettata; impossibile togliermi dalla mente mammà che s’ abbracciava a Eugé, accorata, quella sera, ” addò hai a ji……..sta ccu’ mme……….daie…………!”.
” Vade ‘ ndò cazze voglie…………!”.
E ci era andato Eugé, a farsi ammazzare.
Rosa si era staccata per chiedermi quanto ci avrei messo a convincere nonna a tenerle i bambini, ad organizzarsi.
” Ce piense ie………faccie ie”’.!”.
” Allò me lo dicci quanne ci hai pensate, ………..!”.
Quasi ogni giorno, mammà tornava a saggiare il terreno, di nascosto dagli altri; intanto, si faceva bella per il compare di Peppì.
Ciò che la dissuase dall’impegnarsi fu un discorso captato casualmente, dalla camera dove stava riposando.
I quattro compari erano convinti che il futuro stesse nel riempire l’avamporto di ” femminiell “.
Il suo corteggiatore era, tra essi, quello che più ne era convinto, mentre Peppì, come al solito, era colui che più tergiversava.
Rosa, con uno che si sarebbe inchiappettato quei mezzi uomini, non sarebbe mai stata capace di mettercisi. Forse era l’ unica cosa che ancora le facesse schifo.
Anche Concettì, quando mammà le riferì l’atteggiamento del suo uomo, se la prese a male.
Tornando a casa, una notte, i due piccioncini litigarono e lui, nel campo dove s’erano fermati ad urlardi in faccia, aveva pestato mia sorella da ridurle il viso come una braciola.
Concettì se ne era vergognata tanto, da rimanersene, per più di una settimana, chiusa a chiave in camera. Usciva solo per andare in bagno.
Così, ero venuto a sapere in che stato Peppì l’avesse ridotta.
Peppì, che avrebbe avuto tutte le ragioni per farsi rispettare dalla propria femmina, a parere mio aveva un solo, grave torto: di essere un “peppiniello “. Inoltre era un estraneo.
Alla mia domanda, ” ma che ci hai fatte…….. ? ” al posto di raccontare le cose come stavano, si era arrampicato sui vetri blaterando contro tutti quanti noi della famiglia, dandoci dei mentecatti senza speranza, senza idee; senza fornire, invece, come avrebbe dovuto, alcuna plausibile giustificazione del proprio atto.
Tanto ci aveva offeso, da farmi scattare in avanti come una baionetta.
Ero riuscito, in un attimo, ad allacciargli la testa e a togliergli di sotto il piatto dove stava mangiando.
Se se ne fosse stato fermo così, se la sarebbe cavata soltanto con il viso imbrattato di pummarola, ma quello aveva cercato di rimettere le cose a posto afferrandomi a sua volta per il collo, e si era ritrovato la faccia seghettata dallo zigomo destro fino al labbro superiore dal piatto che, nel frattempo, aveva rotto con il gomito.
Mammà aveva iniziato a starnazzare come un pollaio di galline.
Senza ragionare, inconsultamente, stava prendendo le difese del suo amante che se l’era sbattuta nel cesso appena due ore prima, procurando ulteriori danni rispetto a quelli che già avevo fatto io.
Invece di gettarsi contro di lui che le aveva malmenato la figlia, si stava slanciando contro di me, il difensore di Conc&egrave.
Finch&egrave Peppì, che vedeva il sangue colargli dal viso, ma ancora non sentiva dolore, ringalluzzito dall’ insperato aiuto, mi era balzato addosso cominciando a tempestarmi di calci e gomitate.
Per fortuna che ormai gli ero superiore di forze. Il terrore che di nuovo lo potessi ferire lo aveva reso ancora più debole di quanto fosse.
I suoi colpi mi arrivavano attutiti, senza farmi male.
Se non ci fosse stata mammà di mezzo, avrei avuto ragione di lui in poco tempo, ma essa stava parando ogni mia reazione, facendogli addirittura scudo con il proprio corpo.
La lotta stava andando avanti da qualche minuto, senza che nessuno di noi avesse il sopravvento, quando Teresì, uscendo in quel momento dal cesso, spinse via Rosa urlando,
” cazz………e ‘o difend puro……….?”.
Concettì, che non avrebbe mai voluto uscire dalla camera, sentendo le nostre urla, aveva cominciato a dare dei gran pugni alla parete; tutti i bambini gridavano e piangevano.
Era veramente un casino.
Quel che temevo di più, però, era l’eventuale intervento del compare, quello che ci abitava di fianco; sicch&egrave la mia preoccupazione maggiore era che costui apparisse da un momento all’altro alle mie spalle. Magari con il coltello in mano.
La fortuna, invece, mi aveva sfacciatamente aiutato .
La donnetta che stava con quello, più sveglia dello spilungone, essendosi affacciata per prima alla nostra cucina, aveva fatto soltanto in tempo a vedere Rosa con la faccia e la camicetta piena di sangue, e così aveva creduto che fosse stato Peppì a massacrarla e che io, Lor&egrave, avessi preso le sue difese.
Si era gettata, quindi, anch’essa, con tutto l’impeto possibile, contro l’uomo di Conc&egrave, e il marito, appena arrivato, per non lasciarla da sola, aveva fatto lo stesso.
Mentre me lo toglievano di dosso, Peppì si era preso un ultimo, gran pugno in bocca, ed il sangue aveva ricominciato a zampillargli dalla ferita come se avessero girato il rubinetto.
Non ebbe nemmeno il tempo di lamentarsene, che già Mich&egrave lo spingeva dietro il tavolo dandogliene un altro, e dandogli vergogna.
” Sò fimmene………….t’a’ piglie cco’ fimmene………..?”
Quando poi Concettì s’arrischiò ad uscire e la videro conciata a quella maniera, per Peppì si mise male davvero.
La più incazzata era Ros&egrave, la piccola negroide; se non fossi intervenuto io, per lui non so come sarebbe andata a finire.
Quel cretino continuava a tenersi tutte e due le mani sulla bocca, a prendersi spintoni e schiaffi da tutte le parti senza parlare, senza alcuna discolpa.
Mi ero rivolto al tipo allampanato, allora, dicendogli di lasciare il compare e, poiché quello continuava a sbattere la testa dell’amico contro il muro facendo finta di niente, gli ero passato dietro, menandogli un calcio negli stinchi.
” E’ na cosa fra isse e me…………!”, gli avevo detto.
Peppì, esterefatto, aveva cominciato a far di si col capo.
Era terrorizzato, ed aveva bisogno di uno straccio per tamponarsi; gli importava solo che qualcuno fermasse lo scempio del suo viso.
Nonna Teresì fu la più svelta; pur non avendo compreso appieno le mie intenzioni.
Vedendomi vincente, aveva raccolto uno straccio che si trovava ai piedi del tavolo e glielo aveva gettato sulla faccia come un asciugamano sul ring.
Peppì non seppe difendersi nemmeno quando le acque si calmarono.
Ormai, per una ragione o per l’altra, tutti gli imputavano di aver conciato Conc&egrave in quella maniera senza alcuna ragione, oltre che di aver massacrato Rosa e fatto a botte con me.
Visto il danno che aveva fatto e, soprattutto, visto come era stato sopraffatto da uno appena arrivato, egli perse la propria autorità, se di autorità si trattava.
Io, invece, ci stavo facendo un figurone; anche perché avevo avuto il coraggio di prendere, oltre che la difesa di Conc&egrave, per ultimo, anche di quello sciagurato.
Il pomeriggio del giorno seguente, dopo aver sentito Teresì scendere, Rosa mi raggiunse in camera mia.
Si era messa addosso la più bella vestaglia che avesse, per non darmi pretesti di sorta; era raggiante, ” mò pozze faticà…….. puro ie ………..!”.
Ne aveva discusso animatamente con Conc&egrave, e l’aveva convinta che sarebbe stato un affare; le aveva anche messo avanti che, finch&egrave non avesse fatto pace con Peppì, dovevo essere io ad accompagnarle, e la figlia, pure a malincuore, s’ era mostrata d’accordo.
Ormai era decisa, ” ce vade stanott……….e ‘o faccie………. tu ce sì………. ?”.
” Ce so………..ce so………..nun me tire arrete……….. ie……………!”.
Anche Teresì, quella volta, fu d’accordo.
” Teresì…….. i’ mò vade a faticà……… Conc&egrave se ne sta ccà……..beh……..Gaetà con issa nun s’adduorme………magare ccu’ vuie………! ”
Poi, rivolta a me, ” ie a Peppì nun ce lo voglie…….. cchiù……………!”.
Nonna guardava ora lei ora me, che me ne stavo muto, ” ci ha ragione ‘o guagliò………..ce devi d’annà cco’ Mich&egrave……….!”.
Lo stava ribadendo anche dal cesso in cui era corsa come una saetta, ” vacce cco’ Miché……..Gaetà e Simò ‘i teng ie………….ugualment……….!”.
Rosa si era parata dinnanzi alla porta del bagno con le mani sui fianchi, ” e pecch&egrave no Lor&egrave………..? Voglie ‘o figlie mie ie”’si ha a venì quarcune……..!”
Teresì, di là del vetro, aveva scosso la testa, ” ce lo vuoi pappone……….. ‘o figlie toie……….ha da furnì accussì””’o vuoi pappò……….?”
Dall’altra parte, mammà mi guardava assentendo, decisa a sapere finalmente la verità.
Quel che pensavo io, era che potevo finirci.
Una decina di sere prima, attorno al palazzone più distaccato dal nostro, mi ero imbattuto in una ragazzetta carina, ma veramente carina: figlia di un magliaro che non batteva un chiodo, ed ella, senza tanti infingimenti, m’aveva assicurato che con un miserabile, nemmeno morta si sarebbe fatta vedere.
” Cierte che l’accumpagne ie………e chi sinnò ?”
Solo a quel punto le due donne s’erano staccate dal vetro, Rosa per dire. ” allò facc ‘o caff&egrave “!
Proprio in quell’istante mi venne in testa che Assuntì, ‘a guagliona mia, non l’avrei vista; che l’avrei potuta rivedere soltanto il pomeriggio del giorno successivo.
Ma, finalmente, con mammà s’era trovato un punto d’accordo, il primo.
Il secondo era lì lì per arrivare.
” T’accumpagne……….ma ‘i sord i tenghe ie……..se fa accussì no……….?”
” Si vuoi………..?”
Eravamo partiti subito dopo il caff&egrave accompagnandoci a Miché e Rosé, il quali, vista che era la mia prima volta, specialmente lui, mi stavano dando tutte le istruzioni possibili.
” Fammece parlà a mme…………primma………!”
” Che ceràvell, comm ‘o palumm !”
Un cervello da piccione; ecco la testa che teneva Rosa: ” si vuoi…….. ?”.
Seguitava a venirci dietro il suo chiacchiericcio, interrrotto a volte dall’ intercalare di Rosè ma solo qua e là questa, pur essendo anch’essa logorroica, riusciva a soprelevarsi sul quel fluido incessante, quasi trillando.
” Maronn ‘i fimmene “, aveva detto all’improvviso il mio occasionale compagno cercando l’erba sopraelevata, quella di mezzo del viottolo imbrunito.
Le avevamo lasciate indietro, noi con le leve più lunghe, perché forse il compare avrebbe avuto qualche altra cosa da dirmi, se voleva.
” Peppì &egrave da mò che nun vene”.!”, s’era sforzato a metà cammino Mich&egrave.
” ‘O vidimm sta sera no””.?”
” Cierte”’.cierte”’.cree”..tieni ‘o curtielle ? Tutte quante ce l’avimm”’!”
Ce l’avevo, nuovo e fiammante per l’occasione.
Un’altra oretta di passo lungo e continuo noi; di trotterellando le donne, e ci trovammo alla banchina dove mammà, quella sera, avrebbe dovuto prendere servizio permanente effettivo.
Le avevamo accompagnate, senza strafare, nello spiazzo abitudinario: quello con le grate da cui, anche ad acque calme, talvolta si elevavano spruzzi e schiume alte due metri, quello in cui era quasi impossibile tenere accesi i fuochi.
Sempre lui, Mich&egrave, aveva indicato il piccolo caff&egrave dalla parte opposta: una vetrata di luce soffusa, semi annebbiata dalla foschia marina.
” Caff&egrave o uisk”.?”
” ‘O vidimm dopp”’!”.
E c’eravamo incamminati verso di quello.
Peppì e gli altri suoi due compari erano seduti al tavolinetto di fondo. Un cenno a Mich&egrave, e a me nulla.
Lui mi aveva offerto un caff&egrave, quindi eravamo usciti a fumarci una decina di sigarette; poi, me ne aveva offerto un secondo, a metà serata.
Subito dopo era uscito uno dei suoi compari, quello che non abitava nel palazzo, e se l’era preso a braccetto, appartandosi più in là.
Dopo di che, Mich&egrave era venuto a fumarsi l’ultima sigaretta del pacchetto.
” Dicce che ‘i sord”’ppe’ rispett”’i tiene Peppì”.sol accussì”..!”
” E’ giuste”’&egrave accussì ?”, gli avevo chiesto.
” Giuste”.? “, aveva alzato le spalle lui.
Erano in tre, e Mich&egrave da che parte sarebbe andato l’avrei saputo solo all’ultimo.
Mi ci voleva del tempo per capire cosa avrei potuto fare, come dovermi comportare; così a serata finita, dissi a mammà di consegnarmi i soldi delle due marchette che le avevamo visto fare, che li avrei dati a Peppì.
Che così soltanto poteva ottenere definitivamente un posto. Il nostro, era stato un sogno.
Il più caciarone di tutti quei papponi era un certo Giuvannò; fungeva da vice, perché il boss incontrastato lo chiamavano ” ‘o Surdemute “.
Questi era un gigante, effettivamente sordomuto, ma ciò sembrava non lo intralciasse ad esercitare il potere. Da solo, aveva una scuderia di una dozzina di pollastre, le più giovani e meglio formate.
Tre scagnozzi sempre al suo fianco; se occorreva, avanti o dietro e, naturalmente, tutte queste gallinelle occupavano i metri vicini ai fuochi più alti.
Quanto di sangue m’avesse trasmesso Rosa, quanto di ” capa tosta “, ebbi modo di scoprirlo in quei sei, sette giorni.
Pur rimanendoci come un pezzo di legno, ella aveva ubbidito senza fiatare. Sul volto, nemmeno una lacrima.
Né ne aveva discorso ripercorrendo il sentiero, con Rosé, con Concettì, con nonna.
S’era solo limitata, per quella settimana, nelle razioni di pasta e nel vino.
Peppì non é che si facesse vedere.
C’era tornata sopra con me, mammà, in camera mia.
” Viste ?”
” Ce deve penzà……….!”
” Tre jorne e nun se magna cchiù………stu fetent……..!”
” C’aggie penzate………!”
” Allò……..?”
” Allò i me ne tuorne to’ vascie………cco’ Teresì……..accussì se ne tuorna puro Peppì !”
“E’ chista ‘a penzata…………?”
Mammà era diventata trasparente come una barra di ghiaccio, come una di quelle cose che i gelatai si portavano in giro per le strade.
Non aveva più parlato, rimanendo a fissarmi.
Solo mentre me ne stavo andando aveva espirato, ” e penzà che puro ‘i sord t’aviss fatt av&egrave………!”
Assuntì mi aspettava al limitare della strada sterrata. Nonna mi aveva guardato attraversarla senza un cenno, senza una parola.
La mia era l’unica soluzione possibile, quella giusta.
La sera prima, per una sola volta, avevo avuto occasione di parlare a Giuvannò.
Appena ascoltate le mie prime quattro parole aveva fatto allontanare di qualche metro i propri accoliti, stringendomi subito il collo.
” T’accide ppe’ primm……..si nun é vere……….!”
Io, ” stu fess ‘e Forc&egrave “, gli stavo promettendo di farlo diventare un boss, a due condizioni.
Assuntì era disponibile a seguirmi dovunque l’avessi portata.
Tre pomeriggi prima ci eravamo appartati ad un chilometro da casa, fra la sterpaglia e i rovi sotto pochi alberi. S’era messa soltanto a singhiozzare, dopo essersi sporcata.
Tornando agli alveari m’aveva chiesto una cosa: che prima di venirsene via con me le assicurassi che almeno il pane non doveva mancare. E io glielo avevo promesso.
Le condizioni per Giuvannò erano state queste: dopo il fatto, visto che disponeva di cinque uomini, avrebbe dovuto togliere gli incassi di mammà a Peppì e tenersene, lui per me, un terzo, dando il resto a Rosa.
La seconda era che prendesse immediatamente possesso della dozzina di femmine di ” ‘o surdemute ” e che. anche degli incassi di queste, mi riconoscesse un terzo.
Ne avevo aggiunto una terza, visto che il numero cominciava a piacermi: che lasciasse andar via quelle che lo volevano, ma lui non c’era stato.
Appena lasciata Assuntì, me n’ero tornato su. Avevo qualche altra cosa da dire, a Rosa.
Non certo che quella sera avrei avuto bisogno di lei, comunque, che mi accompagnasse per giustificare la mia presenza; quello era ovvio.
Entrandole in cucina, m’ero solo seduto, a guardare fuori dalla finestra.
Era stata lei a domandarmi a bruciapelo, ” accussì chiatta sò……….?”
Ed io m’ero alzato, andandomene nel mio appartamento, dandomi del fesso perch&egrave non ero stato capace di risponderle.
Ma poi, cosa avrei dovuto risponderle, cosa ripeterle: che s’era fidata di Eugé, del suo figlio più grande, di uno che avevo scoperto essere diventato ricchione, tanto se lo teneva stretto ?
Ancora lei, a volermi seguire, venendo di là con Gaetà.
S’era seduta sul materasso di Teresì, silenziosamente, con lui.
Poi gli aveva detto, ” scenne………..che cco’ Lor&egrave ce deve parlà !”, e mio fratello era sceso, per andarsi a far coccolare da nonna.
” Puro ie ve deve parlà “, avevo esordito, e non l’avrei fatto soltanto per soldi, ma anche per la sua, e la mia, di dignità.
” Dille tu………..primma…………!”, aveva continuato mammà.
” Che chiatta no………..nun ce site………..!”.
” Pecch&egrave te ne vaie allò…………?”
” Pecch&egrave nun é ‘o mestiere mie……….!”.
” Puro ‘o piscatò nun é ‘o mestiere toie………..qual’é ‘o mestiere toie……….?”
” Nun ‘o saccie cchiù qual’ é ‘o mestiere mie…….!”
Poi ella era venuta sull’altro materasso, con quella vestaglietta, con quel suo cavallo gialliccio,
dimenando sciattamente, con quei quattro cinque passi fra noi, quelle lacche sguaiate che non potevo vederle, e se ne era rimasta lì seduta, il capo appoggiato appena sulla mia spalla.
” T’o vurria di ie……….appress………!”, aveva sorriso senza espressione alcuna.
Ed io l’avevo guardata, sollevando interrogativamente il mento. ” Qual’é ‘o mestiere mie………….?”
” Dopp…………..!”.
Quella sera, dietro i fatiscenti magazzini del porto, detti di coltello a ” ‘ o Surdemute ” mentre si masturbava a neanche una decina di metri dalla sua pupilla, l’età dei metri che la distanziavano da lui.
Poi, il mattino seguente, dopo aver urlato a Teresì che era il giorno giusto, ci eravamo rimessi per strada prendendocela comoda, senza dimenticarci di Assuntì.
La quale mai si sarebbe aspettata che, circa a metà cammino, avessi cominciato a vituperarla urlando al suo indirizzo ” ttcch…….e ie te spute ‘n faccia……….ttcch…….te spute ‘n faccia ie……….!”.
Nemmeno Teresì se lo sarebbe aspettato, lei che le vedeva prima, le cose.
Ma io non lo urlavo ad Assuntì; lo urlavo a quella fetenzia che stava scendendo fra le sue gambe, sempre di più, e lei nemmeno se n’era accorta.
Lei continuava a camminare come niente fosse senza avvedersi quanto all’improvviso fosse divenuto vecchio, rugoso il suo bambino, mentre la madre continuava a camminare come niente fosse, a figliarlo, con le scarpe in mano.
Ed io a non volere riconoscermici. Dovevo ancora farmela io, la mia vita.
Mammà aveva detto per ultimo, alzando furtivamente la tenda sul corridoio, ” si state bbene no………e allò………?”, ma quello neppure era ” ‘o mestiere mie “; quella neppure, poteva essere una sua speranza.
Ormai sapevo che la sua dissennata gelosia non avrebbe portato a nulla di buono. Sapevo, adesso, che solo Assuntì avrebbe potuto accompagnarmi chissà per quanto, prima di diventare zoccola pure lei. Con Rosa, nonostante le sue promesse, il tempo non era alla pari.
Ci si poteva fottere magari, con mammà, ma inutile farci dei progetti di media o lunga durata.
Meglio il salto nel buio, il ritorno all’ultima spiaggia dove Vincenzine ‘o muoccole mi avrebbe teso l’agguato.

FINE

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