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Racconti erotici sull'Incesto

ERA UN’ESTATE RUSSA

By 5 Aprile 2007Dicembre 16th, 2019No Comments

Era un’estate russa. La luce era dorata, leggera e come assente. Il vento del Nord faceva crepitare dolcemente le foglie sottili delle betulle grandi, che crescevano maestose dinanzi alla Casa Municipale, ottocentesca, dai muri color crema e dal tetto d’ardesia. L’avevano adornata con le bandiere rosse, sì, quelle sovietiche, con la falce e il martello.
Non pioveva da tanto, tanto tempo.
L’erba non era sempre verde; qua e là, i prati assomigliavano alla steppa.
Talvolta, avvolto nel mio lungo manto nero, mi spingevo sino alle rive del Don, per contemplare, da dietro un rovo, i corpi eburnei delle pazze bagnanti.
Nutrivo il mio sguardo dei loro seni venerei, dai capezzoli che sembravano fatti apposta per essere succhiati con vigore da sapienti labbra di maschio, o per venire torturati da lingue biforcute, le stesse che avrebbero poi devastato le loro vulve con il fuoco, bollente, della carne.
Alcune scherzavano, si schizzavano con l’acqua i volti bianchi, ridendo e riempiendo l’etere tranquillo delle loro voci d’oblio.
C’era stato un funerale al villaggio. Avevano messo il ritratto del defunto sulla sua bara, mentre il corteo triste intonava i canti del socialismo e sfilava dinanzi a una vecchia immagine di Lenin, che tutti ammiravano con rispetto.
Di tanto in tanto, si celebrava un matrimonio. Allora, era una festa, fatta di colori vivaci e del suono delle grancasse. Le spose erano sempre allegre, dopo essere state unite ai loro mariti dalla dichiarazione, solenne, del funzionario pubblico, vestito con la sua divisa dai bottoni dorati e decorata con medaglie scintillanti.
Se solo penso al fuoco e allo strazio carnale che la prima notte di nozze prometteva a quelle giovani’
In quei giorni, amavo incamminarmi lungo la strada alzaia mano nella mano con la mia adorata sorella Gretel, compagna di giochi, da sempre.
I chiaroscuri del sole tra le fronde delle betulle e dei faggi facevano sognare i miei sguardi, inebriati dai suoi lunghi capelli, dipinti d’un vago scarlatto e con cui tanto mi piaceva giocare.
Aveva da poco compiuto vent’anni. I suoi occhi di smeraldo avrebbero fatto innamorare i sassi bigi del torrente, i tetti lontani delle case fatiscenti, le falci e i martelli dei contadini e degli operai.
Le acque scintillanti di un vicino rivo le dichiaravano il loro perpetuo affetto, fatto di baci impossibili e lusinghe smarrite, sussurrate gorgogliando e mormorando tra i meandri.
Pareva che l’erba del prato facesse follie, pur di carezzare le sue belle gambe e i suoi piedi senza veli. Era soltanto la brezza’
Gretel e io non avevamo altri amici, se non i fringuelli canori e le visioni romantiche di quella stagione russa, che, una dopo l’altra, svanivano dinanzi ai nostri occhi assorti.
A volte, facevamo a rincorrerci e ci chiamavamo per nome.
Era come se non sapessimo dove.
Giocavo ad avvolgerla nel mio manto di seta, facendolo volare nel vento. Una volta, lei si era spogliata nuda davanti a me, per poi coprirsi con una bandiera rossa, che raffigurava la patria. Poi, aveva baciato quel lungo drappo con passione. Desideravo segretamente le sue labbra’
Mi permetteva di toccarle le gambe, le caviglie, le spalle. Sentire quelle parti del corpo nude e femminili mi faceva tremare di piacere, come le bufere d’inverno.
Avevamo sofferto molto.
Nostro padre, vecchio alcolizzato dalla barba canuta e incolta, aveva distrutto i sogni felici della nostra infanzia, con le sue crudeli bestemmie e le percosse dispensateci tutte le sere, al suo ritorno dalla bettola.
Egli non amava la nostra buona mamma, tanto che, un giorno, ci aveva abbandonato, per andarsene via, a zonzo, lontano, dove? Oh, lo sa il vento, che carezza meravigliosamente le dolci betulle.
Pochi anni più tardi, la mamma era morta, lasciandomi solo con Gretel. Io e lei, allora, ci eravamo abbracciati stretti, travolti dalle tempeste della vita, mentre la luce di un sole d’argento brillava forte nei nostri occhi.
– Sorellina cara, ti prometto che ti resterò per sempre accanto! ‘ le avevo sussurrato, asciugando teneramente le sue belle lacrime.
– Mi porterai a vedere le betulle verdi, le betulle grandi? Mi prenderai per mano e non mi lascerai sola a piangere un solo istante?
– Te lo giuro’
Eravamo soli, sulla collina dei gigli scarlatti, dove, di tanto in tanto, si eseguivano le condanne alla pena capitale. La luce era accecante e triste.
Ci era parso di avere dinanzi a noi il plotone d’esecuzione, un ufficiale ordinava ai soldati di imbracciare i fucili, di prendere la mira, di sparare’ Io abbracciavo follemente la mia bella, le astergevo con un bacio l’ultima lacrima, sentivo su di me la carezza delle sue trecce morbide, prima che cadessimo insieme al suolo, morti’
La stagione del pianto non era durata a lungo.
Fu seguita dal tempo dei frisoni, delle allegre corse per i campi dorati di frumento, dei giochi con gli spaventapasseri, dei contadini dagli zoccoli di legno e i badili sulle spalle.
Gretel voleva che giocassi con lei. Si divertiva a consolarmi, carezzandomi con le sue mani di velluto’ Me le appoggiava dolcemente sulle spalle, sulle guance; quando mi abbracciava, me le sentivo affettuosamente appoggiate sulla schiena. Assomigliava ad una guaritrice, capace di raddolcire le sofferenze umane, semplicemente imponendo le mani’
– Ti desidero, ti desidero ardentemente, appassionatamente, per sempre’
Per quanto freddo potesse essere l’animo mio, certo non poteva restare insensibile a tante profferte d’amore appassionate, sussurrate da due labbra che parlavano al vento ed ai cavalli bianchi della steppa.
Una volta, cavalcammo uno di quei destrieri, lei volle stare davanti e tenere le briglie’ I suoi lunghi capelli mi avvolsero, come un mantello. Era allegra, sorridente e cara.
Mi diceva che voleva morire un giorno, dolcemente e serenamente, così com’era vissuta, il bel corpo avvolto in un’immensa bandiera sovietica, simbolo della sua patria, della sua fede’ I dolci occhi assorti e bianchi, l’avrebbero abbandonata sull’erba, tanto, tanto fredda.
– Non dire così! ‘ la rimproverai un giorno, mentre mi ripeteva quel discorso. ‘ Le mie palpebre sarebbero gelide meno di ventiquattro ore dopo’
Ricordo mentre passavamo tenendoci per mano sotto la grande porta del villaggio, decorata con i simboli gloriosi del socialismo e sormontata da una falce e da un martello, che parevano un’icona.
– Gloria a Marx, Lenin e Stalin’ – sussurravano le meravigliose labbra di Gretel, prima di regalarmi uno dei suoi baci.
E pensare che l’indomani vi sarebbe passata la banda, composta da uomini dai volti di ghiaccio, abbigliati con divise bigie ornate di rosso, e la fanfara avrebbe intonato gli inni sacri della patria!
Durante la passeggiata in barca lungo il Don, la mia compagna di giochi poteva passare delle ore a parlarmi soltanto degli ideali in cui credeva, del cavaliere con la falce e il martello che aveva schiacciato sotto gli zoccoli del suo cavallo il borghese dal cappello a cilindro e dal borsello colmo d’oro, lordo del sangue degli innocenti’
Di tanto in tanto, smettevo di remare e mi fermavo a contemplarla. M’inebriava la vista del suo volto di bambola, giovane e delicato, dai lineamenti perfetti, dal nasino all’insù, dagli occhi greci, fatti per brillare di dolcezza e di piacere.
Si posava sovente il dito sulle labbra, come per raccomandare il silenzio dei sensi, l’estasi trasognata del nulla, quel non so che di affettuoso dove svanire nella morte, dopo che ci ha accompagnato per tutta la vita.
Amavo appoggiare la testa ricciuta sul suo seno, che, per l’occasione, si alzava e si abbassava per la commozione, il desiderio, il sogno.
– Hai un cuore di fanciulla’ – le sospiravo.
Il sole russo faceva scintillare l’anellino d’oro che portava al dito, mentre le stringevo la mano teneramente.
Io guardavo la Casa Municipale e le torri antiche, di lontano, pensavo alle leggendarie cavalcate dei cosacchi e mi dicevo che presto l’avremmo fatto.
Non facevo che pensare alle sue dolci gambe, lunghissime, carnose, a volte scalze, altre, velate di nero; ragazze invidiose avrebbero pagato dieci anni della loro vita per averle. Lei le accavallava, o ne appoggiava una sull’altra, specie quando stava seduta sull’erba e mi sorrideva languidamente, facendomi un cenno col dito, come per dirmi di avvicinarmi.
– Prima o poi succederà, lo sento ‘ mi disse un pomeriggio, sorridendomi.
Le ombre erano lunghe, tristi, nordiche. Il loro mistero baciava la luce del sole e del porticato bianco. Lì vicino c’erano dei fanciulli, che giocavano coi birilli. Un cagnolino abbaiava festoso. D’estate, non nevicava mai’ Gli spaventapasseri buffi dei campi di frumento ci guardavano di lontano.
Fu per caso. Io e Gretel ci ritrovammo soli sul letto a baldacchino della nostra bella casetta e lei mi permise di toglierle le belle calze. Facendolo, non potei evitare di toccare le sue meravigliose gambe di femmina’
Si era tinta le unghie dei piedi di rosso. In quell’attimo, i suoi piedi mi parvero così grandi, dolci e femminili, che’ Oh!
– Fallo ‘ mi disse lei. ‘ Ti prego, fallo’ Dai, non perdere questa occasione’ Prendimi!
Ansimava. Facemmo presto a spogliarci nudi. Lei però rimase con indosso una giarrettiera rosa e le ciabatte col tacco a spillo.
Le diedi l’assalto.
Era così profumata, pulita, carnosa’ Non appena la penetrai, Gretel si rese conto per la prima volta di quanto ce l’avessi lungo. Me lo sentivo talmente duro’ Le feci male, molto male, quando entrai, tanto da strapparle un grido di piacere infuocato.
Eravamo fuori di senno. Non che non lo volessimo, anzi. La femmina stava sotto e aveva spalancato la bocca, mostrando al suo maschio i suoi grandi denti bianchi. Pareva volesse mangiarlo. Cominciò a mugolare piano, per poi alzare il tono in modo selvaggio; i gemiti divenivano sempre più ravvicinati e frequenti, sempre più feroci, disperati, forsennati.
L’eccitazione era forte, fortissima, ed aumentava senza sosta, ad ogni spinta.
Eravamo un groviglio di piedi, di gambe e di braccia attorcigliate, nude, senza veli. Le natiche erano sode, le mie irsute e pelose, le sue, più grandi e rotonde, favolose.
Per lei non era la prima volta, lo sapevo. Lo aveva già fatto, tempo prima.
Solo così si spiegava la sua inenarrabile maestria, nell’eccitare il maschio, nel torturarlo, nello spronarlo con i suoi mugolii, i suoi lamenti soffocati; ah, che versi, che versi, bestiali e furiosi!
Ci parlavamo con quelli, sì, era un linguaggio selvaggio e senza parole, facevamo a mangiarci a vicenda, più lei fremeva, più io spingevo, senza altra intelligenza che quella del piacere.
Ah, eravamo animali, animali! Ci voleva tanta filosofia, tanto pensiero, per accettare questa gioia?
Gretel cercava il mio pelo, il mio pelo’ Il suo clitoride arrossato voleva strofinarsi forte contro quella striscia di virilità irsuta e ben acconciata, che sormontava come una piccola foresta il mio pene lungo, lunghissimo, la cui estremità infuocata, che allora stropicciavo furibondo nella sua vagina, pareva una lingua.
Ah, quella specie di saliva, quella specie di vischio, profumato di femmina! Le stavo insidiando l’utero, le stavo insidiando l’utero, lo sentivo, ebbro di piacevole violenza! Ero tutto intento a farla soffrire di felicità carnali, quanto lei faceva soffrire me!
Lottavamo insieme aggrovigliati, ansanti, il cuore ci batteva forte, la vagina di lei pulsava ardentemente, al pari del mio membro bollente.
Ad un tratto, ella mi supplicò di grugnire, come avevo fatto poco prima, facendola impazzire.
E pensare che mi aveva guardato il sedere, piccolo, peloso, ben sagomato, pulito, curato’ Le doveva piacere tanto, tantissimo, perché me lo stringeva forte tra le mani.
– Ah’ Ah’ Ah’. Ah! Ah! Ahia! Ahio! Ahaaaaa’ Ahaaa’ Ahiaaaaa’ Ah! Ah! Ahi! Ahia! Ahia! Ahia! Ahu! Ahiaaa! Ah! Ah! Ahi! Ahio! Ahia!
Quasi urlava.
I suoi mugolii erano diventati strilli soffocati. Sbraitava, quasi le stessi facendo male’ No, era per il fuoco, soltanto per il fuoco.
Con una mano aveva preso un lembo del lenzuolo e lo stringeva sempre più forte’ La bocca spalancata e la lingua di fuori, era tutta un verso, tutta un palpito, tutta uno stridere, da scimmia.
Ad un tratto, le venne in mente di ficcarmi nell’ano il tacco a spillo di una delle sue ciabatte. Fu allora che mi fece gridare. La gamba soda e nuda piegata a metà, muoveva il suo piedone da zoccola in modo da torturarmi il didietro, mentre, con la fica, mi stava mangiando il davanti.
Sarebbe durato tra i venti e i trenta minuti, lo sentivo. Tutte le nostre gioie carnali dipendevano dalla pressione che un maschio era in grado di esercitare sul clitoride e le piccole labbra di una femmina di homo sapiens’
Che violenza! Che spasimi!
– Ahi’ Oh’ Oh’ Ohi! Ahrrrr’ Brrrr’ Ahu! Ahia!
Così sbraitava la stangona, mentre la sbattevo su quel letto.
Man mano si avvicinava l’eiaculazione, il ritmo aumentava. Sì, sarebbe aumentato ancora, ancora e ancora, fino a farci impazzire. Lo volevamo entrambi!
Anche lei contribuiva ad aumentarlo, era il suo modo, feroce, di attaccarmi; io rispondevo con altrettanta ferocia e passionale veemenza.
– Ahu’ Ahu’ Ahu’ Ahuaaaaa! ‘ strillava quella femmina.
Nella lotta, aveva perso una delle sue ciabatte col tacco a spillo.
Poi, mi fermai, ansante, quasi all’improvviso.
Fu solo per un istante, perché poi ricominciai, bruscamente, violentemente, furiosamente, spingendo a più non posso, facendola gridare, gridare e gridare’ Due bestie stavano facendo saltare il letto’ Due bestie, due bestie, due bestie, sì’
Poi, giunse l’eiaculazione, che fu come un’esplosione, un urlo, una pioggia di sperma infuocato in quella vagina nuda. Le parve uno sparo, che giunse a lambire le porte dell’utero.
Rimanemmo per un po’ uniti insieme, il corpo dell’uno incastrato in quello dell’altra.
Ci amavamo moltissimo.
– L’abbiamo fatto ‘ disse Gretel. ‘ Non accadrà mai più’
– Ma che dici? Accadrà ancora, ancora e ancora’ Promettimelo!
– Promesso.
Così mi rispose, prendendomi la mano e stringendomela forte. Mi diede anche un bacio sulla bocca. Allora, potei sentire sulla pelle la morbidezza, la folle dolcezza di quelle labbra scarlatte, dalle quali non avrei mai voluto separare le mie.
Gretel era donna, fanciulla, sorella, amante, sposa, complice di trame di passione.
Gli occhi suoi brillavano, ebbri d’affettuosa felicità.
– Andremo a passeggiare all’ombra delle conifere dorate, carezzati dolcemente dalla bora di Luglio’ – mormorò la bella, abbassando le lunghe ciglia sognanti. ‘ Andremo alle cascate, ai ruscelli dove i cosacchi abbeveravano i loro destrieri, esausti per le cavalcate travolgenti e i duelli alla sciabola’
Avevamo scopato e lei mi aveva promesso che sarebbe accaduto di nuovo. Non desideravo altro dall’esistenza, successione triste e lieta di immagini, volti, visioni, sogni, illusioni, voluttà!
Non lontano dalla Casa Municipale, poco oltre la curva della strada di sassi, c’era la Locanda Stalin. Era un edificio fatiscente, vecchio, dai muri di pietra, dipinti di un rosso un po’ cupo e dal tetto nero, spiovente, color della pece.
L’uscio pendeva sbilenco sui cardini, come se da poco vi fosse stata una rissa. Una delle finestre del pianterreno aveva il vetro rotto; nessuno aveva mai pensato di ripararlo.
Poco sopra lo stipite del portone era affissa l’insegna, la quale raffigurava una falce e un martello scarlatti, che parevano dipinti col sangue, su sfondo ferrigno.
Sugli scalini avevano dimenticato dei badili, di cui nessuno si interessava più, da molto tempo.
Vidi anche delle maschere, sì, delle maschere, appese a una delle travi di legno.
Credetti di vedere un avvoltoio, appollaiato su una statua bigia, che raffigurava una sorta di bottiglia Molotov.
Era la Locanda Stalin, la Locanda Stalin!
Dicevano che, nell’Ottocento, vi si fermassero i carri delle streghe della steppa, di ritorno dalle loro vendette. Durante la notte, le megere si accoppiavano con i contadini ubriachi e con le anime dei morti. Esse traevano i loro poteri magici da quei rapporti sessuali feroci’
Per fortuna che avevo il mio amore al mio fianco, il suo dolce sorriso brillava in quel luogo cupo e sinistro.
Un fumo denso, grigio, tenebroso avvolgeva i muri della Locanda Stalin. Pareva che qualcuno cucinasse la zuppa, nel calderone appeso alla catena del focolare.
Io e Gretel scendemmo per una stretta scala di legno; ai muri sconnessi erano affissi dei candelabri d’oro, ai quali ardevano dei ceri accesi.
Ci accolse un riso soffocato, vago, misterioso.
Mi accorsi che il cuore della mia adorata sorellina batteva forte; ella mi guardò con due occhioni affettuosi e spaventati’
Poi, mi chiese languidamente di abbracciarla e di farle un po’ di coraggio. La esaudii, anzi, la baciai addirittura sulla bocca, a lungo e teneramente. Le carezzai i lunghi capelli morbidi e’
Poco dopo, riprendemmo a scendere, tenendoci per mano.
Ci giunse una musica patetica, sorniona, soffocata. Qualche vizioso fumava la pipa o il sigaro. Non era un baccano, no, non s’udiva rumore di tavoli rovesciati, né di sedie sbattute o di bottiglie rotte.
Gretel desiderava i baci più ardenti e le gioie indimenticabili della carne, lo sentivo. Era tutta un fremito, tra le mie braccia, che le cingevano la vita sottile.
Mi parve meravigliosa, con quel vestitino color crema addosso, ornato di frange nere’ Aveva uno o due spacchi, che permettevano di ammirare le sue gambe, i suoi piedi, scalzi, racchiusi da due scarpine col tacco a spillo, con il laccetto alla caviglia.
Socchiusi gli occhi, per un istante. Quando li riaprii, vidi tre botti di legno, antiche, su ciascuna delle quali stava seduto un uomo diverso.
Scorsi allora il Bagatto, che portava in testa una specie di papalina rossa, ornata con un fiocco nero. Aveva due baffoni scarlatti, gli occhi infossati e il naso aquilino. Era vestito con una specie di giacca color della pece, tutta rattoppata, dai bottoni di metallo, arrugginiti, e portava delle braghe color porpora, da contadino, sgualcite e strappate qua e là. Aveva anche degli stivali di cuoio, tutti impolverati. Pareva fosse appena tornato da una cavalcata.
Ciò che più mi sorprese fu la vecchia fisarmonica stonata, che teneva tra le braccia. La suonava con maestria e malinconia; di tanto in tanto, si metteva ritto in piedi sulla botte ed improvvisava una danza folle, da burlone.
Il secondo personaggio stava seduto nel mezzo, tra gli altri due. Portava una giacca a quadri verdi e neri ed aveva in testa un cappello di paglia piuttosto sciupato. Era attempato: vistose rughe gli solcavano il volto. Teneva al guinzaglio una specie di barboncino tutto pelo, che, non appena si accorse di me, prese ad abbaiare.
Era il Mendicante. Con una mano reggeva una sorta di sputacchiera di rame, che doveva servirgli per raccogliere le elemosine. Sogghignava e, così facendo, mostrava a tutti di essere sdentato.
Il terzo personaggio era il Beone, che aveva una barba lunga e incolta, tutta sgocciolante, di birra o di vodka. Gli mancava un orecchio e si esprimeva soltanto a gesti, in quanto il continuo bere gli aveva fatto perdere la favella, oltre che l’uso della ragione. Era vestito di stracci; sbraitava e bestemmiava, giocherellando con due dadi sudici, che gettava sul pavimento, per poi raccoglierli imprecando.
La stanza era cupa, aveva una sola finestra, col vetro rotto. La luce vaga di un lume a petrolio si spandeva tutt’intorno. Dalle pareti pendevano delle catene arrugginite, che sembravano antichi strumenti di tortura. Dei grossi topi facevano a rincorrersi in un angolo. Vidi altresì una testa di cervo, imbalsamata. Le corna erano tanto grandi, che facevano paura.
Era un fumo di sigari quello che ci avvolgeva, sì, un fumo di piacere. Pareva di cannabis…
Notai che le botti antiche recavano tutte una scritta in cirillico’ Era vodka, della migliore qualità. Il Beone tolse uno zipolo e l’inebriante fragranza di quel liquore si sparse per tutta la stanza.
Nella Locanda Stalin qualcuno non smetteva mai di ridere’
– Io adesso scoperò con ciascuno di questi signori ‘ disse Gretel, lasciando cadere la mantella di seta e mostrando le sue belle spalle nude. ‘ Vero ragazzi?
Il Bagatto la guardò con due occhi feroci, come se avesse voluto mangiarla. Non smise però di cantare in russo, né di suonare la fisarmonica, il cui suono misterioso e un po’ lugubre ci stava incantando.
– Qualcuno mi prenda’ – mormorò la mia cara sorella.
Fu allora che si scoprì il busto e rimase a seno nudo. Voleva eccitarmi e provocarmi, lo sentivo.
– Voglio essere scopata’ Sì, scopata! ‘ riprese poco dopo l’ammaliatrice.
Alzò una delle sue meravigliose gambe e appoggiò il piede su una delle botti rimaste libere. Poi, prese a passarvi sopra la lingua, che era lunga, rossa, carnosa, pronta a leccare e a divorare qualunque fallo.
– Sono così giovane’ Ho tanta voglia di amare e di essere amata!
Forse, era stato quel fumo misterioso, che stavamo respirando tutti, a renderla tanto folle. Impossibile avere un ginocchio più bello del suo’ I suoi sguardi incontrarono quelli del Beone, che si precipitò su di lei e afferrò una delle sue belle braccia, sode e nude.
– Tormentami’ – disse la giovane, alzandosi la sottana e mostrando a tutti di non portare le mutandine.
Dopo averle leccato il collo, l’uomo si tolse i calzoni e glielo fece vedere. Ce l’aveva talmente lungo, da far paura. Ma era piuttosto vecchio, venoso, logoro. Comunque, avrebbe fatto male. Glielo ficcò dentro in un sol colpo.
– Nooooo! Ahi! ‘ gridò Gretel.
Ma era quello che voleva. Si sentì impalare fino nell’utero. La cappella rossa, dura, bagnata di quel maschio venne strofinata forte contro quelle pareti vaginali, che non perdonavano. Assomigliavano infatti a una di quelle piante carnivore, pronte a divorare tutto ciò che si posa sui loro petali.
– Ahu’ Ahuuu’ Ahuuuuuu! ‘ sbraitava la femmina.
Il maschio, invece, grugniva, cercando di spingere sempre più forte, di andare sempre più in profondità, di darle sempre più piacere e sofferenza, insieme.
In principio, il ritmo era veloce, tanto da far gridare forsennatamente lei, per l’eccitazione, mentre lui stava zitto e pompava. Poi, l’andatura divenne più lenta ed entrambi presero a lanciare dei versi animaleschi; pareva un concerto, andavano davvero in armonia.
– Ah’ Grrr’ Ahu’ Ahaaa’ Gnnn’ Mmmm’ Ahi’ Ahr’ Ahua’
Questa musica proseguì a lungo, mentre tutti li guardavamo eccitati e qualcuno aveva tirato fuori il membro e si masturbava.
– Sì! Adesso ti scopo come una cagna! Ti scopo come una cagna! Dai!
Così disse il Beone.
Poco dopo, la colse di sorpresa. Fino a un istante prima, le aveva dato delle scosse lente, sapienti, intervallate da piccole pause; da allora, invece, la aggredì, la molestò, la tormentò, con delle spinte e un ritmo forsennati, tanto, da far paura.
Gretel, sentendosi assalire in quel modo e, soprattutto, accorgendosi di correre pazzamente verso l’eiaculazione insieme a quel maschio, si mise a sbraitare, divertita.
Io non riesco a raccontare i mugolii, i versi, gli aneliti di quella giovane femmina in calore.
Quando il primo scopatore le ebbe spruzzato il grembo col suo sperma, fu la volta del secondo.
Prima che cominciassero, però, la mia cara sorellina si spogliò nuda, sì, si tolse ogni velo e rimase soltanto con le scarpette ai piedi. Poi, prese un gran boccale da birra e tolse lo zipolo a una delle botti. Dopo che lo ebbe riempito di vodka, se lo riversò addosso, follemente.
– Ah! E’ come il fuoco! ‘ disse. ‘ Ed ora leccami, succhiami, bevimi, mio caro amante, perché sono più inebriante dell’ambrosia!
– Sei mia! ‘ mormorò il Mendicante, legando il suo cane al primo appiglio che trovò, affinché non fuggisse.
Le succhiò a lungo le labbra, che erano madide di liquore ed ubriacavano. Lei glielo permise, anzi, lo invitò a non smettere, lo stuzzicò con la lingua, che era assai lunga, dolce, affettuosa. Non esitò a ficcargliela in bocca, a tormentargli teneramente il palato, mentre l’altro cercava di mordicchiargliela con i denti, in un gioco che sembrava senza fine.
– Dov’&egrave? Dov’&egrave? ‘ chiese Gretel. ‘ Ah, eccolo! Finalmente’
E glielo prese tra le labbra, prima che il Mendicante potesse fare qualsiasi cosa. Sul pube di lui, che era rasato, mi parve di scorgere un tatuaggio, ma non saprei dire cosa fosse. Forse, si era fatto fare lo stesso disegno anche sul’
– Te lo mangio! Ora te lo mangio! ‘ fece la bella.
All’improvviso, gli diede un morso, proprio lì’ Non gli fece male, ma riuscì a strappargli un grido, di piacere.
Così, per punirla, lui glielo mise nell’ano. Forse era la prima volta che la giovane se lo sentiva nell’intestino’ Fu una sensazione dolce, per lei, che non avrebbe dimenticato facilmente quelle emozioni e sembrava perdere dalla fica un liquido vischioso, erotico, filante e molto, molto femminile.
Non riuscii a resistere e avvicinai la mia lingua a quella vulva profumata, che leccai avidamente’ Ah, ne trassi un miele prelibato, sublime, dolce come un orgasmo!
La ragazza era tanto materialista quanto affettuosa. Il suo carattere si rifletteva sul suo modo di fare sesso. Notai una grossa scritta in cirillico, su una delle sue natiche. La vidi rossa, imponente, trasgressiva, come il fumo e la nebbia vaga che avvolgevano la Locanda Stalin.
Vi fu una doppia penetrazione, anale e vaginale’ Che strepiti! Che urli! Che versi scimmieschi e appassionati!
Allorché fu la volta del Bagatto, fui io a dover reggere la fisarmonica e a continuare a suonare quella musica tenebrosa.
L’ultimo scopatore mise Gretel su di una botte, con le gambe all’insù, all’insù, sì, per torturarla meglio. Alla fine, la meravigliosa parve quasi svenire di piacere.
Tutti erano lieti e contenti, fuorché io, forse. La mia sorellina si mise a tirare baci a destra e a manca, appoggiando il dito sulle sue rosse labbra e facendole schioccare. Portava di nuovo indosso il suo abitino color crema ed era così carina con quei lunghi capelli scarlatti, disordinati e sciolti’
Gretel, il Mendicante, il Beone ed il Bagatto si presero tutti per mano ed improvvisarono un allegro girotondo, mentre io li guardavo e strimpellavo amaramente la fisarmonica. Indietreggiando, urtai inavvertitamente una delle botti di vodka, che prese a ruzzolare e andò a fracassare un mucchio di bottiglie vuote.
Alla stagione degli amori segue la stagione degli addii, alla stagione degli addii segue la stagione del pianto, alla stagione del pianto segue la stagione dell’immenso.
Io non desideravo, nell’animo mio, questo circo infinito di vaghezze ed oblio. Volevo soltanto al mio fianco quel corpo affettuoso, e quelle guance morbide, sulle quali posare teneramente le mie labbra, di quando in quando.
L’estate russa volgeva quasi al termine, con i suoi olezzi, le sue visioni, la sua luce crepuscolare.
Un giorno, credetti di impazzire. Avevo perduto la mia adorata sorellina e non riuscivo più a trovarla. Era scomparsa. Forse, l’aveva rapita il vento del Nord’ No, non poteva essere. La chiamai disperato, a gran voce:
– Gretel! Gretel! Ti prego, rispondimi!
Ma ella più non rispondeva alle mie premure affettuose.
Uscii correndo. Quel mattino, nel borgo, si teneva il comizio. La piazza principale era ingombra di folla. Gli astanti erano vestiti con gli abiti tradizionali russi, in parte acquistati, in parte cuciti in casa. Dalle tasche degli uomini spuntavano dei fogli di giornale. Su uno di essi, credetti di riuscire a leggere Prabda, scritto in cirillico.
La luce era crepuscolare, vaga, rossastra. I primi raggi dell’aurora tingevano di fuoco i volti diafani delle donne, dalle chiome lunghe e meravigliose, e facevano scintillare gli occhi cupi dei loro mariti. C’erano anche dei vecchi, che si appoggiavano al bastone, e dei fanciulli, che tenevano per mano le loro madri.
Vidi sfilare una banda, che intonava inni socialisti’
Avevano innalzato un palco. Scorsi una sorta di tribuna di legno, dove avevano dipinto una falce e un martello, dorati, su sfondo scarlatto. C’erano tante, tante bandiere’ Di lassù, qualcuno arringava la folla, con l’accento di un Lenin’
– Gretel! Gretel! ‘ gridavo, follemente.
La cercavo tra la folla, sotto i tigli grandi’ Un presentimento triste mi divorava! Se non fossi riuscito a ritrovare quei meravigliosi occhi d’affetto, sarei morto di crepacuore.
– Gretel!
All’improvviso, mi accorsi di una mano, appoggiata teneramente sulla mia spalla. Era lei.
– Sarei impazzito, senza di te ‘ le sussurrai, giocando con i suoi capelli.
– Anch’io ti desidero ardentemente ‘ mi rispose. ‘ Sono innamorata di te, da sempre’ Da sempre, sì!
Ci abbracciammo e ci baciammo appassionatamente, in mezzo alla folla del comizio, mentre una voce prometteva campi, case, prosperità, felicità ed eguaglianza a tutto il proletariato.
Per un istante, temetti che la mia storia d’amore con Gretel non sarebbe durata più a lungo di quell’estate dorata, che oramai volgeva all’occaso.
Fu un presentimento infondato.
L’illusione parlava all’illusione, il bacio non mentiva all’affetto, il complimento faceva arrossire ardentemente le guance di bambola della mia bella.
Quell’adorabile giovane mi avrebbe sospirato per sempre, lo sentivo.
Il sole giocava sovente con il mistero e la malinconia delle conifere.
A Settembre, arrivò il Comitato.
Si insediò nella piazza grande. Era composto da signori dai volti arcigni, cupi, che portavano in testa dei cappelli neri, con la visiera, ornati da strisce rosse. Qualcuno di essi, di tanto in tanto, sorrideva, mostrando i suoi denti terribili, nonché la perfidia dell’animo suo. Pareva un ghigno, più che un sorriso.
Taluno dei membri, però, appariva bonario. Ve n’erano alcuni con la barba, altri, con dei grandi mustacchi alla bolscevica, biondi, rossi o canuti. Certi portavano la divisa. Le loro medaglie, i loro bottoni d’oro o d’argento, il loro altero portamento, facevano impressione all’incuriosito passante.
La permanenza del Comitato, nel piccolo paese di ***, sarebbe stata breve. Nessuno dei monelli del villaggio avrebbe mai osato tirare la barba ad uno di quei signori, né fargli lo sgambetto.
I luogotenenti del mistero si sedettero dietro un bancone di legno, in parte tarlato, ornato di grandi coccarde rosse. Credetti di discernere molte rose scarlatte, vicino alle grandi penne d’oro dei capi. Vi era anche un lungo striscione, con una scritta in russo, che più non riesco a ricordare. Un’otarda smarrita si posò per un attimo sulla spalletta di uno degli ufficiali, mentre la luce vaga del crepuscolo tingeva dei suoi colori cupi quei luoghi un tempo ameni e i volti pensosi dei presenti.
Uno dei componenti del Comitato si mise a parlare al volgo, con una sorta di megafono. La voce sua mi parve roca, stridula e assai metallica.
Io e Gretel passavamo di là, tenendoci per mano.
Quelle che udimmo, furono le parole del destino.
Erano i nomi delle coppie che sarebbero state unite in matrimonio prima della fine dell’anno. Poi, vennero i nomi dei nuovi nati ed infine quelli dei condannati a morte, non importa se per cause naturali o perché sottoposti alla pena capitale.
Io baciavo affettuosamente le labbra rosse della mia amata sorellina, mentre una bandiera con la falce e il martello volava nel vento e un soldato in divisa faceva il saluto militare.

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