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Rientrai in città il lunedì pomeriggio.

Per tutto il tragitto che dalla stazione mi avrebbe condotta a casa, continuai a ripetermi il discorso che avevo imparato a memoria durante il viaggio in treno. Guardavo distratta i passanti dai finestrini dell’autobus, annotando spunti di conversazione e ipotetiche risposte alle probabili domande di mia sorella. M’imposi di parlare con lei pacificamente, imprigionando Agitazione e Nervosismo nelle segrete ventrali per non concedere loro alcuna libertà di espressione. Recitai a memoria il ragionamento studiato nei minimi dettagli (forse più a me stessa che alla sua immagine nella mia mente): ciò che avevamo fatto era insolito, sicuramente, ma ciò non giustificava l’avermi ignorata per tanto tempo.

Mi trascinai verso casa, i piedi sempre più pesanti con l’avvicinarsi dell’uscio, girai la chiave nella toppa e la vidi intenta a guardare il televisore: sicuramente gli occhi stavano osservando il film ma la mente, supposi, doveva trovarsi su un altro piano dell’esistenza. La salutai con un timido “Ciao”, ricambiato da un altrettanto cortese “Com’è andato il weekend?”. Continuammo così per qualche battuta, seguendo il classico copione delle tipiche situazioni imbarazzanti. Andai in camera e disfai la valigia, lei rimase al suo posto sul divano; chiaramente stavo cercando di prender tempo e calmare il senso di panico che aveva iniziato a tormentarmi inalberandosi lungo la mia spina dorsale e facendomi tremare le gambe. Tornai da lei, batticuore in spalla come il fedele zaino del campeggiatore, alzai il sipario e dimenticai tutto il discorso che avevo così diligentemente imparato a memoria.

Iniziammo presto a entrare nel vivo della discussione, a innervosirci e urlare, a calmarci e fare lunghe pause di riflessione prima di riprendere nuovamente il nostro litigio.

«Come potevi anche solo pensare che mi sarei comportata normalmente dopo quello che è successo?»

«Non lo so, Nami, ma non mi è sembrato comunque corretto ignorarmi in questo modo, come se fossi un’estranea e non tua sorella.»

Ognuna replicava con le sue alle ragioni dell’altra. I nostri visi si tinteggiarono di sfumature accese di rosso, palpitazioni in mostra e senso di colpa nascosto, con vergogna, sotto il pavimento, trasparente ad altri ma ben udibile alle nostre orecchie.

«Ti sei pentita di quello che è successo?»

Scoccai la freccia con precisione. Nami mi guardò, sostenne il mio sguardo e rispose con una sola, singola sillaba: No.

«Nemmeno io.»

Corsi da lei e la abbracciai, non ci fu bisogno di dire altro. Sentii defluire di colpo l’inutile furore che mi aveva sommersa pochi istanti prima. Dapprima impacciata, la stretta divenne presto confidenziale. Mi separai da lei e notai che stava piangendo. Le asciugai le lacrime con un fazzoletto, mi avvicinai per abbracciarla nuovamente ma intercettò il mio movimento, lo placcò e mi baciò.

Per una seconda volta ebbi una fugace visione dell’Eden, persino più intensa e sublime della prima. Assaporai il desiderio di mia sorella di porre fine a quella lite, di spaccare le travi di legno e riesumare quel senso di colpa, interromperne il noto, lento e crudele ticchettio e spazzarlo via dall’esistenza. La passione cedette il passo alla dolcezza. Un secondo, tenue bacio seguì al primo. Percepii il suo cuore palpitare ancora con forza attraverso gli occhi rossi e non ebbi il coraggio di staccarmi da lei, non prima di averla abbracciata con ancor più vigore.

«Se vogliamo capire bene cosa sta succedendo, dobbiamo farlo insieme. Sei d’accordo?»

Nami annuì debolmente, la limpidezza della mente appena un po’ ottenebrata da dubbiose nuvole di desiderio.

«Volevo prepararti una sorpresa, ma non sapevo se avessi voglia di vederla, quindi… non è ancora pronta.»

«Andrò a fare una passeggiata, ti lascerò tutto il tempo di cui hai bisogno.»

Le sorrisi ancora un po’ imbarazzata, elargendo normalità a qualcosa che nemmeno io ero sicura fosse degno di un simile dono. Feci velocemente una doccia, mi vestii e, come promesso, uscii per lasciarle il tempo necessario a preparare qualsiasi cosa avesse in mente, così come per schiarirmi io stessa le idee.

Camminai a lungo e ragionai; rifransi dubbi morali e preoccupazioni, diretti a folle velocità verso il mio cuore, incanalandoli sotto un immenso tappeto: non avevo voglia di affrontarli, né le energie per farlo.

“Forse devo solo vedere come andrà, lasciare che… questa cosa faccia il suo corso…”

Mi convinsi a seguire questa filosofia. Scrissi a Nami domandandole il permesso di rientrare e feci dietro-front; una trentina di minuti dopo fui nuovamente a casa, accolta dalla sua voce decisa.

«Non entrare in camera da letto!»

«Agli ordini, comandante.»

Le strappai un risolino e sorrisi anch’io, spargendo un pizzico di spensieratezza tra quelle mura. Cenammo, ridemmo e scherzammo, dimenticando la lite che fino a poche ore prima aveva tentato di dividerci. Bevemmo un po’ di vino e calmammo l’agitazione. Il sole andò a riposarsi, permettendo alla luna di timbrare il cartellino e iniziare il turno lavorativo.

«Aspetta qui, quando ti chiamo, vieni in camera.

«Obbedisco!», risposi facendo il saluto militare, risi e mi versai un altro po’ di vino.

Mi chiamò pochi minuti dopo, socchiudendo la porta e lasciando trapelare un bagliore rossiccio. A fil di voce m’incitò a raggiungerla, entrai in camera e fui subito accecata dalla luce di non so quante candele accese. Aveva fatto tacere il lampadario e aperto un po’ la finestra, per dare possibilità alla freschezza della sera di mitigare il calore che lì dentro stava aumentando, minuto dopo minuto. La sua leggiadria permeava l’aria attorno a noi. Indossava un bianco peplo che le arrivava fino alle caviglie. Era scalza.

«Dove cazzo sei riuscita a trovarlo?», quasi urlai di stupore.

«Ti piace?», si guardò le gambe e ondeggiò, per permettermi di osservare meglio l’abito, tornando poi a rivolgere lo sguardo al mio viso, sorridendo in attesa del mio parere. Le dissi che la adoravo, mi avvicinai e la abbracciai nuovamente. Mi strinse di rimando, dicendomi che quel lungo talare era l’unica cosa che indossava. Strabuzzai gli occhi, incredula.

«Nami… sei sicura? Cioè, io vorrei ma…»

Mi zittì, annuendo. Si voltò, mostrandomi la pallida schiena semi scoperta e spostando di lato i capelli. Le poggiai le mani sulle spalle cariche di tensione e le carezzai la nuca con le labbra. Si voltò un po’ verso di me, cercandomi il naso con il suo, socchiudendo gli occhi. Le stampai un bacio a metà strada tra guancia e bocca, in quel casto punto capace di far accendere la passione. Continuai lungo il collo, percorrendo quei viali disegnati da muscoli e tendini, dirigendomi verso la spalla. Ne scoprii una e baciai anche quella.

«E’ più facile se tiri quei lacci… quelli lì!»

Il peplo scivolò via, vittima della forza di gravità, e il suo corpo nudo fu l’unica cosa che vidi. Niente più candele, né luna, né tantomeno il mobilio circostante: le sue forme, la sua essenza, erano le uniche cose che ero in grado di osservare. Portò istintivamente le mani al seno, poi si costrinse a lasciarsi andare, si voltò e si distese sul letto, ancora un po’ rigida e impacciata.

«Puoi lasciarne accesa una sola.»

Soffiai sulle candele, obbedendo alla sua richiesta e facendo calare la penombra nella stanza. Mi spogliai velocemente, smaniosa di tuffarmi in quel rituale erotico, e mi posizionai accanto al suo letto, un po’ intimidita dalla solidità di ciò che ci stava correndo incontro. Non avevo idea di cosa mi avrebbe permesso di fare, né di quanto io stessa fossi desiderosa di sperimentare. Decisi di scoprirlo con calma, ansiosa di toccarla e baciarla ma pavida di perdere quanto conquistato.

Pensai per un attimo, poi urlai mentalmente un Eureka! e le parole scorsero da sole e con veemenza, come fa la fredda acqua del fiume tra le dita.

«Ho fatto un sogno, l’altra notte. Mi ero trasformata in uno sparviero dalle ali nere, le cui penne proiettavano indaco quando la luce dell’alba ne accarezzava la superficie.»

Strinsi le dita della mano e la agitai a mezz’aria su di lei imitando il volo del leggiadro rapace, ondeggiando a destra e a sinistra, facendo finta di planare lungo la scia disegnata dal vento.

«Sorvolavo il Serengeti alla ricerca della famosa cascata narrata nei miti delle tribù locali, tramandati attraverso il suono di mille tamburi e delle voci sagge di chi ci ha preceduto. Iniziai il mio viaggio all’alba, librandomi sulle creste e sui pinnacoli innevati a nord – con la mano le ombrai naso e labbra – proprio quando il rosa, l’arancione e il rosso del nuovo giorno iniziavano a mescolarsi tra di loro e l’orizzonte mostrava appena la curva del sole. Proseguii verso mezzogiorno; incontrai presto due altipiani che incorniciavano un’assolata valle, popolati entrambi da elefanti e gazzelle e gnu e antilopi e ancora fieri leoni e agili pantere e astuti leopardi screziati che si apprestavano a cominciar la caccia.
«Vidi poi le orgogliose zebre striate di candido carbone e peccaminosa neve; eccole scalpitare lungo l’altopiano e correre a perdifiato, sempre più velocemente, incontro all’appetitoso cereale color dell’oro, accumulato in un singolo covone da alacri coltivatori», le indicai il capezzolo e rise a quell’immagine.

«Quella torma di bianco e nero sollevò nugoli di polvere e fece tremare la terra; che rimbombò e spumeggiò alla furia e al fragore generati al loro passaggio.»

Le poggiai le dita libere alla base del collo e sentii il suo cuore. Tamburellai lentamente con i polpastrelli lungo la collina formata dal seno sinistro, imitando gli zoccoli dei quadrupedi nel loro spostarsi verso il covone di grano, accelerando e aumentando la pressione contro la pelle nel susseguirsi delle parole e dell’agitazione degli animali, mentre con la sinistra continuavo a impersonare il nero uccello nel suo volo verso meridione, attento spettatore di ciò che succedeva dabbasso.

Indice e medio si avvicinarono al tumido capezzolo, ne sfiorarono i contorni e, imprigionati nella gravità della sezione aurea che della punta carnosa aveva fatto il suo centro, finirono ineluttabilmente per stuzzicarne la sommità, meta temporanea del loro peregrinare. Nami ansimò e si mosse appena, chiaramente inebriata dal tocco leggero delle mie dita. Allargò un po’ le gambe.

«Volai incontro all’oriente – deviai verso il mio seno – e trovai un piccolo villaggio Masai. La fiera popolazione esigeva un tributo…»

Interruppi momentaneamente la mia metamorfosi, tornai a essere Sara e le presi polso e mano per portare le sue dita a far conoscenza con le mie labbra. Nami chiuse gli occhi, mentre delicatamente le mie mucose assaporavano i caldi polpastrelli ed elargivano baci ai cinque membri di quel clan.

«Sai che c’è un’altra tribù che abita proprio qui?», sorrise, porgendomi lasciva l’altra mano.

Baciai silenziosamente anche quella, soffermandomi per più tempo su ogni singolo dito, ne accarezzai la pelle con la lingua. Mutai nuovamente in sparviero e ripresi la mia ricerca.

«Il mio vagare mi portò sopra l’ocra delle terre centrali – spostai la mano sopra il suo ventre – dove vidi le alte giraffe dissetarsi alla pozza dell’acqua… aspetta!»

«Dove vai?»

Corsi in cucina e pochi secondi dopo fui nuovamente al mio posto, con una bottiglia di acqua fresca in mano. Ne versai qualche goccia nel suo ombelico.

«Uuuuii… è ghiacciata!», trasalì, facendo rovesciare il liquido e irrorando i terreni limitrofi.

«Se non stai ferma, devo continuare a versare, mi serve per parlarti del sogno!», chiosai severa.

Altre gocce d’acqua riempirono quella piccola conca e la vidi resistere stoicamente, chiudere gli occhi e umettarsi le labbra, nell’attesa di quanto stava per succedere. Le mie dita partirono al galoppo dalla base del suo seno; quando furono in prossimità della meta, mi chinai su di lei e, con la punta della lingua, camminai lungo i contorni circolari del suo ombelico prima di assaggiare le poche gocce che ancora sostavano lì dentro. Nami ansimò di piacere; incitandomi a continuare, inarcò la schiena per venire incontro alla mia bocca, mettendo sempre più in mostra la sua essenza, agitandosi sul letto, irrequieta. Sorrisi maliziosa, quando un refolo d’aria spense la candela e ci gettò nell’oscurità, lasciando al disco lunare il compito di rischiarare l’ambiente.

«Nel mio sogno continuai verso sud, la cascata non doveva essere poi così lontana. Sfruttando le forti correnti ascensionali sorvolai maestosi canyon, luoghi magici dominati dal vermiglio, dal cremisi e dall’arancio; intravidi un piccolo boschetto di piatte acacie e imponenti baobab capaci di offrirmi ristoro, freschezza e penombra – le stuzzicai con due dita lo scuro vello inguinale, smuovendone le fronde, scatenandole un moto di risa e un movimento del bacino che contraddisse quella reazione divertita – ma decisi di proseguire il viaggio e dirigermi sempre più a meridione. Lì incontrai altre due tribù e decisi di pagare lo stesso tributo versato ai clan rivali.»

Similmente a quanto fatto alle estremità boreali, schioccai un bacio a ogni singolo polpastrello dei piedi, prima di riprendere il volo e librare nuovamente la mano sul corpo di mia sorella.

«Fui contenta di aver versato quel pedaggio perché, grazie alle indicazioni che in cambio mi furono fornite, intuii la direzione da seguire. Non più verso sud, quindi; mi diressi a settentrione, decisa a esplorare i segreti nascosti nella boscaglia.»

Planai sulla vulva di Nami, bene in vista adesso che, sentendomi vicina alla fine del sogno, aveva allargato le gambe per liberare forme, colori, odori e quella nube di feromoni che tanto stava nuocendo alla mia lucidità.

«Incontrai il Kilimanjaro – si lasciò scappare una risata e un commento sarcastico sul fatto che non fosse poi così grosso; la sua voce cristallina mi contagiò ed io stessa iniziai a ridere – lo so, è normalissimo, ma mi lasci continuare?
«… lo vidi svettare possente sulle creste circostanti. Lì, appena sotto la cima, il mio viaggio terminò. Ecco la cascata, la cui acqua color dello zaffiro, stillando da quel luogo primigenio, è capace di aspergere e rendere fertile la pianura sottostante.»

Infilai piano la cima di un polpastrello, desiderosa d’incontrare la sua vagina, ma mi fermò.

«Scusa… non così!»

Un secondo sparviero si alzò in volo e fece compagnia al primo; Nami portò la sua mano a protezione della vetta e con l’altra guidò le mie ali sopra di essa. Iniziammo a muoverci all’unisono, la lasciai condurre il gioco seguendola fedelmente in quei movimenti.

«E lo spettacolo della migrazione ebbe inizio; assistetti all’orda di gnu muoversi circolarmente e sempre più rapidamente, alla ricerca…»

Fui incapace di continuare a parlare. Iniziammo ad ansare sotto le spinte del piacere, avvicinando sempre di più le bocche, quasi che desideri e segreti potessero fluire tra di noi grazie al ponte costruito dai nostri fiati. I respiri si accorciarono, i due cuori decisero di imitare i tamburi di guerra e battere più velocemente.

Mi accorsi che avevo ancora una mano libera e decisi di usarla. Mi piegai leggermente verso il basso, arcuando appena le gambe, e scoprii che anche la mia cascata era più viva e copiosa che mai. I riflessi mi portarono a copiare i movimenti che la mano gemella stava impartendo a mia sorella. Mossi le dita velocemente, spostando il baricentro sempre più al mio interno, bagnandomi lentamente le cosce nello sciabordio generato dal vortice di voluttà.

Nami annuì a qualcosa che non avevo chiesto; incalzando l’orgasmo si sollecitò con maggior vigore, sferzandosi amorevolmente la carne. Decisi che anche per me era arrivato il momento di concedere ai bisonti la libertà di addentrarsi nella caverna ed esplorarne i segreti. Un quadrupede trovò facilmente il sentiero da seguire; accarezzò e solleticò, facendo scaturire una vampata di calore che mi scalò, come un geyser, esofago e trachea, prima di disperdersi al di fuori della mia bocca e aumentare il calore circostante. Al primo ne seguì subito un secondo; il fratello cambiò idea e si dedicò alla sporgenza esterna che sormontava l’ingresso della spelonca, mentre le corna dell’altro ne uncinarono gli anfratti più nascosti, raschiando e accumulando piacere per un uso futuro.

Nami abbandonò la dimensione sulla quale si era rifugiata e tornò cosciente di ciò che la circondava: portò la mano inutilizzata sul mio seno destro, sentii il suo palmo sormontarmi il capezzolo, e iniziò a massaggiarmelo stuzzicando e premendo piano. La ringraziai con un mugugno e rispose allo stesso modo, gli occhi socchiusi nell’opacità dei sensi.

Il branco di zebre riprese a galoppare con più ardore, consapevole che la stagione delle grandi piogge era imminente; i cumulonembi, infatti, ci raggiunsero presto e scatenarono tutta la loro forza. Roboanti tuoni di piacere si affrancarono dalle nostre labbra e fulminee scariche elettriche emanarono dai nostri corpi spossati dallo sforzo fisico ed emotivo. Il Tanganica, sulla cui limpida superficie i due sparvieri ancora volavano, fu il primo a rompere gli argini, seguito a ruota dal Lago Vittoria. La pioggia battente fece riversare enormi quantità d’acqua sugli affluenti, che con egual violenza iniziarono a scorrere lungo le cosce e resero floride le pianure lì intorno.

Con la stessa rapidità di come si era alzata, la marea si abbassò poco dopo e il sangue palpitò a un ritmo a lui più consono. Ansammo per un po’, guardandoci leggermente imbarazzate e ridendo, poi anche i polmoni si chetarono e riprendemmo a respirare normalmente.

«Sei venuta?», mi domandò curiosa in un fil di voce.

«Sì, non quanto te, ma sì!»

Quest’ultimo commento la costrinse a portarsi le mani al viso e nascondersi alla mia vista, ridendo un po’ a disagio per sostituire l’assenza d’inutili parole. Le spostai le braccia e la baciai.

«Scusa se non sono stata io… cioè… a fare come hai fatto tu con me… e prima a fermarti…», balbettò timidamente, ogni traccia di lussuria quasi sparita dalla sua voce. Fermai sul nascere qualsiasi senso di colpa, assolutamente non necessario, prima che prendesse piede.

«Non preoccuparti, piccolo panda. Va benissimo così. Spostati, fammi spazio!»

Mi accovacciai accanto a lei, sentendo sulla mia il calore della sua pelle, e le impressi un altro piccolo bacio sulle labbra umide. Lei ricambiò prontamente con una carezza al viso, dita dietro l’orecchio e pollice sullo zigomo, gli occhi neri appena velati da uno strato di rugiada fresca. La rassicurai un’altra volta e ci coricammo sul fianco, addome contro schiena, ancora nude, sudate e appiccicose dell’amalgama creato dalla polvere e dall’acqua del Serengeti, mentre la luce tramontava su quella terra incantata e dipingeva di pervinca, indaco e violetto le calde coste africane.

«Pensi sia normale… tutto questo?»

Aspettai un po’ prima di risponderle, indecisa sulle parole da utilizzare.

«Ha importanza? A te piace, piace anche a me, direi che conta solo questo, no?»

Sospirò, le accarezzai il ventre con le nocche e le baciai il collo.

«Facciamo un viaggio? Solo io e te!»

«Dove vuoi andare?»

«Al mare. In Spagna? Ti va?»

Chiusi gli occhi e sorrisi, la stanchezza aveva ormai quasi distrutto la mia lucidità. Annuii alla domanda di Nami, sbadigliammo e i nostri respiri si sincronizzarono nel sogno.

— continua

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