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Racconti Erotici

Arcane esteriorità

By 22 Gennaio 2020Giugno 17th, 2020No Comments

L’asfalto è attualmente bagnato dalla pioggia e da diverse ore ormai non transita più nessuno, la stanza è buia illuminata solamente dalla pallida luce artificiale, cosicché m’avvicino al grande tavolo da disegno e fra le tante carte lassù intravedo un foglietto con uno scarabocchio rosso annotato, perché là di sopra spicca infatti una specie d’uomo attaccato a un albero, con tante mele e una distesa di fiori ai piedi. Quest’originale quanto genuino bozzetto l’ha disegnato lei, mentre fumando m’ha riferito della sua ultima conquista in palestra, io frattanto accartoccio quello schizzo e lo getto velocemente nel cestino. 

Le note armoniche del brano “Rikki Dont’t Lose That Number” degli Steely Dan frattanto risuonano nella sala, per il fatto che fra l’altro è un gruppo che io adoro in maniera specifica, in quanto è intrisa di sonorità dal genere fusion ammalianti, in cui tutto ruota attorno a una frase musicale di pianoforte con la voce aspra di Donald Fagen, mentre in sottofondo le chitarre distorte riescono a dare quel tanto di carattere che basta senz’esagerare. Quelle equilibrate note si susseguono ininterrottamente, da quando lei ha deciso che quello doveva essere tassativamente il CD della serata, soltanto un sottofondo, ma che non m’impedisce d’accostarlo né d’associarlo al calore e alla foga del suo corpo, perché in quell’istante ho uno scatto e spengo d’istinto lo stereo. Mi dirigo verso il letto sfatto, mi distendo tra le lenzuola, giacché sono impregnate e diffusamente pervase del suo profumo e dalle sue abbondanti secrezioni. L’odore che si leva mi colpisce, mi disorienta, mi centra in modo immediato e istantaneo frastornandomi così come farebbe uno schiaffo ricevuto in pieno viso, dato che non posso stare nemmeno lì, allora m’alzo. 

Rapidamente io sposto lo sguardo sul comodino, sotto la finestra osservo un bicchiere di vetro vuoto con il chiaro disegno delle sue labbra, sempre ricoperte di rosso, infine lo scaglio impulsivamente con forza per terra. Il bicchiere nell’impatto si rompe in decine di piccoli pezzi, che colpiti dalla luce s’accendono come gocce di pioggia. Dio come la detesto, non la tollero per niente, odio il comando, rifiuto il predominio, respingo la prepotenza con la quale invade il mio spazio usurpando finanche con il dispotismo e con l’insolenza i miei pensieri, la mia casa, la mia vita, l’abilità e la capacità d’entrarmi e di ficcarsi dentro con angheria anche quando non c’è, principalmente con supremazia e soprattutto con strapotere quando non c’è. Non mi permette di vivere, di godere, di gustarmi e infine di potermi rallegrare con altre persone, delle altre sensazioni, delle altre commozioni e delle altre meraviglie. Impronte, indizi, segnali e tracce di lei sono dappertutto, per il fatto che quando va via lascia sempre dei segni indelebili e inequivocabili della sua presenza, nella stanza, sugli oggetti, nell’aria, nell’ambiente e in special modo con autorità indiscussa nella mia testa. 

Adesso apro la porta, lei ha i capelli rossi quasi completamente bagnati, il cappottino di tweed di lana scozzese color verde mela allacciato fino sul collo e il bavero alzato intorno al viso, le calze rosse e gli stivaletti di vernice verde scuro, con le mani in tasca e un sorriso che rischiara la stanza. Lei entra e mi travolge con la stessa violenza e con l’impeto d’un fiume che rompe gli argini, parole, profumo, risate, racconti, musica ad alto volume, baci e poi il suo corpo, intanto che si sfila i vestiti io rimango abbagliato da ogni centimetro di pelle che mi mostra, dato che vedo il suo pallore esplodere sotto la luce dove sembra ancora più bianca. 

Lei sancisce, lei dispone, lei ordina, lei pretende, lei stabilisce, lei vuole, sa e si rende conto che può agguantare e ghermire tutto quello che vuole da me, il mio corpo, il mio letto, la mia capacità di scoparla per ore, però non pretende né reclama che le parli d’amore, non accetta domande, non gradisce richieste, non vuole suppliche, mi usa, m’adopera per passare la serata, per sentirmi suonare, per ascoltare le poesie che compongo per lei. Questo mi deve invero bastare, mi deve soddisfare e saziare, perché devo renderle atto che è sempre stata chiara e precisa su quelli che dovevano essere i concetti e i principi imprescindibili, peraltro vincolanti su cui basare e impostare la nostra relazione. Attualmente è sdraiata sul letto, ha tenuto gli slip e il reggiseno nero come in una libidinosa sceneggiatura, però scrupolosamente nero. 

Sotto il delirio di colori e sotto il fanatismo di fantasie che usa per vestirsi ho visto solamente biancheria nera, il sorrisetto a tratti atroce, diabolico e maligno le disegna un’espressione conosciuta, sperimentata, perché so che cosa vuole esattamente da me, alza le braccia sopra la testa e inarca la schiena chiudendo gli occhi, in quanto non posso fare a meno di tremare quando la sfioro sotto le mie dita vacillanti ma vogliose, il velluto della sua pelle si raggrinzisce, brividi e sussulti sottili la percorrono scardinandole le viscere. Quando l’accarezzo m’invade la stessa magia che mi rapisce e che m’incanta quando suono il pianoforte, la stessa alternanza del bianco della sua pelle, con i tasti tristi della sua biancheria intima, la musica che scaturisce dalle sue labbra cambia secondo l’intensità e la virulenza dei miei gesti, dalla loro velocità, soltanto respiri lievi all’inizio, poi via via sempre più affannati, trattenuti a stento mordendo le labbra, singhiozzi di piacere prima, poi le urla. 

Dio, quanto sa essere grossolana, sguaiata e persino rudimentale quando se la spassa e se la gode, quando si trasforma convertendosi in una puttana dove puoi e devi in modo categorico fare di tutto. Tante, troppe volte, ho raggiunto l’orgasmo unicamente sentendola e vedendola godere. Le sue sboccate esortazioni, le sue lascive richieste, i suoi scostumati incitamenti, le sue scurrili grida, i suoi sregolati stimoli e i suoi dissoluti sguardi, non possono fare altro che sottometterti e sbaragliarti alla sua forza impetuosa e dirompente, alla sua sensualità innata, alla sua capacità d’esigere, di reclamare molto e d’ottenere di più. Io però la odio, intanto che disdegno e disapprovo, eppure Dio solamente sa quanto, però ogni volta che va via io soffro, patisco e peno, perché muoio un po’ stupidamente, in quanto ottusamente assisto partecipando impotente e disarmato alla mia fine. Gradualmente scivolo cadendo immancabilmente verso l’orlo del precipizio d’una solitudine, in un’assenza che non lascia scampo, perché ti rende dominato e schiavo, sì, è vero dipendente da sensazioni e da pensieri tristi, però allo stesso tempo malleabili, alquanto amabili e gradevoli da non farti desiderare di stare meglio. 

Un pezzo di me è rimasto impigliato nei suoi capelli rossi, avvolto tra le pieghe dei suoi vestiti, perché al momento è imprigionato, deliziosamente ingabbiato e gradevolmente rimasto coinvolto nella piccola luce che si riflette nei suoi occhi, in quanto si è di colpo trasformato nelle molecole dell’aria che respira, che lei scalda con il suo corpo, perché mi sembra di vederla tornare verso casa per baciare il suo uomo, lei con il corpo beato, estasiato e soddisfatto dalle mie carezze, però con il cuore costellato, gremito e gonfio d’amore per lui. 

Io ironizzo nell’insieme sorridendo di me stesso, mi schernisco mentre i pensieri si snaturano, derido dei miei piani e mi dileggio in ultimo dei miei a tratti appetibili e invidiabili proponimenti, infine di come bizzarro, prospero e stravagante è quello che mi succede, per il fatto che ricomincio di nuovo a vivere e a resistere, in attesa e in previsione di rivederla appena possibile. 

{Idraulico anno 1999} 

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