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Racconti Erotici

Beyond the White. Indian Target

By 16 Luglio 2021No Comments

Nota: Parte a scarso contenuto erotico anche a causa del massiccio lavoro che ha richiesto. Il seguito sarà sicuramente più idoneo alle aspettative di alcuni lettori.

La donna osserva la scena. Corpi a terra, sangue, bossoli, la polizia ha messo in sicurezza l’area e blindato completamente la città. Tutte misure che lei sa, comprende essere inutili.
La donna riconosce, capisce, accetta che i responsabili dell’attacco a Tah hanno messo a segno un colpo micidiale. E che, sebbene Tah fosse scomodo, le circostanze della sua morte e le conseguenze di quest’ultima veicoleranno presto una catena di eventi che farà sembrare la Guerra del Kashmir una barzelletta.
-Pakistani.-, sussurra Arjun. Lo pronuncia come fosse un insulto, e forse per lui lo é.
Ha combattuto sui confini del Kashmir, si è battuto contro gli irregolari del Pakistan e ha personalmente presieduto a due operazioni “negabili” nelle Aree Tribali al confine con l’Afghanistan per prendere contatto con alcuni signori della guerra locali per mantenere la pressione sul governo di Islamabad per scoraggiare eventuali ingerenze, ufficiali o meno. Ovviamente, i Pakistani e i loro Servizi non sono rimasti a guardare. Assassinii e operazioni sotto copertura erano stati il pane quotidiano di Arjun per anni, una realtà con cui convivere tutt’ora. Come la donna, è un veterano di missioni negabili.
Peccato che nessuna, nessuna mai sia stata così maledettamente micidiale.
Sanjar Tah, e altri indiani, nell’ordine delle decine e vicini alle centinaia giacciono a terra morti. Gli aggressori, almeno parte del gruppo, sette o otto di loro, non sono in condizione di rispondere a domande. Gli occidentali, qualunque fosse stato il loro ruolo, si sono dileguati.
Con la complicità (voluta o meno) di qualcun altro. Qualcuno potente abbastanza da permettere loro di farlo. Niente testimoni, niente informazioni e una situazione esplosiva. I giornalisti erano stati tenuti a bada ma qualcosa sarebbe inevitabilmente filtrato.
La donna cerca di stare calma. Espira, piano dopo pochi secondi di ritenzione del respiro. Pratica una forma di Pranayama a livello inconscio.
La situazione è catastrofica. E l’arrivo del suo capo sul posto la rende anche più instabile.
L’uomo non parla, osserva, e non nasconde preoccupazione e rabbia. Ma non ha sguardi di particolare rimprovero per i suoi agenti. La donna attende, e anche Arjun. Sanno che parlare non servirà. Sanno che verranno prese decisioni, contromisure, scelte. Per salvare il salvabile.

Una vita passata a fuggire e riorganizzarsi, a combattere e a eludere vendette varie, aveva insegnato a Shaibat un paio di cose in merito all’importanza dei piani contingenti.
Neroko Tsubikome la fissava con evidente disappunto, in piedi nella sala tattica del Mary Rose, mercantile battente bandiera inglese ma agli ordini di una branca minore della Yakuza in occidente. La thailandese evitò di domandarsi se la lealtà dell’uomo lo avrebbe portato a spararle. Non era qualcosa che voleva sapere.
-Pare che qualcuno abbia interesse a utilizzare i nostri compagni per i suoi piani.-, disse.
-Ne hai la certezza?-, chiese Neroko. Non pareva convinto.
-No. Ma considerando le tue testimonianze, dubito fortemente che il loro piano sia stato solo quello di giustiziare i nostri compagni. Non temere: li porteremo via di là.-, disse.
Neroko parve esitare, forse sorpreso dalla frase di Shaibat. Marco Poretti, poco distante, ascoltava senza parlare, consapevole del suo ruolo non esattamente di primo piano.
Poi, lentamente, Shaibat sentì il giapponese espirare.
-D’accordo. Dimmi cosa fare.-, disse.
La giovane annuì. Si voltò verso gli schermi. Aprì finestre, mise in primo piano dati, organizzò schemi nel giro di pochi secondi.
-Il nostro bersaglio è morto, ma la sua morte ha scatenato un putiferio. Il Pakistan nega le accuse degli indiani, ma su ambo i lati della barricata c’è gente che vorrebbe il conflitto armato. Le cicatrici e gli strascichi della Guerra del Kashmir.-, iniziò.
-Ora, la morte di Tah per mano di elementi pakistani non collegabili a Islamabad ma indubbiamente sospetti ha scatenato tensioni sopite da parecchio. Come ho detto, c’è gente che vuole il conflitto. Da un lato e dall’altro. E questo ci porta a un’altra persona.-, un click e la foto di Dalima Kothil riapparve sullo schermo. Shaibat riprese a spiegare.
-Moglie di Sanjar Tah, ma anche trafficante di armi, ex poliziotta e forse, membro di una frangia minore e poco nota dei Servizi Indiani, alla quale non dispiacerebbe riaprire le ostilità per insegnare al Pakistan il suo posto. Tradizionalisti. Non ne so molto e questi dati mi sono giunti solo nelle ultime due ore. L’ultima ipotesi è ancora da confermare ma se fosse vero…-.
-Mi stai dicendo che sapeva dell’attentato a Tah?-, chiese Neroko.
-Forse. E forse ha capito abbastanza, o, molto più semplicemente, il nostro piano non è mai stato veramente al sicuro. Capita. Ma quel che conta ora è come reagire.-, rispose la thai.
-E come prevedi di farlo?-, ulteriore movimento tra le ombre. Miryam Goldmann apparve da una nicchia, viso duro, determinazione pura. Era appena rientrata da una missione in Siria per uccidere un trafficante d’armi francese. In jeans Levi Strauss e maglia pareva tutto meno che appariscente. Shaibat non rispose, non subito. Si trattava di contrattaccare in pieno territorio nemico. Non era impossibile, ma bisognava farlo bene.
-Antonia?-, chiese a Marco. Poretti interruppe il suo lavoro.
-A Bruxelles. Sta rimuovendo una rete di trafficanti d’organi.-, disse. Shaibat annuì.
Fece un cenno a Frank Horst. Il biondo avanzò. Fondina cosciale appesa alla cintura, pantaloni 5.11 neri, maglia marca Warrior nera umida di traspirazione e occhiali da sole Oakley.
Un guerriero puro. Un mercenario.
-Helmut, invece?-, chiese il biondo, -Il nostro gruppo è piccolo.-.
-Helmut è con Antonia. Non volevo andasse da sola. Se la sa cavare, ma meglio non dare nulla per scontato.-, disse Shaibat, -Christine è ancora irreperibile. Ergo siamo solo noi.-.
-Beh, allora ci converrà pianificare la prossima mossa con attenzione totale, perché se sbagliamo non saremo gli unici a rimetterci la pelle!-, esclamò Horst.
-Già. C’è qualche possibilità di comprarci il supporto di qualcuno, in India o Pakistan?-, chiese Miryam. L’ex agente israeliana stava già pensando alle prossime mosse.
-Non nell’immediato. Ma ho un contatto, anche se non sarà dei migliori.-, disse Shaibat.
-Allora mettiamoci al lavoro.-, disse Neroko. Si avvicinò al tavolo.

L’uomo aveva visto quel genere di sguardo troppe volte per sbagliarsi.
Dalima Kothil aveva lo sguardo di una predatrice vittoriosa, di una scacchista in procinto di chiudere la partita. Lo sguardo tipico di chi sa di essere in vantaggio e sa approfittarne.
L’uomo espirò, concentrandosi sulla situazione. Qualcosa non era stato detto. Qualcosa non quadrava. Qualcosa che intendeva chiarire.
-Perché?-, chiese, spezzando il silenzio. Dalima lo fissò.
-Perché condurci sin qui? Perché salvarci dai nostri inseguitori?-.
La domanda rimase sospesa. La donna sorrise. I mercenari rimasero perfettamente immobili. L’uomo registrò i segnali. La domanda non era sgradita, o forse era persino prevista, benvenuta. Come se riconoscere la propria ignoranza fosse fonte di soddisfazione per Dalima.
-Ottima domanda. Secondo voi?-, chiese. L’uomo sospirò. Odiava le persone che si davano arie e Dalima Kothil rientrava sempre più nella categoria.
-Sicuramente non è per vendicare la morte di tuo marito.-, disse Nô. Il sorriso dell’indiana non accennò a scomparire, semmai divenne quasi più evidente.
-Hai bisogno di noi.-, disse John Kingsword. Nessuna risposta neanche a quell’ipotesi.
-Perché avrei bisogno di voi quattro?-, chiese la padrona di casa.
-Perché i tuoi tirapiedi non sono in grado di offrirti un lavoro altrettanto preciso. E perché noi siamo perfetti: non collegabili a te, determinati, rapidi e capaci.-, rispose James Crowain.
-Venite.-, disse Dalima. Li condusse in un’altra sala. Una tavola imbandita faceva bella mostra di sé a centro sala. C’era di tutto, su quella tavola, uno straordinario esempio di cucina indiana a tutto campo, dal Naan al pesce, dalle verdure alla carne. Bibite calde e fredde servite ai lati.
-Servitevi. Siete miei ospiti. Intanto vi spiegherò perché collaborare è nel vostro migliore interesse, oltre che nell’interesse dell’India intera.-, li esortò la donna.
Premessa sicuramente interessante, anche se piena di insidie…
L’uomo si servì dell’acqua. Niente alcoolici, gli serviva lucidità, tutta quella che poteva avere. Piluccò qualcosa da mangiare, notando che nella sala i bodyguard di Dalima erano quattro più un tizio grosso che pareva sotto steroidi.
Uno che James Crowain aveva già descritto in precedenza. L’uomo che accompagnava Dalima nel suo shopping. Uno fidato, evidentemente.
L’uomo si stava facendo un’idea. Mise insieme i pochi pezzi che aveva.
Tah ucciso. Dalima era tutto meno che vedova inconsolabile (almeno in apparenza), i suoi uomini che li catturavano… Tutto insieme… E la donna sfregiata vista da Nô a Kumbalangi…
Un casino… ma un casino con un certo grado di elementi che s’intrecciavano gli uni gli altri.

Nô Mitsutune mangiò poco, la cucina indiana era troppo speziata per i suoi gusti. Bevve un thé, cercando di annullarsi nel momento, per poter assorbire al meglio le informazioni a venire. Fissò Dalima Kothil.
-Quindi, se avevi così tanto bisogno di noi, perché non chiedere?-, chiese.
-Perché ora siete proprio dove vi volevo. Siete braccati, disperati, privi di contatto con i vostri alleati e consapevoli della vostra situazione. Se siete vivi e liberi, invece che morti o in un carcere segreto del governo, lo dovete a me. -, rispose l’indiana.
-Che io sappia…-, la voce di Nô scese appena, -Ricattare qualcuno abile come noi non è la migliore delle idee.-. Con suo stupore, nessuno fece una mossa.
-Vedete, anche se voi riusciste a uscire vivi da qui, e anche se riusciste a procurarvi una via d’uscita dal paese sarete braccati, non solo dall’ISI, i Servizi indiani, ma anche da tutti gli altri. Avete ucciso dei membri di un commando pakistano. Vorranno vendetta e si dà il caso che loro sappiano che voi c’eravate. Il passo è breve e dubito che andranno per il sottile.-, il sorriso di Dalima Kothil non vacillò minimamente.
-Quindi erano veramente elementi che rispondevano a Islamabad… Ma perché?-, chiese James Crowain. Si era versato due dita di liquore. Beveva moderatamente.
-Le motivazioni mi sembrano intuibili.-, disse un uomo. Quello coi baffetti, il capo del gruppo che li aveva catturati, James lo riconobbe. Si era cambiato d’abito, -Quello che ora dovremmo chiederci è come agire. Una nuova guerra contro il Pakistan sarebbe problematica. Specialmente a causa del Covid e del recente cessate il fuoco richiesto dall’O.N.U.-.
-Immagino che molti l’abbiano ignorato, quel cessate il fuoco.-, osservò Nô.
-Sì. Ma l’India non lo farà. Per questo abbiamo bisogno di voi. Io lavoro ancora per il governo indiano, anche se sotto copertura. La mia organizzazione non é… vincolata dalle pastoie della legalità. Non posso permettermelo. E come capirete, molti dei miei uomini sono noti ai Pakistani e all’ISI e attivamente ricercati.-, disse Dalima Kothil. Mangiava con grazia dello spezzatino al curry. Nô sospirò. Eccola lì: ecco il motivo di tanta premura nei loro confronti.

-Quindi, se ho ben capito noi dovremo far fuori i principali membri dell’opposizione pakistana a casa vostra? E magari anche qualche collaboratore.-, John Kingsword, seduto e servito di una Shinga Beer fredda oltre che di un piatto di carne e verdure notevole a cui aveva già inferto numerose forchettate dimezzandone il contenuto, fece udire la sua voce, -Ma la domanda è… cosa otterremmo?-, chiese. Bevve un sorso di birra, apparentemente a suo agio.
-La vita le sembra poco? chiese l’uomo coi baffetti. Kingsword sorrise.
Era abituato alle spacconate e a fare a chi ce l’aveva più lungo. Ma sapeva anche quando essere serio, e in quel momento sapeva, percepiva l’occasione.
-Insomma, il vostro grande piano pare fare acqua. E se non foste così disperati, sicuramente non ci avreste salvati. Quindi mi pare ovvio che voi abbiate bisogno di noi.-, lo sguardo di John passò dal tizio coi baffetti a Dalima Kothil, la bocca che si aprì in un sorriso sfrontato, -Ergo, piuttosto che minacciarci, suggerirei che iniziate a pensare a come ripagare i nostri servigi.-.
Questa volta la reazione ci fu. Il tizio coi baffetti estrasse la pistola e come un sol uomo anche gli altri alzarono le armi, togliendo le sicure.
John non mostrò indecisione o dubbi, sapeva bene di non poterselo permettere per nessun motivo. Cedere ora avrebbe implicato ammettere di temere per la propria vita. Lo avrebbe reso debole, inutile agli scopi di Dalima Kothil. E la sua morte avrebbe segnato anche la fine dei suoi compagni.

L’uomo avanzò, calmo, sfruttando l’apertura. Disinnescare la situazione era imperativo, ma John aveva dato loro anche un’occasione per rendere la loro copertura molto, molto più credibile. E forse, con quella copertura, avrebbero potuto esercitare pressione sui loro ricattatori, costringerli a commettere errori.
-Quello che il mio collega sta chiedendo è ragionevole. I nostri superiori non approveranno tutto ciò. Sicuramente, se lavoreremo per voi, potremmo di fatto già considerarci un bersaglio da parte loro. Ci occorrono delle garanzie. Tangibili.-, disse calcando sull’ultima parola. Ignorò le bocche da fuoco che convergevano su di lui. Notò il viso di Dalima Kothil schiudersi in un sorriso.

Dalima Kothil sorrise.
-Non vi si può negare un certo… coraggio. Ma non avete tutti i torti. Avrete il perdono da parte del Governo Indiano, un pagamento corrispondente a ottocentomila dollari per ciascuno di voi, nella forma o sul conto che preferirete in qualunque banca vi sia più, e il pieno accesso al nostro arsenale e alle nostre risorse. Ora, i vostri nomi non m’interessano, anche perché ritengo siano identità di copertura, come d’altronde lo è quella di quasi tutti nel nostro settore, ma serviranno dei nominativi, quindi vi prego di porgermi i documenti.-, disse. Uno dei suoi uomini passò a ritirare i documenti, uno ad uno.
Li passò a Dalima che lesse rapidamente il tutto.
Quei documenti erano falsi come la paccottiglia cinese, ma sufficientemente ben fatti da ingannare i controlli di routine. Sorrise di nuovo. Chiunque fossero quei quattro, erano sicuramente ben equipaggiati e con eccellenti supporti logistici alle spalle, oltre che letali.
-Allora direi che possiamo iniziare. Le vostre camere sono ai piani superiori, avrete due ore di tempo per mettervi a vostro agio. Farò recapitare in seguito un cambio di vestiti. Le vostre armi, comprenderete, non posso proprio lasciarvele. Ma per il resto siete liberi di girare nella tenuta, e di usufruire del bar e della cucina, oltre che dei servizi presenti nelle camere.
Vi prego solo di non tentare di fuggire.-, scansò un lembo del sari mostrando una Walther PPS silenziata in una fondina alla cintura che portava sotto la veste, -Non fareste molta strada.-.

Fumo. Ce n’era un sacco. Sigarette. Una, due, dieci. La donna e Arjun riuscirono a rimanere impassibili e così fecero anche gli altri. Il fumo creava spirali, si dissolveva nell’aria, s’intrecciava, fluiva, apparentemente libero e condannato ad un tempo.
Pia illusione di qualcosa destinato a non durare. La donna e Arjun lo sanno bene.
Osservano, attendono, impassibili. Il capo fa un’ultima, lenta, disperata tirata di sigaretta.
Ultima, estrema concessione prima dell’inevitabile. Il fumo si disperse in una voluta.
La pausa, la grazia, il momento di lieta tregua passò in un istante, cedendo il posto al latrare.
-È un vero disastro.-, sibilò l’uomo, -Un politico ucciso così, da agenti esterni!-.
I due incrociano lo sguardo. Sanno, semplicemente sanno, cos’accadrà ora.
-E voi, incaricati di tenere d’occhio la situazione, non avete saputo evitarlo!-, ringhia l’uomo.
-Abbiamo tentato… Il colpo è stato imprevisto, avevamo pensato…-, inizia Arjun.
-Pensato, tentato… Alcuni dei nostri sono stati uccisi! I bodyguard di quell’idiota di Tah non sono serviti a un bel niente e voi altri, i soli e unici agenti ufficiali sul campo, non avete saputo arginare la catastrofe!-, la rabbia del capo esplode prepotente mentre incede lungo la stanza, seguito appena dagli occhi dei presenti.
-Nelle condizioni operative in cui eravamo, era impossibile valutare correttamente la minaccia… Gli occidentali erano in zona e…-, stavolta è la donna a venire interrotta.
-Quegli occidentali possono essere mille cose! Non è nemmeno detto che siano nostri nemici! Ma, poco ma sicuro, sanno qualcosa. E grazie alla convenientissima comparsa di qualche brigante da strada, ti sono sfuggiti!-, l’uomo si avvicina di un passo. La donna non si muove.
-La situazione è già tragica così! Una guerra con il Pakistan adesso appare inevitabile. Ma la possibilità che quegli occidentali siano agenti di qualche agenzia straniera è semplicemente una catastrofe!-, lo sfogo del capo è ancora a piena potenza, dopo ben cinque minuti.
-Sapevamo già dei pakistani, ne avevamo un’idea. E sebbene Tah fosse sicuramente una gran rottura, da morto è divenuto un martire.-, la voce del capo si abbassa, lentamente.
-Ci avevi inviati là per eliminarlo se fosse divenuto eccessivamente provocatorio.-, gli ricorda la donna. Lui annuisce, l’undicesima sigaretta stretta tra le dita.
-Lo so, dannazione. E vorrei avervi dato quell’ordine. Ma uccidere Tah sarebbe stato deleterio. Come lo potevamo giustificare con tutte le protezioni in alto loco di cui dispone, eh? E ora, i pakistani ce l’hanno fatta sotto il naso e questi occidentali sono da qualche parte, chissà dove…-, la frase deraglia, perdendosi nel silenzio.
-Non sono usciti dai confini indiani per vie note.-, fa notare Arjun.
-No, infatti, ma potrebbero aver sfruttato altre vie. Altri modi per andarsene. Ma se così non fosse, esigo che li si trovi.-, lo sguardo del capo sonda, penetra, fissa ognuno dei presenti.
-Quei quattro sono letteralmente la nostra migliore possibilità di accusare qualcun altro. Sbandati mercenari. Nemici ignoti. Sempre meglio che il Pakistan, no?-, chiede l’uomo, senza realmente aspettarsi risposta.
-Ma se sono agenti stranieri…-, inizia la donna.
-Già. Lo so. Voi pensate a come prenderli, vivi o morti. A farsi vivi ci penseranno i loro superiori, alla peggio. E sono convinto che capiranno le ragioni del nostro gesto. L’ultima cosa che vogliono è una guerra nucleare col Pakistan!-, esclamò il capo.

L’uomo osservò la stanza. Lussuosa, pulita, provvista di TV e lettore DVD, l’acqua era ben più bevibile della media in quella zona.
Si concesse una doccia. Acqua calda, poi fredda, poi calda, poi ancora fredda.
Dalla finestra vedeva delle sentinelle. Passeggiavano a gruppi di due nel cortile. Apparentemente clienti di un resort, in realtà, l’uomo lo vedeva bene, sentinelle di Dalima Kothil. L’indiana li teneva in pugno. Non potevano far altro che aspettare.
Perquisendo la sua camera, l’uomo trovò due cimici. Entrambe debitamente occultate.
Non le rimosse. Dalima pensava di avere il controllo. Lui avrebbe continuato a farglielo credere.

Nô Mitsutune perquisì la sua camera. Trovò due cimici. Se li stavano spiando significava che Dalima Kothil e i suoi erano ben consci della loro ritrosia. Ma privi di modi per comunicare con gli altri, ora non potevano far altro che obbedire.
Notò gli uomini in giardino. Sentinelle, ma non di un tipo particolarmente efficiente. Armi da pugno, occultabili e discrete e abiti misti. Gente poco organizzata ma non per questo da sottovalutare. Tuttavia, al momento di fuggire, Nô avrebbe dovuto sfruttare ogni possibilità.

James Crowain sapeva che erano tenuti sotto osservazione. Individuò la cimice dietro un quadro e poi una seconda sotto il letto. Non le rimosse.
Osservò i DVD. La sua stanza, come probabilmente anche le altre, era fornita di una TV e un lettore DVD. C’era di tutto. Da Troy a Braveheart, da Nove Settimane e ½ ai porno in HD.
Una prigione dorata. James sospirò. Per ora doveva aspettare. Fece una doccia e accese la TV. Il TG Indiano parlava dell’attentato a Tah e delle reazioni.
Gran brutta situazione.

John Kingsword notò subito una cimice e pensò che avesse poco senso cercarne una seconda, siccome sicuramente c’era. Mise su un DVD porno. Mentre la coppia sullo schermo si dilettava delle gioie del talamo, John espirò piano. Almeno non gli avevano tolto le sigarette. Trovò l’accendino. Cercò di accendere. Riuscì a fare un paio di boccate.
Brutta situazione. L’accendino poteva sicuramente venirgli utile ma per ora era meglio non alimentare sospetti. La scena sullo schermo continuava, sempre più torrida e terribilmente prevedibile nel suo insieme, anche se la tipa, un’indiana dalla pelle chiara, era decisamente molto bella. John si sorprese a chiedersi se non fosse Dalima Kothil. Scosse il capo, dandosi dell’idiota. Fece una doccia rapida e spense il televisore e il lettore.

Dalima Kothil sospirò. Patil era bravo come coordinatore e anche come elemento di prima linea, ma ciò in cui eccelleva in modo mirabile era quell’attività. Leccargliela.
L’indiana s’inarcò sotto gli abili colpi di lingua dell’uomo che, da un buon venti minuti a quella parte stava omaggiandola oralmente ovunque sapesse di poterle dare piacere.
Dalima non gli aveva mai permesso, mai, di fare sesso. Era pur sempre un sottoposto e certe grazie ai sottoposti non andavano concesse. Ma quello, se fatto bene poteva essere anche più gratificante dell’amplesso vero e proprio. In realtà le serviva come diversione. Sapeva bene che i prossimi giorni sarebbero stati difficili, difficilissimi.
-Lecca… Fammi godere!-, esclamò spingendo la testa dell’uomo tra le sue cosce.
Il letto era quasi intatto. Patil l’avrebbe fatta godere regalandole quella sensazione stupenda, poi sarebbe potuto andare a sfogarsi con qualcun’altra… Intanto però, in un angolo della sua mente, Dalima Kothil pensava alle prossime mosse.

In tempo per il randez-vous al pianterreno, l’uomo si guardò attorno.
Aveva approfittato della tregua per una doccia e una serie di esercizi respiratori. Nô arrivò poco dopo, vestita di un sari tipicamente indiano. James e John giunsero per ultimi, quasi in contemporanea.
-Cimici.-, disse la giapponese. L’uomo annuì, e così fecero anche gli altri. Nessuno di loro era rimasto inattivo e ora sapevano che Dalima aveva preso le sue precauzioni.
Nessuna possibilità, per ora.

Neroko era un fascio di nervi ma s’impose calma. Non era il momento di agire avventatamente. Il clima era rovente, letteralmente. La zona dove Amir Harif Mushad teneva campo era un villaggio di pastori, campi d’oppio venivano coltivati in totale impunità. I miliziani di Mushad piantonavano i confini del villaggio con armi che risalivano all’avventura sovietica in Afghanistan. AK di vari tipi e misure, RPG e mitragliatrici. Una tribù di selvaggi.
Accanto a lui, Frank Horst vestiva una mimetica multicam desert, senza mostrine o identificativi. Un HK416 in pugno e accessoriato con lanciagranate e ottica a punto rosso completavano il setup. Neroko Tsubikome invece era in mimetica marpat-desert, un MP5K in pugno e sei caricatori nel giubbotto tattico.
Shaibat era in mezzo a loro. La giovane Thai pareva a suo agio o forse era solo troppo sfrontata per mostrare agitazione. Era priva di armi. A chiudere la fila era un’altra donna, avvolta nel velo islamico. Miryam Goldmann, mitraglietta Borko celata sotto la veste lunga, giubbotto antiproiettile e la fida Desert Eagle alla cintura, non pareva ottimista e si guardava attorno, perennemente in cerca di posizioni nemiche.
Erano arrivati là sfruttando i contatti di Shaibat, e riuscire a evitare ingerenze dai Servizi pakistani era stato un autentico capolavoro logistico. Giunti con la nave sino Karachi, poi tramite un autocarro sino al confine afghano-pakistano, sotto l’egida della Croce Rossa.
Da lì era stato un passar di bustarelle e mezzi. Shaibat aveva corrotto un ufficiale pakistano per ottenere un mezzo e un autista. L’autista, un soldato leale ma non proprio stupido, aveva acconsentito ad accompagnarli sino all’interno delle Aree Tribali di Confine.
Là, tra i territori di tribù nomadi e stanziali talmente antiche e dalle usanze granitiche e immutabili, Shaibat aveva guidato il gruppo sino al villaggio di Harif.
-Non mi piace.-, disse Neroko.
-Neanche a me.-, ammise Frank Horst. Shaibat sorrise. A differenza di Miryam e delle donne del villaggio indossava abiti occidentali, senza neppure coprire i capelli col velo islamico.
Una provocazione? Forse. O forse un segno di fiducia calcolato.
In ogni caso, a poca distanza dal villaggio, il gruppo fu bloccato. Uomini, cinque.
Vesti da deserto, kefyah al collo dai molteplici colori e munizioni in tasche o alloggiate in giberne di epoca sovietica o anche più recenti. Armi d’assalto. AKM e addirittura una vecchissima mitragliatrice. Ferri vecchi ma ancora letali ed efficienti, talvolta più delle armi moderne sbandierate dalle varie nazioni del progredito Occidente. Tutti puntati su di loro.
-Bel benvenuto…-, disse Miryam. Armi puntate, da una parte e dall’altra.
Shaibat avanzò, mani alzate, apparentemente impassibile, ancora arrogantemente a viso scoperto. I guerriglieri cambiarono bersaglio, puntando gli AK sull’impudente occidentale che avanzava verso di loro. Uno di loro ringhiò una frase in arabo, un altro fece eco in inglese.
-Tu! Ferma!-, ragliò. Con sorpresa di Neroko Tsubikome, Shaibat prese a parlare in arabo.
Dopo il tipico saluto arabo, la giovane sciorinò una frase lunga e complessa di cui la sola parola che Neroko capì fu semplicemente “Harif”.
-Gli sta chiedendo se Harif sia ancora il capo-villaggio.-, tradusse Miryam. Mugugnare e frasi.
-Che dicono?-, chiese Horst. Neroko pensò che se si fosse messa male sarebbe stata una carneficina. I cinque guerriglieri furono raggiunti da altri tre uomini, AK imbracciati e sguardi nient’affatto tolleranti.
-Dicono che Harif è ancora a capo del villaggio ma che non intendono portarci da lui.-, disse Miryam. Neroko notò che la giovane impugnava la mitraglietta con una mano. Pur facendo fuoco all’anca in modo impreciso avrebbe potuto falciare almeno due o tre di quei tizi, prima di essere uccisa. Non che importasse: anche se fossero sopravvissuti avrebbero perso un utile contatto, nonché forse l’unica possibilità di salvare gli altri.
Shaibat rirprese a parlare, con un’invettiva che lasciò stupita Miryam. Gli occhi dell’israeliana s’ingrandirono dallo stupore e Neroko la vide muovere la mano verso l’impugnatura della mitraglietta. Neroko sentì freddo, un gelo che spazzò via il caldo torrido.
-Non si mette bene…-, mormorò Horst.
-No. Shaibat gli ha detto di dire a Harif che è Lee è qui e che esige il pagamento dei suoi servigi. Gli altri non sembrano né contenti né convinti…-, confermò Miryam.
Neroko annuì. Inquadrò il nemico più vicino a Shaibat calcolando a occhio distanza e linea di tiro. Lo avrebbe abbattuto e poi sarebbe passato all’altro, quello con la mitragliatrice.
-Voi pensate agli altri, io prendo il mitragliere e quello vicino a Shaibat.-, disse.
-Aspetta…-, Miryam indicò con un cenno qualcosa. Un uomo avanzava.
Era un vecchio, barba sale e pepe, il cranio glabro cotto al sole, con una cicatrice sulla tempia, il viso che pareva una mappa della Valle dei Cinque Leoni. Era avvolto in una dishdasha bianca a strisce nere, lo sguardo volenteroso e malefico, accompagnato da due guardie armate di AK.
-Salaam Aleikum, Harif.-, disse Shaibat in inglese con un cenno del capo.
-Salaam, Lee. È passato molto, moltissimo tempo.-, disse Harif senza alcun calore.
-Non ci offri un thé?-, chiese la thailandese. Neroko notò qualcosa. Un tremito. Nascosto, appena visibile, ma c’era. Shaibat aveva paura. O era tesa, tesissima.
-È mio dovere, ma mi domando quale ragione ti abbia portata qui, dopo tanti anni.-, la risposta di Harif Mushad era a malapena cortese, -Ma potremo parlarne dinnanzi a quel thé.-.

Il meeting operativo si tenne in una diversa sala. Proiettori e schermi di PC, un’ambiente preparato con lo state-of-art della tecnologia per garantire informazioni in tempo reale.
James Crowain nota diversi tg di vari canali. Non ha bisogno di capire l’hindi o di leggere le brevi notizie in scorrimento in lingua inglese per capire. Gli basta guardare i volti, i luoghi.
Foto di Sanjar Tah, proteste in piazza, un ministro che parla, un politico che raglia.
Guerra. Prossima. Forse inevitabile. Forse voluta, forse mai realmente finita.
Sequela di immagini di violenza. Scontri al confine, movimenti, dichiarazioni varie. Falchi e colombe, come in ogni dannato conflitto del mondo. Ma alla fine, chissà perché, i falchi non tornano al nido senza la loro libbra di carne. Forse è perché alla fine quella è la natura umana.
James non se lo chiede. Non si fa domande. Non vuole. Anni di vita guerriera non l’hanno reso più nobile o umano, solo più disilluso. Ha visto la follia umana in quasi ogni angolo del globo.
E l’India, con tutti i suoi proclami di pace, d’illuminazione e bellezza, non è differente.

John Kngsword osserva, categorizza, capisce e analizza. Sala molto, molto avanzata. Molto più di quanto qualunque attività legale lecita possa garantire, a meno di non essere collegata a forze armate o a operazioni di altro tipo. Sala illegale, gente illegale, connessioni.
“Hanno un hardware di tutto rispetto, niente da dire”, pensa mentre osserva gli schermi piatti a parete. Dalima Kothil fa il suo ingresso vestita come una regina indù di altri tempi.
O come la meretrice di babilonia. Ancora, John non può impedirsi di pensare che forse, quella donna possa aver avuto un passato torbido, tanto quanto il suo presente.
In ogni caso, ora sembra avere bisogno di loro. E questo, per ora, è proprio ciò di cui necessitano, anche se John sa, capisce, che effettivamente Dalima potrebbe essere meno pura e nobile di quanto cerchi di apparire. Lui lo sa, perché è stato dall’altra parte. Ha spacciato, contrabbandato droga, fatto il sicario a contratto… Conosce bene quel marchio. L’infamia.

-Il nostro paese sta subendo un attacco come non se ne vedevano in decenni. Le tensioni con il Pakistan ci sono sempre state, ma ora… Quello che abbiamo davanti ora è molto, molto peggio.-, Dalima Kothil parlava con una consumata attitudine al comando. Lasciava presagire un certo background in tal senso. L’uomo lo sapeva. Aveva letto le informazioni di Shaibat.
Dalima aveva lavorato per la polizia. Un tempo. Ma ora? Era arrivata a un livello più alto?
Forse. Lui non poteva esserne certo. Eppure, tutto lasciava presagire che fosse così.
-L’uccisione di Tah però è a un livello molto più alto. Ci hanno colpiti in casa. Senza pietà. Senza neppure considerare le possibili implicazioni. Un attacco avventato.-, disse Dalima.
-Anche troppo, per uno stato sovrano come il Pakistan.-, osservò James Crowain.
-A meno che non vogliano attivamente il conflitto. Con la fine della presenza americana in Afghanistan e la situazione dovuta al COVID sperano di beccarci con le braghe calate.-, il secondo di Dalima, quello coi baffetti, Patil, parlò con aperto disprezzo per i nemici del suo paese. L’uomo annuì. Era evidentemente un ex forze speciali o militari di qualche tipo.
In ogni caso, uno abituato a uccidere. Un maledetto duro. Guardava tutto e niente, concentratissimo e consapevole. Gli altri, i bodyguard di Dalima parevano dei semplicioni.
Gente pagata per assicurare potenza di fuoco e carne da cannone a basso costo, ma non pericolosi. Quindi, l’uomo ragionò, Dalima aveva pochi uomini abili al suo seguito.
Oppure, quelli che aveva erano tutti in altri luoghi, impegnati in compiti di maggior rilevanza.
-I Pakistani hanno agenti in India, così come noi ne abbiamo da loro. È sempre stato così. E i loro agenti non hanno mosso un dito.-, disse la donna. Un proiettore si accese. Un HD Beamer americano. Roba di un certo livello. Impossibile che se la fossero procurata a buon mercato. Da dove venivano tutti quei fondi? L’uomo stimò che solo in quella sala ci fossero decine di migliaia di dollari sotto forma di hardware informatico.
Immagini. Una carta politica dell’india con alcune città in rosso. Kochi, Mumbai, Dehli, Lucknow e altre. Una serie di notizie da giornali. Assassinii e incidenti.
-Nessun’altra operazione dei pakistani è mai stata così devastante e sfrontata. Il rischio concreto è che si arrivi alla guerra, a meno che non diamo loro modo di rivedere quest’ipotesi.-, Dalima Kothil sorrise, improvvisamente feroce.
-E per farlo, vorresti che noi andassimo e uccidessimo questi agenti pakistani, no?-, chiese John, braccia conserte e sguardo fisso negli occhi della donna.
Lei sorrise di nuovo, in modo anche più ampio.
-Non solo. Un atto del genere sarebbe routine. No: io voglio anche un’altra cosa. Dobbiamo fargli capire che una guerra non è assolutamente nei loro interessi.-, rispose.
-E come?-, chiese Nô. La giapponese guardava tutto e niente. L’uomo lo sapeva: aveva già visto chi poteva essere un problema e chi non, come aveva fatto lui.
-A suo tempo. Dovrete colpire più bersagli. Ovviamente Patil e altri dei miei vi accompagneranno, per sincerarsi della vostre dedizione e del vostro operato. Non sia mai che decidiate improvvisamente che questo nostro magnifico sodalizio debba finire…-, Dalima parlava con un tono mondano, come se stesse progettando una serata di gala e non un’operazione negabile. L’uomo sospirò. Non sarebbe stata facile. Per nulla.
Ma per ora non avevano altre opzioni. Stare al gioco, aspettando il momento in cui cambiare le carte in tavola, quello era il solo modo in cui avrebbero potuto riuscire a uscirne.
-Dicci i dettagli operativi.-, disse.

La donna osserva. Osserva e basta. Indizi, sospettati e altro. Tutto organizzato su una lavagna.
Una massa di nozioni e confessioni, solo parzialmente connesse. Il campo è in fermento.
Ma, da tutti quei dati, ci sono un paio di nomi che non quadrano. Nomi che non dovrebbero esserci. Una fonda nei servizi indiani. L’incubo per eccellenza. La donna decide.
-Arjun, raduna la squadra. Partiamo per Mumbai.-, disse, -E non informare il comando.-.

La caraffa di thé e la tazza sono in metallo. Scottano. Miryam Goldmann ignora il dolore.
Ignora anche le occhiate degli uomini. Le guardie di Harif Mushad le scoccano sguardi tutt’altro che amichevoli, come a volerle telegrafare parole che non potrebbero dire.
Meretrice, nemica, eretica. Le solite, sempiterne idiozie. Miryam crede, assolutamente.
Crede che un dio abbia smesso di esistere da molto, molto tempo. Crede che la Terra Promessa ormai sia solo l’ennesimo memento della falsità di cose come la predestinazione e l’idea folle di una religione vera, unica e giusta contro tutte le altre ritenute infedeli ed eretiche. Crede che Israele non sia migliore di Al-Qaeda, o dei fondamentalisti cristiani.
Crede che l’uomo voglia un dio che gli dica che fa bene, che è giusto uccidere.
Crede che quegli uomini, come infiniti altri, siano prigionieri di una simile veduta, per insegnamenti imposti loro sin da piccoli, in una spirale che non aveva senso sin da principio.
Lo è stata anche lei, avvolta in quella tela, sino al giorno in cui non ha capito che il Popolo Eletto alla fine non è poi così diverso dal resto del mondo.
La delusione l’ha spinta ad abbandonare il Mossad, a rifiutare una promozione che l’avrebbe portata in alto, molto in alto, e a unirsi a quell’uomo, il Giustiziere.
Porta la tazza alla bocca e beve, incurante degli sguardi, dei commenti a mezza voce.
Harif e Shaibat fanno lo stesso. Frank e Neroko sono in piedi, le armi grosse sono rimaste fuori ma le pistole no, quelle ci sono, alla cintola. I locali sono molto più armati. Miryam ha contato almeno un paio di AK a canna corta e calcio pieghevole da parà. E altre armi. Un uomo impugna una vecchia UZI che sembra del 1960. Visi aguzzi e barbe lunghe, ovunque.
Nessuna donna, salvo lei e Shaibat. Lo stesso Harif ha alla cintura una vecchia Makarov.
-Dunque, a cosa devo la visita.-, nessuna cortesia da parte di Harif, non più.
-Vengo a riscuotere. Sei in debito per il mio aiuto.-, risponde la thailandese, -Io e il mio gruppo dobbiamo arrivare almeno fino a Mumbai.-.
Harif storce il viso in un’espressione di evidente irritazione. La risposta di Shaibat è tanto impudente quanto pretenziosa. Miryam nota alcuni movimenti, frasi, poco altro.
E improvvisamente, Harif parla in un inglese pesantemente accentato ma comprensibilissimo.
-Tu e i tuoi… compagni… Venite qui a impormi un accordo, a strapparmi concessioni, a ricordare vecchi debiti… C’è una taglia sulla tua testa, Shaibat. Bella grossa anche. Le Triadi pagherebbero bene, e anche altri, se sapessero che ti ho eliminata.-, la Makarov si alza, fulmineamente estratta dalla fondina. Harif non si è neppure alzato. I guerriglieri sollevano gli AK. Miryam Goldmann calcola possibilità, traiettorie. Realmente non ce ne sono.
Li falceranno. Lo sa lei e lo sanno gli altri. Horst e Neroko sono statue, respirano piano, le armi impugnate, estratte e puntate. E sanno che non serviranno a niente.
L’inferiorità numerica non è solo dentro quella dimora, ma anche fuori. Sanno di essere in trappola. Harif sorride. Lo sa anche lui, Miryam lo capisce, lo comprende bene.
-Shaibat ha il suo valore, ma voi… Mercenari, sarete sicuramente un gran bel guadagno. Conosco gente, sia alleati di Al-Qaeda che infedeli occidentali che sicuramente pagheranno per averli. Personalmente, penso che potrei indire un’asta.-, sorride ancora, come un serpente, un predatore che ha finalmente messo al muro la pietra.
Shaibat, a quel punto, alza la testa. Sul suo viso c’è assoluta, totale calma.
-Harif, perché vuoi farla tanto difficile?-, chiede. L’uomo la fissa, stupito e senza capire.
La giovane estrae il tablet dall’abito. Con due dita. Lo passa al capotribù.
-Riconosci la veduta?-, chiede. Nessun tremito nella voce. Il tempo parve dilatarsi.
-È Harfasi, un villaggio di capre, appena più a est di qui, verso l’interno.-, disse, senza emozione alcuna. Shaibat annuì, apparentemente compiaciuta.
-La ripresa è da un UAV della Coalizione. Noi stiamo agendo sotto mandato. La nostra missione ha priorità massima ed è imperativo che raggiungiamo Mumbai. Se mi ucciderai, il sensore che ho sottopelle trasmetterà l’informazione e l’UAV sgancerà un missile sperimentale chiamato Moloch su quelle coordinate. -, disse Shaibat.
-Stai mentendo…-, ringhiò Harif, lasciando cadere la cordialità per la rabbia.
-No. Il Moloch è un missile aria-carburante. Munizione termobarica al massimo grado di saturazione ambientale. Diametro di massimo danneggiamento 40 km, estensioni più o meno variabili a seconda del vento. Visivamente somiglierà molto alla collera di un dio. -, la voce della thai ora pareva intrisa d’acciaio. Il tremore di prima era sparito. Totalmente.
-In altre parole, Harfasi cesserà di esistere.-, disse Harif. Pareva impassibile, ma Miryam lo vide corrugare le rughe sulla fronte. Preoccupazione? Fastidio? Rabbia?
-Ad Harfasi risiede la tua terza moglie, Bashra, ventun anni di età e il vostro unico figlio, Said, età 5 anni.-, ora nella voce di Shaibat c’era altro. Pura e semplice rabbia, -Se non avrò quello che chiedo, cesseranno di esistere in un olocausto termico. E credo che il governo Pakistano non ti coprirà, anzi aiuterà attivamente le nostre forze nella regione a venirti a prendere.-.
Un attimo di assoluto, sconcertante, silenzio. Harif teneva puntata la Makarov.
Miryam pensò che avrebbe sparato, che il bluff fosse stato semplicemente troppo alto.
Harif sapeva che la Coalizione non aveva interesse nell’attaccarlo, e che non avrebbe rischiato una rottura dei rapporti col governo pakistano per una mera ritorsione.
Inoltre, colpire civili…. Non era nel loro stile.
-Non credo proprio che voi infedeli verreste meno ai vostri principi…-, disse Harif.
-Dici? Sei pronto a scommetterci la vita di tua moglie e tuo figlio?-, chiese Shaibat.
Partita di nervi. Durissima. Miryam notò diverse occhiate degli sgherri dirette al boss che non rispose ad alcuna muta esortazione. La partita era tra loro soltanto.
-Non avete le palle per farlo!-, ringhiò il signore della guerra con una vena che pulsava di rabbia lungo la tempia. La thai parve mortalmente, totalmente seria.
-Dopo Parigi e l’ISIS, e dopo tutto il sangue versato, qualcuno potrebbe decidere che la misura sia colma, sai? Penso che questa sia l’immagine che diamo a voialtri: gente arrogante ma vuota, pretenziosa ma priva della forza di fare quel che va fatto. Dobbiamo sembrarvi questo vero? Mammolette senza spina dorsale.-, improvvisamente il viso di Shaibat si aprì in un ghigno feroce, decisamente diverso dall’espressione che normalmente aveva.
-La verità è che l’occidente è stanco. I terroristi vengono e ci attaccano ma mai in modo continuativo, consci che se lo facessero di continuo, la nostra reazione sarebbe devastante. Non ci metteremmo nulla a trasformare la Siria, l’Iraq, l’Arabia, l’Afghanistan e la Somalia in lande nuclearizzate. Non lo facciamo solo ed esclusivamente perché non siamo come i nostri nemici. Ma, come ho detto, c’è chi è stufo. E l’idea di trasformare qualche covo di terroristi in una simpatica distesa di materiale inerte è allettante, sempre più. Pensi davvero che nessuno, assolutamente nessuno, abbia il fegato di farlo? Pensi veramente che io stia bluffando?-, chiese. La Makarov restava puntata al petto della giovane. Harif e Shaibat non si staccarono gli occhi di dosso. Nessuno fiatava. Anche se non parlavano inglese, gli sgherri intuivano.
-L’opzione 2 è semplice: io ti chiedo di portarci sino a Mumbai, senza intoppi né clamore, né passando per vie ufficiali. Mi assicurerò che tu venga ricompensato per il tuo servigio. Verserò sul tuo conto bancario, PK 2091-2838-4108-A-1 un bonifico di ventiseimila dollari.-, la thai bevve un sorso di thé, apparentemente dimentica delle armi e dei rischi,
-Esentasse e non trattabili-, aggiunse una volta finita la bevanda.
-Con ventiseimila dollari ripago appena un terzo delle spese.-, sibilò Harif.
-Già. Ma sarebbe un inizio. Il saldo finale è di 60’000 dollari U.S.-, disse Shaibat.
-Comunque ci perdo.-, replicò il signore della guerra.
-No. Ci guadagni. L’alternativa è 310’000 dollari U.S. Ad almeno 9000 gradi Celsius.-.
Harif parve voler resistere. Parve. Ma in realtà, Miryam lo vide, aveva già deciso.
Ordini in pashtun, uno degli sgherri in vesti lunghe portò un computer. Login e password, dati immessi. Infine, dopo un tempo che parve lunghissimo, Harif annuì. Parlò con voce calma.
-I ventiseimila che hai promesso sono arrivati. Non c’è bisogno di radere al suolo Harfasi.-.
Miryam sorrise. Non c’era da dubitare che avrebbe accettato.

La donna rifletteva. Quegli occidentali non gliela raccontavano giusta e all’interno del suo gruppo c’era sicuramente una spia. Arjun parve intuire il suo turbamento.
-Dobbiamo cercare di venirne a capo.-, disse l’uomo mentre spegneva l’autoradio che vomitava notizie su notizie decisamente poco incoraggianti.
“Sarebbe bello se qualcuno riuscisse a chiarire la situazione.”, pensò la donna.
Il Pakistan giurava e spergiurava di non sapere niente dell’uccisione di Tah.
Ovviamente gli Esteri non gli avevano creduto manco per un secondo. La guerra pareva prossima. L’ONU invitava alla calma e alla prudenza, ma gli appelli erano ascoltati solo in parte. La verità era quella: la guerra era voluta, forse persino benaccetta, da molte frange di ambo i governi. Ma non da lei, né da Arjun. Con loro anche altri, su ambo i lati della barricata, sicuramente avrebbero voluto evitare il conflitto. Peccato che lei non potesse contattarli, non sapendo chi fossero e quali posti occupassero. Le sarebbe servito un insider nei Servizi pakistani, ma un simile livello di autorizzazioni era in mano ad altri, gente propensa a permettere l’escalation. Quindi, aveva preso una semplice decisione.
Avvalorandosi delle sue conoscenze in alto loco aveva iniziato un indagine specifica, in diversi stati dell’India, attivando informatori e, con il beneplacito del suo capo, impiegando agenti ufficialmente non più connessi con il suo Servizio.
Se qualcuno avesse sospettato di lei, la sua carriera nei Servizi sarebbe finita, e realisticamente anche la sua vita. Ma l’inazione avrebbe portato alla guerra.
E non intendeva permetterlo.
-Abbiamo qualcuno a Mumbai?-, domandò lei. Arjun alzò gli occhi.
-No.-, disse, -Bhamishar sta occupandosi di Dehli, Bindhar sta coprendo le zone al confine, il Kashmir, insieme ai suoi. Gli altri stanno raggiungendo le loro destinazioni.-.
La donna annuì. Nulla di nuovo. Guardò sul GPS.
Mumbai non era lontana. E laggiù avevano già una base. Con loro c’erano altri tre agenti. Due uomini e una donna. Avevano contanti e dispositivi di comunicazione, armi e munizioni sufficienti a scatenare il caos, o a impedirlo. Decise.
-Ci andiamo noi.-, decretò. Arjun annuì. Non si aspettava nulla di meno.

L’uomo espirò, piano. La notte respirava con lui. Accanto a sé avvertiva la presenza di Patil e, poco distante, James Crowain. Erano arrivati sin lì tramite mezzi discreti, senza apparire in pubblico ed alloggiavano in una struttura gestita da un socio di Dalima Kothil.
Con loro c’erano un giovane allampanato dallo sguardo assente e una donna rasata a zero.
Due che parevano presi dal mucchio dei tossici all’ultimo stadio, ma l’uomo la pensava diversamente. Dalima Kothil non voleva correre rischi. Era sicuro che ci fossero altri in campo.
Gente che non vedevano. Controllori ed esecutori, custodi e carnefici.
Nessun margine d’azione, per ora. Ma andava bene: sapeva che per uscirne vivi, lui e la sua squadra avrebbero dovuto essere… malleabili. Ma non sino al punto di spezzarsi.
No: era fiducioso: ce l’avrebbero fatta.
-Il bersaglio starà recandosi verso la zona operativa. Ci muoviamo.-, disse la voce di Patil.
L’indiano vestiva un camicione che non dissimulava l’antiproiettile sotto di esso. Prudente.
Non così prudenti, o forse non così ben forniti, i suoi collaboratori, nessuno di loro portava protezioni balistiche, ma tutti erano armati. Pistole e mitragliette di piccolo calibro. L’ideale per una sortita, ma molto meno ideale per l’eventuale casino che sarebbe potuto scaturire.
L’uomo sospirò, pensando che assumere che le cose vadano secondo i piani non è mai garanzia che lo facciano.
Lui e James non indossano protezioni balistiche, ma sono armati ed addestrati meglio. Il Karambit dell’uomo e il Faibarn-Sykes di Crowain sono stati loro restituiti, insieme a due pistole, M1911 e G18 con ben quattro caricatori l’una. Più di quanto serva, ma…

…Ma non si poteva mai sapere. In movimento, James Crowain scrutò i dintorni alla ricerca di qualcosa di insolito. Impossibile: la provincia suburbana di Mumbai era una baraccopoli da incubo. Lebbrosi sedevano contro il muro di un tempio con le mani sfigurate protese verso ignoti estranei nella speranza di un’elemosina, prostitute lungo la strada, bambini sfigurati.
La parte di India che l’Occidente non amava ricordare, che l’India stessa forse ripudiava.
Due giovani bighellonavano. Bottiglie di non meglio precisati alcoolici passavano di mano.
Esclamazioni sguaiate, nulla d’insolito. Purtroppo.
Ma James sentiva, sapeva, qualcosa sarebbe presto accaduto. In un luogo del genere, pur con il Covid e tutto il conseguente problema del già lacunoso apparato sanitario indiano, la pressione era eccessiva. Sicuro, dei briganti non sarebbero stati un problema, ma poi?
Avrebbero attirato l’attenzione, riducendo di fatto il tempo per un operazione già di per sé rischiosissima. Dovevano fare attenzione.
Patil passò avanti, sicuro e baldanzoso. Pareva a suo agio in quell’ambiente.
L’uomo gettò un’occhiata a Crowain. Lui ricambiò. La mano dell’altro si mosse verso la pistola.
James capì.

Patil era consapevole del suo ruolo, anzi, dei suoi ruoli.
Controllore, esecutore e coordinatore. Una serie di ruoli, riassunta nella sua persona.
Diede alcuni ordini ai Dacoit. Il giovane con gli occhi lucidi e stralunati si indirizzò verso l’angolo di una strada secondaria. Copertura del campo. Avvicinamento al bersaglio. Tutto da manuale. Patil non avrebbe voluto nulla di meno.
E Dalima si aspettava il meglio. Non l’avrebbe delusa. C’era troppo in ballo.
Ordinò agli altri due di muoversi. Non si fidava di loro. Per niente.
Aveva ricevuto ordini, ma sapeva bene che Dalima, che con tanta sollecitudine li aveva dati, non era lì, non li vedeva, non notava i loro sguardi. Quei due erano un fottuto team.
E tanto bastava a renderli molto, molto più pericolosi di tutti gli altri.

Il movimento era costante nelle strade. L’uomo se ne rese conto subito: la notte le città parevano rigurgitare fiumane di gente, covid o no. D’altronde era così dappertutto.
Oltrepassò un mendicante, notando che quel quartiere era privo di traffico. A differenza del resto della metropoli, solo qualche mezzo attraversava sporadicamente la strada.
Evidentemente era un luogo malfamato. Un paio di bruti dai vestiti laceri e gli sguardi persi stazionavano in un angolo. Appena lo videro, fecero per muoversi verso di lui.
Pessima cosa: l’ultima cosa di cui avevano bisogno era pubblicità indesiderata.
E fu allora che accadde qualcosa di bizzarro: i due, che fino a poco prima guardavano nella sua direzione, smisero di farlo. L’uomo li superò, tenendosi pronto a un’eventuale esplosione di violenza. Ma non ve ne furono. Il duo svoltò in un vicolo.
Strano. Molto strano.

James Crowain conosceva bene quella sensazione. Un’indefinita inquietudine imputabile solo in minima parte alla missione. C’era qualcosa che non quadrava. Dov’erano Nô e John?
Non li avevano accompagnati per ordine di Dalima, fin lì era tutto giusto, ma se la donna a capo di quella banda avesse deciso di farne degli ostaggi?
Se avesse deciso di usare la tecnica del Divide et Impera? James bandì quei pensieri. Faceva caldo. Un caldo umido e soffocante. Avrebbe ucciso per del Tanqueray con ghiaccio.
Invece gli toccava uccidere per una ragione ben più basica: restare vivo.
Individuò un uomo poco più avanti. Vestito bene, attento. Una guardia.
-Contatto visivo con difensore.-, disse.
-Procedi.-, rispose l’uomo, appena a tre passi di distanza.

James agì, alla svelta e bene. Estrasse una piccola syrette dalla manica, stringendola nel pugno. Incespicò ad arte e sbatté contro il bodyguard. Nel farlo gli piantò la syrette nel braccio destro.
L’uomo imprecò, scostandosi di dosso quell’occidentale così goffo. Fece un paio di passi.
Barcollò in modo bizzarro per un lungo istante. James caracollò contro un muretto.
L’uomo si tastò il braccio. Biascicò qualcosa in hindi e crollò a terra. I passanti osservarono la scena. James rise sguaiatamente, come un perfetto idiota ubriaco.
Patil e il suo gregario rimossero rapidamente l’uomo, caricandolo in auto e partendolo.
Un banale incidente. Lo portavano da un medico. In realtà, James lo sapeva, l’uomo non avrebbe mai visto un medico. L’indomani si sarebbe svegliato con un gran mal di testa, forse ancora vivo ma con molte, molte domande, e un capo in meno.
Non la migliore situazione ma di certo una situazione gestibile.
-Prendo una strada secondaria.-, disse l’uomo al laringofono. James non si diede la pena di rispondere. Continuò a camminare, scansando una prostituta intraprendente ed evitando due ragazzini che elemosinavano. Imprecò contro un carretto condotto da un uomo che lo guardò male. Tipico turista perso nella parte peggiore della città.
Patil e il suo gregario si sarebbero rifatti vivi a breve, ma non li avevano lasciati soli: c’era l’altro uomo, che avanzava lungo il marciapiede gremito bevendo birra.
Uno che pareva l’ennesimo scemo sacrificabile ma sicuramente poteva risultare problematico.

L’uomo era quasi sicuro di essere uscito dai radar. Il vicolo puzzava di escrementi e miseria.
Un paio di zanzare gli volarono attorno, come a decidere se valesse le loro attenzioni. L’uomo le ignorò. Che lo divorassero pure. Prima di partire per l’India si erano vaccinati con una serie di antivirali ad ampio spettro. Sufficienti per moltissime malattie. Per altre erano vaccinati.
-Please sir…-, la prostituta quasi sicuramente minorenne era spuntata dal nulla con una furtività da borseggiatrice consumata. L’uomo benedisse l’abitudine di lasciare il portafoglio nella tasca interna dell’abito che, nonostante lo facesse sudare come un cappone, alla fine era ancora la miglior difesa. Sorrise alla giovane che, calata nel suo ruolo, si avvicinò, speranzosa.
-No, thanks. I am fine.-, rispose garbatamente ma con fermezza. La ragazza s’imbronciò.
Lui passò oltre. Non poteva permettersi distrazioni. Non ancora. La giovane, molto meno furtiva, prese a camminare nella direzione opposta.
L’uomo continuò. Lo vide. L’edificio bersaglio. Era una sorta di magazzino, o un tempo lo era stato, ora ridotto a un bordello stranamente discreto. Il genere di posto dove sesso, droga ed alcool erano facilissimi a trovarsi. Abissi di perdizione, per tutti.
Usualmente l’uomo e i suoi avrebbero raso al suolo quel posto, ma la situazione non lo permetteva, purtroppo. Avevano un lavoro chirurgico da eseguire, rapidamente e bene.
-In posizione.-, disse. Ricevette assensi. Poi la vide. La giovane veniva tirata di malavoglia da un grassone lercio. Una scena orribile che prospettava un più orribile finale.
L’uomo decise in un respiro. Li guardò svanire oltre un vicolo. Il rumore secco di uno schiaffo e il grido della giovane gli strappò le incertezze. Non l’avrebbe permesso.
Svoltò nel vicolo, vedendo il grasso che incombeva sulla giovane. Violenza sessuale o punizione per una che aveva sgarrato? Non gli importava. Non sarebbe accaduto.
Il Karambit della Schrade si aprì, discreto, appena udibile. Il ciccione mollò alla giovane un’altra sberla. Lei crollò all’indietro. Piangeva senza quasi singhiozzare. Spezzata.
Il grasso si portò una mano sul davanti dei calzoni. L’uomo agì. Lo afferrò passandogli il braccio attorno al collo. L’altro fece per urlare, ma qualunque suono si bloccò quando la punta del Karambit affondò nella base del cranio, nella zona che i birmani chiamavano “la porta del vento”. Si afflosciò a terra, senza neppure sanguinare troppo. L’uomo estrasse e ripulì la lama.
La giovane lo guardò terrorizzata o speranzosa. Lui si portò una mano al viso, dito perpendicolare alle labbra. Lei tacque. Piangeva appena. Lui le gettò delle rupie senza neppure contarle e uscì dal vicolo. Non si curò di altro.
-Patil?-, chiese l’uomo.
-In posizione al di fuori del perimetro.-, rispose l’indiano. Nessun’emozione.
-James?-, chiamò l’uomo. Silenzio.
-Ci sono. Sorveglianza pari a zero, ma alcuni dei grossi locali non mi piacciono. Potrebbero esserci armi. Potrebbe finire in un casino.-, rispose.
-È ininfluente.-, rispose Patil, inflessibile. Silenzio da parte dell’inglese.
L’uomo pensò che forse lo era per lui, ma non per loro. Parametri divergenti. Brutta cosa.
D’altronde sapevano che sarebbe potuta andare così.
-Entriamo.-, rispose James. L’uomo diede conferma. Si presentò all’ingresso poco distanze da Crowain. Patil era appena davanti. Fu perquisito poco e male. Non trovarono niente. Anche perché non aveva nulla con sé. Miracoli del mondo delle ombre, le sue armi, così come le pistole dei due erano già all’interno.
La perquisizione di James non portò a nulla, e neppure quella dell’uomo. Non c’era simpatia in quegli sguardi. Gli stranieri erano mal visti. Tollerati solo per i soldi. Entrarono.
Musica indiana a palla sparata da altoparlanti. Donne che ballavano, acqua che le bagnava in modo strategico. Scena da bollywood dei poveri. I loro sguardi erano quelli di chi non ha speranza e lo sa.
L’uomo sospirò, quello era lo sfogo di una società in bilico tra moderno e tradizionale…
Poi li vide: giovani, pelle scura, caste basse e visi spietati. Aguzzini, buttafuori locali, sgherri di qualche signore del crimine locale. Erano almeno in tre. Uno impugnava una doppietta che poteva avere due o tre volte la sua età, gli altri erano molto più discreti.
Ce n’erano altri? James forse ne aveva notati, ma lui no. In compenso vedeva il bersaglio. Saliva le scale insieme a una ragazza conturbante, avvolta in un sari stupendo, dalla pelle più chiara rispetto alla maggioranza e sicuramente ancora illibata a giudicare dallo sguardo timoroso, anche se sottomesso. Era un’altra vittima innocente di un girone noto, ma forse volutamente ignorato dai maggiorenti indiani, dallo Stato, l’uomo sentì qualcosa dentro di sé.
Rabbia. Pura. Indignazione dovuta alla consapevolezza di star assistendo a un ennesimo sopruso. Non se ne sarebbe stato con le mani in mano. Missione o no.

Patil era teso. Tesissimo, ma non per i giovani banditi che piantonavano quel luogo ridotto a mercimonio del sesso, no. Per il resto. Era sicuro che il Governo Indiano non sarebbe stato senza far nulla dopo gli ultimi eventi. Il sospetto e la rabbia, uniti alla possibilità di un escalation avevano innalzato il livello di guardia dell’autorità centrale. Un raid nella zona era da considerarsi probabile. Non sicuro, ma probabile. E tanto bastava ad agitarlo.
I suoi uomini erano rimasti all’esterno. Lo avrebbero avvisato se ci fosse stato qualche problema e ce n’erano altri lungo la zona, con l’ordine tassativo di riferire qualunque attività fuori dalla norma. Lui e i mercenari avevano un altro compito. L’eliminazione con estremo pregiudizio. Una ragazza si avvicinò, capo chino, come supplichevole. Bella ma già rovinata da delle brutte cicatrici lungo le braccia. Bruciature. Coperte appena, intuibili. Un peccato.
Patil la ignorò. Doveva restare concentrato.
L’uomo con le pistole, un baffuto in veste lunga, un omosessuale che era ben inserito negli ambienti clandestini le passò a Patil dopo un breve, brevissimo dialogo di nessuna importanza. L’involto fu posato accanto all’indù che, dopo aver allungato una mazzetta al contatto, chiamò i suoi. Cauto e discreto, il contatto si stava dirigendo verso la porta.
Fine della lieta serata, per lui.
Patil passò con discrezione le pistole ai due occidentali, mentre parlavano del più e del meno. La musica fetente e l’intrattenimento delle ragazze esposte come bestiame al mercato, oltre a tutta una serie di traffici illeciti, li coprirono quanto necessario.
Ora erano armati. Pronti ad agire. Il bersaglio era al piano superiore. Patil si alzò.
Improvvisamente tutto cambiò di nuovo.

James Crowain fiuta il pericolo. È ciò che sa fare. Ogni uomo che sia stato al limite, o oltre il limite, impara presto o tardi a captare segnali ad altri non completamente chiari.
È quello che fa la differenza, tra vita e morte.
Le imprecazioni dei buttafuori all’esterno di certo non fanno parte della norma.
Ha appena il tempo di afferrare la pistola, mettere il colpo in canna e togliere la sicura.
Poi la porta esplode. E iniziano le urla.

L’uomo è abituato a reagire. Ma reagire a determinati eventi è difficile. Si butta a terra mentre la porta si apre. Urla in Hindi, urla di donne e uomini, reazioni confuse, spari ad altezza uomo.
Il contatto di Patil incassa duro al petto, uno, due, tre, cinque colpi. Sbatte contro una ragazza che ha appena il tempo di accorgersi dell’accaduto prima di subire a sua volta un colpo letale. Il classico canovaccio di un’irruzione decisamente ben pianificata e indubbiamente letale.
Troppo ben pianificata per poter essere una gang rivale. Gli spari sono pochi ma precisi.
Era sicuramente l’attacco delle forze dell’ordine. “Merda!”.
La reazione dei “duri” locali è confusionaria e tardiva. Quello con la doppietta spara. Colpisce. Riceve due colpi al volto. Per lui non ci sarebbe stato un funerale con bara aperta…
L’uomo impreca. La situazione si è complicata. Vede James e Patil sparare. Spari anche da fuori. Possono farcela? Devono! Rapido, si rialza. Spara due colpi a una sagoma davanti a sé. L’agente cade, falciato alle ginocchia. Non camminerà più.
Quelli non sono agenti corrotti, o quantomeno non sono contro di lui. Semplicemente sono finiti coinvolti in una situazione che li rende ostacoli, persino minacce.
E l’uomo sa che le minacce vanno arginate. Anche in quel caso.
Uno dei balordi del locale esibisce una vecchia pistola. Non fa una mossa: Patil lo abbatte con un tiro preciso al petto. L’uomo passa oltre, arrivando alle scale. Un tizio che pare un lottatore, pieno di muscoli strizzato in una camicia sudicia lo fronteggia. Il Karambit è di nuovo pronto.
Sotto è una bolgia, un inferno fetente dove innocenti e carnefici uccidono e muoiono.
L’inumana follia dell’umana razza all’opera di nuovo. Aggressori e aggrediti. Non lo riguarda.
Imprecazioni in Hindi. Colpi corti. L’uomo evita un gancio di misura, fende. L’altro schiva.
Bravo… ma non così tanto. L’uomo indietreggia. Rischia di scivolare. L’altro avanza per colpire. E l’uomo colpisce: il Karambit lede la pelle, e il sangue scorre. Ferita leggera, ma sufficiente: l’altro perde il controllo. Colpi rapidi e furiosi, ma senza tecnica e tuttavia rapidi. Due impattano contro gli addominali. L’uomo sente il fiato sfuggire. Dolore. Si piega. L’altro ride. Colpisce di nuovo. Al viso. La testa scatta in alto. Colpo quasi da K.O.
Quasi. Reagire! Deve reagire! Distanza chiusa, cortissima. Letale.
Il Karambit si alza in arco ascendente. L’altro blocca. Ride. E l’altra mano dell’uomo colpisce.
Diretta alla trachea. Il grosso sputa, tossisce, si affloscia. L’uomo non perde tempo. Non ne ha.
Fende in diagonale discendente, a lato del collo. Aggancia. E il resto è un’onda cremisi.

Patil esplodeva colpi con la precisione di un metronomo. I poliziotti erano chiaramente incappati nella loro operazione per caso. Non prevedevano certo una simile resistenza. Uno dei feriti fu trascinato via da un altro. Minima esposizione. Non sparavano quasi neanche più.
Ma non significava che fosse finita.
-James! La porta sul retro!-, ordinò l’indù. Ricaricò rapidamente. Si guardò attorno.
Musica diminuita ma ancora pompata dalla cassa superstite dell’impianto. Morti ovunque, sangue. Gemiti e grida, pianti e suppliche. Odore di massacro e polvere da sparo.
-Merda! L’intera polizia di Mumbai arriverà qui in forze!-, esclamò James Crowain. Patil vide l’inglese raggiungere la porta sul retro. La socchiuse. Niente. Per ora.

Arjun imprecò. I poliziotti non avevano atteso. No, peggio: non avevano neppure ragionato.
Nella loro semplice convinzione che il nemico contro cui dovevano battersi fosse al loro stesso livello erano semplicemente andati dentro. E molti di loro non sarebbero tornati fuori. Ma il problema era un altro. Il V.I.P. era ancora dentro.
E lui non poteva agire. Non senza causare un casino. La presenza sua e della sua squadra a Mumbai era ignota ai più. Persino i superiori erano stati informati solo marginalmente della cosa. Sfiducia, paranoia portata a livelli estremi. Dubbi e distorsioni della fedeltà alla gerarchia. Tutto per una sola cosa: agire. E agire davvero. Cambiare le cose.
La donna accanto a lui osservava la strage. Erano lontani. Il tetto dell’edificio pareva lontanissimo dalla scena dello scontro. Ma il collegamento con il loro agente sul campo non lasciava adito a dubbi: attraverso la videocamera montata negli occhiali dell’uomo, Arjun notò un viso noto. E lo vide anche la donna.
-Patil Rabhougham.-, disse -Il fottuto Patil Rabhoungham!-.
-Entriamo in azione.-, decretò lei. Lui annuì. Si lanciarono all’interno

L’uomo correva di copertura in copertura. Buttò a terra una donna con una manata al petto.
La giovane urlò, cadendo. Probabilmente gli evitò di morire: uno dei poliziotti sparò ad alzo zero. L’uomo non era più là: aveva preso copertura dietro un mobile massiccio. I proiettili non l’avevano bucato. Dalla finestra, l’uomo vide un altro volto. Un tizio dalla pelle scura e gli occhi spiritati. Uno dei tanti criminali sorpresi dalla retata. Indeciso, fece per entrare. L’uomo sparò l’ultimo colpo, rispedendolo oltre la finestra con un buco nel petto. Ricaricò.

James Crowain sapeva quando le cose si facevano difficili. I suoni in strada non erano confortanti. La retata doveva essere estesa. Molto. Attese che uno dei nemici si facesse avanti.
Il poliziotto avanzò con scarsa consapevolezza dell’ambiente. L’inglese gli fu addosso nel giro di un respiro. L’altro urlò qualcosa. Colpi corti. La pistola dell’indiano fu spostata in traiettorie innocua prima che quella di Crowain, dopo aver percosso con la canna il viso del poliziotto ed essersi riposizionata, tuonasse liberando un proiettile che trapassò l’agente all’addome. James si scostò, evitando il tiro di eventuali altri aggressori ma non prima di fotografare la scena.
-Patil! Ne arrivano ancora. E chiunque abbia un’arma sembra deciso a unirsi alla festa!-, esclamò alla radio ultracompatta che portava al collo.
-Ricevuto.-, rispose l’indiano.

Era un casino. Arjun lo vedeva da sé. La degradata periferia di Mumbai era sempre stata un micro-universo criminale, ma l’improvvisa esplosione di violenza era qualcosa d’inconcepibile. Le varie organizzazioni criminali erano più o meno assestate, ma ora…
Ora l’intervento della polizia aveva fatto esplodere la rabbia della gente per il Covid, per l’inadeguatezza del governo e contemporaneamente aveva allertato tutti i traffichini e i duri locali. Pessima cosa. L’indiano guidava fuso al volante. Travolse un tizio che, armato di una spranga, stava balzando su un agente a terra.
-Gli altri?-, chiese la donna. Arjun non rispose: diede gas lanciando l’auto in una derapata che travolse un uomo in fuga. Il caos pareva regnare sovrano. Chi non era armato fuggiva o implorava e chi lo era si batteva per quel che poteva, contro chi identificava come un nemico.
-Arrivano.-, rispose Arjun. Dietro di loro, un’altra auto stava avanzando.
Erano in assetto da guerra: uniformi nere senza mostrine o insegne e mitragliatori MP5 con puntatori laser, ottiche e silenziatori. Pistole G17 e armi da taglio. Uscirono dalla macchina con fluidità, imbracciando le armi. Due colpi si schiantarono contro la carrozzeria dell’auto.
-Avanti!-, ordinò la donna. Sparò due colpi. Lo sparatore fu scagliato all’indietro nel buio.
Erano arrivati i mastini della guerra.

Fluidità. L’uomo la conosce. Ne ha fatto una ragione di vita. Fluidità e consapevolezza.
Scatta verso le scale. I Bodyguard sono in posizione. Lo vedono. Lui spara senza mirare.
Puro istinto. Uno viene centrato al petto, l’altro alla spalla. L’uomo corre verso di lui.
Click! Colpi finiti. Getta la pistola contro l’altro bodyguard, che la schiva ed estrae un manganello piombato. Sferra un colpo. Lui para d’istinto. Dolore. Il braccio sinistro pare vibrare in un assolo di sofferenza che vira il mondo al rosso.
Ma l’altro braccio, quello armato di Karambit, estratto con rapidità derivata dall’allenamento, quello è integro. E fende. Il viso dell’avversario si apre al rosso. Urla disumane.
L’uomo non si ferma. È dentro alla sua guardia. Pugni lo colpiscono, ma non lo fermano.
Il secondo fendente è al collo. Ed è conclusivo. La via è libera. L’uomo si china a prendere la pistola di uno dei due guardaspalle e sale. Passa il Karambit nell’altra mano, conscio che potrebbe non servire. Il braccio duole. Al diavolo anche quello. Ha un obiettivo. Uno scopo.
C’è la porta. Un calcio la spalanca. Legno dappoco.
Scena spiacevole all’interno. L’uomo odora. Droga, sentore di droga e profumo scadente.
L’uomo vede. Il bersaglio è in piedi, nudo, contro di sé tiene la donna, nuda anche lei.
Lo guarda, parla. L’uomo non sente. Vede. Capisce, identifica e categorizza.
Scudo umano, sacrificabile. A terra ci sono sigarette, alcoolici e un blister di pastiglie.
La giovane ha il capo chino, palesemente in stato di semi-coscienza a causa di quel mix.
O forse sta pregando. Sicuramente è bella, forse prima era ancora innocente. Ora non più.
L’uomo vede. Morsi, ferite di un amplesso feroce, di una conquista. I capelli neri lunghi incorniciano un viso piangente. Più in basso, tra le cosce, sangue. Poco. Innocenza persa.
L’uomo sente il fuoco, la rabbia, un’ira che l’ha accompagnato a lungo. E che ora rialza la testa. L’altro parla, in inglese. Dice cose che l’uomo non ascolta, che non vuole ascoltare.
Non si perde a rispondere. Non intende farlo. Quel tizio non dirà più niente. A nessuno.
Alza la pistola e spara. Tiro istintivo. Centro all’occhio destro. Il proiettile 9 mm camiciato entra nella cavità oculare, uscendo dalla nuca. Colpo letale. Bersaglio a terra. Per quel che vale.
La ragazza si divincola dalla presa, il morto cade. L’uomo la guarda.
Dai recessi del passato il ricordo tornò. E insieme ad esso, la consapevolezza di non aver potuto evitarle quella sofferenza, proprio come a lei, anni prima.
Ma fu solo un istante. Quello successivo, l’uomo è chino sul corpo del morto e la ragazza, avvoltasi in un telo alla bell’e meglio fugge verso le scale piangendo.
L’uomo fruga, cerca. Trova. Una chiavetta USB. E un bracciale. Ordini completi.
-È finita.-, comunica alla radio, -Muoviamoci.-.

-James? Abbiamo una via di fuga?-, chiese Patil. Tempo accelerato nella spirale del furore.
-Sì.-, risponde l’Inglese. L’auto non è ben messa. I dacoit di Patil l’hanno recuperata alla meglio e in fretta, senza badare ai danni collaterali. L’uomo che la guidava è fortunato: ha solo un paio di lividi. Pestaggio ma senza esagerare. James apre la portiera.
Uomini in nero. Ombre nella notte. Uniformi nere, non identificabili, armi corte. Sparano sui malviventi e sugli sgherri di Patil. Sono in cinque. James Crowain bestemmia.
Forze speciali indiane? Mercenari pakistani? Sicuramente degni avversari.
Si butta a terra, rotolando dietro l’auto.
I dacoit di Patil non sono così rapidi. Uno muore senza neppure capire cosa sta succedendo, la tipa invece spara. Riesce persino a ferire uno dei commandos al braccio destro, prima che il fuoco di risposta la crivelli e la scagli contro l’automobile.
-Merda! Patil, hai un piano b?-, chiede James mentre ripiega verso l’entrata.

-Che diavolo succede?-, chiese Patil. Nel locale era scesa una calma innaturale. Nessuno sparava. Tutti morti. Sia i poliziotti che i malavitosi. Ragazze e passanti travolti dall’uragano di piombo che ha devastato il posto. Danni collaterali. Patil lo sapeva bene.
-Forze speciali di qualche tipo. La macchina è andata. Due di loro mi hanno visto. Vengono di qua!-, esclamò James. C’era rumore di spari in sottofondo.
-Ok. Ci dirigiamo all’ingresso principale.-, rispose l’indiano. Stava andando peggio del previsto.

-Coprimi.-, ordinò la donna a un subordinato. Sparò due colpi che cancellarono un altro straccione armato con un vecchio mitra. Quella era una vera bolgia. C’erano svariati nemici.
La donna sapeva che c’era qualcosa che non andava: troppe armi e troppi nemici ben armati.
-Dalima Kothil deve aver predisposto qualcosa.-, disse uno dei commandos, chino sul corpo di uno dei dacoit morti, -Questa qui è Srita Uraksham, indo-pakistana, nota per l’associazione alla rete di Dalima.-, disse.
-Questo vuol dire che anche quegli occidentali potrebbero essere qui.-, disse Arjun.
-Togli il “potrebbero”: ne ho visto uno. Scommettiamo che sono qui?-, chiese la donna.
Avanzava, arma in caccia.
-Nel locale? Con il V.I.P.?-, chiese Arjun. Il tono era preoccupato.
-Nel locale per il V.I.P.-, corresse lei. Sparò due colpi. L’occidentale non mise fuori la testa.
-Prepararsi a irrompere.-, disse.

-L’entrata principale non è disponibile.-, disse l’uomo. Gli ci erano voluti solo tre minuti per scendere ma i tizi in nero piazzati all’entrata erano professionisti. Raffiche cortissime, mira precisa. Patil imprecava, ferito a un fianco di striscio.
-Il tetto!-, ordinò l’indiano.
-Vi copro!-, rispose James. Sparò tre colpi che costrinsero i commando a prendere copertura.
-Forza!-, esclamò l’uomo. Scattò verso la scala. Salì oltre i bodyguard, oltre la porta divelta, lungo altre scale. Patil lo seguì, e dopo un po’ anche James.
I commando entrarono pochi secondi dopo. Boati ultrasonici devastarono i timpani.
Granate flashbang. Roba notevole. L’uomo si sporse.
Sparò.

La donna si fermò, esitò, istinto o pura e semplice prudenza. Comunque le salvò la vita. Il proiettile passò vicinissimo al suo orecchio. Vide l’uomo per una frazione di secondo. Un occidentale. I capelli erano tinti e portava degli occhiali incongrui, oltre al vestiario da tipico turista. Ma era sicuramente lui.
-Sono loro!-, esclamò mentre prendeva copertura. Dietro di lei, Arjun sparò.
Ma era tardi: l’occidentale non era stupido. Si era ritratto.
-Dobbiamo prenderli. Salgono sul tetto!-, esclamò lei.

Polmoni in fiamme. Il tetto pareva lontanissimo.
James correva. Spalancò una porta. Un ufficio. Un tizio alzò le mani, biascicando qualcosa.
Lui neanche lo ascoltò: trovò l’entrata per il tetto. Salì.
L’aria della notte pareva fredda in confronto al caldo dello scontro.

-Vai!-, l’uomo era conscio che Patil non era uno dei suoi, ma non l’avrebbe abbandonato.
L’indiano annuì mentre estraeva una trasmittente. Parlò in Hindi. Ricevette risposta.
L’uomo rimase fermo. Sparò. L’intonaco si scheggiò a un passo dalla testa del primo incursore.

La donna imprecò sonoramente. Strappò una flashbang dalla giberna. Tolse la sicura.
La lanciò.

L’uomo era a metà della scala. L’esplosione lo scosse. Le orecchie fischiarono. I timpani gemevano di sofferenza. Se non altro, aveva evitato il peggio. Nessun accecamento.
Si sforzò di avanzare. Qualcuno lo aiutò a salire. Sul tetto soffiava vento. Vento?
L’udito rimandava un ritmo irregolare. Un elicottero? Sì… L’uomo lo vedeva.
E a bordo c’erano Nô e Jhon. La via di fuga.
-Forza!-, esclamò Patil. L’uomo annuì. Salì. James salì per ultimo.
S’involarono nella notte.

La donna fu la prima a irrompere sul tetto. Vide l’elicottero allontanarsi.
Soppresse, con notevole autocontrollo il desiderio di sparare al rotore di coda dell’elicottero in fuga, consapevole che se si fosse schiantato, il caos sarebbe stato ben maggiore.
-Dannazione!-, sbraitò. Mise in sicura l’MP5. Dietro di lei udiva gli altri arrivare. Arjun la raggiunse. Non emise un suono. La donna pensò che fosse stato un fiasco. Un fallimento totale.
-Il V.I.P. è morto. Ma abbiamo una testimone. Una ragazza.-, disse Arjun.
-Attendibile?-, chiese lei. Lasciò che il mitra pendesse lungo la cinghia.
-Assolutamente. Test tossicologici negativi, almeno superficialmente. Dice di averlo visto morire.-, rispose il suo secondo. La donna sospirò, a malapena consapevole di quanto detto.
La situazione non cambiava: l’uomo che avrebbero dovuto esfiltrare era morto, tutto perché la polizia locale non aveva voluto ascoltarli. Il V.I.P. era un politico indiano di basso livello ma con connessioni importanti con Sanjar Tah. Avrebbero dovuto muoversi prima per assicurarsi di averlo in custodia ma protettori in alto loco lo avevano impedito.
Il capo della polizia di Mumbai, in concomitanza con la sua unità, aveva accettato di farsi carico della faccenda ma aveva deciso di fare entrare i suoi in quel quartiere senza attendere.
“Bastardo arrivista.”, pensò la donna mentre si toglieva il mephisto nero. Era bruciacchiato lungo la tempia destra.
Un proiettile le era arrivato così vicino? Forse quello di quell’occidentale? Aveva fallito apposta o l’aveva semplicemente mancata?
-Arjun, voglio parlare con quella ragazza.-, disse, -Ora.-, aggiunse in un tono che non ammetteva repliche. Arjun annuì. Scesero verso l’ufficio. L’uomo all’interno era ammanettato.
-Altro testimone.-, disse uno dei suoi uomini, -Gestiva il posto.-.
-Allora parlerò anche con lui. Ma prima la ragazza. E dì Sharukin di non interferire. Lui e i suoi hanno fatto abbastanza casini.-, disse lei.
-Sissignore.-, ribatté il commando. Fece alzare l’uomo. Scesero di sotto. C’erano altri di sotto, poliziotti. In divise khaki, sconvolti dalla scena. Avevano ancora le armi in pugno.
C’erano tre tizi ammanettati e pesti contro il muro. Civili o criminali? Difficile dirlo, in quei casi era molto facile che gli uni si mischiassero agli altri. Ma alla donna non importava.
-Capitano Mokhran, porti i suoi uomini fuori da qui. Si occupi dei morti.-, ordinò.
-Io…-, iniziò lui. Lei gli piantò addosso uno sguardo di fuoco.
-Un uomo che era sotto la nostra protezione è stato ucciso. Per colpa sua e dei suoi uomini che avete voluto entrare in azione senza attendere. È stato un carnaio.-, sibilò, -Porti via i suoi. Ora.-, si voltò senza aspettare risposta. Notò uno dei suoi inginocchiato davanti a una ragazza rannicchiata in un angolo, coperta con un telo. Le porgeva dell’acqua.
La testimone. Evidentemente. Arjun la raggiunse.
-Il Capo è in linea. Vuole delle risposte e le vuole ora.-, disse.
-Le avrà.-, rispose la donna. Pregava tutti gli dei che quelle risposte ci fossero davvero, altrimenti il rischio di una guerra col Pakistan non sarebbe stata la sola conseguenza della mattanza di quella nottata.

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