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Racconti Erotici

I NOMI DELLA FELICITÀ

By 14 Gennaio 2009Dicembre 16th, 2019No Comments

Morire, finire’ Morire, finire’ Morire, finire’ Codeste parole erano il gelo delle sue labbra, rosse, scarlatte e affettuose, come non si può dire.
Lei era giovane e dolce, cara quanto un’immortalità di baci, aveva i capelli morbidi, scarlatti, le avevano dato cento nomi di felicità, ma la tristezza l’aveva colta, all’improvviso, sì, l’aveva colta.
Ella guardava passare le carrozze, l’una dietro l’altra, alla luce dei lampioni ardenti, ottocenteschi. Erano fantasmi, che volavano verso la città, guidati da pariglie di cavalli bianchi, la notte brillava delle loro lanterne, bianche e belle.
– Ridatemi il mio amore perduto! ‘ gridò Eloisa, astergendosi le lacrime con il suo fazzoletto ricamato. ‘ Restituitemi l’affetto di chi amo’
Il suo tesoro era un soldato, gliel’avevano ucciso i cattivi, in guerra, l’avevano sepolto proprio quel giorno, nessuno mai l’avrebbe restituito al suo petto, nessuno mai.
Eloisa piangeva, davanti alle luci lontane della città, che parevano le luci di un porto.
Ella non aveva smesso di credere nell’amore’ Quella forza creatrice e meravigliosa era ancora con lei e dentro di lei, la faceva sognare e mescolava la felicità alle sue lacrime, che altrimenti sarebbero state grigie e senza senso.
– Mi sono innamorata del pianto ‘ mormorava, appoggiando la sua testa a un muro.
Qualcuno carezzava i capelli suoi. Io non so se era un uomo, un fantasma o uno spirito dell’immenso.
– La giovinezza brillerà in me per sempre ‘ mormorava Eloisa.
Ella era pazza, per la morte del suo amato. E s’illudeva, s’illudeva di non so che, tra quelle luci confuse, vaghe, sognanti.
Ad un tratto, una carrozza passò, si fermò e la raccolse. Io non so chi stava a cassetta, né dove la conducevano. Il cocchiere era un uomo senza volto, che portava un cappello a cilindro sul capo e sferzava i cavalli con una lunga frusta nera.
– Chi siete? Dove mi conducete? ‘ chiese Eloisa, assai preoccupata e quasi affranta.
Ella ripeté la stessa domanda per ben tre volte, ma nessuno le rispose.
Allora, la bella aprì il finestrino e si sporse, perché aveva visto un passante. Aprì la meravigliosa bocca, come per gridare, ma dalle labbra sue sfuggì soltanto un grido melato, che sembrava fatto di passione e malinconia insieme.
Si posò il dito sulle labbra, come per tirare un bacio, lo fece più volte, ma fu come se nessuno la vedesse, come se la avvolgessero mille nebbie, nei chiarori lunari di quella notte.
– Conducetemi lontano, conducetemi nel regno dei morti, dove possa incontrare il mio amato! ‘ chiese Eloisa al cocchiere.
Forse, qualcuno l’aveva ascoltata, l’aveva amata, di lontano, io non so.
C’erano delle cose che gli uomini non potevano sapere, non potevano capire, forse neppure immaginare, così come non potevano conoscere il nome di tutte le stelle o compiere viaggi verso astri lontani del cielo.
Alla nostra bella vennero in mente le parole che aveva udito un giorno dal vedovo più anziano del villaggio. Egli le aveva detto che il destino di tutti gli uomini era scritto nelle stelle, che lui osservava quasi tutte le notti, con il suo telescopio.
Si erano parlati prima del giorno della sagra del paese, in occasione della quale c’era stata la sfilata delle maschere, erano scoppiati i balli, le musiche, gli squilli di trombe, i canti e le grida di quanti portavano le bandiere.
– Conducetemi dal mio amato soldato ‘ chiese Eloisa. ‘ Conducetemi nell’altro mondo!
Le parole sue volarono nell’aria tranquilla, come un vento profumato. Davanti agli occhi suoi, passavano le case e i campi, nonché i ricordi degli amori perduti.
L’altro mondo era lontano e la nostra bella non ebbe modo di raggiungerlo quella notte.
– Conducetemi nel regno dei morti! ‘ diceva, affacciandosi al finestrino e lasciando che la sua lunga chioma scarlatta volasse nel vento.
E salutava con la mano i fantasmi del mondo, che svanivano dinanzi ai suoi sguardi assorti.
– Forse sono già morta ‘ mormorava Eloisa ‘ e non me ne rendo conto. Sono già nel regno dei trapassati’ O soldatino amico del mio cuore, vieni a prendermi! Vieni a riabbracciare la tua amata!
Il suo delirio continuò fino alle prime luci dell’aurora, allorché cadde addormentata, ma la sua carrozza continuò a correre forte, nei chiaroscuri del primo mattino.
I paesaggi erano spettrali, lugubri, pieni di betulle malinconiche, di faggi senza foglie; qua e là, si discerneva una chiesa abbandonata, con il suo campanile fantasma, a volte, appariva qualche mulino, qualche pagliaio dimenticato, dove si riunivano i briganti o forse le streghe. Ad un tratto, apparve un grande mattatoio abbandonato, con una testa di bue appesa sopra la soglia e il tetto aguzzo, a forma di triangolo appuntito, nero come la pece, tetro come l’oblio. Poi, un lampo mostrò un bosco, pieno di giovani uomini e giovani donne ignudi, dediti all’accoppiamento, i maschi tenevano le mammelle delle femmine in bocca, mentre le possedevano carnalmente. Attorcigliati ai tronchi degli alberi, c’erano mille serpenti, alcuni dei quali dovevano saper sputare fuoco.
Eloisa era tanto bella e innamorata, che non vide tutto questo, anche perché in quegli istanti i suoi begli occhi erano addormentati.
Ella invero ripensava alle scene d’amore vissute nel mondo con il suo amato; una volta, avevano amoreggiato su un muretto, vicino alla caserma grande, dove c’erano i cavalli e tanti soldati con le bandoliere e le sciabole al fianco, che facevano il saluto militare.
Lui l’aveva stretta forte, mentre s’udivano degli squilli di trombe e un ufficiale passava in rassegna le sue truppe. Poi, la bella aveva sperimentato le gioie della carne, s’era sentita penetrare ed aveva chiesto ripetutamente di poter restare incinta, sì, restare incinta, incinta, incinta… Ma il destino non aveva voluto esaudire il suo desiderio.
– Facciamolo altre mille volte, te ne prego! ‘ aveva domandato alla fine, ancora ansante.
Ma la preghiera sua era svanita, nel silenzio dell’illusione.

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