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Racconti Erotici

I VESPRI SEPOLTI

By 5 Marzo 2009Dicembre 16th, 2019No Comments

C’era una volta un villaggio sperduto in mezzo alle Alpi, dove gli inverni erano assai freddi e nevicava spesso. Ricordo di inseguimenti al chiaro di luna, canti di lupi, schioppettate, grida disperate di contrabbandieri, urla di gendarmi, latrati di cani, che inseguivano chissà quali piste, sulla neve. E quante bufere, quante bufere c’erano!
Le case avevano i tetti spioventi e aguzzi; qua e là, avevano costruito delle cappelle in mezzo al bosco, perché i popolani avevano paura degli spiriti.
Nel villaggio erano accadute tante disgrazie, tante disgrazie, sì!
Una volta, una donna, bella e bionda, ma tutta vestita di nero, era uscita di casa piangendo e tenendo un bambino morto tra le sue braccia.
– Che avete, signora? – le avevano chiesto due passanti.
– Oh, mio figlio &egrave morto! &egrave morto! Io non credo più in Dio, no, non ci credo più!
E la sconosciuta s’era messa a baciare e abbracciare il figlio senza vita davanti a tutti, in lacrime, sospirando e ripetendo il nome del povero defunto.
– Jean-Baptiste’ Jean-Baptiste, no! No!
Ma le parole sue non erano bastate per rendergli la vita.
– Calmatevi, signora! – le aveva detto un viandante, che portava una damigiana sulle spalle e proveniva da non so quali sentieri di montagna. – Ormai non c’&egrave più niente da fare, rassegnatevi.
– Oh, no, no che non mi rassegno! – si era messa a sbraitare la donna vestita di nero, alzando i pugni al cielo. – No e poi no! Oh, montagne maledette, spalancate le vostre bocche di ghiaccio ed inghiottitemi per sempre’ Foreste e selve, sarete le mie tombe! Nessuno mi può strappare l’essere che amavo di più al mondo!
Anche quella sorta di apparizione svanì, mentre s’udivano di lontano dei colpi di fucile. Io non so se fosse perché vi era una battuta di caccia o qualche altra sventura, davvero, io non so.
Due innamorati si parlavano davanti a una cappella diroccata, tutta dipinta di celeste e le cui finestre avevano come delle grate rossastre.
– &egrave la prima volta che torno al villaggio, dopo quasi cinque anni, in cui non ho fatto altro che scriverti e sognare i tuoi morbidi capelli! – diceva il giovane amante, stringendo la sua bella.
– Qui, davanti a tutti? – mormorava lei. – Oh, no, non possiamo! Se sapessi! Quante volte ti ho sognato, ti ho chiamato, mentre fuggivi, nei miei sogni!
– Ed ora? Che cosa faremo? Come vivremo? Devi fuggire con me! Lasceremo questo paese sperduto nelle Alpi, così come i nostri parenti infami, che non ci amano!
– Io ho tanta paura dei contrabbandieri. I sentieri sono abitati da gente cattiva e bestie fameliche; ci sono dei giorni, in cui i gendarmi sparano senza pietà. Oh, e se ci prendessero? Che cosa faremmo? Che cosa faresti?
– Devi avere coraggio! Devi avere coraggio!
– Sì, con te al mio fianco, non temo nessun male. Guardami negli occhi, sì, come fai in questo istante, cerca di trasmettermi tutto il tuo folle affetto, lo stesso che serbasti per così tanto tempo! Oh, sì, così mi rendi la più felice delle donne!
Ricordo che un giorno, verso la fine dell’autunno, lungo il sentiero maestro salì una comitiva di venti o trenta uomini. Tutti portavano delle damigiane o delle gerle sulle spalle, avevano dei cappelli a punta, verdastri, al pari delle loro giubbe sgualcite e dei loro calzoni larghi, che stivali di pelle grossolana arrivavano a coprire fin quasi al ginocchio. Intonavano non so quale canto di montagna, alcuni avevano il fucile in spalla e sembravano ubriachi. Cantavano in un francese antico, narrando di storielle amorose vissute in mezzo ai boschi, all’ombra dei faggi vecchi, lungo le rive di torrenti stregati, nei quali erano periti non so quanti amanti. Parlavano di volpi, dai manti rossicci e dalle code lunghe: erano tanto furbe che nessuno mai era riuscito a catturarle.
Erano gli uomini delle damigiane e delle gerle. Alcuni di essi s’appoggiavano al bastone, onde affrontare meglio la dura salita. Le foglie crepitavano sotto i loro stivali, tutti sapevano delle vipere, nascoste sotto i sassi e pronte all’agguato. Non se ne vedevano più da tanto tempo!
– Andiamo, andiamo su per la montagna’ Cantiam di boschi, di selve, di foreste e poi si magna’ Cantiam di storie belle, di giovani e di prati in fiore’ Non c’&egrave la guerra, su per i monti della terra’ Andiamo, andiamo su per la montagna’ Qualcun si bagna’
Così cantavano.
La valle pareva desolata, solitaria e spettrale. La circondava una giogaia stregata di monti, che sembravano parlanti. Qua e là, si vedeva una casa abbandonata, senza luci e senza finestre, o con pochi vetri rotti ed un’imposta che pendeva sbilenca, in procinto di cadere. Sembrava un fantasma crudele e faceva paura. Alcuni fabbricati erano abitati ed i loro abitanti vivevano nello spavento. Le strade erano tutte di sassi, praticabili con difficoltà, molto raramente vi si vedeva passare una Lambretta o una Bugatti, che fendeva le brume del crepuscolo o della notte con i suoi fari dalle luci bianche e vaghe. Chi viveva nella valle sperduta temeva di subire delle aggressioni, poiché vi erano molti uomini malvagi, che si vestivano di nero ed indossavano cappucci del color della pece per rapinare la gente o fare del male per il puro piacere di farlo. Una volta, tutti gli abitanti di una casa erano stati torturati e uccisi dai fantasmi del mistero. Tutto era accaduto alcune ore prima del canto del gallo.
Gli edifici, per lo più cadenti e decrepiti, raramente ristrutturati, erano illuminati dalla luce delle lanterne, che sembravano le stelle tranquille del niente, confuse in mezzo alle foschie, alla voce del vento, che pareva quella degli spiriti.
Di tanto in tanto, s’udiva il canto del gallo, il verso cupo di un fagiano selvatico, la voce confusa e nera di qualche volpe, che cercava dei pollai ai quali dare l’assalto.
Arabelle non abitava più in prossimità della valle, bensì in cima ai monti, non lontano dai luoghi in cui brillavano le nevi perpetue. Ella era una donna giovane e bella, che credeva nell’amore in tutte le sue forme e soleva giungere le sue mani onde invocare gli spiriti del bene e della fraternità. Purtroppo aveva sposato un bracconiere cattivo, che non le voleva più bene da molti giorni e passava gran parte del suo tempo nel bosco, ad uccidere dei poveri animali innocenti. Gli spari cupi del suo fucile facevano paura, avrebbero spaventato persino le streghe!
La giovane amava indossare i costumi tipici del suo paese; soleva portare una gran cuffia candida sul capo, le calze bianche, i sandaletti neri, al pari della sottana ricamata a fiori rossi e dei legacci che le chiudevano la giubba cremisi.
– Sei cattivo! – diceva Arabelle al suo amato, quando lo vedeva tornare a casa, ubriaco, con il fucile in spalla e tre o quattro animali morti appesi alla cintola. – Ti diverti ad uccidere dei poveri animali! Loro non hanno colpa! La devi smettere di fare del male a quelle povere bestie! Anche gli animali soffrono!
– E tu devi smettere di dirmi quello che devo fare! – le rispondeva il bracconiere. – Lasciami stare o giuro che ammazzerò anche te! Sia maledetto il giorno in cui ti ho sposata, in cui qualche stolto mi ha convinto a sposarti! Non fai che protestare e criticarmi!
– Io ti voglio bene e tu lo sai! – gli diceva Arabelle, picchiettandogli le spalle con i suoi pugni.
– Tu? Non so più che farmene del tuo amore. Io sono cacciatore e me ne vanto! Sono il bracconiere maledetto!
Detto questo, il vecchio scoppiava a ridere, stappava una damigiana che teneva in cantina, tra le grandi botti di legno pregiato, poi cominciava a bere, a bere e a bere.
– Non devi ubriacarti così – gli sussurrava amorevolmente la sua bella. – Non voglio che tu ti faccia del male! Io ti amo e ti sono amica… Ti voglio bene! Non dimenticartelo, sai?
– Io mi dimentico di quello che voglio! E non sta a te dirmi quello che devo o non devo fare! Smettila di sbaciucchiarmi! Io non sono una femminuccia! No, mollami…
Dimenticavo di dirvi che quando il bracconiere cadeva ubriaco, la sua bella ne approfittava per divorarlo con i suoi baci. Era sempre innamorata di lui, benché il suo uomo fosse cattivo e la maltrattasse.
– Mi sembra ancora di udire i versi disperati degli animali che hai ucciso oggi! Oh, sì, odo il loro pianto, quello che precedette gli istanti in cui morirono! E piango con loro, soffro con loro, muoio con loro… Non fare più del male, ti prego!
Questo gli ripeteva sempre Arabelle, al termine delle loro giornate, prima che si coricassero in quel letto di legno, vecchio e scricchiolante, in mezzo ai mobili d’epoca e alle ragnatele che quasi decoravano i muri sconnessi della loro casa, che nessuno più imbiancava da anni.
– Ti voglio bene, Franz… Ti amo da quando ti vidi per la prima volta, sulla soglia del mulino turchino, in cui abitava il Gobbo…
Questo sussurrava Arabelle, prima di addormentarsi tra le braccia del suo cattivo. Poi, gli occhi suoi sognavano, teneramente.
Le notti erano spesso piene di luna, di vento, di neve e di civette. Sì, s’udivano i versi rochi e confusi di quei volatili, che abitavano i tetti aguzzi, i rari campanili delle chiesette abbandonate, le tombe senza nome, che s’incontravano di rado sotto gli alberi più sperduti del bosco. E a volte c’erano gli inseguimenti, le fucilate, il sangue! Oh, non fatemici pensare!
Arabelle era ancora innamorata…
Una di quelle notti, Arabelle, la dolce montanara, ebbe un sonno alquanto agitato.
Non faceva che dimenarsi e agitarsi sotto le coperte, ansimava, sospirava e si lamentava, la bella bocca rossa semiaperta, le mani che cercavano invano quelle di colui che amava.
– Aiuto’ Che succede? Soffoco! Soffoco! No, non fategli del male! Prendete me, piuttosto, ma non lui! Non voglio! No! Lasciatelo! Lasciatelo, cattivi!
Il giorno dopo, la nostra protagonista indossò il suo costume da montanara, si sedette su una delle botti della cantina, in mezzo alle fascine di legno secco e alle ragnatele grigie, poi il suo bracconiere la raggiunse, attirato dalle sue amorevoli grida.
– Che hai? – le disse, finendo di bere il suo boccale di birra. – Perché mi hai seccato? Non mi va di parlarti di primo mattino. Anzi, se potessi non ti parlerei più!
– Franz, ti supplico, ascoltami – disse la tenera Arabelle, giungendo le mani, mentre gli occhi suoi luccicavano, umidi di pianto e di vivo affetto. – Ho dei presentimenti! &egrave da alcuni giorni, ormai, che gli spiriti delle montagne non mi danno pace! Mi parlano di un karma terribile, sì, un karma terribile, che colpirà te, non so come, né quando!
– Tu sei matta! Bella mia, tu sei malata nel cervello!
– Franz, ascoltami, ti scongiuro! Ne va della tua vita terrena, della tua felicità! Non posso tacerti quelle parole. Ti voglio troppo bene! Tu sai quanto desideri stringere il tuo volto tra le mie mani, accarezzarlo, sfiorarti con i miei morbidi capelli’
– E smettila! Diamine, che vuoi farmi? Il lavaggio del cervello? Io non credo a quelle cose!
– Franz, io’
– Tu sei una sciocca! &egrave ora che tu vada a prendere una boccata d’aria e a fare una bella passeggiata nel bosco. Chissà, forse tornerai sana di mente!
– Ho tanta paura che sia tu ad essere malato! Lasciami parlare, permettimi di preoccuparmi per te! Non ti accorgi di quanto ti sono affezionata?
– Tu sarai pure affezionata a me, ma io non tengo per niente ad averti! Anzi, ti dirò di più: stamattina mi fai schifo!
– Sei il solito volgare’ Oh, ma non fare il cattivo, non questa volta, almeno! Franz, il karma’
– Smettila di fare la bifolca con me, o’
– Franz, il karma! Quando si fa il male, prima o poi ricade su chi l’ha commesso. C’erano le schioppettate, i gendarmi, i cani che azzannavano uno dei briganti, una donna in lacrime, che gridava e si strappava i capelli, in cima ad una rupe, c’era la morte! Ho visto un forziere, colmo di merce di contrabbando, poi, più nulla, la nebbia, le case decrepite e cadenti’ Tu eri ferito, sì! Un karma terribile attende inesorabilmente chi fa il male per il puro piacere di farlo!
– Adesso basta! Me ne vado! Tu stai delirando, mia cara!
Così disse il bracconiere, battendo violentemente il suo pugno sul tavolino di legno, mentre Arabelle, seduta sulla botte, si prendeva il volto tra le mani.
Poi Franz si mise la gerla sulle spalle e uscì, sbattendo violentemente la porta.
Un singhiozzo confuso sfuggì alle belle labbra della dolce montanara, che fece per correre dietro al suo amato, ma non ci riuscì.
– &egrave così triste che tu non ricambi il mio amore!
Così sussurrò, vagamente, appoggiandosi all’uscio di legno.
Mentre scendeva lungo non so quale sentiero, il bracconiere borbottava a voce alta delle parole cupe, che accompagnava con delle bestemmie nere, che non si possono trascrivere.
– &egrave sempre la solita! Non la sopporto più! Uno di questi giorni la manderò via di casa a suon di calci! Adesso ha anche cominciato con questa storia del karma e del destino avverso! &egrave diventata matta. Ha bisogno di andare a farsi una passeggiata, glielo dico io!
E si appoggiava un dito sulla tempia, a significare lo stato di confusione in cui credeva si trovasse la sua montanara bella.
– Ti prenderei a schiaffoni, guarda un po’! – borbottò poco dopo, appoggiandosi ad un albero dal tronco grosso per guardarsi intorno ed orientarsi.
Quella sera, mentre gli abitanti del villaggio rientravano nelle loro case, chiudevano a chiave e sprangavano gli usci e le donne raccontavano ai fanciulli storie di lupi, per farli stare buoni e addormentarli, Franz, il bracconiere, era ancora a zonzo e confabulava con due brutti ceffi davanti all’Osteria del Fienile.
– Io ci sto – diceva uno dei suoi interlocutori. – Ma il bottino deve essere alto bene!
– E non parlare con quella voce grossa, che ci sentono! – disse l’altro, strizzando l’occhio al bracconiere. – Io sono del mestiere, le conosco queste cose!
– Ma quando si fa? Come? Dove? Dovete dirmi tutto di quest’affare!
– Eh, via! Qui non si può! Certe faccende si possono soltanto accennare!
Il canto stonato di un’anatra selvatica si mescolò alle loro voci e le rese ancor più spettrali e cupe. I tre confabulavano come dei cospiratori, stavano ritti in piedi, in cerchio, e ognuno teneva le mani appoggiate sulle spalle dell’altro.
– Basta così, va bene, su! – borbottò Franz, che si spazientiva facilmente. – Non voglio fare il difficile, a dopodomani, verso mezzanotte!
– Qui, davanti all’Osteria del Fienile? – chiese uno degli altri due.
– No, nel luogo che vi ho detto! E soprattutto voglio che quest’affare non si sappia in giro! Mosca! O sennò’
A quel punto, il bracconiere fece un gesto che assomigliava a quello che si può compiere quando si taglia il collo a una persona o un animale.
Quando il bracconiere fece ritorno alla sua casupola dal tetto fumante, la casa del rovere vecchio, Arabelle era lì ad aspettarlo.
– Oh, grazie al Cielo sei tornato! – gli sussurrò affettuosamente, cercando di abbracciarlo. – Ero così in pensiero! Temevo che ti fosse successo qualcosa!
– Non so che farmene delle tue paure! – le rispose l’altro, brutalmente.
– Per favore, non incamminarti lungo sentieri pericolosi! Non imboccare la strada del male!
– Io vado dove voglio e faccio quello che voglio! Non ho bisogno delle tue prediche! Lasciami stare, che ho bisogno di bere! Ho bisogno di ammazzare gli animali, di vedere il sangue, di sentire le fucilate; sono un bracconiere, io!
Detto questo, Franz scoppiò in una fragorosa risata. Mentre lo guardava con i suoi occhi compassionevoli, Arabelle quasi si commuoveva. Era tutto vestito di verde, le sue braghe erano appena macchiate di fango, la cartucciera che portava a tracolla gli donava tanto! Guardandolo, le sembrava di udire il suono dei corni da caccia.
Una notte, mentre dormiva, la bella montanara fu destata da un gran fracasso, di mobili e di fascine spostate.
– Che mai? – esclamò, balzando giù dal letto.
Il suo amato non era al suo fianco. Ella non avrebbe osato chiedergli che cosa stava facendo. Si accontentò di origliare all’uscio e di guardare attraverso il buco della serratura.
Accanto al suo sposo, vide due brutti ceffi, dei quali uno portava un basco blu sul capo e aveva due baffetti lunghi e arricciati in punta. L’altro era grasso, aveva il volto rubizzo e paonazzo, era calvo e portava una gran gerla sulle spalle. Se ne era servito per trasportare la macchina lungo il sentiero’
– Ecco, la sposto qua? – disse uno dei tre.
– Sì, mettila lì! La coprirò con un panno, in modo che quella sciocca di mia moglie non possa accorgersi di nulla!
– Forse sarebbe meglio metterla nel baule!
– Sì, ma quanto pesa! Una tonnellata’
– Avanti, forza in quelle braccia! Fannulloni!
Uno degli sconosciuti disse forte, quasi per vantarsi:
– Io sono contrabbandiere da tre generazioni!
– Eh! Se ci fosse la mia mammaccia, come mi tirerebbe le orecchie! – mormorò Franz. – A quest’ora la gente perbene &egrave a letto e fa sogni d’oro! Che facciamo noi mascalzoni ancora in giro? A mezzanotte per i viottoli s’incontrano soltanto i lupi e i banditi’
Detto questo, il bracconiere scoppiò a ridere fragorosamente. Non temeva di farsi udire dalla sua bella’ A dire il vero, i rumori dei tre bricconi erano cupi, sommessi e assai confusi.
– Prendiamo un fiasco di vino, offro da bere a tutti! – disse poi il padrone di casa.
– Evviva, beviamo alla salute! – disse l’uomo dai baffi arricciati.
Arabelle sospirò profondamente, poi si coricò e fece finta di dormire.
I rumori non cessarono che all’alba.

Ricordo che una volta Arabelle attingeva acqua da un pozzo artesiano e spingeva la leva della pompa in su e in giù. Un sudore languido le imperlava la fronte, mentre uno scoiattolo dalla lunga coda si nascondeva dietro le fronde di un nocciolo.
– Oh, Cielo! – sussurrava la nostra protagonista. – Oh, Amore che tutto avvolge, fa’ che non accada nulla al mio amato! Anche se egli non mi desidera più, io lo amo ugualmente, più di prima! Che le mie mani non siano giunte invano! Ho visto una frana, la neve, le rocce, il sangue, lui che languiva disperato! Mi sembra di averlo accanto e di poterlo consolare con i miei baci’ Oh, almeno, se proprio deve accadere, che io possa essere al suo fianco, a soccorrerlo e consolarlo!
Le sue parole innamorate si confusero col vento, che soffiava forte, incessantemente, languidamente, come una poesia.
Un boscaiolo stava tagliando la legna con l’accetta, e s’udiva il suo rumore, di lontano. Arabelle credette di vederlo, si passò per un attimo la mano sulla fronte, sospirò e tacque.
– Che fai, parli anche da sola, adesso? – disse qualcuno dalla voce grossa, alle sue spalle.
– Franz, sei tu! – esclamò la giovane, posandosi una mano sul seno, allora lasciato scoperto dal suo bel costume popolare.
– Sei proprio diventata matta’ Mi fai venir da ridere!
– No, non sono quella che credi. Se parlo così &egrave perché ti voglio ancora bene! Te ne vorrò sempre, anche se tu non mi vuoi più’
– E certo che non ti voglio più! Che me ne faccio di una matta come te?
– Ascoltami, Franz, fa’ che io non giunga le mie mani davanti a te invano! Il popolo mormora delle storie paurose, su questi boschi’ Sono pieni di cinghiali assetati di sangue, di volpi arrabbiate, di lupi, di orsi, forse! E tu vai sempre da solo’ Ho paura! Pensa che potrebbero farti male! Non mi consolerei mai se ti accadesse qualcosa di brutto!
– E smettila! E levami le mani di dosso! Io non sono un marmocchio che ha paura! Lo sai che cosa faccio a quelle bestie là? Lo sai? Eh? Mi hai mai visto sparare? Mi hai mai visto sgozzare una bestia selvatica ancora viva?
– Oh! Lo so che sei cattivo!
Arabelle si coprì il volto con le mani, perché le era parso di vedere dinanzi a sé una delle sanguinose scene di caccia, che tanto sovente doveva vivere il suo sposo.
– Io non sono cattivo, no – borbottò il bracconiere. – Sei tu che sei una femminuccia piena di paure e di ubbie! Si vede che non hai mai sparato!
– No, io non ho mai sparato’ Io non ho mai ucciso!
La voce della bella montanara fremeva, mentre proferiva quelle parole, con accento angelico.
– Io amo ogni essere vivente e partecipo al suo dolore, così come alle sue gioie – aggiunse poi, in un sussurro affettuoso.
Il bracconiere scoppiò in un’altra delle sue solite fragorose risate, che parve divorare le parole dette a mezza bocca dalla giovane donna. Poi aprì l’uscio della casa del rovere vecchio e vi entrò, quasi barcollando.
– Sei tornato soltanto per ricaricare il fucile! – gli disse poi Arabelle.
Un istante dopo, l’affettuosa montanara gli stava già correndo dietro, cercava di aggrapparsi ai suoi vestiti, alla sua giubba verdastra, alla tracolla del fucile, alla cartucciera, alle braghe, pur di trattenerlo, di fermarlo, di potergli parlare un altro poco.
– Franz, io ti amo ancora!
Così gli gridò, mentre stava dietro di lui, aggrappata alla sua cintola, e tentava di abbracciarlo.
– Non mi stancherò mai di ripetertelo, oh! Almeno voltati, guardami, parlami!
L’altro si liberò dalla sua stretta con uno spintone.
– E lasciami in pace! Vuoi farmi arrabbiare davvero? – brontolò. – Sono già arrabbiato con te. Vuoi forse che mi arrabbi ancor di più?
– Franz – mormorò la bella – l’altra notte ho udito dei rumori cupi, che venivano da questa stanza, ti ho cercato nel letto, ma non ti ho trovato! Ho visto dei brutti ceffi, dei volti che non mi rassicuravano affatto! Chi erano quei signori? Che cosa volevano?
– Stai zitta! – urlò a quel punto il bracconiere, come se fosse stato colto da una pugnalata in pieno petto. – Quest’affare non ti riguarda!
– E come potrebbe non riguardarmi? Io ti sono affezionata, Franz! Che cos’erano quei rumori? Cos’era quella macchina?
– Maledetta! Adesso ti insegnerò io a non essere curiosa!
Il bracconiere afferrò la sua sposa per un braccio e la guardò fissa negli occhi, come se avesse voluto farle del male. Volle afferrarle anche l’altro braccio, poi la scosse, più e più volte, come se fosse stata un sacco di patate.
– Sei diventato così cattivo, Franz’ – sussurrò Arabelle, invano.
Egli imbracciò il suo fucile e le mostrò l’estremità delle canne, che erano fredde e nere. Così facendo, le disse:
– Se oserai raccontare a qualcuno gli affari di tuo marito, ti sparerò come a uno dei caprioli del bosco!
Nel villaggio dai tetti aguzzi il volgo non faceva altro che parlare di un gran cervo, dalle corna maestose, che il guardiacaccia aveva visto nelle vicinanze del torrente, dove c’era quella che tutti chiamavano la Locanda Abbandonata.
– Chi mai riuscirà a prenderlo? – si diceva.
Uno degli astanti, parlando nell’orecchio di uno dei suoi compari, mormorò:
– Forse sarà quel balordo di Franz, il bracconiere!
– Sì, lui, lui, quello che caccia di frodo! Nessuno mai &egrave riuscito a beccarlo con le mani nel sacco! Chissà! Tu credi che quel guercio del guardiacaccia ci riesca?
Così sussurrò il compagno, ma quelle parole vaghe morirono nel mistero dei faggi del villaggio, o forse là dove si perdeva il verso delle volpi di montagna.
Una volta, dopo mezzanotte, Arabelle ebbe paura. Fu destata da un rumore cupo e assai violento. Si mise a guardare attraverso il buco della serratura e vide l’uomo dai baffi arricciati, che aveva già visto tempo prima, mentre afferrava per il colletto il suo amato Franz e quasi lo sollevava in aria. Gli diceva delle parole terribili, che nemmeno si possono riportare! Cielo!
– Io ti distruggo! – gli urlò poi. – Se non fai quello che ti dico io, ti distruggo! Sai che cosa faremo io e il mio compare? Verremo ad appiccare il fuoco alla tua bella casetta!
– Fuori da casa mia’ – rantolava il bracconiere. – Fuori di qui, o prendo il fucile’
Arabelle si rimise a letto. Il dolce sonno si sarebbe preso cura di lei e del suo cuore afflitto, che le batteva forte nel petto.

La Locanda Abbandonata era un edificio vecchio, fatiscente, quasi senza finestre, costruito sul finire dell’Ottocento, ma poi lasciato a se stesso. Non vi abitava nessuno, non la custodiva nessuno; le poche imposte rimaste pendevano sbilenche sui loro cardini e, di tanto in tanto, cigolavano, sospinte dal vento maledetto delle montagne. Aveva i muri grigiastri, decrepiti; una sorta di lanterna rotta era rimasta appesa al di sopra della soglia, ma all’interno non rimanevano che il vuoto e l’eco vana dei ricordi. Sembrava di udire le voci degli ubriaconi, dei montanari stanchi, che vagavano sui sassi, lì, vicino al torrente, largo, impetuoso e profondo, che mormorava sempre.
– Per l’amor del Cielo, non andarci! – aveva detto Arabelle al suo bracconiere, giungendo le mani. – Ho tanta paura che tu vada tutto solo in quel luogo!
Ma l’altro le aveva risposto con una brutta smorfia, aveva preso il fucile e aveva detto:
– Si dice che ci sia un gran cervo da quelle parti! Vado a vedere! E non sarai certo tu ad impedirmelo! Togliti di torno! Sbrigati! Non sarai certamente tu ad impedirmi di fare quello che voglio! Ah, quanto ti detesto quando fai così!
Egli l’aveva scostata con una mano, mentre con l’altra aveva aperto violentemente l’uscio della casa del rovere vecchio.
Se n’era andato senza salutare.
E camminava, camminava solitario lungo il torrente, fra i sassi, bianchi, grigi e verdastri, dove l’acqua muggiva forte, profonda e rapidissima. Era cristallina, limpida, ma scorrendo tra quelle pietre produceva un rumore sinistro.
La Locanda Abbandonata, l’edificio fantasma, gli stava alle spalle.
Il bracconiere imprecava con voce gutturale e diceva forte:
– Dove sei, cervo della malora? Sono venuto a prenderti! Ah, chissà quanti denari mi frutterà la tua bella testa imbalsamata! Le tue belle corna, che sanno di selvatico e di foresta, già mi appartengono! Vieni fuori! Ah, se solo riuscissi ad averti davanti alla canna del mio bel fucile, mio tesoro’
I tacchi dei suoi stivali risuonavano cupamente sui sassi che c’erano lungo le sponde del torrente.
– Vieni qua, cervo’ Cervo di montagna, sono venuto a spararti un colpo! – borbottava il bracconiere.
Ad un tratto, Franz si voltò, perché aveva udito alle sue spalle un rumore che non gli era nuovo.
– Il guardiacaccia! – esclamò. – Ah, maledetto!
Era vero, il suo rivale gli stava alle spalle e lo inseguiva.
– Si fermi! &egrave un ordine!
Così gli gridò lo sbirro, ma visto che l’altro faceva finta di non aver sentito e s’allontanava a grandi passi, prese a corrergli dietro.
Dovete sapere che il guardiacaccia era un uomo severo, tutto d’un pezzo, che conosceva quel bracconiere dall’infanzia, quando i due giocavano a prendersi a sassate e a ruzzolare bisticciando lungo le discese erbose, o sui prati d’erba verde. Da allora, erano passati molti anni’
– Ah, sei tu! Sei quel matto di Franz! Fermo o sparo! – strillò il guardiacaccia, mettendo mano al calcio del fucile che portava a tracolla.
– Non sei mai riuscito a prendermi, vecchio volpone, e non ci riuscirai neanche stavolta! – gli rispose il bracconiere, voltandogli le spalle e mettendosi a correre a più non posso.
– Fermo lì, che ti prendo a schioppettate!
– Ma va là, che miri come un guercio!
– Se ti prendo! Se ti prendo!
– Ah, ma vedrai, vedrai se riuscirò a farla franca o no! Ce l’ho fatta, ormai!
Avreste dovuto vederli. Il guardiacaccia stava dietro e allungava le braccia a dismisura verso il fuggiasco, nella speranza di riuscire ad acchiapparlo. Il bracconiere, invece, sbraitava e strillava non so quali parole, come una bestia selvatica.
– Dai, che se inciampi, sei morto! – urlò l’inseguitore.
– Sta’ zitto, che ride bene chi ride ultimo! – disse il sanguigno Franz.
– Ah, eri venuto per prendere il cervo, ma stavolta sei tu la selvaggina e io sono il cacciatore!
Rincorrendosi, sollevavano mucchi di polvere grigia e spostavano dei sassi enormi, che rotolavano giù nel torrente, che scorreva a pochi passi da loro.
– Ah, briccone! – strillò il guardiacaccia. – Stavolta dovrai chiedermi pietà! Sento che ti sta venendo il fiatone!
– Sei tu l’uomo morto! E lo vedrai!
Questo gli rispose l’inseguito.
Ed era vero.
Il bracconiere, infatti, sapeva che in quei paraggi c’era una buca profonda e fece l’impossibile perché il suo nemico vi cadesse. Il guardiacaccia non sapeva di quell’insidia e, mentre il fuggitivo fu pronto a saltare al momento giusto, lui cadde, rovinando in fondo a quella trappola, dalla quale era difficile uscire.
– Ah, ecco, hai visto? – gridò il bracconiere, scoppiando a ridere fragorosamente. – Te l’ho fatta anche stavolta! Vedrai che ci riuscirò anche la prossima!
Il guardiacaccia, cadendo, si era rotto il naso, ma trovò egualmente la forza di rispondergli, con le mani e il volto insanguinati:
– Vattene, perché se ti incontro un’altra volta, io ti uccido!
– O io uccido te! – gli fece eco l’altro, sghignazzando.
A quel punto, lo sconfitto trovò egualmente la forza di sparare in aria un colpo di fucile.
Ma Franz era già scomparso, oltre la Locanda Abbandonata e i pochi alberi spogli che le erano rimasti intorno.
Il bracconiere aveva già avuto dei guai con la giustizia degli uomini, dei quali però non desidero narrarvi.
Ben presto, egli si vide di nuovo presso l’Osteria del Fienile con uno dei suoi complici, dei quali già ebbi modo di narrarvi. Si sedette ad uno dei tavoli con il contrabbandiere; i due facevano finta di giocare a briscola, con delle carte grigie e davanti a un fiasco di vino, sopra una tovaglia a scacchi bianchi e rossi, ma in realtà confabulavano di affari loschi.
– Allora, siamo d’accordo, divideremo a metà il ricavato del contrabbando delle bestie imbalsamate, delle pelli di volpi e del resto; tu, in cambio, terrai nascosta in casa tua la macchina del mio compare falsario e, all’occorrenza, gli permetterai di stampare al riparo da occhi indiscreti.
– Siamo intesi – mormorò Franz, annuendo vagamente.
Un sorriso grifagno apparve sulle bocche dei due complici; fu come una nube, che passò così prestamente sui loro volti, che nessuno dei presenti se ne accorse.
– Ti saluto, compare – disse poi il contrabbandiere, alzandosi e mettendosi il cappello. – Per stasera ho bevuto abbastanza.
Dei rintocchi di campane, che venivano da lontano, annunziavano vagamente che ora fosse.

Arabelle aspettava suo marito nella casa del rovere vecchio. Era una di quelle occasioni, in cui cercava di riconquistare tutto il suo affetto. Oh, Cielo, ricordo che una volta lui l’aveva picchiata con il calcio del suo fucile da caccia e lei aveva pianto!
– Tesoro caro, vieni da me, torna da me, muoio dalla voglia di riabbracciarti! Ti amo ancora, malgrado tutte le infelicità che mi hai regalato negli ultimi tempi! Franz, vieni da me, torna da me’
Così mormorava la bella innamorata, nell’attesa di lui. Una fucilata lontana la risvegliò dalle sue fantasticherie amorose e la ricondusse alla realtà. Fu allora che si precipitò all’uscio, lo aprì e chiamò più e più volte il suo amato.
Il bracconiere rientrò di soprassalto, con il fucile ancor fumante sottobraccio.
– Levati di torno! – le disse bruscamente, sbattendo la sua arma da fuoco sul tavolo di legno vecchio.
Ma la tenera Arabelle sapeva di aver colto il momento giusto. Si fece trovare seduta sulla stufa a carbone, vestita nel modo più provocante che potesse permettersi una giovane donna della fine degli anni Cinquanta del Novecento, epoca nella quale sono ambientate le vicissitudini che vi narro.
– &egrave per dare sfogo a tutte le mie energie amorose che mi sono fatta trovare in questo modo, amor mio – sussurrò la nostra protagonista, sospirando.
Avreste dovuto vederla: portava indosso una gonnellina bianca, tutta a pieghe, teneva le lunghe gambe accavallate, mostrando al suo amato quanto fossero carnose e ben rasate.
– No, tu non potrai resistere alle mie premure affettuose, non questa volta – disse Arabelle al suo uomo, mostrandogli tutta se stessa. – Vieni qui da me, non lasciarmi qua, sola e infelice, a languire! Non vedi come sono addolorata, senza di te? Sono la tua pernice, la tua volpe, il tuo capriolo selvatico: vieni a catturarmi!
Franz non poté resisterle, suo malgrado. La vide mentre si toglieva il reggipetto davanti a lui; quel gesto semplice bastò a farglielo diventare duro. Avvicinò il suo volto e i suoi baffoni folti ai capezzoli di lei, alle sue mammelle sciolte e senza veli; poi, i due amanti si misero guancia a guancia, le due teste assai ravvicinate, tanto che l’uno sentiva i sospiri e i palpiti dell’altra. Il bracconiere cattivo si era spogliato e aveva adagiato il suo petto ricoperto da peli neri sul busto femminile di lei, in modo tale che, facendo il benché minimo movimento, i loro corpi si sfregassero, si toccassero, si eccitassero. I due amanti cercavano di restare in silenzio, davanti alla credenza di legno vecchio, nella quale conservavano le noci, le nocciole e i frutti di bosco; ad una delle pareti della stanza erano appesi degli animali imbalsamati. Ve n’erano di molte specie; ad ogni modo, il mio sguardo sognante fu rapito dalla vista di un fagiano grigio assai maestoso, immortalato con le ali spalancate. Era femmina.
– Ah, ah, ahi – sussurrò lei, accorgendosi di come l’organo sessuale del suo amato stesse diventando rigido quanto una canna di fucile da caccia. – Bravo, sì’
Durante quella sorta di peregrinazione dello spirito e del corpo mortale, l’animo mio, così come i miei sguardi, furono rapiti, estasiati dalla visione delle scarpine bianche di lei, che avevano il tacco a spillo, il laccetto poco sopra il calcagno ed erano alquanto scollate.
– Cosa guardi? – mormorò Arabelle, allorché lo sguardo di lui si posò sui suoi piedi grandi e bianchi. – Me le sono messe apposta, cosa credi?
Le sue caviglie, le sue ginocchia erano un incanto per gli occhi e lo furono ancor più per quella lingua da bracconiere, avvezza al sangue e alle lotte. Prima di congiungersi, i due amanti vollero che nella stufa ardesse un fuoco di carbone, violento quanto il desiderio che li avvolgeva.
Lo fecero su una delle sedie di legno. Per Arabelle, fu come farsi possedere carnalmente da un demonio. Ella stava sopra e teneva la lingua fuori dalle labbra, stringendola tra i denti bianchi e aguzzi, dei quali aveva gran cura, poiché erano la sua gioia di donna. Il membro virile di lui la faceva impazzire di piacere e di tormento, più lei piagnucolava e si lamentava, più il perfido spingeva nel suo grembo, in una routine infuocata e violenta. La sedia scricchiolava sempre’ All’inizio, entrambi gli amanti avevano provato fastidio; poi, però, la bollente montanara si era dimostrata per colei che provava più fastidi e sofferenza, nonché piacere bollente. Pareva che i loro corpi fossero impegnati in chissà quale lotta selvaggia, alla femmina sembrava di essere ricoperta del sangue della selvaggina appena cacciata dal bracconiere, stavolta era lei la sua vittima e aveva in mezzo alle gambe una sorta di canna di fucile. Sì, era vero, Arabelle era femmina, femmina, femmina, glielo dimostrava ardentemente in quegli istanti! Poi, si accorse che le stava spruzzando la vagina, che sapeva di avere un po’ pelosa.
Purtroppo, quando i due amanti si separarono, lui la insultò. Arabelle, profondamente rattristata, temette che volesse picchiarla.
– Cosa vuoi fare adesso, prendermi a schiaffi? – gli chiese, non osando guardarlo negli occhi.
Il cattivo non le rispose ed andò in un’altra stanza, sbattendo la porta.
Poco dopo, la nostra protagonista uscì ed imboccò il sentiero maestro. Le parve di udire i canti delle tortore del mistero, mentre giungeva le mani e diceva a voce alta:
– Oh, buon Dio, Cielo! Fate che non gli capiti nulla di male! Altrimenti, niente potrà mai consolarmi!
Poi si mise a saltellare e a fare delle corserelle, come se fosse stata una fanciulla, senza avere alcuna paura delle vipere, dei ricci e dei burroni.
– Ho voglia di raccogliere fiori e frutti di bosco, di giocare allegramente con gli alberi miei fratelli, di ripetere all’eco il mio nome – disse.
Ma non c’erano fiori, né frutti intorno a lei. Soltanto una carezza di vento gelido, che sapeva d’inverno e nevi fredde!
– O usignoli e picchi del bosco, portatemi con voi! – mormorò, giungendo le belle mani bianche e accorgendosi di avere la gerla sulle spalle.
Portava anche gli zoccoli di legno’ Altro non ricordo. Fu come se svanisse, dietro l’immagine di un volto.
Ben presto, il contrabbandiere incontrò il falsario dai baffi ricci; fu lungo il confine, quando i gendarmi non potevano sentirli.
– Va’ a dire al nostro compare che il gran giorno &egrave arrivato – disse l’uomo dal volto rubizzo nell’orecchio del suo complice. – Digli che si prepari a fare quello che abbiamo detto e che il benché minimo ritardo comprometterebbe tutto!
– Sarà fatto – rispose il falsario, arriciandosi un baffo.
– Salutami il caro bracconiere.
– E tu salutami i gabellieri. Non mancare di mandarne qualcuno all’altro mondo, se te ne capita l’occasione!
Detto questo, i due spettri si scambiarono dei sorrisetti arcigni e una sorta di saluto militare, poi si separarono.

Arabelle aveva un modo tutto suo di voler bene al proprio uomo. Ricordo che un mattino, poco dopo che l’aurora ebbe salutato le cime selvagge delle montagne, lei era al suo fianco presso l’Osteria del Fienile e gli sussurrava negli orecchi, giungendo le mani:
– Per carità, tieniti lontano dagli affari loschi! Non voglio che ti facciano del male! Te lo dico ora, te lo dirò sempre!
Fu allora che il bracconiere le mise la mano sulla bocca, davanti a tutti, dicendole con voce grossa:
– Se non te la tapperai tu, te la tapperò io quella boccaccia! Mi hai seccato! &egrave dal primo mattino che cominci a infastidirmi!
Arabelle si lasciò cadere all’indietro, sulla panca di legno che stava dinanzi all’Osteria del Fienile, tenendosi la mano sulla fronte, come se avesse avuto la febbre.
– Ecco, mi passano davanti dei cacciatori e dei montanari, vestiti di nero, come se fossero in lutto! Oh! Che cosa mormorano? Sono parole cattive, sì, cattivissime’
Era vero. Infatti, quelle figure cupe, chinate in avanti, che portavano dei berretti scuri, quanto i loro lunghi abiti da montagna, sussurravano parole piene di cattiveria nei confronti della nostra protagonista.
Dicevano:
– Faccia d’angelo! Chissà quanti pensieri da canaglia si nascondono dietro quella fronte! La moglie di un bracconiere &egrave peggio del bracconiere! Chi si può fidare della donna di un brigante? &egrave una brigantessa! Chissà a chi si &egrave venduta l’anima! Tanta bellezza &egrave sprecata con una coscienza tanto nera! Che dite? Spaccare la faccia a quel briccone delle montagne?
Arabelle si aggrappò al suo amato e, tutta sconvolta, gli disse in un orecchio:
– Franz, li senti? Ti rendi conto di quello che dicono?
Egli non la guardò nemmeno in viso, si voltò verso quella gentaglia e mostrò a tutti i suoi pugni chiusi.
– Chi osa calunniarmi? – gridò. – &egrave forse di me che state parlando?
I presenti ammutolirono di colpo ed impallidirono alquanto; il loro pallore spiccava assai sotto quei berretti e quegli abiti, che sembravano più neri della pece.
– Non voglio più vedere questi volti! – esclamò il bracconiere, con voce dura, toccando con la mano il fucile che portava in spalla. – Che si mormora, qui? Spero di non incontrare più questa gente, dinanzi all’Osteria del Fienile! Altrimenti, sarebbe meglio per questa bettola chiudere per sempre!
Le parole sue facevano paura.
Quel giorno, Arabelle seguì suo marito nei boschi di montagna e giù nella valle.
– Che cosa fai, mi insegui? – le disse il bracconiere, adirato. – Non ti voglio tra i piedi!
Ma lei gli stava sempre appresso, lo teneva affettuosamente per un braccio, cercava di baciarlo, di coccolarlo, di sussurrargli parole affettuose. Purtroppo, però, era come se lui nemmeno le sentisse!
Ricordo il languido volto della bella montanara, mentre dei rami neri, spogli, le facevano da sfondo, sembrava le girassero vorticosamente intorno, dietro c’era un cielo freddo, turchino, ingombro di nuvole rossastre. Lei ripeteva:
– Franz, tu hai tanti nemici, troppi, perché anche gli altri del mondo se ne sono accorti! Il guardiacaccia ti sta inseguendo, il contrabbandiere e il falsario non aspettano che il momento giusto per tradirti e forse ucciderti! I tuoi nemici sono più crudeli del mondo! Sono troppo forti, sì, ho tanta paura che siano più forti e’
Il bracconiere la interruppe bruscamente. La afferrò per un braccio; erano davanti a un burrone, sotto c’erano le rocce. Le gridò negli orecchi:
– Il contrabbandiere, il falsario’ Che cosa ne sai tu di queste storie? Tanti nemici? Quali? Smettila subito, taci, altrimenti ti prenderò a sassate e ti getterò giù da questa scarpata! Non ti sentirà nessuno, non ti salverà nessuno!
– Sei ingiusto verso il mio amore! Non puoi trattarmi così! Io sono il tuo angelo! – protestò lei.
Il cattivo, allora, imbracciò il fucile e fece come se avesse voluto sparare alla sua bella.
– Mi hai stancato! Un’altra parola, una sola, e ti zittirò per sempre come si fa con una pernice!
Arabelle, allora, scoppiò a piangere.
– Il mio amore non riesce a intenerire la perfidia del tuo cuore’ – sussurrò, astergendosi le lacrime con un fazzoletto bianco.
Egli prese a correre, per allontanarsi da lei, ma l’innamorata infelice lo inseguì, disperatamente, lungo il sentiero, ansando, gli occhi umidi di pianto. Andavano verso la Cima dei Tre Falsari; il popolo diceva che lungo quel sentiero vi fossero gli asini dell’odio, allevati dagli spiriti di quanti erano morti nei burroni, che desideravano che tutti i passanti che avevano osato avventurarsi lungo quella via avessero la loro stessa fine disperata.
– Franz, per l’amor di Dio, non andare lassù! – gridò Arabelle, mettendosi le mani nei capelli.
In quell’istante, sembrava l’incarnazione della Sventura, immortalata con la bocca spalancata e nell’atto di gridare.
– Mi sembra di vederti ruzzolare lungo un dirupo, schiantarti sulle rocce, il volto bagnato di sangue, travolto dai baci della morte! Franz! Ti scongiuro!
Egli si voltò improvvisamente verso colei che lo amava tanto e, con una perfidia che nessuno potrebbe mai narrare, prese il fucile e sparò un colpo verso la sventurata.
Cielo!
Bum!
Per fortuna, quella fucilata era stata sparata quasi in aria e Arabelle, caduta in ginocchio, rimase illesa.
– Potrei voltarmi indietro e augurarti che ti uccidano – gli gridò. – Ma non lo farò, anzi ti dirò che ti amo ancora!
Si trovavano in luoghi ingombri di nevi perenni, che nemmeno il sole di luglio era mai riuscito a sciogliere.
Ad un tratto, un capriolo sbucò dal suo rifugio; aveva un manto che si sarebbe potuto dire verdastro e sembrava stregato.
– Franz, non lo uccidere! – urlò Arabelle. – Quello &egrave il capriolo delle vette, se lo ucciderai, la maledizione del destino ricadrà su di te!
Ma il bracconiere non le diede ascolto e fece fuoco. L’animale selvatico cadde, ferito fatalmente; la nostra protagonista scoppiò in lacrime e si precipitò sulla vittima, abbracciandola, negli ultimi spasimi della sua agonia.
– Spara su di me, adesso! – chiese al suo Franz. – Avanti, fallo! Se gli sparerai un altro colpo, sarà me che colpirai!
– Levati di mezzo! Levati di mezzo, che devo finirlo! – urlò il bracconiere, imbestialito, mentre imbracciava di nuovo il suo fucile.
– Io e questo tenero animale moriremo insieme’ Lo consolerò negli ultimi istanti della sua agonia, la renderò meno atroce, non si accorgerà nemmeno di morire’
La Cima dei Tre Falsari, bianca, maestosa, s’innalzava davanti a loro. Pareva una sorta di incudine, sulla quale spiccavano tre figure dalle sembianze umane, raffigurate dalla natura con in mano una un gran fucile, l’altra dei biglietti di banca e l’altra ancora sembrava china su una macchina per stampare.
Il popolo narrava che il Cielo aveva voluto punire tre falsari, trasformandoli in una montagna.
Mentre Arabelle stringeva forte il capriolo e il cattivo metteva di nuovo mano al suo fucile, in mezzo a quelle rocce, che erano ammantate da nevi stregate, apparve il guardiacaccia.
– Ah, maledetto! Ti ho sorpreso!
Così gridò, uscendo allo scoperto e avventandosi sul bracconiere, come un mastino.
Possibile che il perfido riuscisse a farla franca anche stavolta, con l’infelice e maldestra montanara al suo fianco?

– Porto ancora i segni dell’incidente dell’ultima volta! – gridò il guardiacaccia. – Ti avevo promesso di ucciderti! Ti ricordi? Eh, ti ricordi?
Arabelle si prese il volto tra le mani, perché non avrebbe mai creduto di dover assistere ad una scena del genere. Ella giunse le mani, si mise in ginocchio e disse:
– Pietà, signore, non gli faccia del male, la prego!
– Zitta, maledetta! Sarebbe meglio zittirti con una fucilata! – tuonò il bracconiere. – Ora non mi resta altro da fare che ucciderlo!
– No! No! No! – urlò, piangendo, la povera montanara, perché quelle parole cattive erano sufficienti per spezzarle il cuore.
Ricordo che il guardiacaccia e il bracconiere stavano l’uno dinanzi all’altro, si guardavano con due occhi che facevano paura, lì, nei pressi della Cima dei Tre Falsari, e Arabelle stava in mezzo ai due contendenti, le braccia allargate, teneva una mano sul petto di ciascuno, per separarli.
– Vi scongiuro, non fatevi del male!
Questo, il suo grido.
Il vento era così freddo ed impetuoso, in quel luogo, che’ Oh!
Ben presto, la nostra protagonista non riuscì più a tenere fermi i due contendenti. Il guardiacaccia terribile non faceva che ripetere che aveva preso il suo odiato nemico. Il bracconiere cattivo diceva incessantemente:
– Ti ho sempre battuto e ti batterò anche stavolta!
Un’aquila delle vette passò sopra di loro; le ali grandi e maestose, il becco aguzzo, lo sguardo cupo, i lunghi artigli, faceva paura.
– Maledetto, ti farò precipitare giù da uno di questi burroni! Ho un odio personale nei tuoi confronti e non mi dispiacerebbe affatto vederti morto!
– Che cosa sta facendo, signore? – chiese Arabelle al guardiacaccia, dopo avere udito la sua minaccia. – Mi sta afferrando per i capelli! Aiuto! Che vuole farmi?
Lo sbirro non le rispose, perché non ce n’era bisogno. Egli invero le stava dimostrando le sue vere intenzioni.
– Sì, voglio prendere anche lei, signora! La moglie di un malfattore &egrave peggio del malfattore stesso!
– Ah, Franz, aiutami! Mi ha presa!
Il guardiacaccia mise mano al suo fucile e fece per sparare a Franz, ma non c’era abbastanza spazio, né tempo. I due afferrarono i loro schioppi per le canne e li usarono come dei bastoni; l’uno cercava di colpire l’altro con il calcio della sua arma ed era una visione talmente cupa, che’ Oh!
– Fermatevi! In nome di Dio, fermatevi! – gridò Arabelle, singhiozzando e portandosi le mani al volto, per non vederli. – Smettetela, per carità, in nome del Cielo e della felicità!
Ma le parole sue erano vane, quanto il vento freddo che spazzava quelle vette. Ad un tratto, la nostra protagonista gettò un grido più forte degli altri, che faceva venire da piangere:
– Ah! No!
Franz e il guardiacaccia si erano abbracciati, in una sorta di stretta fatale, erano caduti al suolo e stavano ruzzolando giù per la scarpata! L’uno teneva le mani strette intorno alla gola dell’altro, oh, si stavano strangolando!
– Aiuto! Qualcuno aiuti il mio amato’ – mormorò la bella, inutilmente.
Ella teneva la bocca spalancata e aveva le mani appoggiate sui denti, bianchi e lucenti, sì.
– Per mille lampi, tuoni e fulmini! – strillò il guardiacaccia, in una sorta di grido soffocato. – Sei nelle mie mani, ti ho in pugno!
– Sono io che ti tengo in pugno! – rispose il bracconiere, rantolando.
Una nube di polvere li avvolse, sì, li avvolse’ Franz riuscì a colpire il suo avversario con un sasso.
Arabelle lo ritrovò duecento metri più in basso, appoggiato al tronco di un albero di montagna. Era stato quel tronco a salvarlo, ad impedirgli di precipitare dalle rocce, giù nella valle.
– Vieni via! – le gridò il bracconiere, come una bestia inferocita. – Ti proibisco di cercare quel cane del guardiacaccia o di prestargli soccorso! Vieni via! Vieni via! Vieni via!
– Ma Franz, io’ – sussurrò lei, giungendo le mani.
– Vieni via, ti ho detto! Vieni via!
Quella voce da orso, che ripeteva vieni via, incessantemente, avrebbe messo paura a chiunque e spaventò gli uccelli delle vette.
La Cima dei Tre Falsari svanì oltre le nubi, al pari del ricordo di quella giornata di sventure. Il bracconiere afferrò la sua donna per un braccio e la condusse a valle, come se fosse stata uno dei suoi segugi.
Dopo che ebbero fatto ritorno alla casa del rovere vecchio, la dolce montanara curò le ferite del suo uomo, che le aveva fatto parecchio male.
– Sei incorreggibile! – gli disse, tutta preoccupata. – Quest’oggi mi hai fatto piangere, lo sai? E tutto per colpa del troppo amore che ho per te!
L’altro brontolava, ma la lasciava fare e dire.
Arabelle aveva preso una scodella, l’aveva riempita d’acqua pura e con quella, aiutandosi con una benda, bagnava il ginocchio ferito del suo amato. L’aveva sbattuto contro un sasso, ma non era nulla, le ripeteva, borbottando chissà quali altre parole.
– E che diamine! – le disse poi. – Quando si fanno certe cose, le donne bisogna lasciarle a casa!
– Ma se mi avessi lasciata a casa – gli sussurrò l’altra in un orecchio, ironicamente – chi ti avrebbe salvato la pellaccia, stavolta?
– Finiscila’ Tanto lo sai che sei stata solo d’intrigo!
Mentre gli curava le ferite, Arabelle non mancava di baciarlo, di accarezzarlo, per esprimergli il suo affetto, che non si era mai spento.
Ben presto, venne un brutto giorno, purtroppo tanto atteso dall’oscuro brontolone.
Quel mattino, poco prima del sorgere del sole, il contrabbandiere dal volto rubizzo si recò a casa del bracconiere, onde raccogliere tutti gli animali imbalsamati e le pelli da nascondere nella gerla, onde portare quella merce oltre il confine. In cambio, gli consegnò un sacco di juta, pieno di biglietti di banca e di monete. Era quello il primo prezzo dell’affare e fu consegnato al canto del gallo, tra i chiaroscuri cupi dell’aurora, che illuminavano i volti dei due complici in una maniera spettrale.
– Amico mio, ricordati che devi coprirmi le spalle! – disse il contrabbandiere, in uno degli orecchi del suo interlocutore.
– Non mancherò’ Lascia che prenda il fucile, poi ti seguirò lungo il mio sentiero.
Franz prese una delle sue cartucciere, la sua doppietta a canne lunghe e si mise in cammino. La losca spedizione era iniziata, ancor prima che sorgesse il giorno, che sarebbe stato pieno di brume e di nubi, che già apparivano in mezzo ai monti stregati.
Ecco, io vidi il contrabbandiere mentre passava lungo una delle sponde del torrente maestro, era un luogo assai pericoloso e infido. Su nel cielo, volavano le aquile e le ghiandaie, che riempivano l’etere dei loro versi tenebrosi.
A più di mille passi di distanza, nascosto in mezzo al cupo sottobosco, stava il bracconiere, il fucile in mano, pronto a fare fuoco sui gendarmi. Avrebbe centrato una mosca lontana più di tre leghe dal suo mirino.

Dovete sapere che i due compari si infilarono sul capo dei cappucci verdastri, con dei buchi al posto degli occhi e della bocca, per non essere riconosciuti.
Messi così, quasi facevano spavento! Sembravano dei briganti e’
Man mano il contrabbandiere proseguiva nel suo cammino, il bracconiere cattivo si spostava, accompagnandolo così lungo il suo viaggio.
– Ah, i monti sono così misteriosi, quest’oggi! – mormorava l’uomo della gerla, guardandosi intorno e fischiettando un’aria da montanari. – C’&egrave qualcosa che bisbiglia tra queste fronde, qualcosa che parla di destini avversi, di vedove sanguinarie, che vagano in mezzo ai boschi, alla ricerca di giovani da sgozzare, per fare le loro vendette!
C’era un non so che di pauroso ed inquietante in quel viandante, vestito con panni verdastri, con una giubba che sembrava un mantello, arrivando a coprirgli il ginocchio. Ah, se lo avessero visto le guardie, che destino sarebbe stato, il suo! Il minimo sbaglio avrebbe compromesso tutto il buon fine dell’affare!
Dimenticavo di dirvi che il contrabbandiere portava gli stivali da montagna e, di tanto in tanto, si asciugava le mani sudate con un fazzoletto, che, di lontano, sembrava macchiato di sangue. Forse, era un’illusione.
Il confine non era lontano. In cima a un prato, appena ammantato di neve lieve, apparvero dei fienili. Avevano i tetti sfondati, gli usci cadenti e sbilenchi, i muri decrepiti. Erano diroccati, sì’
– Forse, delle anime in pena vi abitarono e vi abitano ancora! – sussurrò il cupo viandante, stringendo con i pugni gli spallacci della sua gerla.
Non si sbagliava’ Dinanzi ai fienili c’erano ancora i ceppi, dove una volta spaccavano la legna. A tratti, vi erano delle apparizioni di picchi, di ricci, di fagiani di monte, che facevano i loro versi rochi.
– Su per i monti, su per i monti, le gerle, i sacchi e i raccolti’ Su per i monti, le mandrie, le vacche, i castelli! La pieve dei monelli già mi &egrave apparsa come in volo’ La pieve degli spettri brilla ancor sulla montagna! Su per i monti, su per i monti, gli scarponi, le voci, le piccozze! Su per i monti, sulle rocce’
Così cantava, badando bene di farlo con una voce soffocata, affinché non si udisse.
– Su per i monti, su per i monti, i sacchi di carbone in spalla! La vetta più bella ha sposato la figlia del mandriano’ La vetta più bella &egrave stregata e abitata dal vento’ Su per i monti, gli stivali, i picconi, il fiasco di vin sottobraccio!
Di tanto in tanto, interrompeva la sua cantilena, che nessuno, di lontano, poteva udire, poiché non sembrava altro che uno stormire di fronde, un verso di upupe smarrite.
Il bracconiere lo copriva sempre, di lontano’ Il patto era che avrebbe fatto fuoco sui gendarmi, permettendogli così di fuggire. Oh, follie!
Era giunto in prossimità di quello che il popolo chiamava il Rifugio dei Fantasmi. Era un edificio vecchio, dai muri rossastri, dal tetto nero come la pece, dalle imposte bianche, che risaltavano alquanto ed erano visibili di lontano. Pareva fosse stato costruito ieri, invece esisteva già dal Settecento. Si diceva vi fosse un custode, che in realtà non veniva mai’ Si raccontava altresì che fosse diventato una sorta di rifugio per le vipere, che strisciavano entro le sue mura, sibilando e facendo ondeggiare le loro lingue rossastre e biforcute.
Il sentiero era ripido e chiuso, a destra, da una sorta di muricciolo ricoperto di muschio.
– Ah, mi sembra di vedere le streghe, sedute su queste pietre – mormorò il contrabbandiere, mentre provava un brivido. – No, non le streghe, le giovani dannate che un tempo abitavano nel Rifugio dei Fantasmi!
Sì, gli pareva di vederle, sedute lì, le lunghe sottane nere logore, lo salutavano agitando i loro cappellacci rosicchiati dai topi, gli stessi che correvano lì intorno; alcune avevano le fiamme negli occhi, altre avevano le pupille rossastre, a forma di spirale.
– Ah, non venire! – gli dicevano quelle figure cupe. – Non passare di qui, o viandante, perché se lo farai, te ne pentirai amaramente! I nostri nomi sono maledetti, li abbiamo incisi in questi sassi, sui muri del Rifugio dei Fantasmi! O contrabbandiere, figlio del destino! Ah, ti porteremo via tutto quello che hai nella gerla! Poi ci porteremo via anche te, sì, sì, sì! Ti ruberemo tutto, tutto!
– Andate via! – strillò il contrabbandiere, che era pur sempre un uomo e in quegli istanti era vinto dallo spavento. – Andate via, lasciatemi!
Ma egli non s’accorgeva di essere solo con le sue fantasie.
Il bracconiere lo seguiva come un cecchino.
I due complici sapevano che i gendarmi passavano riuniti in pattuglie di tre, al massimo quattro uomini. Avevano i fucili con le baionette e, nel caso in cui avessero finito le cartucce, sarebbero stati pronti a battersi all’arma bianca.
Ad un tratto, una voce sbucò dal silenzio, come il barrito di un orso infuriato.
– Chi va là?
A quel punto, il contrabbandiere si mise a correre, certo tuttavia che non sarebbe riuscito a fuggire con quel carico sulle spalle.
– Chi va là? Fermo o sparo!
Erano tre gendarmi.
L’avevano scoperto!
Cielo!
– Aiuto! – gridò lo sventurato. – Mi hanno preso! Sono in trappola! Franz! Franz! Spara! Spara! Aiuto!
Una volta giunto al di là del confine, non sarebbe stato difficile far perdere le proprie tracce e farla franca. Ma allora, il contrabbandiere si vide perduto!
– Scappa, compare! Scappa! Scappa! Scappa! – urlò il cecchino nascosto nell’immenso.
L’inseguimento durò solo per breve tempo. Poi, si udirono gli spari, tremendi.
Bum!
Bum! Bum! Bum!
Che colpi terribili! Fu come se tre cinghiali arrabbiati cadessero, nel sangue e nella polvere’ A cadere furono i tre gendarmi, insanguinati!
Il bracconiere, nascosto chissà dove, aveva salvato il suo compare. Avrebbe potuto fare il tiratore scelto!
Il contrabbandiere continuò a correre. Ansimava, aveva il fiatone, ma non si fermò.
– Brutte bestie! Bestie di montagna! – brontolava il viandante, curvo sotto il peso della sua gerla.
Il confine era a poche migliaia di passi da lui. In quei paraggi, non sarebbe stato difficile varcarlo’
Il contrabbandiere si mise a cantare:
– Canta, canta di monti, canta di boschi e belle chiome! Canta, canta quel nome, appartiene alla bella che ha vinto il tuo amore! Canta, canta alle volpi, ai passerotti ed agli orsi! Canta, canta’ Canta, o bel figlio della montagna! L’acqua del torrente già ti bagna!
Ma nessuno poteva udirlo, perché la voce sua era come il canto di un passero innamorato del bosco.
– Se non ci fossi stato io, quel matto si sarebbe fatto beccare! – brontolò il bracconiere, certo che ormai il suo aiuto fosse diventato superfluo.
E il contrabbandiere riprese:
– Lassù, mia bella montanara dagli occhi blu! T’amo, t’amo’ Lassù, dove tu non ci sei più, sgorga l’acqua della fonte che conoscevi solo tu! O mia bella montanara delle fonti’ T’amo! T’amo! O mia bella montanara dalle trecce d’oro, tu portavi maschere di sole e cesti di stelle alpine che io adoro! Con uno solo dei tuoi baci io m’incanto! Lassù, mia bella montanara, dove c’eri solo tu! Lassù io ho sognato i tuoi bei baci blu! O mia cara montanara, accanto a te la neve splende ancor! Il tuo bacio &egrave languido splendor’ Ti sei fatta rapire dai tuoi amanti, i monti dai perpetui incanti’
Intanto, nella casa del rovere vecchio, Arabelle si era messa su di un inginocchiatoio di legno ed aveva giunto le sue belle mani. Ella aveva acceso una candela bianca e sussurrava:
– Il mio angelo custode &egrave sopra di te, ti accompagna, anche se tu uccidi! Mi auguro soltanto che tu non lo faccia mai più! Oh, Franz, io vedo gli spiriti maledetti delle montagne che ti danzano intorno! E io, che speravo invano che potessi tornare da me con l’animo casto, di chi non conosce il male! Oh, illusa! I miei sensi incantati mi trasmettono tutto ciò che aleggia nel destino… Il mio immenso affetto non può accompagnarti dovunque, non può proteggerti, no! Franz!
Oltre la soglia passavano tre viandanti, che portavano delle fascine sulle spalle. Dicevano:
– Avete sentito di quegli spari, vicino al confine? Si dice che siano morti tre gendarmi’ Ah, contrabbando! Malfattori! Briganti! Assassini’ Vergogna!
Detto questo, svanirono, come fantasmi.

Fu così che il bracconiere fece ritorno nella casa del rovere vecchio. Non appena lo vide sospingere l’uscio, Arabelle gli corse incontro e lo abbracciò con trasporto. Sembrava che in quegli istanti gli stesse dando tutto l’amore che in cuor suo fosse capace di provare.
Era così stretta a lui, così devota, buona e affettuosa, che’ Oh!
– Non vedevo l’ora che tornassi, ma &egrave come se tutto fosse perduto! – gli disse, sorridendogli amaramente.
Il suo sogno amoroso non durò che un istante.
Il cattivo la respinse con un brutto gesto, prese un fiasco di vino e si mise a berlo davanti a lei, senza bicchiere.
– Ah! – disse poi, pulendosi la bocca con la mano. – &egrave per festeggiare!
– Se &egrave così che festeggi, allora sarebbe meglio non festeggiare nulla – mormorò la bella sposa, abbassando i suoi dolci occhi. – E pensare che mentre aspettavo il tuo ritorno, mi sono vestita con il mio abitino da montanara, per farti piacere! Tutto inutile’
– Devi fartene una ragione, mia cara! Tu mi stai antipatica oggi, così come mi stavi antipatica ieri e mi starai antipatica domani!
– Non vuoi più vedermi, &egrave così?
– E quante volte non te l’ho già detto? Beviamo, beviamo alla salute, intanto, che l’affare &egrave andato benone!
E tracannava, il perfido, beveva a più non posso, ma, ad un tratto, gli andò di traverso e’ Gli scappò un gran colpo di tosse e tutto il vino che teneva in bocca andò a sporcare il bel vestitino di Arabelle.
– Uh, guarda, che peccato! – disse lui, scoppiando a ridere fragorosamente.
Dopo che ebbe chiuso le imposte e barricato l’uscio, tirò fuori un sacco pieno di bigliettoni di banca e si mise a contarli davanti alla sua languida moglie, che da lui accettava tutto, pur di volergli bene.
– Dieci, venti, trenta, cento, duecento’ – contava, spiegazzando tra le dita quelle favolose banconote. – Duecentodieci, duecentoventi, duecentotrenta’
Di tanto in tanto, si fermava ed un sorriso grossolano faceva capolino sulle sue labbra.
– Sembri felice, adesso! – mormorò Arabelle, singhiozzando. – Ma hai visto cos’hai fatto? Mi hai sporcato tutto il vestito con il tuo vino!
L’altro le rispose con una scrollata di spalle e dicendo:
– E cosa importa?
Poi riprese a contare, con più foga di prima. Un rossore di vivo piacere gli coloriva le guance.
Ad un tratto, però, Arabelle gli prese un braccio, lo fermò e gli disse:
– Franz, oggi tu hai ucciso!
Egli lasciò cadere per terra il denaro e la guardò con due occhi pieni di tuoni e di lampi.
– Sì, tu hai ucciso! E le tue banconote sono lorde di sangue!
A quel punto, Franz la afferrò per le spalle e la scosse, chiedendole:
– E tu come fai a saperlo? Come? Come? Come? Dimmelo! Devi dirmelo, hai capito? Che ne sai tu di questa storia?
– &egrave stato il mio spirito a seguirti’ Sono state le anime dei boschi a narrarmi la vicenda! Franz, tu hai ucciso e niente &egrave più come prima, ormai!
Arabelle appoggiò la sua fronte sull’avambraccio, che aveva appoggiato alla vecchia credenza. Era come se si disperasse.
– Franz, tu mi farai impazzire! – gli disse.
– Tu sei già matta! E adesso lasciami contare il mio denaro! Siamo ricchi! Anzi, sono ricco e non spartirò un solo centesimo con te, dopo tutto quello che mi hai detto! Trecentodieci, trecentocinquanta, trecentonovanta’
Egli maneggiava le sue banconote insanguinate con una tale maestria, che si sarebbe detto un bancario provetto.
Quand’ebbe finito, si voltò verso sua moglie, le afferrò il volto con una sola delle sue mani grandi e tozze, per poi dirle minacciosamente:
– Ascoltami bene, signora cara! Prova a calunniare tuo marito in paese, a raccontare in giro che ho ucciso qualcuno, e io ti sfregerò questo bel visetto, con la stessa semplicità con cui so aprire un fiasco di vino!
L’altra annuì, poi, lui la lasciò e le disse:
– E adesso bevi!
Detto questo, le mostrò una bottiglia di barbera del Monferrato, che giaceva dimenticata accanto ad una matrioska e ad un moccolo di candela, su di un tavolino di legno, al quale mancava una gamba.
Ricordo che il contrabbandiere incontrò nuovamente l’uomo dai baffi arricciati. Stavolta, accadde davanti a quella che il popolo chiamava la casa del Gobbo. Ma’ Che parole minacciose! Che discorsi! Quasi non si possono raccontare.
Cielo, i due concertavano un tradimento! Volevano tradire il loro complice, naturalmente a sua insaputa.
– Che dici? Fargli la festa a quello, poi? – mormorava il falsario, arricciandosi i baffetti.
– E chi lo sa? I casi della vita son tanti! – rispondeva il contrabbandiere, fischiettando.
– Una volta mi hanno raccontato che uno dei cacciatori del paese &egrave caduto giù da un burrone’ Che fine macabra! Che destino, il suo! Non vorrei che fosse lo stesso del nostro caro bracconiere!
I due ridacchiavano, ridacchiavano, davanti a quella casa, che sembrava abbandonata. Ad un tratto, però, sembrò che una delle finestre s’illuminasse ed apparisse una figura verde, curva, gobba, che teneva in mano una bugia, con una candela rossa accesa. Aveva il volto paonazzo, dai lineamenti grossolani. Pochi istanti dopo, quell’immagine svanì, oltre i rami spogli di quelle conifere, neri come la pece, sotto la luna d’argento.
Dovete sapere che le vecchie del paese, quelle dai volti rugosi, dai capelli canuti e che solevano lavorare alle macchine da cucire arrugginite e agli arcolai, andavano narrando delle storie che sapevano d’inverni e di bufere. Raccontavano che, nei primi anni del Settecento, dalle sfere vaghe dell’Oltretomba fossero discesi sulla terra i deva, per assumere sembianze umane e confondersi con i mortali. Erano in tutto e per tutto simili a loro, anche nei ricchi abiti borghesi, dai bottoni d’argento; sul capo portavano i tricorni, tipici dell’epoca, mentre le femmine indossavano le crinoline e i busti con cui si vestivano le loro rivali terrene. Poi, nel corso dei decenni e dei secoli, quei deva s’erano adeguati al mutare dei costumi, sempre imitando alla perfezione le sembianze umane. Ad ogni modo, quegli esseri si distinguevano dai mortali per il fatto di non essere soggetti né a vecchiaia, né a malattie, né a morte. Si narrava che le dee abitassero nei boschi, bevessero l’acqua pura delle fonti e si cibassero del sangue dei cigni appena sgozzati. Non erano buone, avevano i capelli biondi o rossi, i volti di bambola e stregavano i loro innamorati.
Alcuni deva si univano ai mortali e da quei connubi sanguinosi nascevano dei semidei.
Erano racconti che si narravano davanti ai camini accesi, alle stufe bollenti, nel brivido degli inverni in cui svanivano i bagliori confusi delle estati.

Una volta, mentre andava a spasso con un cesto sottobraccio, Arabelle incontrò il suo amato bracconiere, che portava il fucile in spalla. Accadde davanti al monumento ai Caduti della Montagna.
– Franz, forse questo non &egrave il luogo, né il momento per discuterne – gli disse lei, aggrappandosi al suo braccio. – Ma siamo tanto soli, io e te! Così soli, che tutta la vita mi sembra soltanto neve e gelo!
– Che cos’hai, stavolta? Ti ha morso una vipera, per caso? – le rispose lui, con tono burbero.
– No, che dici mai? &egrave solo che ho voglia di te, delle tue premure, anche se tu non vuoi concedermele’
– Ti avevo detto di non cercarmi in paese o nei suoi dintorni! In questi giorni io sono come fuggiasco e vago per il mondo come uno spettro, sperando che nessuno posi il suo sguardo su di me’
– Ma’ Mio caro, niente può ostacolare il mio amore, che tu continui a rifiutare, a disprezzare!
– A rifiutare? Hai un bel dire, però’ Che vuoi? Avanti, lasciami il braccio, che non ho tempo da perdere! Va’ lungo il tuo sentiero, che io vado per il mio! Non voglio che ci vedano qui! Siamo sospetti’
– Tutte le scuse sono buone’ Tutte le scuse sono buone per trascurarmi, per non parlarmi, per dimenticarmi! E io, che volevo augurarti che l’Amore del Cielo fosse con te, illusa! Franz, io voglio avere un figlio da te! &egrave di questo che desidero parlarti!
– Di questo? Allora hai proprio sbagliato uomo. Un figlio? Da me? Tu sei matta! Riprendi il tuo cammino, buona donna! Se invece vuoi che ti faccia l’elemosina, non hai che da chiedermela!
– Franz, abbiamo bisogno di una creatura da amare! Abbiamo bisogno di dare amore a qualcuno! La vita &egrave così triste’ La morte &egrave così triste!
– Io ho bisogno di soldoni, di selvaggina e di barbera!
– No, non &egrave così, Franz! Spero di riuscire a farti cambiare idea’ Franz, io amo! Io non sono innamorata soltanto del vento, della neve, dei monti e dell’inverno! E tu lo sai! Lascia che ti abbracci, che ti stringa, che ti rivolga ancora una volta la mia preghiera!
– Mollami! Mollami, ti dico!
– Non te l’ho mai chiesto prima, non con tanta intensità, ma’ Oh, mio caro, io ho bisogno di un angelo da cullare sul mio grembo, da portare a passeggio lungo questi sentieri, parlandogli di monti, di fiori e capinere!
– Io preferisco le pernici, a cui sparo con la doppietta!
– Franz, si vede che tu non hai un cuore e non sai cogliere il desiderio di dare affetto che germoglia dentro una giovane donna! Franz, io voglio un bambino da te! Voglio un bambino da te! Te lo sto chiedendo in ginocchio, qui, davanti al mondo!
– Ma va’ a fare una passeggiata!
A quel punto, il bracconiere, divertito, prese a canticchiarle un’aria da montanari:
– O cara bella montanara innamorata! Monti, pascoli, agnelli io auguro al tuo grembo, sempre caro quanto i sentieri del bosco degli augelli!
– Allora, non mi ascolti più? &egrave come se parlassi al vento, perché tu sei il fuoco del nulla! – mormorò la languida montanara, rattristata.
– Ehi, c’&egrave qualcosa che non va nella tua testolina! – fece l’altro, battendole sbadatamente il pugno chiuso sulla fronte.
– Amico mio, concepiamo insieme! Io voglio un figlio, frutto del mio grembo e del desiderio del mio uomo’ Franz, tu non vuoi darmelo! Dillo, avanti, dillo che non vuoi darmelo! Se &egrave così, aver vissuto insieme a te e averti dato tutta la mia tenerezza, non avrà significato nulla!
– Io me ne vado! Non voglio più sentirti! Mi stai annoiando, bella mia! Arrivederci!
Detto questo, il bracconiere le fece un cenno con la mano e s’incamminò lungo una salita, senza nemmeno voltarsi indietro e non prestando più attenzione alla sua bella. Era come se fosse diventata uno spirito errante!
Lei lo seguì, anzi, lo rincorse, ma fu tutto inutile’ Gli ripeteva, quasi inginocchiandosi, pregando e supplicando:
– Franz, io voglio un figlio da te! Fosse almeno un ricordo da amare!
Ma l’altro non si voltava, no, non si voltava. Il monumento ai Caduti della Montagna s’innalzava al cielo, alle spalle dei due amanti’ Arabelle rivolse l’animo suo agli spiriti di quei defunti. Poi si allontanò, intonando amaramente un canto amoroso, degno della sua tenerezza di giovane donna.
– Franz, che l’amore dell’inverno sia con te! – gli mormorò alla fine, mentre pensava a lui.
Erano parole cabalistiche, misteriose quanto i lampioni antichi di quel villaggio in mezzo ai monti, dove di rado saliva una Bugatti o una Fiat da gran signori e c’erano i fienili.
In prossimità di quei luoghi ameni, sotto le fronde d’estate verdeggianti, sorgeva una sorta di collegio dedicato alla pietà dei fanciulli, che tutti chiamavano la Scuola del Lago. Si chiamava così perché l’avevano costruita nel bel mezzo di un paesaggio lacustre, dove c’erano le conifere e, d’inverno, non c’era quasi nessuno. La direttrice era una signora arcigna, che portava gli occhialetti, mentre i piccoli allievi portavano delle divise nere, dai colletti bianchi, ornati di grandi fiocchi d’egual colore.
Si giungeva alla Scuola del Lago attraverso un sentiero ripido, erto, che tutti dicevano fosse infestato dalle vipere.
Quando la neve ricopriva i sentieri e gli alberi spogli, nonché i pini maestosi, gli allievi mettevano sulle loro divise delle lunghe mantelle e, poco dopo il mezzogiorno, andavano a passeggiare e giocare lungo il lago. C’era un non so che di malinconico nel loro chiasso vago, così come in quell’edificio fatiscente, dai muri color crema e dal tetto e dalle imposte marroni, che li ospitava. Sembrava fosse stato costruito in stile Austro-Ungarico. Alcune finestre avevano le sbarre e le soffitte erano, a quel che si diceva, abitate dai fantasmi. Una volta, uno degli allievi si era affacciato da uno di quegli abbaini e si era messo a urlare, come un ossesso, minacciando di buttarsi di sotto. Poi, l’aveva fatto.
Altri allievi si erano smarriti lungo i sentieri che costeggiavano il lago e non si erano più visti.
Arabelle andò a passeggiare in prossimità di quella scuola, nell’ora in cui suonava la campana grande e c’era la ricreazione. Vide uno stuolo di fanciulli, venirle incontro’ Erano così carini e graziosi, nelle loro divise nere dai fiocchi bianchi’ Schiamazzavano allegramente.
– Chi sei, bella signora? Chi sei? – le chiesero. – Uh, come sei bella, vestita da montanara! Da dove vieni?
– Da lontano – rispose lei, sussurrando e accarezzando le teste di quanti le stavano intorno.
Tra quei fanciulli, avrebbe potuto scegliere quello che sarebbe stato suo figlio, si ripeteva. Glielo diceva il vento delle montagne, lo stesso che, durante l’autunno, aveva scosso i rami e le foglie gialle delle conifere del lago.
– Chi vuole essere mio figlio? – sussurrò. – Chi vuole essere il mio bambino e ubbidirmi? Ho tanto amore da dare’ Chi vuole venire con me?
La voce sua sembrava verde smeraldo, come l’acqua fredda di quel lago.
– Vuoi venire tu, mio bel fiore? – chiese Arabelle, rivolta al pargolo dai lunghi capelli castani che le stava accanto. – Ti sta tanto bene quel fiocchetto! Dammi la mano, vieni con me lungo il sentiero’ Ti regalerò le caramelle!
– Dici davvero, signora? – le chiese lo scolaro, guardandola con i suoi occhi grandi e meravigliati.
– No, sto solo scherzando. Voglio raccontarti le favole del lago’ Sono belle, sai? Belle, ma tanto fredde, come l’acqua in cui si specchia la scuola vecchia, costruita dagli svizzeri’
Lo prese per mano e volle fare una passeggiatina con lui. Gli cantava non so quale aria’ Era come se fosse stato suo figlio.
Poco dopo, quell’incanto fu rotto da una folata di vento, che portava con sé il rumore di uno sparo. Erano il guardiacaccia e il bracconiere, che correvano a gambe levate lungo l’altra sponda del lago, uno dietro l’altro, sotto una luce d’oro, ma fredda, tanto quanto quella di un mezzogiorno d’inverno.
– Ah, mascalzone! Me la pagherai una buona volta! Una le paga tutte!
– Vecchio marpione, non riuscirai a beccarmi!
E si rincorrevano, si rincorrevano, in una sorta di girotondo senza fine.

Arabelle si portò una mano sulla bocca, mentre guardava il suo amato correre come una lepre lungo quel sentiero. Oh, e pensare, e pensare! Alla fine dell’autunno, le foglie di quegli alberi erano state dipinte di malinconia, dal pennello del destino! Quel giorno, però, non scintillavano più, perché erano morte e svanite, come per sempre, o forse, più probabilmente, fino alla prossima primavera.
– Franz! – gridò la bella montanara. – No, vi prego! Non sparate! No! Non fatelo! Vogliatevi bene’
Ma le parole sue erano inutili, perché i due non potevano sentirla.
Ecco, durante l’inseguimento, il bracconiere saltava una staccionata, ma l’altro gli stava dietro e’ Oh!
– Mascalzone! Se ti prendo, ti ammazzo! – strillava il guardiacaccia, che aveva esaurito i colpi del suo fucile. – Ah, brigante! La smetterai una buona volta di uccidere gli animali!
– Uh, non t’illudere, che non mi preso! – rispondeva il bracconiere, badando bene di usare il suo fiato più per correre, che per rispondergli.
Alla fine, i due si abbracciavano, si stringevano, si davano degli spintoni e, fatalmente, il guardiacaccia ruzzolava giù, cadeva nel lago dall’acqua di smeraldo, ma tanto, tanto fredda! Che tuffo! Che spruzzi d’argento, in quella luce che sapeva di ricordi, di gioie perdute e di morti!
– Cielo! – esclamò Arabelle, voltandosi per non guardare. – Che ne sarà di quello, adesso? Che mai?
Ella decise di non preoccuparsene e si rimise in cammino lungo la via di casa, dicendosi che il suo selvaggio bracconiere aveva sicuramente trovato il modo di farla franca anche quel giorno.
– Accidenti, mi sembra già di sentirlo ridere a crepapelle, perché l’ha scampata anche stavolta!
Infatti, il furbastro si era messo a ridacchiare, per poi darsela a gambe.
Quel giorno passò’ Arabelle era languida e triste, quanto i suoi monti! Oh, i suoi ricordi, i suoi ricordi, la sua fanciullezza perduta, i suoi fiori, le sue preghiere al vento, i suoi conforti!
– Ho bisogno di abbracciare un bambino, di amarlo, di coccolarlo’ Voglio un figlio, da regalare al mondo, come un dono di colombe!
Ella ripeteva queste parole davanti a suo marito, nonché agli alberi che crescevano nei pressi della casa del rovere vecchio, ma era come se nessuno le sentisse!
Fu così che decise di fare ritorno alla Scuola del Lago, nell’ora in cui suonava la campana. Aveva litigato con il suo Franz e delle lacrime amare le erano rimaste sul volto!
Incontrò lo stesso pargolo col quale aveva parlato la prima volta.
– Che cos’hai? – le chiese lui. – Ma tu piangi’ Perché mai?
– No, non &egrave niente – mormorò l’altra, chinandosi sul suo piccolo interlocutore, mettendogli le mani sulle spalle e guardandolo negli occhi, per cercare di infondergli il suo amore. – Ho solo bisogno di un angelo da amare’
– Io ti ho già vista l’altra volta, io ti conosco!
– Chiamami Arabelle! Sei così carino, con questa divisa nera, dai bottoni dorati, con questo bel fiocco bianco e’
La voce di lei s’interruppe.
– Che cos’hai? – le chiese lo scolaro.
– Niente. &egrave solo che la luce di quest’oggi mi rende triste. I miei occhi non riescono a guardarla, quasi m’acceca’ &egrave la luce delle Alpi, la luce dei morti’ Come ci avvolge!
Erano davanti a una staccionata, lungo un viale piantato a faggi, se ben ricordo.
– Come ti chiami? – chiese la giovane.
– Jean-Claude – le rispose il pargolo.
– Vuoi venire via con me?
– Dove?
– Vuoi che sia io la tua nuova mamma?
– Ma tu non sei la mia mamma. Lei &egrave partita per un lungo viaggio, dal quale non tornerà mai più!
– Ah, se solo avessi una Bugatti! A quest’ora lo avrei già fatto salire in macchina e lo starei portando a valle tra le mie braccia! – così mormorò la montanara, come tra sé.
Oh, quanto rimpianto, quanto desiderio c’era nelle parole sue!
– Che hai, bella signora? Che cosa stai dicendo? – le chiese il fanciullo, mentre lei gli accarezzava una guancia, come avrebbe fatto la sua mamma.
– Niente, mio caro – rispose lei. – Sono solo commossa! No, io non sono la tua mamma, ma vorrei tanto diventarlo’ Tu non capisci queste mie parole e forse non le capirai mai!
E lo guardava come se avesse voluto abbracciarlo, coccolarlo’ Ma lo stava già coccolando. Giocherellava con il suo bel fiocco bianco e’
– Mi chiamano, devo andare – disse Jean-Claude, poco dopo.
Detto questo, il pargolo si voltò e la lasciò.
Arabelle litigava spesso con suo marito per via dell’uomo dai baffi arricciati, il falsario, che non voleva vedere in casa. Ella aveva fatto un brutto sogno, che però non desiderava raccontare a nessuno.
Un giorno, faceva più caldo del consueto, tanto che sembrava che il sole volesse sciogliere le nevi perenni. Illusioni! Era una giornata stregata, sì. La dolce montanara bisticciava stretta al braccio del suo bracconiere, lungo un sentiero. Non erano lontani dalla Scuola del Lago. Jean-Claude, il pargolo che lei avrebbe voluto adottare come figlio, s’era avventurato tutto solo lungo una salita maledetta. Arabelle lo vide, lo chiamò, gli gridò, disperata:
– Non andare lì! Vi &egrave sbocciato il fiore della morte! Io lo so! Non lo cogliere, non farlo! Non toccarlo, in nome del Cielo!
Ma egli fu attratto da quel fiore, dai petali giallastri, dallo stelo lungo, dall’aspetto giocoso.
– Non &egrave primavera – mormorò il pargolo. – Com’&egrave possibile che un così bel fiore sbocci in questa stagione?
Purtroppo non sapeva che era stato il Male a farlo sbocciare e che chiunque lo cogliesse era destinato a morire di lì a breve. Era come se le fiamme bruciassero la neve’
– Non farlo! – gli strillava la dolce montanara, correndo verso di lui e tendendogli le braccia.
Ma un’ombra nera si proiettava sul piccolo Jean-Claude, che si chinò, attratto dai petali brillanti di quel fiore e poi lo colse!
– No! – gridò la donna, disperata, strappandosi i capelli. – No! Troppo tardi! Troppo tardi!
Ella sapeva che era un fiore velenoso, tanto che per morire bastava toccarlo. L’aveva già visto in sogno e’ Jean-Claude l’aveva toccato, l’aveva colto!
Oh, l’amore di Arabelle, l’amore di Arabelle! Forse, poteva tutto! Io non so’ Ma lei lo abbracciò, lo strinse, lo curò, lo amò, mentre chiamava, con tutta la forza della sua voce:
– Aiuto! Soccorso! Soccorso!

La buona donna carezzava con le sue labbra la mano con cui il pargolo aveva toccato il fiore maledetto, ma non riusciva, no, non riusciva a fermare il destino, ne era certa in cuor suo.
– Franz! Aiuto! Chiama qualcuno! Chiama gente!
Così gridava.
Il bracconiere, stravolto, la ascoltò e si mise a sparare delle fucilate in aria, per chiamare soccorso. Ma era come se nessuno udisse gli spari e le loro voci.
Poco dopo, giunsero non so quanti vecchi, quanti popolani, quante donnacce, che bisbigliavano chissà che, sparlavano e maledicevano ogni cosa.
Per fortuna, Jean-Claude non morì, io non so bene come accadde. Ad ogni modo, la malinconica Arabelle non riuscì a realizzare il suo sogno e non divenne la sua mamma. E come sarebbe stato possibile riuscirci?
Suo marito aveva un cuore di pietra e non faceva che minacciarla di mandarla via dalla casa del rovere vecchio.
La Scuola del Lago svanì, tra le nebbie fredde che salivano da quelle acque. Fu come se le brume l’avessero avvolta, insieme ai piccoli scolari ed a quanti vi abitavano.
– E passa l’inverno, passa – mormorava Arabelle, giungendo le mani ed affacciandosi alla finestra appannata. – Passa la neve, il gelo, la bufera, passano i rami spogli, il canto dei boscaioli davanti al fuoco, passano i rovi, che viandanti senza volto danno alle fiamme! Passa la luna fredda, turchina, oltre le montagne bianche, passano processioni di cacciatori, dai fucili neri, che abbattono i fagiani di monte! Passano i camini e le voci cupe delle vedove, che maledicono le bufere ed il giorno in cui sono nate!
Una volta, la bella montanara si precipitò su suo marito e lo riscaldò tra le sue braccia, perché si era accorta che aveva tanto freddo.
– Franz! – lo supplicò. – Perché tu non vuoi più fare l’amore con me? Perché tu non mi degni più di un solo sguardo affettuoso da tanto tempo?
– Basta! – le rispose lui. – Sono ubriaco! Non mi seccare! Vattene!
– No, non me ne andrò, non ti lascerò’ La mia tenerezza non ti abbandonerà mai’ Franz, perché tu non vuoi più fare l’amore con me? Lascia che te lo ripeta per un’ultima volta! Lascia che te lo chieda ancora!
– Mi stai annoiando! Torna a parlare con i tuoi spiriti, torna dal tuo Jean-Claude!
– No, non tornerò da lui’ Forse, non tornerò nemmeno da te! Me ne andrò, raminga, per i boschi, sulle nevi deserte e’ Oh!
Erano soli nell’orto, quel piccolo orto dove crescevano le verze fredde; era cinto da una staccionata di legno vecchio e non vi si zappava più da tanto tempo. La neve lo ricopriva come un tenero mantello. Nel bel mezzo di una delle aiuole, era rimasto uno spaventapasseri, fatto di paglia e di stracci.
– No, io non ti amo più, Franz’ – sussurrò la donna della montagna. – Non so se sto mentendo, oppure no, mentre dico questo. Ma io desideravo da te un dono della carne e tu non me l’hai dato.
Uno stormo di passeri le si era radunato intorno; ella trasse di tasca delle briciole di pane e se ne servì per sfamare quegli uccelli senza dimora e senza nome.
– Franz, sono le anime reincarnate di orfani, morti nel Settecento – sussurrava Arabelle.
– Ancora con queste storie? Ti avevo detto di farla finita! – brontolò lui, voltandole le spalle ed andandosene.
Ricordo che, in quei giorni, la mente viziata del bracconiere era piena di fantasie erotiche, che a malapena si possono raccontare.
Egli immaginava di recarsi in un ostello sperduto in mezzo alle montagne, canticchiando, con il fucile in spalla. Gli andava ad aprire una giovane donna, che sembrava la padrona e invece era una schiava. Fuori c’era la neve ma in quell’edificio vecchio, quasi cadente, c’erano molti focolari, nei quali bruciavano dei rovi secchi. Le pareti erano tutte adorne di teste di cervo.
In una stanza c’era una lunga ottomana, sulla quale amoreggiavano due donne, che si baciavano sulla bocca e si scambiavano delle frasi amorose. Dicevano di essere innamorate’ Avevano le labbra colme di rossetto, che macchiava i loro abiti e le loro guance, la loro pelle e forse anche le loro anime.
– Ti voglio, ti voglio’ Sei mia, sei la più bella giovane del bosco’ Ci siamo incontrate vicino al frassino grande, poi ci siamo promesse amore davanti ad un fuoco di tiglio’
Queste erano le parole che si scambiavano.
Un vapore affettuoso, grigiastro, avvolgeva tutto’
La padrona aveva i capelli rossi, era vestita di nero e, dopo averlo fatto entrare, cominciava subito ad amoreggiare con il bracconiere. Poi, tenendolo per mano, lo conduceva su per una scala di legno.
– Buongiorno, signore, ha fatto bene a cercare ospitalità in questo ostello sperduto tra i monti! Ha visto? L’insegna e le lanterne sono visibili da lontano!
Così gli diceva la donna, baciandogli la mano.
Ed era vero’ L’ostello sembrava un rifugio isolato, un paradiso felice in mezzo al deserto selvaggio e bianco, in cui abitavano le volpi e forse anche i lupi.
– Ah, venga, bel signore! – gli diceva la padrona.
Nella penombra, gli appariva un quadro, che raffigurava una giovane donna del Settecento, vestita con un abito color crema.
Egli immaginava di fare l’amore con la padrona, di toccarle le cosce, sulle scale, di vedere decine di stanze, nelle quali uomini nudi e dai lunghi falli erano impegnati in rapporti sessuali bollenti con giovani donne, più desiderabili dell’ambrosia.
– Ah, io ti amo, ti desidero, anche se ti parlo con la voce di un fantasma!
Questo si sentiva dire il bracconiere.
Poi, posava il fucile e la sua verga diventava più dura di un bastone, mentre due donne gigantesche e nude si mettevano l’una alla sua destra, l’altra alla sua sinistra.
– Togli la tua giubba, bel cacciatore! – udiva l’uomo dei boschi, nelle sue fantasticherie.
E gli sembrava di accoppiarsi, di fremere di ardori inenarrabili, sopra una donna, che si dimenava sotto di lui, stringendogli entrambe le mani; lo facevano come due animali e, alla fine, gli pareva che una sorta di artiglio aguzzo ed invisibile gli strappasse via i testicoli, le vescicole seminali e, soprattutto, la prostata, incendiandogliela. Erano sensazioni bollenti! I due amanti erano stati zitti, prima di scoppiare di piacere e lamentarsi alla follia.
– Come ti chiami? – gli chiedeva una delle donne dell’ostello, alla luce di una lanterna.
– Franz – rispondeva lui, lusingato, rimettendosi i calzoni e la camicia.
Ma erano soltanto fantasie, sì, fantasie, fantasie, fantasie’
Un giorno, l’uomo dai baffi arricciati andò a parlare con Arabelle. I due s’incontrarono dinanzi alla casa del rovere vecchio e non fu piacevole. La bella montanara stava spaccando della legna, per scaldarsi e’
– Dica a suo marito che sono stanco di lui! – disse il falsario, senza alcun ritegno. – Credevo che il bracconiere fosse in casa, ma mi sbagliavo. Ho trovato la sua sguattera’
– Ma perché parla così? – esclamò Arabelle, portandosi le mani al volto. – Chi &egrave lei? Io non parlo con gli sconosciuti! Lasci in pace mio marito! Lei non ha più nulla a che fare con la nostra casa!
– Ah sì?
– Che cosa fa? Mi lasci! Mi sta facendo paura’ Se ne vada, per favore!
Il falsario aveva estratto dalla sua tasca un’arma tutta arrugginita, che faceva paura e gliela mostrava.
– Guardi che chiamo aiuto! – disse Arabelle, singhiozzando.
– La vede questa pistola? – mormorò il falsario, cupamente. – Lei e suo marito dovete fare quello che dico io, tutto quello che dico io, altrimenti ve ne pentirete amaramente!
Cielo! Il perfido la puntava contro Arabelle, per farle paura! La dolce montanara tremava come una foglia e non osava parlare.
Il vento rapì i suoi singhiozzi.
– Io non ce l’ho con lei, signora – bisbigliò l’uomo dai baffi arricciati. – Io ce l’ho con suo marito!
– La prego, la supplico! – gridò l’altra, giungendo le mani. – Non gli faccia del male! Si dimentichi persino che esiste! Spari a me, spari agli animali del bosco, spari agli alberi, ai torrenti, se vuole, ma non faccia piangere Franz, no!
Il suo interlocutore le rispose sghignazzando, per poi andarsene, lasciandola nella tristezza e nello spavento. Con lei, erano rimasti soltanto i passerotti che volavano di ramo in ramo e le cinciallegre di montagna!
– Tutti sono contro di me! – diceva la montanara, rimasta sola. – I falsari sono contro di me, il destino &egrave contro di me, le montagne sono contro di me e l’amore che provo per Franz!

Nei giorni che seguirono, il bracconiere fu molto cattivo nei confronti della sua bella innamorata e certamente non ricambiava il suo affetto con dei baci.
Oh, egli non faceva che dirle:
– La vita non continua dopo la morte! Non resta nulla, soltanto cenere e polvere! Siamo vivi e coscienti a causa di una fatale coincidenza dell’universo! Non siamo nulla e tu lo sai! Non c’&egrave nessuno che ama te, me o chiunque altro! Tutti odiano, a questo mondo! E chi non uccide, non vive!
Ma Arabelle gli rispondeva, con gli occhi bagnati di pianto:
– Io lo so, saranno le tue parole a farmi morire, ma quando accadrà, ti scriverò lettere d’amore dall’Aldilà, te lo prometto!
– L’Aldilà non esiste! Né io, né tu, né gli altri mortali esistevano, prima di nascere a questo mondo! Per lo stesso motivo, non saremo nulla dopo la morte!
– Franz, puoi saperlo: &egrave venuto il falsario e voleva ucciderti! Stai attento! Io non so come si manifesterà l’energia negativa della quale ti ho parlato, ma’ Stai attento!
– Finiscila! E non mi seccare, che devo bere! Devo attaccarmi a una bottiglia di barbera! Dammi un fiasco di quello buono, su!
– Franz, il falsario &egrave un uomo molto cattivo e potrebbe farti del male’
– Allora? Voglio bere!
– Franz, in nome del Cielo, ha una pistola!
– Dammi da bere, che devo andare a cacciare le volpi!
In paese correvano delle voci cupe, che parlavano di un brutto affare tra il bracconiere, il contrabbandiere ed il falsario. Qualcosa era trapelato, chissà attraverso quale bocca! Ad ogni modo, vi furono altre occasioni in cui il contrabbandiere ebbe modo di consegnare a Franz dei sacchetti di juta colmi di denaro, in cambio di pelli e selvaggina pregiata, abbattuta dal suo fucile. Il falsario, però, non era soddisfatto di quegli scambi, di quegli affari loschi, tanto che giocò dei tiri mancini al gradasso bracconiere.
Questi, un brutto giorno, trovò una lettera misteriosa, dimenticata su uno dei tavolini della casa del rovere vecchio. Nessuno sapeva chi l’avesse recapitata; era rimasta come abbandonata, accanto ad un fiasco di barbera mezzo vuoto e alla macchina da cucire arrugginita di Arabelle. Era scritta con inchiostro nero, su una carta giallina e sembrava firmata con il sangue.

“Mio caro Franz,
voi siete tutto preso dalla vostra passione per i fagiani di monte, le pernici e le volpi, ma non vi accorgete che, nel frattempo, qualcuno trama di assassinarvi. Vi ho avvisato appena in tempo. Noi due ci conosciamo, ci siamo già visti, una volta, nei pressi della Cima dei Tre Falsari. Ricordate? Fu una sorta di apparizione. Voi eravate caduto nel torrente e chiamavate aiuto con tutta la forza della vostra voce. Fui io a salvarvi, a porgervi una corda, prima che la corrente vi trascinasse via con sé. Stavate per sbattere la testa contro le rocce, vi rammentate? Io però vi chiesi qualcosa in cambio, sì, vi dissi che d’allora in poi, la vostra vita mi apparteneva, così come i rami spogli degli alberi d’inverno appartengono al vento, o meglio, al pari di come le fascine di rovi falciati appartengono ai roghi che s’accendono nella valle, durante la stagione fredda. Oh, come divampano le fiamme! Io sono più forte di quel fuoco, delle grida ardenti dei fagiani, delle vipere che sibilano nei boschi, del mistero delle volpi, più furbe della morte! Io sono più forte dei vostri nemici e se vorrete, ve lo dimostrerò. Se volete che vi liberi del contrabbandiere e del falsario, non avete che da chiedermelo ed io vi esaudirò. A proposito: non vi ho ancora detto che cosa voglio in cambio’ D’altronde, non vi ho nemmeno detto come voglio essere pagata per avervi salvato la vita. Forse con il sangue o con il denaro? Non vi rispondo, perché dovete capirlo da voi.
Io sono più forte delle pernici, dei fucili fumanti, dei cinghiali adirati e assetati di sangue, sono più forte delle montagne’
Ho i capelli biondi, ricordate? Sono lunghi e morbidi. Adoro passeggiare nel bosco con la gerla sulle spalle. Le mie labbra fremono per voi. Sapete dove trovarmi; potete venire domani, al mulino del Gobbo, nell’ora del crepuscolo.
Se vi dimenticherete di me o mi farete del male, verrò a dare fuoco alla vostra bella casetta.
Vi amo!
Un saluto appassionato”.

Non c’era firma leggibile, solo una macchia rossastra.
La lettera sapeva di zolfo!
Arabelle non doveva leggere quelle righe. Perciò, il bracconiere accese una candela ed avvicinò il foglio a quella fiamma, fino a quando il fuoco non ne ebbe fatto un sol boccone.
Il nostro Franz si recò all’appuntamento. Io non vi narrerò di quell’incontro, perché fu troppo cupo e misterioso.
Ricordo che una volta’ Oh, una volta! Sembrava che la primavera avesse stipulato un patto di sangue con l’inverno, per poter sbocciare un solo giorno, nel bel mezzo delle sue nevi. Faceva insolitamente caldo, era come se un fuoco cattivo divorasse ogni cosa.
Arabelle passeggiava lungo chissà quale torrente, tutta sola, quando vide passare una Bugatti, guidata da uno sconosciuto’ Il passeggero era il piccolo Jean-Claude! L’automobile passava lungo la strada principale, quella che fiancheggiava la montagna! La bella sentì un vivo affetto risvegliarsi nel suo petto. Si mise a correre, a correre, a correre’ Dove? Non lo sapeva.
Ad un tratto, le parve di vedere Jean-Claude scendere lungo il sentiero, con un gran cesto di vimini sottobraccio.
– Oh, signora Arabelle! Io vado per funghi! Vado per funghi!
Ma’ Non era stagione! Cielo! Era pericoloso, sì!
La bella montanara si portò le mani agli angoli della bocca, per gridargli, quasi singhiozzando:
– No, non venire, Jean-Claude! C’&egrave una vipera! C’&egrave una vipera, lungo il sentiero!
Era vero.
Oh, Cielo, era troppo tardi, troppo tardi!
La vipera sbucò dai sassi maledetti, tra i quali si nascondeva’ Fu così che morse il pargolo, che aveva indosso la sua divisa nera, dal fiocco bianco!
– Mamma! Mamma! – gridava il fanciullo, cadendo al suolo e ruzzolando.
– Ti ha morso! Oh, povero piccolo! Ti ha morso’ – così gridò la montanara, correndo in suo soccorso. – Sono io la tua mamma’ Fa’ come se lo fossi!
Arabelle lo soccorse, sì, lo soccorse’ Lo amò intensamente, gli disse di volergli bene follemente, ma questo non bastava. Il tepore primaverile e maledetto di quel giorno aveva fatto sì che una vipera delle rocce sbucasse dalla sua tana e facesse male all’innocente!
– Aiuto, soccorso! – urlava la nostra protagonista. – E pensare che eri venuto per funghi!
Il rumore sordo di uno sparo, in lontananza, soffocò la voce sua e quella del pargolo, che piangeva disperato. Poi, ne udirono un altro e un altro ancora.
Io non so bene che cosa avvenne al piccolo Jean-Claude dopo il morso della vipera, davvero, io non so, il mio spirito si rifiuta di raccontare!
Arabelle amò e pianse’
La bella montanara non aveva paura della morte, ma, in cuor suo, sentiva che un destino avverso la stava toccando, con le sue mani fredde.
Una volta, una giovane donna bionda, che portava una gerla sulle spalle, andò a bussare all’uscio della casa del rovere vecchio. Era un bel giorno di primavera, ma sembrava una primavera stregata, fatta di fiori gialli e prati verdi, bagnati della rugiada del mistero.
– Franz? C’&egrave qualcuno in casa? – chiamava la sconosciuta, con la sua voce che sapeva di ghiande velenose e di torrenti.
Mentre bussava con la sua mano bianca sorrideva e, così facendo, lasciava brillare le sue labbra rosse, infuocate, che sembravano fatte per sussurrare parole d’amore e per dare dei baci velenosi.
– Franz, sono la tua dolce amica, venuta espressamente per farti visita!
Così disse la voce del bosco’
– Oh, ma guarda! Gli uccellini che cantano! I passerotti che volano di ramo in ramo! I prati fioriti! Il volo dei fringuelli innamorati! &egrave primavera!
La donna della gerla sembrava ridere d’un riso vago e soffocato, mentre proferiva quelle parole allegre. Aveva gli occhi azzurri, d’un celeste freddo e inespressivo; sembravano due pietre preziose, gelide e senza nome.
Il bracconiere non era in casa. Fu Arabelle ad aprire l’uscio ed a salutare la nuova venuta.
– Che cosa’ Che cosa desidera? – chiese la dolce montanara, giungendo le mani.
– Oh, ma lei, lei &egrave Arabelle, se non sbaglio! – esclamò la donna della gerla, mostrandole il suo sorriso più ammaliante.
– Mia signora, come fa a conoscere il mio nome?
– Ma come! &egrave stato il suo caro Franz a dirmelo, siamo molto amici, io e lui’ Lo sa?
– Cosa? – gridò Arabelle, mentre una vampata di gelosia le coloriva le guance. – Lui non me l’ha mai detto! &egrave impossibile!
– No, non &egrave impossibile – sussurrò la donna bionda, scuotendo teneramente la testa; la voce sua aveva una dolcezza che avrebbe stregato il mondo. – Ho tanto bisogno di parlare con Franz, di esprimergli il mio affetto!
– Farà meglio a tenerlo per sé, il suo affetto!
– Ma cosa dice, signora Arabelle, sciocchina! Lei non sa quanto io lo ami! Io amo tutti’ Amo tutto il mondo! Amo anche lei, lo sa?
A quel punto, la donna della gerla abbracciò la sua interlocutrice con un tale impeto e con una passione così travolgente, che sembrava innamorata di lei. Poi, sempre stringendola, prese a baciarla ripetutamente sulle guance, con lo schiocco.
– Mi perdoni, &egrave più forte di me’ Non riesco a staccarmi dalle persone che amo e da quelle che amano quelli che amo! – esclamò la donna bionda.
– Ma’ Io non la conosco! Lei come fa a dire di amare tutti? – le chiese la bella montanara, sbigottita.
– Ero venuta quassù solo per salutarlo – riprese l’altra, continuando il suo discorso senza badare alle parole della sua interlocutrice. – Solo per dargli un bacio!
– Il mio Franz non concede i suoi baci a chicchessia! Ma piuttosto, che cos’ha nella gerla?
– Mia bella signora, quello che porto nella mia gerla riguarda me sola!
Le due donne si guardarono negli occhi con un fuoco che mal dissimulava l’ira appassionata. La giovane bionda avrebbe spaventato persino gli scoiattoli’ Invero, ella faceva impressione, con quella sua lunga gonna rosso cupo, a pieghe, con i suoi stivali neri, il suo busto del color della pece, tutto scollato e chiuso sul davanti con dei legacci. Sembrava quasi che fosse a seno nudo’ Aveva dei braccialetti dorati ai polsi e’ Arabelle, per contro, era tutta vestita di bianco, portava una lunga vestaglia e si sarebbe detto che si fosse appena destata da un lungo sonno. Una gelosia cupa aveva spento i suoi sbadigli.
– Che cos’ha in quella gerla? – disse Arabelle, come se fosse stata arrabbiata. – Che cosa porta nella gerla? Me lo deve dire! &egrave qualcosa per il mio Franz? Ah, temo di vedere mille disgrazie scintillare come fiamme nei suoi occhi celesti!
La padrona di casa cercava di girarle intorno, mentre l’altra rideva, nascondendosi la bocca e i denti bianchi con la mano.
– Porta della paglia, a quel che vedo’ – mormorò Arabelle.
Sì, era paglia ed era così gialla, secca, ruvida, che’ Ad ogni modo, in mezzo a quei filamenti giallastri, la bella montanara credette di discernere delle vipere. Alcune erano grigie, avevano dei rombi blu disegnati sul dorso, altre erano marroni, le loro pupille erano orrende e sembravano quelle di esseri indemoniati. Tutte sibilavano, si arrotolavano su se stesse e’
– In nome del Cielo, si tolga quella gerla di dosso! – gridò Arabelle, terrorizzata, portandosi le mani al volto. – Non vede che &egrave piena di vipere?
La donna bionda si mise a ridere fragorosamente. Si tolse la gerla, affondò entrambe le mani e le braccia nella paglia, per mostrarle che non v’era nulla e le rispose:
– Sciocchina! Ma non vede che non &egrave che paglia?
– Eppure, avrei giurato che’ – sussurrò Arabelle.
– Se Franz non &egrave in casa, vuol dire che passerò un’altra volta!
Questo esclamò quella inquietante interlocutrice, cambiando discorso ed alzando gli occhi al cielo. Poi aggiunse:
– Oh, quanti passerotti! Io sono segretamente innamorata di loro, lo sa?
Poi la salutò con un cenno, si rimise sulle spalle la sua gerla, stringendo forte gli spallacci tra le sue mani, quindi riprese tacitamente il suo cammino, senza nemmeno aspettare il saluto della sua comare.
La nostra protagonista la vide saltellare, mentre svaniva oltre il sentiero serpeggiante.
– O mio bel bracconiere innamorato, il tuo cuore io ho già conquistato! Se l’ardor non m’abbandona, sono ancora la tua nuova bella, la tua dolce padrona!
Questo il canto che Arabelle credette di udire; poi, la sposa di Franz si chinò, prese un sasso e lo scagliò nella direzione in cui era scomparsa la donna della gerla.
– E canta, la bambina cattiva! – mormorò la nostra protagonista.
No, quella giovane bionda non era una bambina cattiva, era una donna e presto la dolce montanara se ne sarebbe accorta.
Un brutto giorno, il bracconiere correva disperato attraverso il bosco, perché un crudele lo stava inseguendo. Egli aveva il fiatone e se la stava vedendo brutta, molto brutta.
– Il guardiacaccia mi sta alle costole – diceva Franz, quasi piagnucolando – ed io non so più dove rifugiarmi! Stavolta mi prenderà, ne sono certo!
– Ah, vecchio dannato! – gli gridò il guardiacaccia, che lo inseguiva senza dargli pace. – Dannato, stavolta sei nelle mie mani! Li senti i miei artigli? Sto per sventrarti! Ah, sto per mangiarti vivo! Vivo!
– Va’ all’inferno! Avvicinati ancora un po’ e ti faccio secco come un tordo!
Franz si voltò e si mise a correre più forte’ Gli era sembrato di aver ripreso un po’ di fiato, ma si sbagliava. Ricominciò a piagnucolare, come tra sé:
– Poco fa sono caduto e mi sono quasi slogato un braccio’ Egli m’insegue ancora! Oh, come potrò sfuggirgli?
Il bracconiere correva, correva lungo il sentiero che portava al mulino del Gobbo, i suoi segugi s’erano dispersi, si teneva una mano sul braccio dolente, piagnucolava sempre, quando, ad un tratto, gettò un grido disperato, simile al latrato di un cagnolino ferito:
– Ah, cane! Cane, che mi hai fatto!
Il guardiacaccia gli aveva sparato e lo aveva ferito a un braccio.
– Ah, se ti ho preso, stavolta! Non sai quanto mi faccia piacere! Sei mio! Sei mio, mio, tutto mio!
Il bracconiere era caduto in ginocchio e si toccava il braccio sanguinante, mentre due lacrime gigantesche gli scendevano sulle guance’ Mormorava, piangendo e gemendo:
– Mi ha preso! Mi ha preso! Ma non c’&egrave più tempo, devo rialzarmi e correre via’ Arabelle, amor mio, aiutami tu! Aiutami tu, da vicino o da lontano! Oh, il mio braccio! Quanto fa male!
E accompagnava queste parole con bestemmie ed imprecazioni disperate.
– Ah, bracconiere! – gli urlò il guardiacaccia. – Ti sei fermato! Ah, sanguini come un fagiano ferito! Lascia che allunghi un po’ il passo, fra poco sentirai la mia mano sulla tua spalla e ti condurrò in galera! Sì, soffri, soffri! Soffri più delle mille pernici, dei cervi e dei caprioli di montagna che hai abbattuto senza pietà! Soffri più di un cucciolo ferito, che ha perduto la sua mamma! Soffri più forte dei merli, con cui ti esercitavi al tiro!
Mentre si sentiva dire tutto questo, il bracconiere prese il fucile e sparò un colpo al suo inseguitore.
– Spero ti prenderti agli occhi! – gli gridò, con una voce da sofferente, che assomigliava a quella di un leone ferito.
Bum!
Ma il colpo non prese nessuno. Il bracconiere raccolse tutte le sue ultime forze e tentò nuovamente la fuga. Fece pochi passi, cadde, poi si rialzò e corse, corse.
– Non hai nessuna pietà verso un disperato! – urlava, piangendo, come se qualcuno gli avesse cavato gli occhi. – Caino! Mi hai ammazzato! Caino! Una volta eravamo amici!
E prese a sparare a destra e a manca, con la speranza di cogliere il suo persecutore’
– Ah, vecchia canaglia! – gli disse poi il guardiacaccia. – Andrai in galera per questo!
– Prima qualcuno deve riuscire a prendermi! – brontolò il bracconiere.
Quel giorno, il guardiacaccia era vestito con la sua camicia a scacchi gialli e blu, vi portava sopra una giaccaccia nera, tutta rattoppata e sgualcita, dalla quale pendevano dei fili grigiastri. Disse forte:
– Ah, ti ho in pugno! Sei in mio potere! Sei nelle mie mani, vecchia canaglia! Olà, bracconiere, dov’&egrave andato tutto il tuo coraggio?
Non si capiva se scherzasse o se facesse sul serio. Sembrava un gatto, intento a giocare con un topolino ferito, prima di mangiarselo.
– Perdiana, ho il fiato corto, sono ferito, sta per prendermi! – mormorava l’inseguito, disperato.
– Ah, stavolta sei tu la vittima, mio caro Franz! – gli gridò il nemico.
Non era vero’ Non poteva essere vero! Il bracconiere, sanguinante, vide passare dinanzi a sé mille immagini di caccia, di selvaggina ferita e urlante, di fagiani di monte che s’involavano ripetendo il loro verso, di volpi fameliche, di orsi!
Il sentiero sboccava sulla strada principale; Franz, barcollante, riuscì a giungervi, vide passare un’automobile, una vecchia Fiat, da gran signori, dalla carrozzeria verdastra; la guidava il contrabbandiere, del quale già vi ho narrato.
La vettura si fermò e il bracconiere salì a bordo.
– Presto, via di corsa! – disse al suo compare. – Non vedi che sono ferito?
Si era salvato. La vecchia Fiat partì a gran velocità ed il guardiacaccia non riuscì a catturare il suo uomo, né a leggere la targa. Era vero: quell’inseguitore non era mai riuscito a cogliere sul fatto il suo rivale.
– Ah, riuscirò ad acciuffarti, prima o poi! – gridò al vento lo sconfitto.
Ma s’illudeva.
A casa, il bracconiere ferito trovò una lettera terribile, che lo aspettava!
– Arabelle! Arabelle! – chiamava invano. – Arabelle, aiutami, sono ferito! Sanguino! Sto male’ Mi hanno preso al braccio’
Ma la sua dolce montanara non poteva rispondergli.
Franz trovò la missiva e’ Cielo!

“O mio amico carissimo,
amore dei miei occhi, amore dei miei sogni, permettetemi di rivolgermi a voi con queste parole. Sono venuta a bussare al vostro uscio poco tempo fa, ma non vi ho trovato, con mio profondo rammarico. Portavo la gerla sulle spalle ed i miei biondi capelli bramavano le vostre carezze. Voi non sapete quale profondo amore arde nei miei occhi, benché il mio cuore sia più ferito di quello di uno dei fagiani di monte abbattuti dal vostro fucile. Sì, il mio cuore sanguina per voi, lo sapete bene!
Ad ogni modo, non &egrave di me che desidero parlarvi, ma di Arabelle, la vostra dolce montanara, che possedeva un cuore più grande dell’immensità. Ella ci ha lasciati e non c’&egrave più. &egrave stato un terribile incidente, credetemi! Io non vi racconterò altro; il resto ve lo diranno i vostri compaesani. Io piango con voi, sono con voi, soffro con voi, i palpiti del vostro cuore sono anche i miei e non sapete quanto sia infelice per ciò che &egrave accaduto.
Io amavo Arabelle e quando la vedova più anziana del villaggio mi ha riferito tutto, non ho potuto fare altro che piangere!
Se vorrete, verrò a consolarvi di persona, lassù, nella casa del rovere vecchio. Odo le voci degli animali del bosco, che piangono per una morte. Odo le civette, i lupi e i picchi neri, che sembrano vestiti a lutto.
A presto!
Vi amo”.

– Non &egrave possibile! – gridò Franz, singhiozzando. – Arabelle, Arabelle, vieni a soccorrermi, sono ferito! Il mio braccio sanguina’ Oh, mia cara sposa, dove sei andata?
E un fagiano di monte passava dinanzi alla finestra appannata della casa del rovere vecchio, ripetendo il suo verso mesto.
Ricordo che i miei occhi videro ancora la donna della gerla, la videro nel bosco, mentre saliva un sentiero fiancheggiato da fiori di primavera; i fringuelli dalle piume variopinte saltellavano, svolazzavano e cinguettavano tutt’intorno a lei.
Uno scampanio lontano annunziava una festività, forse era per la Pasqua, non rammento’
– Che felicità! – diceva la bionda della gerla. – Che felicità, trallallà! Scoppio di primavera, proprio come ne scoppiano i fiori dai petali delicati, i fili d’erba, gli alberi maestosi del bosco, gli uccelli canori, che cinguettano senza sosta, senza mai stancarsi di ripetere al vento il loro canto di giovinezza e di giocondità!
Ad ogni modo, in quell’occasione la giovane non portava sulle spalle la sua gerla, ma recava con sé una cornamusa, che, di tanto in tanto, suonava meravigliosamente, traendone dei suoni languidi, appassionati, misteriosi, quanto il canto delle upupe ed il verso secco delle gazze ladre.
– La, la la, lalalalaaaa’ – canticchiava, tenendo le sue belle labbra rosse semiaperte e lasciando che la sua voce melodiosa fluisse attraverso di esse.
– Io sono amica dei picchi neri, dei briganti, degli uccelli che abitano i rovi, dei vagabondi che s’aggirano in questi boschi! Io sono amica delle vipere, dei gufi, delle civette dalle voci maledette! Io amo il sole, la luna e le vette antiche che brillano al sommo di questi monti!
Questo andava ripetendo al vento. La sua cornamusa aveva un suono così dolce, che’ Oh, avrebbe incantato tutto il mondo! Sembrava flautata’
Eppure, c’era qualcosa di strano, di vago, nella sua lunga lingua rossastra, che di tanto in tanto passava sui suoi denti lucenti, sulle sue labbra grandi e morbide, vermiglie, che risaltavano alquanto sulle sue guance eburnee, perfette, fatte per essere accarezzate da mille mani virili.
– La mia cornamusa &egrave fatta di legno’ – mormorava la donna della gerla. – O animali del bosco, ascoltatene il suono! &egrave un incantesimo! Canto alle vipere, ai fagiani maestosi, ai pavoni delle fattorie della valle!
Ricordo che in quei paraggi si trovava una sorta di stamberga isolata, accanto alla quale era stata costruita una piccola stalla. Da questa, era fuggito un maialino rosa, che grugniva e pascolava su di un prato. Aveva la coda arricciata, che sembrava disegnare nell’aria chissà quale segno di punteggiatura.
La bionda dai lunghi capelli gli si avvicinò, gli mormorò non so quali parole in un orecchio e il maialino si mise a fare dei versi lamentosi, era come se piangesse. Poi, la donna lo toccò con le sue dita dalle unghie lunghe e fu come se lo graffiasse con degli artigli.
Cielo!
Fu come se lo sgozzasse vivo’
Poi, la giovane riprese il suo cammino, saltellando e canticchiando.
Questo accadeva mentre in paese si piangeva, per la morte della povera Arabelle.
Oh, la dolce montanara se n’era andata, sì, era vero, era tutto vero quello che la donna della gerla aveva scritto nella lettera! Le vedove del borgo piangevano, vestite di nero, i fazzoletti bianchi alla mano, profumati di malinconia! Piangevano i fanciulli, che facevano dei girotondi, piangevano i montanari dalle facce stanche, dalle guance rugose, dagli occhi afflitti! Gli uccelli dei monti accompagnavano con i loro canti di mestizia i passanti assorti, che diffondevano la terribile notizia, con la voce, con i gesti, con il pianto! Oh, quanto, quanto affanno!
Arabelle era morta, l’avevano trovata senza vita lungo il torrente, in prossimità della Locanda Abbandonata, luogo di fantasmi, del quale già sapete! Non si sapeva se era ammalata, se l’avevano uccisa, se era rimasta ferita!
Era stato un montanaro a trovarla lì, l’aveva vista con gli occhi chiusi, la testa adagiata su di un sasso, la voce del torrente aveva inghiottito l’ultimo suo sospiro!
Non si sapeva se si era spenta là o altrove’ Non si sapeva, no, non si sapeva! I merli le avevano cantato intorno, l’avevano salutata per l’ultima volta, sbattendo le loro ali nere e maestose, schiudendo i loro becchi, gialli quanto i girasoli che d’estate allietavano la valle!
Ben presto, Franz si disperò follemente, prese a sbattersi i pugni sul capo, poi mise mano al suo fucile e, accecato da una crudeltà che nemmeno si può raccontare, cominciò a sparare delle fucilate a destra e a manca, ad uccidere tutti i passerotti e gli animali che incontrava lungo il suo cammino e che abitavano vicino alla casa del rovere vecchio!
– Morite tutti! – gridava, pazzamente. – Morite tutti! Morite con lei, insieme a lei, per lei! Forse, morirò anch’io con voi! Il mio fiore &egrave morto!
E pensare che andava dicendo di non amarla più da tanto tempo!
Bum! Bum! Bum!
Che colpi tristi’
Ricordo che al funerale c’era anche il sindaco di quel piccolo borgo, fece un lungo discorso’
Franz, il bracconiere, non morì e sopravvisse al suo dolore.
La campana della chiesa del villaggio suonava a morto, quel giorno, allorché il vedovo incontrò la donna della gerla, dinanzi al vecchio campanile gotico.
– Grazie, mi sei di conforto! – diceva Franz, giungendo le mani.
– Non sai quanto desideravo guardarti negli occhi! Per me, vivere questo momento &egrave sognare – sussurrò la bionda, accarezzandogli dolcemente le guance con le sue mani dolci e bianche. – Ma come mi dicevi, ci sono delle persone che ti odiano, &egrave così?
– Sì, sono il contrabbandiere ed il falsario, dei quali ti ho già parlato’
– Povero piccolo’ Povero caro! Io amavo tanto Arabelle, l’amavo quanto te e l’avrei sicuramente soccorsa, se avessi potuto, ma quel giorno mi trovavo a caccia, con il mio fratellastro e’ Quel contrabbandiere e quel falsario ti fanno piangere? Presto smetteranno di farlo’
– E perché mai? – le chiese il bracconiere, come per canzonarla.
L’altra non rispose. Sorrise di un sorriso cupo e diabolico, strinse gli spallacci della sua gerla e gli voltò le spalle, prima di andarsene. Trasportava delle mele, rosse come il fuoco; durante il suo tragitto, ne prese una e si mise a morderla e a divorarla con un impeto indicibile.
La campana suonava sempre a morto. Nessuno li aveva visti, nessuno’
Arabelle era stata pianta, ma nessuno mai l’avrebbe dimenticata, nessuno mai, perché in vita sua ella era stata una montanara buona!
– Proprio adesso doveva andarsene! – borbottava il bracconiere, davanti ad un fiasco di vino, nella solitudine della casa del rovere vecchio. – Proprio ora doveva lasciarmi solo, nei guai, a lottare contro la vita e le sue insidie! Ah, forse, meglio sarebbe stato se la morte l’avesse colta prima! Sì, forse, sarebbe stato meglio per tutti e due! Mah! Scherzi del destino! La sorte &egrave ridicola, a volte! Arabelle! Perché non sei più qui a fare i lavori di casa, a badare all’orto? Arabelle, disgraziata, disubbidiente, impertinente!
La voce sua produceva un rumore sinistro, entro quelle mura di solitudine e di silenzio. Egli parlava con tanta asprezza perché il braccio gli doleva alquanto.
– Ah, maledetto guardiacaccia! – strillava. – E pensare che eravamo amici d’infanzia! Ci ruzzolavamo sui prati, io ti tiravo i capelli e tu mi prendevi per le orecchie! Avrei dovuto spararti quando eravamo piccoli! Ah, se solo potessi torcerti il collo!
Fu allora che l’ira lo colse: afferrò il collo del fiasco che teneva in mano e, furibondo, lo scagliò contro il muro, che si tinse di rosso. Sembrava sangue!
Ah, di sangue ne sarebbe scorso io non so quanto, davvero, io non so quanto!
La donna della gerla’ La donna della gerla’ La donna della gerla’ La donna della gerla!
Lasciate ch’io ripeta quell’appellativo molte volte, per esorcizzare l’incubo che il pensare a quel suo affettuoso volto suscita in me!
Un giorno, quella giovane bionda andò a trovare il contrabbandiere, del quale già sapete. Lo trovò in casa; nel garage decrepito era parcheggiata la Fiat verdastra grazie alla quale il bracconiere aveva avuto modo di salvarsi dall’inseguimento.
– Buon giorno, mio bel signore! – lo salutò la donna della gerla, giungendo dalla strada di sassi. – Vengo a portarle delle buone nuove dal suo caro Franz! Si ricorda di lui, non &egrave vero?
– Ma lei chi &egrave? – chiese il contrabbandiere, che allora era intento a travasare del barbera da una damigiana all’altra.
– Sono una sua amica, non si preoccupi! Sono venuta per parlarle di lui e forse, per lusingarla’
I capelli suoi splendevano talmente, in quel momento, che sarebbe stato impossibile resistere al fascino di quella giovane. Era altresì difficile supporre quanti anni avesse: avrebbe potuto averne diciannove come quaranta. Forse, non aveva età.
– Le ho portato delle verze, verdi e fragranti, mio bel signore! Sono nella mia gerla e gliele offro volentieri. Non si faccia scrupoli, le prenda, le ho conservate perfettamente, apposta per lei’ – gli disse la donna.
– Oh, com’&egrave gentile! – esclamò il contrabbandiere, guardando appassionatamente il bel davanzale della ragazza. – Lei &egrave una così bella giovane, che’
A quel punto, egli si tolse il cappello e le fece un inchino per l’ammirazione.
– Vengo anche per raccontarle una lunga storia sul suo caro amico Franz! – esclamò la donna della gerla, accarezzandosi i capelli e scarmigliandoli maliziosamente. – Oh, la prego, non mi guardi con quegli occhi! Non mi mangi! Piuttosto, vorrei dirle che il suo caro amico le &egrave molto grato per tutto quello che ha fatto per lui, per come lo ha aiutato, specialmente l’ultima volta’ L’ha scampata bella e proprio grazie a lei!
– Di che cosa sta parlando? ‘ le chiese l’altro, fingendo di cadere dalle nuvole.
– Oh, lei sa bene di che cosa!
Il contrabbandiere fece finta di niente, mentre traslocava e nascondeva a destra e a manca delle cose che nessuno avrebbe dovuto vedere.
– Io ho viaggiato – diceva la donna della gerla, giocherellando con i bottoni della giubba del suo interlocutore. – Ho viaggiato molto, sa? Francia, Svizzera, Paesi Bassi e’ Ho tanti ricordi da raccontare e da evocare in me, quando sono sola e triste’ Io soffro la solitudine e non mi vergogno di dirlo! Ho tanto bisogno dell’amore affettuoso di un uomo, di sentire il suo corpo irsuto contro il mio, i suoi muscoli, capisce?
Fu come se la giovane lo avviluppasse nelle sue chiacchiere, che sembravano un incantesimo. Non ricordo bene come avvenne, ma alla fine la bella riuscì a baciare sulla bocca il contrabbandiere.
– Vieni con me, sul letto – gli sussurrò in un orecchio.
Accadde tutto ciò che voleva lei. Si comportava come una padrona, anche se non lo sembrava. L’aveva preso per mano, trascinato, eccitato. Lo stava spogliando con le sue belle mani dalle dita lunghe e lo baciava incessantemente, pazzamente. Era come se lo avesse ubriacato. Poi toccò a lei spogliarsi. Si era tolta la gerla, affinché lui potesse raccogliere le verze, che erano grandi e sapevano di orti’
– Fa’ l’amore con me, avanti! – gli mormorava, stringendogli il volto con le mani. – Fa’ l’amore con me, non resistermi!
Ella si mise sotto e i due ebbero rapporti sessuali bollenti. Che colpi! Che spasimi! Che lamenti! Erano nudi, sì, erano nudi e ad entrambi parve di essere posseduti dal demonio.
– Ti adoro – disse alla fine la donna della gerla, in uno degli orecchi del suo amico.
Ma sorrideva e’
Ben presto si alzò dal letto, si rivestì, canticchiando e raccontando storie di pernici, tagliole nascoste nel bosco, volpi, frisoni dai piumaggi variopinti, che venivano dal nord.
Le verze rimasero a casa del contrabbandiere, che ne fece una zuppa, cucinata sul calderone nero del suo focolare e’
Pochi giorni dopo, in paese cominciarono a girare delle strane voci, che furono poi confermate da altre voci ancor più cupe. Che lutto terribile! Era dei più neri. Alcune donne scoppiarono a piangere in pubblico e si strapparono i capelli’ Avevano trovato il contrabbandiere morto, in casa sua, con la testa abbandonata in avanti sul tavolo, la lingua a penzoloni, le bave alla bocca, il cucchiaio nel piatto.
Il suo funerale fu triste.
Nessuno sapeva esattamente il perché della sua morte.
Rividi la donna della gerla passeggiare nel bosco, dicendo con voce cupa:
– Arabelle’ Arabelle, che piacere rivederti! &egrave come se ti sognassi! Lascia che ti abbracci! Dove sei in questo momento? Sei nel mondo dei defunti, nella dimensione dell’amore ed io sono lì con te, nell’Aldilà senza fine, ti parlo e tu mi ascolti! Arabelle! Arabelle! Arabelle!
La bionda aveva chiuso gli occhi, spalancato le braccia e girava sempre intorno a se stessa.
– Arabelle, tu sei qui con me, io sento la tua bianca presenza – mormorava la veggente. – Tu mi parli ed io ti ascolto’ Siamo nel sogno’ Oh, ma che cosa devi dirmi? Io sarò la tua medium, tu sarai la mia guida spirituale’ Raccoglierò i tuoi messaggi uno ad uno, come fiori e foglie! Li scriverò con inchiostro blu su carta rosa, li consegnerò al tuo amore terreno, al tuo Franz! Arabelle, sei sempre la mia amica del cuore, lascia che ti riabbracci! Sono così felice che tu sia sopravvissuta alla morte fisica! La morte non esiste!
Pareva delirasse.
Mentre girava su se stessa, come una trottola, con le braccia spalancate, sollevava tutt’intorno un mucchio di polvere grigia, che avvolgeva ogni cosa.
Ricordo che la donna della gerla si era vestita di rosso e di nero e, i bei lunghi capelli sciolti, inseguiva il bracconiere attraverso il bosco’ Non era un fantasma, ma sembrava che lo fosse, sì, che lo fosse’
– Franz, non fuggirmi! – gli gridava. – Dove sei? Franz, in nome della pietà per la tua sposa defunta!
Uno stormo di fagiani di monte, che le stava intorno, si levò in volo al suo passaggio. Ella distinse degli esemplari neri e maestosi; erano maschi, ma nel gruppo si contavano pure delle femmine, dai manti marroni.
Il bracconiere era a pochi passi da lei, fermo, con il fucile in mano. Osservava due maschi di fagiano di monte, mentre si affrontavano in un combattimento all’interno di una sorta di arena naturale. Avevano gli occhi marrone scuro, i becchi spalancati, grigio bluastro, le zampe piumate, le penne nere, le code a lira. Emettevano dei versi simili a quelli delle tortore ed apparivano assai bellicosi. Un istante dopo, spiccarono il volo.
La donna della gerla riprese ad inseguire il bracconiere, che si era incamminato giù per un sentiero.
– Franz, non abbandonarmi qui, non lasciarmi tutta sola nel bosco! – esclamò la giovane bionda, dalla chioma accarezzata dal vento silvestre.
Egli non si voltò e continuò lungo il suo cammino.
L’altra lo inseguì ancora per un breve tratto. All’improvviso, lo vide voltarsi e puntarle contro il suo fucile. Fu allora che ebbe paura.
– Perbacco! – esclamò il bracconiere, un istante prima di premere il grilletto. – Stavo per spararti! Credevo fossi quella canaglia del guardiacaccia!
– No, non lo sono, mio caro Franz – gli disse la donna della gerla, gettandogli le braccia al collo ed esprimendogli tutto il suo affetto. – Continuiamo a percorrere questo sentiero mano nella mano’ Ascolta! Il bosco sospira! I francolini di monte si sono posati sulle fronde che ci stanno innanzi’ Ci sono le volpi! Ad ogni modo’ Franz, io ti devo parlare!
– E perché mai? Che cosa dovresti dirmi di tanto importante? Per quale ragione mi rincorrevi perdutamente?
– Ho visto Arabelle, ho parlato con Arabelle, la quale mi ha scritto una lunga lettera dall’Aldilà, che &egrave il luogo in cui si trova adesso. &egrave morta, purtroppo, ma l’anima sua &egrave ancora in vita! &egrave stato l’amore che provava e che prova per te ad indurla a scrivere! E per mio tramite, ti invierà numerose epistole, tutte baciate con le dolci labbra del suo nuovo corpo astrale!
Mentre gli diceva queste frasi, che sembravano un delirio, lo guardava negli occhi ardentemente e lo ammirava, mentre stava dinanzi a lei, con il fucile in mano.
– Delle lettere dall’Aldilà! – esclamò il bracconiere, quasi sghignazzando. – E pensi che io ci creda?
All’udire queste parole, la donna della gerla trasse dal suo corsetto una lettera scritta con una calligrafia tremante, che ben s’addiceva ad una spiritista, poi cominciò a leggerla con una voce di fuoco.

“Terra dell’Estate Senza Fine, 21 Appassionato dell’anno astrale 1743.
Mio amato Franz,
ora ti scriverò di ciò che mi accadde dopo la morte fisica, avvenuta sulla Terra, in prossimità della Locanda Abbandonata, lungo il torrente che noi tutti conosciamo.
Il mio corpo fisico fu ritrovato da un’anima buona, ma non mi sarebbe servito più. M’accorsi di avere un nuovo corpo, fatto di pensiero e sogno. Con esso, volavo tra le nubi turchine, oltre la luna dal volto d’argento, le stelle erano le mie sorelle più belle e mi accorgevo di un sentimento d’amore e di unione con tutte le cose e tutti gli esseri dell’universo, che era più forte di ogni altra sensazione.
Avevo nuovi sensi e nuove percezioni, non mi mancava alcunché per poter vivere nella nuova dimensione di pensiero alla quale oramai appartenevo. Rividi mia nonna Carlotta, che, una volta, mi aveva accarezzata nella culla. Ora sono al suo fianco e trascorro i miei meriggi passeggiando su di un prato verde e costruendo dei cesti bianchi, fatti di buone opere e devozioni pie.
Franz, dei gravi pericoli incombono sulla tua testa, vedo una tempesta, piena di tuoni, di lampi e d’illusioni. Ho tanta paura per te, forse non le sfuggirai, ma io farò di tutto per salvarti. Franz, non lasciarmi, rivolgimi un pensiero affettuoso almeno una volta al giorno ed io sarò al tuo fianco, a proteggerti!
L’Aldilà &egrave pieno di anime e di animali. Devi sapere che tutti gli esseri viventi della Terra passano all’altra dimensione, dopo la morte del corpo. Vedo pecore bianche intorno a me, le greggi sono guidate da pastori dai volti felici.
Franz, ti scriverò ancora, per rivolgerti i miei pensieri più cari!
Un bacio.
Arabelle”.

– &egrave la sua calligrafia! – esclamò il bracconiere, all’improvviso. – La riconosco! &egrave la sua calligrafia! Ma &egrave impossibile!
– No, Franz, credimi, niente &egrave impossibile all’amore – mormorò la donna della gerla, in uno dei suoi orecchi.
– Come può avermi scritto dall’Aldilà?
– Oh, Franz, non capisci? Ella ha guidato la mia mano, proprio come ora guida i nostri passi e segue i nostri discorsi, dalla dimensione di pensiero nella quale si trova! Ti ha scritto per mio tramite e mi ha detto che lo farà ancora, ancora e ancora’
Il bracconiere volle guardare intensamente negli occhi la sua interlocutrice; così facendo, non poté non rimanere estasiato dalla sua favolosa ed ampia scollatura, dalla vista del suo seno nudo, dai suoi sguardi colmi di meraviglia.
– Mi stai ingannando? – le chiese, con veemenza. – Parla! Mi stai ingannando?
– No, Franz, io ti voglio bene e sai che non potrei mai farlo! – gli rispose lei, giungendo le mani.
Una volta, i due si trovavano nella cantina della casa del rovere vecchio ed il bracconiere le narrava delle zucche, che in passato aveva piantato nel suo orto. Poi le aveva raccolte ed allora si trovavano dinanzi a loro. Gliele mostrava, una per una’ Erano rotonde, grandi, tinte d’un arancione vago, sembravano fatte apposta per essere scavate e riempite con candele, per brillare nella notte.
Fu allora che la donna della gerla cadde in una sorta di estasi mistica davanti al vedovo, che fu costretto a stringerla tra le sue braccia, per evitare che cadesse. Ella teneva la bocca spalancata, aveva la lingua tremante, rossa, quanto il fuoco delle sue labbra, dagli occhi le scendeva il pianto dell’Aldilà e parlava con la voce di Arabelle.
– Sì, sono io, la montanara – diceva – e mi servo di costei per parlare al mio amato d’un tempo’
Gli incontri spirituali tra la donna della gerla e la defunta Arabelle si moltiplicarono. Molti avvennero al chiaro di luna, mentre la bionda, con indosso soltanto una vestaglia bianca, scalza, andava su e giù per un declivio isolato, recitando non so quali preghiere o formule magiche, che sembravano dei mantra.
– Parlami, o Arabelle, narrami dell’Aldilà, dei suoi segreti e delle sue spoglie’
Così mormorava la medium, in trance.
Di tanto in tanto, cadeva in ginocchio, sospirando ai venti e ripetendo quel nome, l’amato nome.
Poi, la sentivano cantare. Erano melodie che duravano fino all’aurora seguente, allorché i galli del villaggio donavano al sole nascente il loro canto.
Lungo la strada maestra, passavano delle vecchie auto di seconda mano, dalle carrozzerie brune o verdastre’ Potevano essere delle Bugatti, delle Alfa Aurelia, delle Fiat Topolino riparate più volte, non ricordo. I loro motori producevano dei rumori cupi, metallici, che sembravano provenire da un altro mondo, al pari dei versi delle anitre delle case vicine.
Un giorno, pioveva a dirotto. Il bracconiere era tutto solo lungo il sentiero che conduceva alla Pieve dei Morti, costruita nel Medioevo, sulla sommità di uno di quei monti.
– Mi sto infradiciando tutto! – borbottava tra sé. – Ah, la donna della gerla, quella matta! Stando a quello che mi ha raccontato, la povera Arabelle sarebbe qui al mio fianco, pronta ad aiutarmi! Ma quando mai? Proviamo a chiamarla’ Arabelle, Arabelle, per piacere, fa’ che smetta di piovere! Mia cara sposa defunta, ascolta le mie richieste! Ah, niente!
Le gocce di pioggia infradiciavano il suo soprabito verdastro, che lo mimetizzava nella vegetazione montana. Egli portava in testa un cappellaccio del colore delle foglie, che sembrava un basco.
– Ho un presentimento – riprese a dire tra sé. – &egrave come se sapessi che deve accadere qualcosa di brutto, di tragico, di infausto’
Non si sbagliava. Vide scendere da un sentiero ripido una vecchia, tutta vestita di nero, con i capelli grigi e lunghi. Era sdentata e cantava di tuoni e di lampi! S’appoggiava ad un bastone e non sembrava umana. Ella doveva appartenere a quella specie di esseri di cui già vi parlai, i semidei’
– O anime dei morti, anime delle tombe’ – ripeteva quell’essere.
Poi svanì, come una visione.
– Costei era un presagio – borbottò a voce alta il bracconiere. – Un maledetto presagio!
Forse, lo era. Infatti, poco dopo, mentre attraversava un ponticello di legno, egli si sentì chiamare dal guardiacaccia, che gli disse:
– Ah, marpione! Vecchiaccio! Non ti &egrave bastata la lezione che ti ho dato la scorsa volta! Vuoi che giochiamo di nuovo a guardia e ladri? Ti accontento subito!
– No! – tuonò il bracconiere, voltandosi di scatto. – Tu! Ah, stavolta mi darai soddisfazione, se non sei un fantasma!
Franz mise mano al fucile, prese la mira, sparò, ma il suo schioppo si ruppe e la polvere gli esplose sul volto. Che incidente! Il bracconiere si mise a gridare, tutto sfigurato e insanguinato, mentre il suo rivale sghignazzava e si avvicinava.
– Arabelle’ Cielo! Arabelle’ Mi sono ammazzato! Mi sono ammazzato! Perché? Perché mi accade questo! Non ci vedo più! No, non ci vedo più! Ah! Aiuto! Aiutatemi! Sono cieco! Non ci vedo più! Uuuuhhhhhh!
E girava intorno a se stesso, tenendosi le mani ora sugli occhi, ora sul volto bagnato di sangue.
Il guardiacaccia non sapeva che, in mezzo all’erba, si nascondeva una tagliola e’ Fece due o tre passi, credendo di avere l’infortunato alla sua mercé, poi si accorse di quella micidiale trappola, che scattò e si chiuse sulla sua gamba destra, come se fosse stata una bocca di ferro arrugginito.
– Ah, sono preso! – gridò il guardiacaccia, piagnucolando. – Sono preso, me sventurato!
Il bosco si riempì dei suoi lamenti, che erano più acuti e disperati di quelli del bracconiere, il quale si era ferito per primo ed ebbe modo di allontanarsi. Che incidente fatale!
L’antica Pieve dei Morti era sopra di loro, era possibile discernere il suo campanile e la sua cupola turchina, in mezzo ai rami degli alberi, alle fronde abitate dagli scoiattoli e dai francolini di monte. La brezza silvestre scuoteva quei ramoscelli verdeggianti, mormorava tra quelle foglie; qua e là, a tratti, s’intravvedevano le vetrate blu della Pieve, le bifore, le sue forme aguzze, i suoi muri dipinti di bianco, che risaltavano alquanto sotto il suo tetto turchino, al pari del campanile e della cupola. Era una specie di chiesa abbandonata, costruita su una vetta. Non di rado, in quei paraggi si poteva ammirare qualche gufo reale, figura arcigna e maestosa, appollaiata su di un sasso o in cima al campanile. Erano quei volatili i veri custodi di quel luogo.
Una volta, la donna bionda, della quale già sapete, aveva caricato nella sua gerla alcune delle zucche grandi, che c’erano nella casa del rovere vecchio. Era domenica e nella piazza del villaggio c’era festa. La donna della gerla si fermò a chiedere informazioni presso l’Osteria del Fienile, chiese di un uomo dai lunghi baffi arricciati, elegante, che non doveva abitare lontano da quel luogo.
– Mi permetta innanzitutto di rivolgerle i miei complimenti, per la sua bellezza – disse l’oste. – Ora le darò tutte le informazioni che cerca’
Fu così che gliele diede, mormorandole non so quali parole in un orecchio.
Tutti la ammiravano, inebriati dalla sua avvenenza; poi, la videro scendere un sentiero, che menava al torrente, portando sempre la sua gerla colma di zucche sulle spalle.
Andava verso la dimora del falsario.
Non appena lo vide, gli saltò al collo e gli offrì appassionatamente le sue zucche.
– Le guardi – gli disse in un orecchio, fingendosi sua amica. – Sono grandi, rotonde, mature al punto giusto’
La dimora del falsario sembrava una vecchia officina disordinata. Anzi, assomigliava più che altro ad una tipografia mal riuscita, con dei fili simili a quelli di uno stendibiancheria, ai quali erano appesi dei biglietti di banca. Ad ogni modo, l’uomo dai baffi arricciati non mostrò alla sua ospite le stanze nelle quali si svolgeva la maggior parte della sua losca attività.
– Sono venuta per portarle i saluti di Franz – disse la donna della gerla, stringendo la mano al suo interlocutore. – Non ho molto tempo, perciò non desidero trattenermi a lungo. In ogni caso, spero che gradirà le mie zucche’ Sono di prima qualità! Sono il pensiero gentile di due amici, che non sanno come esprimerle la loro riconoscenza e’
– Lei &egrave una signorina così amabile’ – le rispose il falsario. – La prego, mi permetta di baciarle la mano!
– Oh, certamente! Lei &egrave così premuroso, che’ Come potrei rifiutare?
– Posso chiederle il suo nome?
– Veramente, io non ho mai detto a nessuno il mio vero nome’ Qui in paese, tutti mi chiamano la donna della gerla’
Quelle parole fecero rabbrividire il cupo falsario, che comunque era un uomo non pauroso. Che cosa c’era di tanto temibile in quel mistero? Non so dirlo’
– Mi dispiace, ho fretta, le lascio qui le zucche – riprese poco dopo la bionda senza nome. – Ne faccia un buon risotto! Devo proprio andare, mi auguro di non averle dato troppo disturbo’
– Ma si figuri, s’immagini! – le rispose il falsario. – &egrave stato un piacere!
Le zucche maledette rimasero nella casa dell’uomo dai baffi arricciati.
Mentre correva lungo il sentiero delle capanne nel bosco, la donna della gerla canticchiava allegramente e pensava al destino di colui al quale aveva fatto quel regalo crudele.
– Mi hanno sempre incantata due amanti che si baciavano davanti alla Pieve dei Morti. Ci andrò ancora, sì, se non altro per vedere che ne &egrave stato di quel monumento! Oh, la tenerezza di due amanti, le loro labbra morbide, i capelli di lei, affettuosamente sciolti sulle spalle, il canto dei cardellini!
Ed invero, i cardellini le volavano intorno, in quegli istanti, spargendo nel vento i loro canti melodiosi, puri, vellutati, simili al pizzicato di cento violini fatti con il legno di quei boschi.
– Oh, il legno, il legno – vaneggiava la donna della gerla – da sempre &egrave il vecchio amico dell’uomo!
I cardellini avevano gli occhi marrone scuro, i loro becchi erano biancastri, rosati, con le punte cupe. Impressionavano soprattutto le mascherine facciali vermiglie degli esemplari maschi, le loro guance bianche, mentre le nuche erano nere. Le loro note apparivano saltellanti e miste, tanto che assomigliavano al cinguettio dei canarini in primavera.
Intorno alla donna della gerla, lungo il sentiero delle capanne nel bosco, credetti di discernere altresì dei fringuelli alpini, che assomigliavano alquanto agli zigoli delle nevi. I becchi erano nerastri ardesia, con base giallastra, le zampe erano nere, le teste erano grigie, azzurrate; il pennello della natura aveva dipinto le loro ali di bianco, benché le primarie fossero nere. Le code sembravano candide, ma le parti centrali erano del color della pece. Scorsi anche dei crocieri, dai caratteristici becchi incrociati e dai versi vivaci.
– Oh, gli amanti, gli amanti! – farneticava la donna della gerla. – Gli amanti, il bosco, il sogno! I canti di felicità!
Quando la bionda andò a trovare il bracconiere, pianse insieme a lui per la sventura che gli era accaduta.
– Oh, quanta mestizia! – gli disse, appoggiandosi al suo braccio. – Vorrei soltanto fosse capitato a me! Sarei meno infelice! Oh, non sai quanto soffro, vedendoti in queste condizioni! Sei tutto sfigurato! Santo Cielo!
– Ma la disgrazia peggiore &egrave che ho perduto la vista all’occhio destro! Con l’altro, non vedo che ombre’
– Credimi, io farò di tutto per restituirtela! Ti renderò ciò che il destino ti ha strappato! Chiederò il miracolo agli spiriti dell’Aldilà, alla buona Arabelle, che ti guarda sempre con i suoi occhi d’angelo! La nostra povera montanara defunta ti &egrave tanto vicina, sai? Tanto, che tu non puoi nemmeno immaginarlo!
– Ah, io non credo più! Non credo più a quelle storie! Non ci ho mai creduto’ Uh, come sono disgraziato! Mi sono ammazzato! Non potrò più andare a caccia! Che cosa diranno di me in paese? Che cosa diranno?
La donna della gerla gli era seduta così vicino, che’ Oh! In quell’istante, mentre gli accarezzava il volto sfigurato con le sue mani dalle dita lunghe, il bracconiere si accorse che la sua interlocutrice traeva di tasca una lunga lettera, scritta con la sua calligrafia da spiritista.
– Sì, Arabelle ti ha scritto ancora ed io ti leggerò il suo messaggio, accarezzandoti le spalle con i miei morbidi capelli’
Così gli disse la donna della gerla.
Poi, prese a leggere la lettera con voce tremante ed affettuosa a un tempo:

“Mese del Melograno, giorno 21, anno astrale 1731.
Mio caro Franz,
nella terra felice in cui mi trovo il tempo va all’indietro ma tutto &egrave giocondità e serenità. La morte &egrave pace, credimi, così come devi credere nell’amore e negli affetti terreni che ti circondano. Il mio non muore mai.
Quassù, i melograni sono in fiore. Alcuni hanno fiori scarlatti, altri turchini; per il resto, sono simili a quelli che crescono sul vostro mondo.
Di tanto in tanto, passeggio lungo il Lago delle Capinere, lungo le cui sponde crescono i mirti più radiosi, le magnolie dell’anima ed i melograni di cui ti ho narrato or ora. Ho al mio fianco i miei parenti defunti, che sono nel fiore degli anni. I loro volti splendono dello splendore della prima giovinezza, le giovani portano dei graziosi cappellini rotondi, ornati di fiori, che brillano assai sotto i raggi amorosi della nostra stella.
Lungo il Lago delle Capinere amoreggiano gli amanti. &egrave vero, nell’Aldilà c’&egrave sempre la possibilità di incontrare i propri amori terreni e di vivere al loro fianco nuove esperienze affettuose. Due giovani si baciano sulla bocca, si abbracciano e si stringono vicino all’acqua, durante le loro vite terrene i cattivi li avevano divisi, ostacolati, resi infelici, tuffandoli nel pianto! Ora, si sono ritrovati in un abbraccio.
Ho saputo di tutto ciò che ti &egrave accaduto. Ti avevo avvisato, ma tu credevi poco ai miei messaggi. Il vederti in quello stato m’addolora. Farò quanto &egrave nelle mie possibilità e nei miei sogni per lenire il tuo dolore, accarezzerò le tue guance malate con le mie dolci mani astrali, le quali renderanno forse la giovinezza e la salute al tuo volto distrutto.
Ti bacio ardentemente, sempre.
La tua Arabelle”.

Dopo che gli ebbe letto quella missiva, la donna della gerla prese a dire al bracconiere ferito:
– Credimi, la tua donna &egrave qui con te, &egrave accanto a te, abbraccia te, schiude le sue labbra su di te’
L’altro le rispose, disperato:
– Chi mai restituirà la perfezione ai miei lineamenti? Chi renderà la luce ai miei occhi feriti?
– La tua donna &egrave qui con te, bacia te, pensa a te’ – gli ripeté la sua interlocutrice.
Forse, era lei la sua vera donna, bella ed inquietante come non mai.
La bionda strinse ardentemente il bracconiere, lo cinse con le sue braccia, poi intonò non so quale canto, ripetendo delle parole affettuose, amorose, che avrebbero consolato chiunque, coccolato il più infelice degli uomini, accarezzato l’anima dell’essere più disperato di questo mondo.
La bionda era vestita di rosso e di nero, la sua chioma sembrava d’oro puro, tanto che brillava’ Oh, come cantava, come cantava! Ma la sua non era una ninna nanna, perché aveva intonato un canto d’amanti, che narrava di sogni felici e senza pianti.
La donna della gerla non fece che promettere amore, amore e amore al povero, caro bracconiere, il quale le singhiozzava sulle spalle e si lasciava toccare come un cagnolino ferito.
– Non fare così – gli mormorava lei, sempre – anche se ti sembra di essere rimasto solo, al tuo fianco c’&egrave un essere che ti ama!
E dalle parole sue non si capiva se quell’essere fosse Arabelle, o colei che gli stava parlando.
– Guarda: oltre la finestra, i rovi dalle mille spine, le siepi, il rovere vecchio! Siamo soli, con i tuoi fucili da caccia, le tue cartucciere, i tuoi animali imbalsamati, i tuoi stivaloni, l’orto ricoperto di erbacce! Siamo soli, io, te e gli gnomi’ Lo spirito di Arabelle ci saluta, ci dice addio, restiamo tu ed io, le nuvole del cielo disegnano i paesaggi dell’Aldilà, i suoi mondi fatati, fatti di pensiero e di lusinghe!
La bionda riprese la sua gerla, che aveva lasciato su di uno sgabello di legno, salutò il bracconiere baciandolo sulle guance, quindi scomparve oltre quell’uscio ormai sbilenco, che cigolò vagamente sui suoi cardini divenuti difettosi.
– &egrave triste che da quando &egrave morta Arabelle, qui dentro non regnino che il disordine e la polvere! &egrave come se fossi morto insieme a lei, anche se in vita non facevo altro che dirle che la odiavo!
Questo borbottò il contrabbandiere, allorché fu rimasto solo con il suo silenzio ed i suoi monti.
– Vedo la Cima dei Tre Falsari, le sue nevi, poi più niente’ Le immagini del passato svaniscono davanti ai miei occhi feriti!
Egli si faceva curare clandestinamente, da un medico suo amico’
Ben presto, lo sventurato s’accorse che gente del paese s’era avvicinata alla casa del rovere vecchio; tutti piangevano, strillavano, si strappavano i capelli e qualcuno urlava disperato.
– All’assassino! All’assassino! Il falsario &egrave morto’ Chi &egrave stato a ucciderlo? Chi &egrave stato?
Così dicevano.
Alcune vecchie strillavano:
– In paese gira un assassino! Nessuno sa chi &egrave! Aiuto! Che Iddio ci aiuti! Un demonio si aggira tra noi! Cacciamolo! Chi sarà mai? Chi sarà? Uh! Aiuto! Hanno ammazzato il falsario! Tutti sapevano che non era un galantuomo, ma nessuno mai era riuscito a coglierlo sul fatto! Forse &egrave morto per la stessa mano che ha freddato il contrabbandiere! Ah, l’assassino! Che Iddio ce ne scampi! Ah, l’assassino delle montagne! L’assassino delle montagne! Ha le mani lorde di sangue e nessuno sa il suo nome! Buon Dio, salvaci da questo demonio infernale, incarnatosi tra gli uomini! Mi sembra di vederlo, il volto insanguinato, la bocca spalancata, l’ampolla di veleno in mano!
La gente correva, si precipitava da un capo all’altro del villaggio, si portava le mani al volto, non smetteva mai di gridare per la paura. Intervennero alcuni gendarmi, che placarono gli animi, dicendo:
– Calma, calma! Non &egrave provato che vi sia un assassino in paese! Sono solo delle voci! Chiacchiere! Non c’&egrave alcuna prova che il morto sia stato ucciso!
Due vecchie canute e sdentate si azzuffarono davanti all’Osteria del Fienile. Io non so ben ridire come ebbe inizio l’alterco, ma la ragione di quel diverbio dovette essere un insulto alla memoria del falsario.
– Zitta, Gina! – diceva una delle litiganti. – Tu non sai chi era il morto! Era un galantuomo, te lo dico io! Era un galantuomo!
– Ma fammi il piacere, che non &egrave vero! Stampava biglietti falsi dalla mattina alla sera! E poi andava a commettere chissà quali sordidi delitti! – rispondeva l’altra. – Tu non sai niente di queste storie di paese!
– Io ne so fin troppo! Ne so fin troppo e tu lo sai bene! Quello era un gran signore, i birboni erano gli altri! Chissà, forse sei stata tu ad ammazzarlo!
– Ma che cosa dici, scimunita!
– Queste parole le devi tenere per te!
– No!
– No!
Le due presero a tirarsi dei sassi.
Poi vennero alle mani. L’una si avventò sull’altra, si presero per i capelli, caddero e ruzzolarono per terra, sollevando nuvole di polvere.
– Ti cavo gli occhi!
Così si dicevano.
Le mani strappavano i vestiti, i capelli, le unghie producevano dei graffi, le bocche proferivano parole offensive, cupe, tanto, che non si possono nemmeno riportare.
Poco dopo intervennero dei gendarmi, che separarono le due litiganti.
E in paese si continuava a ripetere:
– All’assassino! All’assassino! Un demonio s’aggira tra noi!
Alcuni si chiudevano in casa, sprangavano gli usci e le imposte, per la paura. Tempo dopo, quella che era stata la preoccupazione dei più spaventati diventò la regola, tanto che la gente non usciva quasi più di casa, per timore di incontrare il mostro e di essere sgozzati in qualche viottolo desolato.
Una volta, purtroppo, accadde quanto i più temevano, vale a dire che, poco dopo il calar del sole, uno sventurato osò uscire di casa tutto solo e, lungo uno di quei viottoli grigi, deserti, tenebrosi, illuminati da pochi e vaghi lampioni, incontrò qualcuno che lo uccise. I vicini udirono le sue grida, videro il sangue da dietro le imposte, ma nessuno osò andare a soccorrerlo prima dell’aurora seguente.
Lo ritrovarono morto sul pavé, in un lago di sangue’ Era un padre di famiglia.
– Cielo, non può essere vero! – gridavano nel villaggio. – L’assassino ha colpito ancora! Ha ucciso di nuovo! Ah, il mostro, il demonio!
Che grida nere, cupe, terrorizzate, che nulla avevano di umano! Sembrava che un branco di lupi famelici fosse entrato nel villaggio e l’avesse insanguinato!
– L’arma del delitto! L’arma del delitto! – gridavano i più. – Non si trova’ No, non si trova, non si trova!
Io non so chi fosse stato ad uccidere quel passante, lungo il viottolo della morte’
Ah, le montagne sembravano maledette!
Tempo dopo, il bracconiere passeggiava lungo una delle stradine di un borgo vicino, appoggiandosi con una mano al braccio della donna della gerla e con l’altra ad un bastone.
– La tua Arabelle ti ha scritto ancora, da una sponda del Lago delle Capinere – gli sussurrò la bionda, in un orecchio. – Ti ha scritto per mandarti i suoi languidi baci, per parlarti del suo folle amore, più tenero delle mie carezze, sì, di quelle che ti sto facendo in questi istanti, mio povero caro!
– Oh, come sei buona! – farfugliò il bracconiere. – Almeno tu mi consoli!
– Pensa che adesso il Lago delle Capinere &egrave tutto in fiore’ Le rive sono amene, le ingombrano anche i tigli e gli ontani astrali, che le abbelliscono più dei melograni’ Su, prendi la mia mano, fa’ come se volessimo giocare a girotondo’
La donna della gerla si divertì a prenderlo, a farlo girare forte, tutt’intorno, cercava di indurlo a sorridere, invano, invano, invano!
– Io non vedo più il mondo! – piagnucolò il bracconiere, bestemmiando. – Io non vedo più le case, i tetti, i fanciulli giocare! Io non vedo che fantasmi! Il mio volto &egrave orribile! Non lo bacerà mai più nessuna giovane’
– Ma che dici? Io lo sto baciando, in questi istanti! – esclamò la donna della gerla, così bionda, così bella.
Poi gli disse in un orecchio:
– Se vorrai, andremo insieme a visitare il Lago delle Capinere’ Ti farò stringere la mano della cara Arabelle, vi ritroverete, vi amerete ancora, più di prima’ Oh, il Lago delle Capinere! Vuoi venire con me, Franz? Vuoi venire nella felicità dell’Aldilà? Quale sentimento ti ispirano le mie dolci parole? Lei ti vuole, mio caro Franz’ Lei ti ama e vive ancora!
In quel mentre, i due passavano dinanzi ad una fontana di marmo bianco. Il bracconiere volle immergervi il proprio volto, i capelli e’ Lo fece, aiutato dalla donna della gerla, la quale non desiderava certo affogarlo. Quando si rialzò, gli parve di vedersi riflesso su quelle acque con un viso giovanile’ Forse, fu soltanto un’illusione, non so’
– Non sarà mai più come prima! – esclamò il bracconiere, non appena vide svanire davanti a sé quella sorta di miraggio, del quale vi ho narrato or ora. – Lasciami, voglio uccidermi!
– No, che dici, mio caro Franz! – gli mormorò l’altra, tutta accorata. – Devi pensare al bene ed all’amore’ Ora ti leggerò un appunto che mi fece scrivere Arabelle, con la calligrafia dell’Aldilà!

“Dobbiamo essere nell’amore, dobbiamo vivere nell’amore, pensare all’amore, lasciare che l’amore possegga ogni particella dei nostri corpi e delle nostre anime’ L’amore non uccide, l’amore non muore mai, l’amore &egrave vita e non si stanca mai di amare”.

Dopo che la donna della gerla gli ebbe letto queste parole, con voce tremante, il bracconiere scoppiò a piangere come avrebbe fatto un bambino. Le sue lacrime furono così copiose, che la sua compagna fu costretta a prendere un fazzoletto, per asciugargli il volto consunto.
– Non devi fare così! Devi credere nell’amore! – gli disse la bionda. – Anche se l’amore, a volte, uccide.
Proprio allora, dinanzi ai due passava un gruppo di cacciatori, con i fucili in spalla ed i carnieri colmi di pernici, di fagiani di monte, di lepri abbattute chissà dove. Uno di loro recava un cervo morto sulle spalle. Cantavano in coro. Un cacciatore portava un gran corno da caccia sulla spalla ed intonava non so quale melodia. Faceva il solista.
– Per fortuna che tu non puoi vederli – sussurrò la donna della gerla. – Susciterebbero in te talmente tanta malinconia, che nessuno riuscirebbe a trattenere la tua mano, pronta a commettere suicidio, pronta all’uccisione di te stesso’
– Chi sono costoro? – le chiese il bracconiere. – E dove vanno? Dimmelo, o donna! Dimmelo, prima che io lo sappia dalle labbra altrui!
Ma l’altra gli rispose fischiettando chissà quale aria di montagna. I suoi fischi vaghi si spensero nel vento dei monti, nel sospiro lontano dei laghi alpini, sui quali si affacciavano i rifugi costruiti nell’Ottocento, le scuole abbandonate, i villaggi fantasma, le malinconie del mistero.
Un giorno, il guardiacaccia andò a bussare all’uscio della casa del rovere vecchio.
– Sono venuto per parlare con Franz! – gridò, con la voce di un buontempone che giocava a fare la guardia. – Se c’&egrave qualcuno in casa, deve sapere che &egrave meglio per lui che venga ad aprire, altrimenti saranno guai!
Fu la donna della gerla ad aprirgli l’uscio.
– Me lo chiami, per favore! – disse il guardiacaccia. – Sono qui solo per lui! &egrave ora di dirgli che &egrave arrivato il momento di mettere fine a questa faccenda!
La lunga chioma d’oro di quella giovane abbagliò quel vecchio marpione. Fu come se lo incantasse, di un incantesimo in grado di far restare senza bocca e senza parole.
– Un istante, glielo chiamo – rispose la donna.
– Ah, sei venuto nella tana del lupo! – gridò Franz, all’improvviso. – Aspetta che prendo un fiasco di vino, per rompertelo sulla testa!
Ma stava solo scherzando.
– Ehilà, vecchio, non scaldarti tanto, sono venuto per dirti che &egrave ora di finirla e di fare pace, da buoni amici!
Questo esclamò il guardiacaccia.
Era vero, egli aveva deciso di fargli visita soltanto per riappacificarsi. Poi aggiunse:
– Dammi la mano, che te la stringo, facciamola finita una volta per tutte! Beviamo alla tua salute!
E così fecero.
I due bevvero, si ubriacarono, cantarono, ballarono, saltarono, ma l’allegria non riusciva più a fare ritorno sul volto del bracconiere.
– Ehi, non ti sono bastati i guai con la giustizia che hai avuto una volta? Ne vuoi ancora? – gli chiese il guardiacaccia.
– Ma quali guai? Nessuno &egrave mai riuscito a prendermi! – rispose l’altro.
– Eh, dai, lo sanno tutti che sei un bracconiere di mestiere! Stringiamoci la mano, siamo finalmente amici, dopo tante battaglie!
Detto questo, il guardiacaccia prese per mano il suo compare e i due, fatta amicizia, uscirono a fare una passeggiata nel bosco.
La donna della gerla li guardò svanire oltre la finestra, mentre un sorriso cupo le infestava il volto, come un fantasma. Io non so che cosa le fosse balenato in mente, chissà, chissà quali pensieri, quali sentimenti la dominavano!
Dovete sapere che, sull’altro versante della giogaia di monti in cui si trovava il borgo in cui abitava il bracconiere, era stata costruita la Diga Grande. Grigia, altissima, serviva a contenere un lago dalle acque verdastre, malinconiche, ove guizzavano le trote e si specchiavano boschi di faggi. In prossimità della casa del guardiano, c’era una chiesetta abbandonata, chiusa, non ancora diroccata, che si specchiava confusamente sopra quelle acque verdastre, tristi, quanto una vita che si spegne vagamente dopo una successione di immagini di pianto ed una malattia che brucia, consuma ed arde, come la fiamma di una candela.
– Oh, sì, sì! La vita di molti montanari assomiglia all’acqua di questo lago – disse la donna della gerla. – All’inizio &egrave fanciullezza, &egrave giovinezza, sei pronto a illuderti di sogni felici, ma nessuno li realizza e svaniscono come nubi davanti ai tuoi occhi, con il passare inesorabile degli anni’ Il fuoco del tempo trasforma la giovinezza e la vita umana in cenere, la felicità diventa illusione, non restano che volti deturpati dalla vecchiaia, i capelli biondi diventano grigiastri, i morti ti circondano, finché la morte non viene a bussare anche alla tua porta! Anche i ragazzi piangono, gli animali del bosco, gli alberi e le piante piangono, piangono, piangono! Baci di tristezza, palpiti, lusinghe’ Parole d’addio, lacrime, scintille!
Il guardiano della diga era un uomo non più giovane, che s’appoggiava al bastone e portava indosso non so quale divisa. La donna della gerla andò a bussare alla sua garitta, finché l’altro non le aprì e le permise di entrare a salutarlo.
– Bella giornata, oggi, vero? – gli chiese lei.
– Ha bisogno di qualcosa? Lo sa che &egrave pericoloso venire soli da queste parti? – le disse il guardiano della diga.
– La luce del sole &egrave così amena, quassù’ Illumina i miei occhi, riscalda la mia anima, nutre i miei sogni’ Oh, quanto amo questo paesaggio di montagna! Sono venuta qui soltanto per vederlo!
– Che cos’ha in quella gerla?
– Niente, sono qui per raccogliere funghi. Ah, i porcini, i chiodini, le strofarie! Non bisogna confondere i funghi buoni con i funghi cattivi. Lei sa che c’&egrave anche il porcino del diavolo’
– Non l’ho mai sentito nominare. Forse se lo &egrave inventato lei?
– No, affatto’
A quel punto, la donna della gerla scoppiò a ridere fragorosamente.
– Ma quanto &egrave grande la diga? – chiese poi al suo interlocutore. – E quanto &egrave profondo il lago?
– Perché me lo chiede? ‘ le disse il guardiano.
– Pura curiosità!
L’altro le rispose e le mostrò altresì una grande carta geografica, anzi, una mappa, che la bionda scrutò con profondo interesse. Poi, la vidi chinarsi sull’orecchio del guardiano della Diga Grande, che stava seduto davanti a lei’ Gli sussurrò parole affettuose, parole d’amore, che non desidero riportare. Forse, tentava di sedurlo.
– Ma sì, sì’ – disse poi la donna della gerla. – Parliamo ancora di questo lago dalle acque verde smeraldo, dei faggi che dimorano lungo le sue sponde, dell’imbarcadero che, d’estate, permette di sbarcare sull’isolotto’ C’&egrave un isolotto, vero?
Poi la bionda appoggiò le mani sugli spallacci della sua gerla, avvicinò le sue labbra alle guance di lui, come per dargli un bacio e gli sussurrò languidamente:
– Ma lo sai che a me piace giocare col fuoco?
Non gli disse altro. Si voltò, lo salutò con un cenno della mano ed uscì dalla sua garitta, con la gerla sulle spalle. Cantava chissà quale canto di montagna.
– O amici boschi, selve e valli brune’ O amici faggi, sentieri in fiore e laghi verdeggianti! O amici boschi, selve e valli brune’ O amiche nebbie, sulle acque, le rocce e gli stambecchi! Ho visto i picchi dai lunghi becchi. Erano neri e giocavano con i merli. O amici boschi, selve e valli brune’ O amiche brume, lassù, dove abitano gli orsi!
Ella accompagnava il suo canto con dei fischi melodiosi, dolci, che avevano la stessa tenerezza delle sue labbra e sembravano provenire da chissà quali cori angelici.
Passando lungo la diga, si affacciò al parapetto. Sotto di lei si apriva un abisso. Poi contemplò le acque verdastre del lago. Era come se ne fosse stata la padrona.
Ricordo confusamente che, poco prima, la bionda aveva chiesto al guardiano, con voce annoiata:
– Ma che cosa mai succederebbe se si rompesse la diga?
La risposta era stata tragica, poiché tutti i borghi vicini sarebbero stati sommersi.
Ad ogni modo, il guardiano non ebbe modo di raccontare a molti quel suo incontro con la donna della gerla. Infatti, pochi giorni dopo lo ritrovarono insanguinato e senza vita nella sua garitta. Teneva sulle ginocchia una bottiglia di Dolcetto del Monferrato, tutta rotta’ I più si spaventarono e dissero che gli era venuto un colpo. Era stato come se un’ombra nera fosse scesa su di lui. Ah, il mistero di quella morte! Io non so’
Io non vi narrerò altro a proposito del guardiano della Diga Grande’
Piuttosto, vi parlerò di come, pochi giorni dopo, all’uscio della casa in cui un tempo abitava Arabelle, andò a bussare un uomo tutto vestito di nero, che camminava appoggiandosi ad un bastone e sembrava il becchino del piccolo cimitero di quel borgo.
– &egrave forse venuto a prendermi? – chiese il bracconiere, andando ad aprire, barcollando. – Guardi che si &egrave sbagliato, io appartengo ancora al mondo dei vivi!
– Signor Franz, io vengo per condurla dalla signorina bionda, sua amica, nel Rifugio degli Stambecchi.
– Poteva venire lei da me! – brontolò l’altro, con una voce tutt’altro che cortese. – Accidenti, io non sono il suo servitore!
– Si calmi, signor Franz, mi lasci entrare, per cortesia; non vengo per portarla ad un funerale. Io sono amico della signorina’ So che lei ha bisogno di aiuto, di cure. Io sono qui per questo, lo sa?
– Mah! Io non la conosco!
– Io non sono un becchino, sono un autista. Qui fuori ho parcheggiato la vecchia Fiat Balilla con la quale desidero condurla dalla sua cara amica, che la aspetta ansiosamente. Pensi che mi ha incaricato di riferirle che &egrave pronta a farle riabbracciare la sua Arabelle! Sì, la sua sposa perduta’
– Possibile? Urca, ma io non ci credo! Tutte sciocchezze!
Ad ogni modo, l’autista convinse il bracconiere a salire sulla vecchia Fiat Balilla. Era una vettura dalla carrozzeria verdastra, riverniciata più volte, che faticava un poco ad andare su per le tortuose salite di montagna. Gli abitanti del villaggio si incuriosirono, vedendola passare; alcuni rimasero sbigottiti da quella sorta di visione. Il bracconiere sembrava molto triste ed infelice, chiuso dentro quella vettura; si sarebbe detto che l’autista fosse il suo carceriere. Ricordo che Franz prese un vecchio giornale ingiallito per ripararsi dagli sguardi incuriositi dei passanti.
– Fate largo! – diceva, come tra sé. – Non guardatemi! Non voltatevi nemmeno!
La strada fu piena di tornanti. Non si faceva che salire, lungo il fianco di chissà quali montagne; ricordo che il percorso era solo in parte asfaltato e per un lungo tratto la vecchia Balilla dovette affrontare una strada di sassi. A sinistra del bracconiere c’era il fianco di un monte, a destra il burrone, il baratro. La valle era lontana, sotto le nubi biancastre ed i loro vapori misteriosi.
– Ah, montagne maledette! Montagne maledette! – diceva sottovoce il bracconiere. – Già mi foste fruttuose apportatrici di fagiani maestosi e lepri selvagge, poi diventaste perfide e avare, tanto da serbarmi soltanto inseguimenti, guardie e fucilate! Ah, montagne maledette, montagne maledette, cime consacrate alle streghe ed ai diavoli delle vette, dove si consumarono mille fatti di sangue, di contrabbando ed indicibili vendette! Un tempo, avevo i carnieri colmi di selvaggina insanguinata, gli schioppi fumanti, inseguivo le prede con i miei segugi ansanti! Suonavano i corni di caccia. Ora, più non discerno che ombre e destini di morte! Ah, montagne maledette, sarete le mie tombe, così come lo foste per la mia sposa innamorata e perduta! Ho rivisto il capriolo del mistero! Lo vedo anche ora, dinanzi ai miei folli occhi! Da piccolo desideravo abbatterlo, ma non gli sparai, non lo feci mai, poiché era uno spirito dei monti, che mi avrebbe salvato dall’ira dei miei morti! O faggi, o abeti vetusti, o pini nani, giganti dei prati, amici delle vette, fummo insieme gli schiavi delle montagne maledette! Ah, montagne maledette, carnieri, fucilate e insidie immense!
Questo il delirio di Franz.
L’autista lo udì e gli chiese se avesse bisogno di una sosta. Invero, il bracconiere non l’avrebbe mai ammesso, ma stava per vomitare. I tornanti gli avevano fatto male, così come l’alta quota.
Il Rifugio degli Stambecchi era ormai a breve distanza. L’avevano costruito nell’Ottocento, in prossimità del confine. Era un vecchio fabbricato fatto di mattoni rossicci, il tetto era spiovente, marrone chiaro; all’interno, l’edificio era tutto tappezzato di legno, vi erano molte stanze ed innumerevoli focolari, nonché delle stufe a carbone. Le nevi perenni ricoprivano in parte il sentiero e la strada di sassi che colà conduceva.
– Siamo arrivati – disse il conducente, fermando la vecchia Fiat Balilla, prima di scendere ed aprire lo sportello del bracconiere. – La donna della gerla la sta aspettando per parlarle dell’affetto della sua Arabelle.
Franz ebbe appena il tempo di scendere. Il suo interlocutore era già risalito in macchina, aveva messo in moto e si accingeva a ripartire.
– Ma come tornerò in paese? Chi mi guiderà? Non se ne vada! Non mi lasci qui! – protestò il bracconiere, bestemmiando come era solito fare.
– La sua amica bionda avrà cura di lei, non si preoccupi! – gli rispose l’altro, sporgendosi dal finestrino, mentre si allontanava a passo d’uomo a bordo della vecchia Balilla.
Franz si voltò ed entrò nel Rifugio degli Stambecchi.
Fu la padrona ad andargli ad aprire; la prima cosa che vide fu un tavolo, al quale erano seduti tre vecchi, che giocavano a carte.
– Una giovane donna bionda la sta aspettando davanti al focolare – si sentì dire il bracconiere. – Venga, la condurrò da lei.
La stanza in cui la donna della gerla aspettava il suo caro amico era piccola, aveva il pavimento di legno e ad una delle sue pareti era appesa una testa di cervo imbalsamata.
– Vieni qui, povero piccolo – disse la bionda, non appena i due furono rimasti soli. – Hai bisogno di coccole, di aiuto’ Siamo qui, tu ed io, oltre la finestra ci sono soltanto montagne bianche e pendii immacolati per l’Eterno!
– Fammi parlare con lei! – disse Franz, singhiozzando e piagnucolando. – Fammi parlare con lei, o mi butto in un burrone! Non ne posso più di questa vita! Ne ho abbastanza di queste montagne maledette! Anche se non riesco più a vederle, &egrave come se mi uccidessero!
– No, piccolo caro, no’ Non disperare! Andrà tutto bene!
– Fammi parlare con lei’ Fammi parlare con lei’ Fammi parlare con lei’
– Sì, sì, tesoro, ti farò parlare con la tua amata Arabelle, se &egrave questo che desideri. Oh, lei vorrebbe tanto stringerti, abbracciarti, coccolarti’ Ora &egrave addormentata e ti sogna, lungo il Lago delle Capinere! Io sono spiritista, io sono medium, me ne intendo!
– Mi avevi parlato di quella cosa’
– Quale cosa, piccolo caro?
– La medianità materializzatrice! Sì, la medianità materializzatrice’ Esiste, non &egrave così? &egrave vero che, a questo mondo, esistono delle persone buone, in grado di far apparire i nostri cari che vivono nell’Aldilà?
– Oh, sì, &egrave vero! Esistono’ Io sono la donna della gerla, Franz, ti giuro che sono una di loro’ Amore, tesoro, guardami negli occhi, perché ti adoro!
– Parlami di Arabelle’ Raccontami dell’Aldilà!
La bionda della gerla si sedette su di una sedia a dondolo e volle che il suo amico si sedesse sulle sue ginocchia; poi si mise a cantargli non so che cosa, mentre nel camino bruciava un fuoco di rovere, lo stesso albero che contraddistingueva la casa in cui avevano vissuto i due amanti, un tempo. Accanto a quel focolare era rimasta una gerla, vuota. Non era altro che una cesta, fatta di viburno, a forma di tronco di cono rovesciato, aperta in alto e con due spallacci fatti di legno di nocciolo.
– Come sai, io ti ho fatto venire quassù, nel Rifugio degli Stambecchi, o Franz, per portarti da lei! – disse la donna della gerla. – Tu non ci crederai, ma l’autista che guidava la vecchia Balilla era uno spirito dell’Aldilà’ Sì, un’intelligenza dell’Aldilà, Franz! Io stessa sono un essere dell’Oltretomba’ Sono uno dei deva, discesi sulla terra molti anni or sono! La mia giovinezza non ha fine, così come la mia vita! Alcuni deva si congiunsero carnalmente agli esseri umani e ne nacquero i semidei’
La voce sua svaniva nel rumore del fuoco, che divorava i ceppi di rovere.
– Qualcuno ci ama, Franz – disse poi la donna della gerla. – L’amore ci ama e ci dona splendore’ Oh, sì, l’amore &egrave l’eterna giovinezza!
– Io non so se quello che dici &egrave vero – mormorò il bracconiere. ‘ Non vedo che ombre’ Ma so che nei tuoi occhi, oltre alla Luce, arde e brucia il supremo Male!
Sulle labbra dell’altra apparve un sorriso maledetto.
Poi la bionda ammaliante si mise a leggere le seguenti parole, lassù, nel Rifugio degli Stambecchi.

“Mio caro Franz,
la scorsa notte ho aiutato un orfano che soffriva. Chiamava la sua mamma, voleva la sua mamma, che non c’era’ Io l’ho sostituita ed ho placato le sue sofferenze con le mie carezze. La vita, quassù nei mondi astrali, scorre felice, tanto che io non ho quasi più memoria delle infelicità del mondo. Una carrozza fatta di pensiero mi conduce ogni mattino sul Colle della Tranquillità, dove incontro le anime arrivate da poco, che mi stringono la mano e mi chiedono di guidarle nell’Aldilà, la loro nuova dimensione. Se solo tu sapessi di quale felicità &egrave possibile godere quassù, non una lacrima potrebbe più sfiorare i tuoi begli occhi. Preparati, poiché dopo che avrai letto queste righe io ti apparirò e verrò a consolarti di persona. Non faccio che sognare di renderti felice. Ti prometto che lo sarai’
Baci, dalle sfere astrali dell’immenso.
Arabelle”.

– &egrave ancora viva! Chiunque sopravvive alla morte! Oramai ne sono certo! In quelle sue parole &egrave racchiuso l’amore’ Ah, montagne maledette, che mi separaste da lei! – disse Franz.
Poco dopo, la donna della gerla gli mostrò una bottiglia di Dolcetto del Monferrato, lo stesso vino che aveva bevuto il guardiano della Diga Grande, nella sua garitta, prima di andarsene’ Ella la stappò e bevette con lui, dallo stesso bicchiere.
– Questo &egrave il vino dell’Aldilà – sussurrò, con voce magica.
Era vero. Poco dopo, apparve Arabelle, alla luce delle fiamme’ I due la salutarono con indicibile affetto. Franz, inebriato, si gettò ai suoi piedi. La vide bianca, avvolta da una luce dorata, gli occhi suoi tradivano lo splendore di un paradiso senza fine, di una vita senza tramonto, un tesoro che forse nessuno possedeva sulla terra.
– Vieni con me nell’Aldilà, Franz! ‘ disse quell’apparizione. ‘ Sono la tua cara montanara defunta’ Dammi la mano’ Siamo di nuovo insieme!
Il volto suo brillava quanto le fiamme che incendiavano i ceppi del camino. Ad un tratto, al bracconiere parve che fosse fatto degli stessi bagliori di quel fuoco.

Non vi narrerò altro di quanto accadde nel Rifugio degli Stambecchi. Ad ogni modo, fu come se la languida montanara defunta prendesse per mano il suo marito terreno, per condurlo con sé lungo le sponde amene del Lago delle Capinere.
Poi, tutto si dissolse nella nebbia, la stessa che avvolgeva le più alte vette ed i pendii.
Al calar del sole, il Rifugio degli Stambecchi era visibile da lontano, persino dal confine. Le sue poche finestre illuminate, il suo tetto spiovente, che allora si tingeva di nero, quella sorta di lampione grande, che avevano appeso tra il primo ed il secondo piano, lo facevano assomigliare ad una casa di impiccati. Si sarebbe detto che vi abitassero soltanto dei vecchi, dalle lunghe barbe incolte e dai lunghi capelli grigiastri, in attesa che scoccasse la loro ultima ora.
Attraverso quelle finestre che brillavano di luce giallastra, tra le rade nevi perenni, sembrava di discernere delle figure nude, che consumavano chissà quali amplessi bollenti, chissà quali accoppiamenti violenti, bestiali, al suono di grida che non si possono narrare. Pareva di assistere a scene di delitti, fatte di figure nere, arcigne, che tenevano in mano pugnali e bastoni, vittime che portavano le mani al volto, per gridare tra gli spasimi dell’agonia, immagini di giovani, che avevano le gole strette da catene di ferro gelido.
Ricordo che la donna della gerla volle caricarsi il bracconiere sulle spalle e così lo riportò a valle. Lui appoggiò affettuosamente, teneramente la testa sul dorso della sua compagna. Lungo il sentiero, la giovane non fece che raccontargli delle favole, delle storie di cacce ed inseguimenti attraverso le Alpi. Qua e là, a tratti, si vedeva qualche averla capirossa, volatile dagli occhi marrone scuri, dal becco nero bluastro; i maschi hanno il capo e la nuca rossi, il dorso nero, con aree bianche sulle ali, mentre il groppone propriamente detto &egrave bianco, la coda &egrave nera, bordata di bianco, il ventre &egrave candido. Le femmine di quella specie sono simili ai maschi, ma più sbiadite. I loro nidi sono fatti come delle coppe di rametti, riempite con materiale più soffice e si trovano su alberi o cespugli alti. Vi erano altresì delle cince dal ciuffo, delle cince bigie alpestri, nonché dei gracchi alpini, che riempivano l’etere vago con i loro fischiati e acuti ‘crrii’, ‘crru’, emessi in volo, da quegli uccelli radunati in stormi volteggianti.
Si distinguevano inoltre delle nocciolaie, uccelli che devono il proprio nome alla golosità per le nocciole. I loro becchi apparivano neri, lunghi e robusti, i sessi erano simili, i piumaggi erano marrone cioccolato, punteggiati di bianco. Le teste sembravano, per contro, senza punteggiature. Le ali erano nere. Ricordo che le voci delle nocciolaie risuonavano alquanto rumorose, i loro versi assomigliavano a quelli delle ghiandaie, i loro canti erano fatti di note sommesse e gracchianti.
– Ti riporterò a casa tra le mie braccia, come se fossi il mio bambino – disse la donna della gerla a colui che portava sulle spalle.
– Ah, davvero io non so dove tu possa trovare tanta forza! – mormorò Franz, sorpreso dalla resistenza fisica della bionda.
– Se non erro, ho già avuto modo di dimostrarti che nascondo in me qualcosa di magico, di soprannaturale’
L’ombra di lei, che si disegnava al suolo, faceva paura. Il bracconiere credette di discernere un lungo pugnale appuntito, appeso alla cintola della sua dolce amica’ Non lo avrebbe usato nemmeno per fare del male ad una mosca, si disse lui. Forse, i suoi occhi lo ingannavano, perché non erano più in grado di vedere che fantasmi, da tanto tempo! Io non so se al Rifugio degli Stambecchi egli era stato in grado di vedere veramente Arabelle o aveva più semplicemente avuto una visione!
Rammento che, pochi giorni dopo, il bracconiere e la donna della gerla si trovavano insieme, nella cantina della casa del rovere vecchio, in mezzo alle damigiane. La stanza era ingombra di vapori e lui protestava’
– Mi avevi promesso che il mio volto avrebbe riacquistato lo splendore di un tempo! Mi avevi promesso la vista, la giovinezza, i sogni! Mi avevi promesso tutto questo e non ho avuto nulla! Il mio viso &egrave rimasto quello dell’incidente!
Questo ripeteva Franz.
Ma l’altra gli rispondeva cantando chissà quale canto di montagna.
– Finiscila! – gridò il bracconiere, infuriato. – Rispondimi, una buona volta!
A quel punto, la donna della gerla gli rispose sghignazzando.
– Ah, bella mia! Io non conosco il tuo vero nome, ma ti auguro che tu non mi stia ingannando! Se fosse così, meglio sarebbe per te essere inghiottita dai burroni più cupi delle Alpi! – tuonò il bracconiere.
– Prova a prendermi’ – gli disse allora la sua amica. – Su, prova a prendermi, avanti! Coraggio, sono davanti a te! Vedi se ci riesci!
Ella stava giocando con lui come un gatto può fare con un topo. L’aveva fatto arrabbiare e si faceva beffe della sua cecità, dei suoi occhi che vedevano soltanto ombre e fantasmi, lo faceva correre su e giù per la cantina della casa del rovere vecchio, si divertiva a vederlo inciampare, cadere, urtare le damigiane, le botti, i salami e i prosciutti appesi alle pareti, i muri. La bionda sghignazzava, applaudiva, battendo le mani, si complimentava con quella goffaggine disperata.
– Uh! Guarda, sei a un soffio da me! Non mi vedi? Povero piccolo! Avanti, su! Acchiappami! Dammi il castigo che merito!
– Ah, maledetta! Sei più maledetta di queste montagne! Più maledetta dei cinghiali, assetati di sangue! Più infida dei corvacci di monte, delle tortore dai canti disperati, degli alberi dai tronchi scavati, che ospitano le vipere! Ah, sì, tu sei la maledetta della gerla!
– Prendimi, prendimi, prendimi!
Così si parlavano i due.
A quel punto, il bracconiere cadde e si fece male al naso, che divenne insanguinato.
– Smettila di gracchiare! Guarda che mi hai fatto! – le gridò l’infortunato.
Ma la maliarda gli voltò le spalle e lasciò la casa del rovere vecchio in men che non si dica.
Le campane del villaggio suonarono di nuovo a morto. Questa volta, era toccato ad un montanaro che costruiva gerle. L’avevano trovato senza vita davanti al calderone del suo focolare. Non era stata una disgrazia, perché aveva una catena tutta arrugginita che gli serrava la gola.
– Chi &egrave stato? – gridavano le vecchie, agitando al vento i loro fazzoletti neri. – Chi &egrave stato? Ah, quale demonio si aggira nel villaggio! Chi &egrave stato’ Ah! Quanto sangue!
Ma le loro maledizioni svanirono, nel silenzio delle vette e dei pendii.
Ricordo che in paese c’era un bravo orologiaio, giunto da poco. La donna della gerla entrò nella sua bottega, tutta decorata di pendole di varie forme e dimensioni, lo salutò come se fosse stata una sua vecchia amica e lo guardò a lungo negli occhi. Il suo interlocutore portava degli occhialetti rotondi ed aveva indosso una sorta di camice bianco.
– Io sono stato in Svizzera, ad imparare l’arte di costruire gli orologi – le sussurrò l’uomo.
– Interessante – gli rispose lei.
Poi, però, l’orologiaio afferrò la bionda per i capelli e le disse con violenza:
– Ma dove credi di andare? So tutto di te! So chi sei e quali delitti hai commesso! Ti conviene lasciare il paese, finché sei in tempo, perché tra poco andrò dalla polizia a denunziarti! Allora, tutti sapranno chi sei e contempleranno il tragico fardello delle tue malefatte! Ti sputeranno sul viso e per te sarà inutile coprirti il volto con le mani!
– Ah, ma chi sei tu? Chi sei? ‘ gli chiese la donna della gerla.
– Andrò dai gendarmi’ Andrò a denunziarti! Sei stata tu ad uccidere mio fratello, il costruttore di gerle! Ora ne ho la certezza. Se così non fosse, i tuoi occhi non brillerebbero in modo tanto sinistro! Sei tu il demonio di questo paese!
– Buon Dio, no! Non &egrave vero’
L’altra rantolava. L’orologiaio l’aveva afferrata per la gola e la stava quasi soffocando, davanti alle pendole ed agli orologi di varie forme e dimensioni. Alcuni erano decorati con delle bambole, che segnavano le ore. Altri recavano delle statuette e delle figure di cacciatori, guardiacaccia, contrabbandieri, briganti, vecchie che portavano dei sacchi di juta sulle spalle.
– Ah, lasciami! Lasciami, me ne vado! – rantolò la donna della gerla, cercando di sfuggire a quelle mani di ferro, che le stringevano il collo.
Poi si liberò da quella stretta ed uscì dalla bottega dell’orologiaio, correndo come una disperata e senza mai voltarsi indietro.
Una di quelle notti, il bracconiere non fece altro che girarsi e dimenarsi nel suo letto’ Una voce gli parlò nel sonno. Egli si sentì dire:
– Franz’ Devi venire da me, fa’ presto! Sali lungo il sentiero che costeggia il torrente, lascia alla tua destra la Locanda Abbandonata, imbocca il troi delle vipere, poi quello delle noverche canute ed in men che non si dica sarai da me’ Il mio spirito ti guiderà!
Era la voce della donna della gerla.
Franz non poté resisterle ed obbedì a quell’ordine, impartitogli nel sonno dalla voce del mistero. Ricordo che egli si fece guidare da un’anziana del villaggio, tutta vestita di nero, perché da solo non sarebbe mai riuscito a trovare la strada. Poi la congedò, regalandole una moneta.
La casa era poco più che una capanna nel bosco. Al bracconiere parve disabitata e forse lo era. L’uscio rimaneva sempre semiaperto, sbilenco e cigolante. Alle pareti erano appese molte gerle, di varie forme e dimensioni. Alcune erano fatte di viburno, altre di legno, altre ancora di vimini. Tutte erano munite di spallacci o di cinghie. Alcune erano state dipinte di nero, altre di verde erba, altre ancora erano rimaste del colore dei materiali con cui maestri artigiani d’altri tempi le avevano costruite. Vi erano altresì dei bastoni, di noce o di frassino, delle piccozze, delle mannaie per spaccare la legna, dei bauli che contenevano dei costumi da montanari ed altre mercanzie.
La mia fantasia fu catturata soprattutto dalla vista di un orologio a cucù, che sembrava tutto di legno, era dipinto di bianco e di verde bottiglia e ticchettava senza sosta.
– C’&egrave nessuno in casa? ‘ gridò il bracconiere, che aveva il suo fucile in spalla.
Poi sussurrò:
– Anche se ho con me il mio schioppo, non potrei sparare che alla cieca! Non sono più quello di una volta, i miei occhi non fanno che tradirmi’
Non gli rispose che il vento del bosco.
– Ah, faggi e frassini maledetti, al pari dello spirito di colei che mi ha condotto in questo luogo! ‘ brontolò Franz.
Egli trovò una lettera sul tavolo. Era scritta con la calligrafia dell’Aldilà. Riuscì a leggere solo poche parole, come per miracolo. Riporto di seguito il contenuto dell’epistola.

“Dal Lago delle Capinere, 11 Febbraio dell’anno astrale ***.
Mio caro Franz,
guardati dalla donna della gerla, dalle sue parole e dalle sue gesta. Ella &egrave bionda e senza cuore, ha stipulato un sordido patto di sangue con gli spiriti del Male e si finge un angelo della carità. Lascia questa capanna nel bosco non appena ti &egrave possibile. Sii amico dei cervi, dei caprioli e dei camosci, ma, in nome del Cielo, guardati da quella donna, dalla gerla bagnata di sangue!
Brucia questa lettera nel fuoco, subito dopo averla letta!
Baci affettuosi.
La tua Arabelle”.

Fu allora che l’orologio a cucù si mise suonare e ad annunziare che ora fosse. Era l’ora del destino.
Il bracconiere avvicinò quel foglio ad una candela accesa. Mentre le fiamme lo divoravano, dapprima tra le sue mani, poi sul pavimento, sul quale lo lasciò cadere, egli sentì l’uscio richiudersi alle sue spalle e qualcuno che sghignazzava. Si voltò e credette di vedere lei, la donna della gerla.
– Sì! Hai indovinato! Sono io, io, io! ‘ gli disse l’altra.
Non gli diede il tempo di risponderle, perché gli si avvicinò, lo strinse tra le sue braccia e prese a baciarlo ardentemente sulla bocca. Sembrava che volesse mangiarselo. Poi si spogliò nuda davanti a lui, si fece toccare le cosce, le caviglie, che sembravano scolpite nel marmo, i piedi grandi, le guance e la schiena giovanile. Poco dopo, ella si distese su una panca, lo mise sopra di sé, come un caprone, quindi i due consumarono un rapporto sessuale di fuoco. Furono come due bestie selvatiche, due stambecchi o due fagiani di monte, durante l’accoppiamento.
– Ahi! Fammi soffrire! Così! Così! ‘ diceva lei, eccitata, verso la fine.
Poco dopo, mentre si rivestivano, la bionda diede fuoco ad una delle gerle, dopo averla riempita di paglia e di fieno.
Alla luce di quelle fiamme, disse:
– Sì, sì, sì! Fui io, io e nessun’altra ad uccidere Arabelle, per non averla come rivale in amore! Io la stordii con del Dolcetto del Monferrato avvelenato, per averla alla mia mercé! Poi la trascinai lungo il torrente, tenendola per un braccio, mentre lei rantolava nell’agonia. Sapevo che a quell’ora, in quei luoghi, nessuno ci avrebbe viste. Passammo accanto alla Locanda Abbandonata, là dove l’acqua muggiva forte. La finii a colpi di pietre, dopo averla calpestata con i miei stivali! Poi morirono tutti gli altri’ Fui io ad ammazzarli, compreso il guardiano della Diga Grande!
Ah, che confessione disperata! Era lei il mostro di quel paese di montagna! E come sorrideva maliziosamente, mentre proferiva le parole sue!
Il bracconiere la aggredì, afferrò bruscamente le sue spalle, la prese per il collo, gridandole:
– Sei stata tu! Sei stata tu! Allora, sei tu la colpevole di tutte le mie disgrazie!
– Ah, bello mio ‘ aggiunse la donna della gerla, mostrandogli i suoi denti bianchissimi con un sorriso che faceva paura. ‘ Tutte le lettere che credevi fossero scritte dalla tua amata Arabelle, non provenivano affatto dall’Aldilà. Esse non erano che un inganno! Fui io, soltanto io, a scriverle, per sedurti e consumare con te ardenti rapporti amorosi! L’Aldilà non esiste! Arabelle non vive più. Ella &egrave morta per sempre!
– Maledetta! Assassina! Che mi hai fatto!
– I cervi sono miei fratelli, li seguirò lungo i sentieri dei merli, come ho sempre fatto, con la gerla sulle spalle.
Detto questo, la giovane bionda si scostò dal bracconiere, si liberò dalla sua stretta e s’incamminò nel bosco, portando la sua gerla addosso. Franz la rincorse, la rincorse, tentò persino di spararle, ma fu tutto inutile, perché lei si gettò in un burrone, ove svanì, dopo avere lanciato un grido cupo.
– Ah, io non so se l’Aldilà esiste o no ‘ mormorò Franz, rimettendosi il fucile a tracolla. ‘ So solo che tu eri la donna della gerla, colma di vipere e paglia!
Quando fece ritorno in paese, il bracconiere trovò la casa del rovere vecchio in fiamme. Qualcuno le aveva dato fuoco, per bruciare quel fabbricato e tutto ciò che conteneva. I vecchi del borgo le correvano intorno urlando, ma non si poteva più far niente.
– Ah, per fortuna che il padrone non &egrave in casa! Buon per lui! Ma per una volta, si sarebbe meritato di trovarsi là dentro e finire bruciato! ‘ diceva un bifolco, senza farsi vedere.
Passò così il tempo delle gerle.
Ricordo che, molti giorni dopo, vidi salire lungo il sentiero maestro una comitiva di montanari, che portavano dei vecchi zaini sulle spalle, indossavano delle casacche verdastre e cantavano:
– Andiamo, andiamo su per la montagna’ Cantiam di boschi, di selve, di foreste e poi si magna’ Cantiam di storie belle, di giovani e di prati in fiore’ Non c’&egrave la guerra, su per i monti della terra’ Andiamo, andiamo su per la montagna’ Qualcun si bagna’
I vespri eran sepolti, sepolti per sempre.
Un orologio a cucù, vecchio e un po’ stonato, suonava le ore in una delle case di quel villaggio in mezzo ai monti.

FINE

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