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Racconti Erotici

IL SOGNATORE BLU

By 20 Febbraio 2009Dicembre 16th, 2019No Comments

PROLOGO

C’era una volta una cittadina sperduta sulle Alpi Marittime, chiamata Pontvieux-sur-Lasson. Si trovava in prossimità del confine tra l’Italia e la Francia ed aveva una splendida cattedrale gotica, bianca, dalle guglie rosse, che facevano sognare. L’avevano costruita nel Medioevo e un giorno, verso la fine degli anni Cinquanta del Novecento, vi si innamorarono due innocenti. Non ricordo se accadde ai vespri o in occasione di qualche altra solenne cerimonia. Lei si chiamava Aurora, aveva una chioma di fuoco e suonava l’arpa come avrebbe fatto uno degli angeli di marmo bianco che si trovavano lungo le navate laterali della cattedrale. Era una giovane buona, meravigliosamente affettuosa ed assai caritatevole. Una volta, la cara giovane incontrò il suo Philippe sulla scalinata bianca antistante la cattedrale; c’era stata una processione, nevicava e lui la riscaldò, stringendola tra le sue braccia. Io non so narrarvi i languidi baci sulle labbra ed i dolci abbracci di quegli istanti. Egli le fece la corte. Fu in quell’occasione che i due amanti si promisero un amore più forte della morte.
Ricordo che Philippe era un uomo intrepido e coraggioso, forte e passionale, a volte irruento; lo chiamavano il sognatore blu, perché lo si vedeva spesso tutto intento a fantasticare, il volto pensoso tra le mani, seduto su uno degli scalini bianchi, presso la cattedrale di Pontvieux-sur-Lasson. Un giorno, egli disse addio alla sua Aurora, perché doveva andare a lavorare a Lione, in non so quale fabbrica di automobili. I baci che le diede per salutarla furono l’ultimo suo addio.
– Ma perché, perché non posso venire con te? – gli chiese la sua bella, gli occhi colmi di lacrime.
– Non piangere, tornerò presto! – le disse il suo amato, accarezzandole le palpebre con le sue labbra.
– Dove vai? Non lasciarmi qui da sola… Non abbandonarmi!
– Credimi, tornerò un giorno… Tornerò!
La fabbrica di Lione era grigia, piena di rumori, di macchine e di grigiore; Philippe lavorò in mezzo a quelle braccia e a quelle bocche meccaniche pensando al suo amore lontano. Vedeva sempre il volto di lei accanto a sé.
Un brutto giorno, il sognatore blu ebbe un incidente in fabbrica e la sua bella non era al suo fianco, per consolarlo! Aurora ricevette una lettera tristissima, ma per fortuna il suo Philippe era salvo, la vita sua non era in pericolo!
Egli le scrisse molte lettere appassionate da Lione.
Poi fece ritorno a Pontvieux-sur-Lasson, ma la sua amata non era lì ad aspettarlo. Dei cattivi gli dissero che era morta, ma era una menzogna; oh, quanto fu grande la disperazione dell’innamorato! Egli prese a cercare la bella arpista lungo tutti i viottoli della città, ma s’imbatté in un’altra donna, una bionda di nome Marghot.
Il destino voleva che ritornasse accanto alla sua amata di un tempo, ma la sua ira appassionata lo avrebbe indotto a fare del male. Una forza buona e celestiale avrebbe rimesso insieme i due amanti, facendo sì che la giustizia umana e i suoi gendarmi non potessero perseguitare Philippe per le sue follie amorose.

Capitolo Primo. Lei e la cattedrale.

Alle sei e trenta del mattino, la città alpina di Pontvieux-sur-Lasson si stava risvegliando dai suoi incantati torpori notturni.
Anche la cattedrale, attorno alla quale si erano rannuvolate le brume mattutine, prendeva nuovamente forma, disegnando il suo profilo gotico nel cielo lievemente ingombro di nubi.
Il grande portale nord era spalancato.
Attraverso le entrate laterali e secondarie, ali di folla, come a fiumi, penetravano all’interno.
Un brusio leggero, a malapena percettibile, si levava dagli astanti, elegantemente vestiti, che si accingevano ad assistere ad una delle cerimonie più tradizionali dell’anno.
Il grande disco rossastro del sole, lentamente, s’innalzava nell’etere brumoso e risolveva, a poco a poco, la nebbia.
Le ombre lunghe, esili, ancora poco discernibili, dell’antica cattedrale, si prolungavano sulla grande piazza lastricata di marmo bianco, mentre torme di persone continuavano ad affluire. Tutti portavano indosso gli abiti delle feste.
Improvvisamente, il grande silenzio che ancor regnava a Pontvieux-sur-Lasson parve distrutto dal suono delle imponenti campane, che avevano cominciato a suonare, onde annunziare l’ormai prossimo inizio della cerimonia.
Il vento surreale sussurrava, trascinava lontano il rumore profondamente roco di quegli strumenti di bronzo, che giungeva fino agli estremi della città, spumeggiante e sempre più evanescente, come le onde di un mare invisibile.
La cattedrale cominciava ad essere gremita.
Nel vasto ed innumerabile gruppo di persone presenti e in arrivo, si poteva discernere altresì un volto a noi familiare, accompagnato dalla impensabile sua compagna.
Un uomo alto, con un cappello blu sul capo, a braccetto con una donna bionda, era mescolato alla moltitudine di gente anonima che riempiva la piazza e pullulava nel più importante monumento della città. Egli aveva l’aria triste, c’era un non so che di smarrito e malinconico nei tratti del suo volto, leggermente scavati dal tempo. I suoi orecchi ed il suo collo erano ricoperti da capelli che avevano perduto il loro originario colore bruno, per tingersi di grigio.
Quell’uomo portava il nome di Philippe.
Non di rado, il suo sguardo si posava sulle fattezze e sul bel volto della donna che aveva accanto e della quale stringeva, di tanto in tanto, la dolce mano. Talora, chinava la testa, quasi smarrito e tediato dal correre senza fine degli eventi.
Egli aspettava da tempo quel giorno. Chissà! Forse, per un istante, aveva pensato all’impossibile. Stringeva forte la mano della sua compagna e si consolava così.
Mentre stava per entrare nella cattedrale, il pensiero suo corse, come un lampo, ad un attimo sepolto nel suo passato.
Quel moto dell’animo suo sfuggì rapidissimo, quasi impercettibile, ma gli lasciò un che di amaro ed intoccabile nel petto.
– Vieni, Marghot, entriamo – disse Philippe, rivolto alla sua amica intima.
– Sì – rispose lei, facendo un sorriso scintillante, onde mostrare i suoi denti bianchissimi, che sembravano di porcellana.
Marghot, il bel volto incorniciato da capelli biondissimi e appena acconciati, era felice. Gli occhi suoi sembravano trasmettere talvolta dei sorrisi di letizia e tranquillità, che si dileguavano in un secondo, per lasciare il posto, in lei, ad un’espressione di immobile eleganza.
Vestita con un abito lungo, azzurro, molto femminile, poteva sembrare la concretizzazione del perfetto portamento e della bellezza ineguagliabile, ma ella non pensava affatto al suo aspetto esteriore.
Aveva conosciuto da poco quel Philippe, ma s’era subito saldamente legata a lui.
– Vieni, entriamo! – le diceva l’amico intimo, facendosi largo tra la folla, anche a furia di spintoni.
– Andiamo, andiamo – mormorava l’altra, sotto il suo sottile velo nero.
Philippe si sentiva alquanto emozionato. La cosa non gli capitava spesso, ma non aveva freddo. Perché mai quei singhiozzi temporanei e sconvolgenti, come se dentro di lui accadesse un non so che di anormale? Guardava Marghot e si sentiva pieno di voglia di vivere, malgrado la sua bella età fosse da tempo svanita. Toccata la vetta, sperava di poter trovare ancora dei freschi ruscelli ove dissetare i suoi sentimenti.
Marghot era forse per lui una sorgente di felicità.
I due entrarono nella cattedrale. Philippe si strinse a lei, che a propria volta si avvicinò ancor più al suo amico. La gente arrivata era tanta, che non si sarebbe potuto trovare nemmeno un solo posto a sedere.
Philippe spinse il suo sguardo lontano, fino all’altare maggiore, che era bianco, immenso, con due angeli alati a ciascuno dei lati.
Una visione di cento grandi ceri ardenti accendeva la cerimonia solenne. Erano stati tutti collocati presso il grande crocifisso antico, a destra del gigantesco altare monumentale.
Il vescovo doveva ancora giungere. La messa, in tutta la sua solennità, nella sua suggestione e nel suo fulgore, sarebbe cominciata presto, impressionante, quanto un fenomeno soprannaturale.
Ci sarebbero state musiche sacre d’autore, cantate dal coro con l’accompagnamento di alcuni strumentisti famosi.
Philippe e Marghot si sistemarono in mezzo alla folla. Riuscivano a stento a respirare, tanto erano numerosi i presenti. Ad ogni modo, questo non importava loro.
– Vuoi restare? – chiese ad un certo punto Philippe. – Altrimenti, ce ne andremo.
– No, non dire così, siamo venuti per questo’ – rispose Marghot, con un sorriso vellutato.
Truccata, semplice nel suo vestito pomposo, Marghot sembrava poco più che una bambola di vent’anni. Era ancora nel pieno fulgore nella sua giovinezza, che non l’avrebbe mai lasciata e riluceva in lei come una stella del firmamento.
Philppe aveva quasi paura.
Sì, lo sentiva: se ne sarebbe andato volentieri, forse non era bene, per lui, rimanere in quel luogo. Si domandava perché mai fosse venuto.
La cattedrale gotica mormorava il suo splendore e la sua maestà attraverso lo sfarzo e la solennità della funzione religiosa. Era come se bruciasse di austera, fiammeggiante magnificenza.
La messa aveva avuto inizio e s’intonarono i canti.
Le note intense, cariche di gravità e di fulgore, pervenivano sfocate alle orecchie di Philippe, che pensava a tutt’altro, forse, agli angeli.
All’udito gli giungeva altresì il suono argentino di un’arpa. Era lo strumento che una donna a lui cara, ma allora definitivamente scomparsa dalla sua vita, sapeva suonare con indicibile maestria. Il volto suo gli tornò in mente proprio in quell’istante.
Tra le fiamme solari e scintillanti dei ceri, gli apparve un viso amico.
Fu come vedere una sorta di fantasma, tuttavia egli non provò alcun timore, ma soltanto una triste rassegnazione, mista a raccapriccio.
Dei capelli lunghi, rossi, delle mani candide, immacolate, dalle dita lunghe, un collo di cigno, una pelle bianchissima, vellutata, uno sguardo accorato e confuso’ Questo era l’aspetto della bella arpista che lo sguardo di lui aveva incontrato.
– No, non può essere – sussurrò l’uomo. – Philippe! Philippe! Non può essere vero!
Si accorse improvvisamente di avere la fronte imperlata di un gelido sudore. Forse era a causa della folla, la gran folla.
Aurora? Aurora, in quell’arpista? No, cento volte no! Aurora era morta per sempre in lui!
– Scusami, se permetti, esco un attimo – disse a Marghot.
L’aria fresca del mattino gli carezzò la gola, mentre egli riscopriva di essere se stesso e nessun altro.
Tra poco, si disse, la messa sarebbe finita e tutta la folla sarebbe uscita, per la processione. Doveva essere una giornata memorabile.
Agli orecchi di Philippe, nondimeno, continuavano a giungere i rumori della cerimonia, il vocio soffocato dei presenti e soprattutto la musica sacra, quei suoni d’arpa sussurrati.
Sì, tra i musicisti doveva esserci un’arpista, ma forse, anzi, senza dubbio, egli s’era ingannato, nel riconoscere Aurora tra i presenti.
Era trascorso troppo tempo da quando s’erano incontrati l’ultima volta ed ora Philippe amava Marghot più che mai. Se l’uomo vestito di blu avesse saputo che quel mattino, recandosi alla solenne cerimonia, si sarebbe imbattuto in quella visione, senza dubbio non avrebbe lasciato la sua dimora.
La mente sua aveva ripreso a pensare incessantemente ad Aurora, così come il vento aveva ricominciato ad accarezzare i rami dei lecci, dei faggi, dei castagni e dei frassini vecchi.
Ad un tratto, Philippe s’accorse che dalla cattedrale cominciava ad uscire la processione, lenta, tarda ed un poco mesta. I canti lo facevano sognare e piangere, ad un tempo.
Tra i passanti, gli parve di scorgere di nuovo Aurora. Qualcuno dei fedeli lo toccò e il suo sguardo inafferrabile gli regalò tormento ed estasi. Era quello della sua amata di un tempo.
L’uomo vestito di blu non capiva più se sognava, se aveva avuto delle visioni o se quello che aveva percepito con i sensi apparteneva veramente alla realtà.
Poi rivide Marghot, che usciva: era bellissima, biondissima, ammaliante, con i suoi capelli d’oro racchiusi in un velo nero, che le ricopriva di penombra il bel volto.
Egli la raggiunse. Era sua. Le prese la mano e gliela strinse quasi con violenza.
– Andiamo! Scusami, ma poco fa, nella cattedrale, quasi mi sono sentito male – le sussurrò appassionatamente.
I due seguirono la processione, con la stessa, lenta andatura che ne scandiva, sonnolento, il ritmo.
Alla fine, anche quella processione, anche quella vaga, soave sofferenza, per Philippe, sarebbero cessate. Mentre abbracciava Marghot (la poteva abbracciare in qualsiasi istante) riacquistava coraggio.
Quella giovane non era sempre stata con lui, lo sapeva: in passato, era appartenuta ad altri uomini. Ella era stata l’amante di un uomo vecchio, deforme, che l’aveva voluta soltanto per affrescare di gioventù e bellezza gli ultimi giorni di una vita che svaniva. Ma il giorno in cui lei l’aveva conosciuto davvero, ogni tenerezza tra i due era cessata. Si era accorta, infatti, di non avere amato un uomo dal cuore nobile, bensì soltanto un rozzo opportunista.
Gli aveva concesso se stessa, il suo corpo, la sua avvenenza, ma lui, dopo averla posseduta carnalmente, aveva creduto di non poter fare altro di quella donna. Poi, la morte l’aveva portato via con sé.
Marghot non era più riuscita a sopportarlo. Il suo uxoricidio segreto non era stato dettato da un capriccio, bensì dalla sua sete di vita. L’altro non si era nemmeno accorto di ciò che la sua bella aveva perpetrato a suo danno: semplicemente, si era sentito male, mentre baciava i bei capelli dorati della sua amante e languiva d’affetto sul suo seno.
Il giorno in cui quell’uomo se n’era andato, Marghot aveva pianto.
‘Ma a che cosa serve pentirsi’ pensava sempre la giovane ‘quando non &egrave più possibile tornare indietro e riparare al mal fatto? A cosa serve amare, se ci si accorge di non essere amati? A che cosa giova morire, se ci si accorge che la morte non serve a nulla?’.
Ella non si era mai detta di essere un’assassina, non aveva mai pensato che se un giorno qualcuno avesse scoperto quello che aveva fatto, sarebbe stata un’infame per sempre.
Poi aveva incontrato Philippe, erano diventati amici, si erano innamorati’ Era stata una gioia per entrambi, ma Philippe non avrebbe mai potuto immaginare che genere di strega fosse Marghot. Quest’ultima era stata vista da un uomo balordo, insoddisfatto dalla vita, una persona matura, ma infantile allo stesso tempo. Era un solitario, che abitava in una casa graziosa, dal tetto in ardesia, costruita lungo il fiume. Lo sconosciuto si era innamorato di Marghot.
Un giorno, Philippe trovò sotto la porta di casa sua uno strano biglietto.
‘Chi sono non ha importanza; ad ogni modo, lo saprà ben presto. Ho l’assoluta necessità di parlare con lei, per una questione della massima rilevanza. Non cerchi di fuggirmi o di evitarmi, potrebbe essere un errore. Si ricordi di questo numero di telefono: *******. Se lo stampi nella mente e poi, dopo averci pensato, mi chiami’.
Era uno scherzo?
Fu così che Philippe telefonò al numero indicato. Gli rispose una voce roca, quasi spenta, che parlava piano e di rado. Difficile, se non impossibile, sarebbe stato capire, per telefono, ciò che diceva quel cupo interlocutore, che probabilmente non era colui che aveva scritto il messaggio.
Philippe non sapeva più che cosa dire, ma, alla fine, l’altro, che non poteva non cogliere quell’occasione favorevole, gli fece sapere veramente che cosa volesse. Non l’avrebbe lasciato in pace fino a quando non gli avesse detto le sue intenzioni.
I due fissarono un appuntamento per l’indomani, in Piazza Venezia, dinanzi al monumento a Debussy.
Philippe decise di recarsi nel luogo convenuto. Il sole tramontava’ Era l’ora.
Tra i riflessi rossastri degli ultimi raggi del crepuscolo, egli vide un uomo che scendeva da una scalinata. Forse, era colui che doveva incontrare.
– Buona sera – mormorò Philippe.
– Buona sera – rispose l’altro, allungando la sua mano, quasi per stringere quella dell’altro.
I capelli dello sconosciuto dovevano essere stati rossi, un tempo, perché mantenevano, seppur canuti, dei riflessi fulvi e rari. Erano lunghi ed arrivavano fino alle spalle. Due occhi verdi, profondamente infossati, sormontati da due sopracciglia quasi invisibili, riflettevano un animo stravagante, originale, ma soprattutto inquietante ed astruso. A Philippe parve che quegli occhi fossero fatti a spirale. Gli sembrarono quelli di un dannato, ma la sua era soltanto un’impressione. Quel viso ovale racchiudeva un sorriso anomalo, che assomigliava ad un ghigno.
Philippe provò un brivido.
– Che cosa c’&egrave? – domandò lo strano uomo. – Forse qualcosa non va?
L’altro tacque, poi rispose:
– No, tutto &egrave a posto. Ma piuttosto, vuole dirmi chi &egrave lei e che cosa vuole? Chi &egrave? Qual &egrave il suo nome? Cosa desidera? Cosa cerca?
– Non si preoccupi. Mi chiami Arturo e questo le basterà. Mi consideri semplicemente poco meno che un amico.
Philippe già malediceva il momento in cui aveva scelto di recarsi all’appuntamento. Perché mai, si domandava, aveva deciso di rovinarsi in quel modo?
– Signor Arturo, a che cosa devo i suoi discorsi? – gli chiese poi.
– Venga con me a fare una passeggiata, se le pare. Non vede che &egrave un’ora stupenda? – rispose l’altro, che tentò addirittura di posare una mano sulla spalla del suo interlocutore, cosa che quest’ultimo non gli avrebbe permesso mai. – Bene, &egrave giunta l’ora di spiegarle perché sono qui e che cosa mi ha spinto ad intromettermi nella sua vita.
‘Era ora, ma non mi fiderò mai di te, insulso essere!’ pensò il nostro protagonista.
Philippe non aveva mai temuto veramente Arturo. Ora che lo sentiva parlare e che comprendeva come fosse un individuo ragionevole, poteva quasi capire in anticipo a che cosa miravano le sue belle parole.
– Io non le chiedo un favore, ma devo dirle una cosa – disse poi quel brutto ceffo.
– Si spieghi meglio!
– Io mi sono innamorato della sua amante, Marghot.
Philippe andò in collera. Sapeva di non essere in grado di trattenersi, in quelle circostanze. Nondimeno, faceva degli sforzi straordinari per riuscirci. Sarebbe stato fin troppo facile, per uno dei due, assalire l’altro.
– Ma lei sa quanto sono legato a Marghot? Lei sa quanto la amo? Lei sa quanto mi ama? Che cosa vuole? Dividerci? Non ci riuscirà mai!
Così gridò Philippe.
– Io non sono un violento. Stia piuttosto a sentire la mia offerta – disse l’altro.
– Se ne vada’
– Le farò avere venti milioni, in contanti, in cambio di quella donna!
– I sentimenti non si comprano!
– Voglio una cosa da lei, che pensi bene alla mia offerta. Potrebbe pentirsi di aver rifiutato!
Alla fine, Philippe si allontanò da Arturo, sconvolto. Gli parve di avere incontrato la morte.
‘No, non potrò mai acconsentire’ mormorava tra sé, sentendosi distrutto. ‘Marghot mi odierebbe per sempre ed io la amo. Venti milioni! Venti milioni, per un essere umano, per il suo amore!’.
Arturo era un pazzo.
Philippe sentiva che quella faccia misteriosa e tenebrosa gli si era incastrata nella mente. Erano stati quegli occhi verdi e profondi a fargli paura, più che quelle parole cupe, quanto i rami neri degli alberi nei tramonti infuocati dell’inverno.
Il nostro protagonista fece ritorno a casa.
Non aveva confidato a Marghot il motivo per il quale era uscito, paventando di doverle poi dare un’ulteriore spiegazione circa il contenuto di un colloquio che poteva essere tanto negativo quanto sconveniente.
Egli guardò la sua amante nel profondo degli occhi. La vide timida, ritrosa, un po’ accorata; forse, la sua assenza l’aveva spaventata. In ogni caso, trovò il modo per dissimularle il grande turbamento interiore che quell’incontro gli aveva provocato.
Ma la mente sua continuava a pensare.
Arturo, certamente, non lo avrebbe lasciato in pace ed anzi avrebbe tentato di ottenere ciò che voleva da lui, se faceva veramente sul serio.
Nei giorni che seguirono, Philippe incontrò colui che lo inquietava, più e più volte. Lo vide svanire vagamente davanti ai suoi occhi, come una visione. Poi ricevette un altro di quei biglietti.
‘Devo ancora ricevere una risposta da parte sua. Non creda di potersi liberare di me facilmente, perché ho bisogno di lei. Non sottovaluti la mia offerta, potrebbe pentirsene. Marghot deve essere mia’.
– Marghot deve essere sua! – mormorò spaventato il nostro protagonista, appallottolando il foglio. – Ho a che fare con un pazzo!
A poco a poco, Philippe prendeva in considerazione l’idea di piegarsi alle richieste di Arturo, soltanto per paura. Costui gli aveva infatti fatto capire che non avrebbe mai potuto accettare il suo rifiuto; lo avrebbe perseguitato, tormentato, oppresso, fino ad impossessarsi di Marghot. Ma quest’ultima non sapeva ancora nulla e, quand’anche fosse stata al corrente di quell’affare, avrebbe ignorato tutto. Stava troppo bene con il suo amato Philippe, che non era disposto a consentire ad altri di rovinare la loro splendida felicità.
– Ascolti – gli diceva Arturo per telefono – venti milioni, venti milioni, venti milioni’ Per una donna soltanto! Pensi a ciò che le potrebbe costare un rifiuto! Io non rinuncerò a Marghot.
Ma perché mai in Philippe non si scatenava la gelosia? Perché mai egli non s’infuriava e non minacciava con la pistola quell’uomo balordo e prepotente, eccentrico e pericoloso?
Il nostro protagonista era interiormente debole in quel periodo. Aveva bisogno di pensare, ma il suo rivale non gliene concedeva il tempo. Philippe non sapeva più che cosa fare e un giorno, in cui aveva litigato con la sua Marghot per motivi assolutamente futili ed il suo umore era nero, tanto da non permettergli di vedere la differenza tra l’amore di quella giovane ed una ventina di milioni, si recò ad uno degli appuntamenti fissatigli da Arturo, ai quali era ormai solito non recarsi.
– Io voglio bene a Marghot, se lo ricordi – diceva il losco figuro. – Mi complimenterei volentieri con lei, &egrave veramente una persona ragionevole.
Philippe sentì che Arturo gli posava una mano sulla spalla; lo guardò negli occhi e s’accorse che non era stato per paura, che aveva acconsentito.
Da tempo, infatti, Marghot non possedeva più il suo cuore.
Forse, in lui, era avvenuto un mutamento, generato dalla visione, apparentemente irreale, che aveva avuto il giorno nella processione, nella cattedrale della città alpina di Pontvieux-sur-Lasson
Era come se fosse stato indotto a fare spazio nel suo cuore e a liberarsi di un peso.
Guardava i venti milioni, che gli facevano malinconia. Erano chiusi in una valigetta e Arturo glieli mostrava, compiaciuto.
I due si trovavano in un luogo isolato, le Alpi dalle cime immense ed innevate brillavano all’orizzonte e facevano da cornice al loro incontro. Philippe fu colto dall’idea di aggredire Arturo all’improvviso, di soffocarlo, di eliminare quel malvagio, che si nutriva degli amori altrui. Ad ogni modo, non fece nulla e non sbagliò.
Stringeva tra le sue mani le belle banconote. Era denaro, era suo, ma non bastava a renderlo felice.
Forse, egli aveva perduto qualche cosa di più prezioso, come l’amore di una giovane donna.
– Tra qualche giorno – gli disse Arturo – lei porterà Marghot a casa mia.
– A casa sua? Io?
– Sì. Non voglio che la cosa sia traumatica, per lei. Si ricordi che deve amarmi. Voglio che sia una donna felice. Mi presenterà a lei, faremo conoscenza e poi la lascerà a me.
– Come vuole.
In quel periodo, il nostro protagonista cercò di godersi Marghot per l’ultima volta, ma non riuscì che a rendere più grigia la sua tristezza. Sapeva di averla venduta per venti milioni ed ogni volta che tentava di abbracciarla non riusciva a sentire tra le sue braccia che un pezzo di materia qualsiasi.
Verso il tramonto di un giorno di pioggia, Philippe prese Marghot e le domandò se volesse venire a fare un giro in macchina con lui.
– Perché no? Andiamo, sarà uno svago per entrambi – gli rispose l’altra.
Egli la fece salire nella sua automobile, anzi, la caricò come se fosse stata una cosa.
– Dove andiamo? – gli chiese Marghot, pettinandosi i bei capelli biondi. – Vorrei passare per il Viale di Parigi, a quest’ora &egrave tutto illuminato dai lampioni bianchi.
Philippe sapeva dove si trovava la casa di Arturo. Non poteva sbagliare strada e gli dispiaceva di ingannare la bella amante, che, quella sera, gli sembrava particolarmente triste e sfavillante, ad un tempo.
Di tanto in tanto, le lanciava delle occhiate furtive. Le guardava il volto, il petto e, così facendo, si accorgeva della sua immobilità: era tutta pensosa e guardava attraverso il finestrino le ultime luci del giorno, le Alpi maestose, i viali che si accendevano delle luci notturne, gli alberi frondosi e oscuri.
– Sì, passeremo lungo il viale di Parigi – le disse Philippe.
Poi, però, prese un’altra strada. I due si diressero verso un piccolo quartiere di Pontvieux-sur-Lasson, a quell’ora sempre deserto.
Forse, Marghot non avrebbe accettato e sarebbe impazzita. Quando si accorse che il suo amato non si dirigeva verso il viale di Parigi, gliene chiese il motivo. Lui non le rispose.
Allora la bella sentì crescere dentro di sé l’angoscia, si accorse di non essere più padrona di se stessa. Philippe non le parlava, agiva. Marghot aveva paura, follemente paura. Non si trattava di qualcosa di grave, di spaventoso?
– Philippe, dimmi dove andiamo! – chiese ancora la donna.
Le rispose un silenzio cupo, che le fece provare un brivido di mistero.
Il nostro protagonista sterzò bruscamente, poi Marghot si accorse che stava fermando la vettura. Ma dove si trovavano? Dove l’aveva portata? Che cosa stava per succederle?
– Andiamo a casa di un amico – disse lui, invitandola a scendere.
– No! – rispose l’altra, rifiutando di muoversi. – Amore caro, torniamo a casa! Ho paura, sì’
– Vieni!
– No!
Un’ombra tenebrosa apparve al di là del grande cancello, munito di lance con punte acuminate. Era Arturo. Sembrava scuro in volto, i capelli suoi erano scarmigliati sulla sua fronte ampia, le mani gli tremavano. Marghot lo aveva visto e ne era rimasta spaventata.
Poi la donna si decise ad uscire. Vide venire verso di sé lo sconosciuto’ Philippe la afferrò saldamente per un braccio e lei comprese, finalmente, che non l’amava più.
– Ti odio! – gli sussurrò in un orecchio, facendogli sentire tutta la dolcezza del suo profumo.
– Non temere – le disse Philippe. – Costui &egrave un nostro amico’
Il nostro protagonista lasciò la bella mano di Marghot ed Arturo la prese appassionatamente tra le sue, dopo averla baciata con ardore, quasi avesse voluto esprimerle tutto il suo affetto.
– Marghot – diceva poi Arturo, giocherellando con i lunghi capelli biondi della giovane – tu non sai quanto ho desiderato questo istante! Ti amo da impazzire e finalmente sono riuscito a strapparti all’indegno che ti possedeva. Adesso verrai in casa con me, parleremo con calma, ti corteggerò, ti farò diventare rossa come un peperone e ti innamorerai di me’
– Che cosa deve dirmi? ‘ chiese Marghot, sorpresa, mentre cercava di liberarsi dalla stretta del suo interlocutore. – Io non la conosco’ Mi lasci’
– Io ho pagato per averti! Ora tu sei mia’ Non farmi spazientire!
La bionda sentì la paura che le scorreva nelle vene, insieme al sangue. Provava il desiderio di disperarsi, forse di piangere, ma non sarebbe mai riuscita a farlo. Si lasciò condurre via. In Philippe non vedeva più che un nemico, un odiato nemico. Svenne, o le sembrò di perdere i sensi. La tensione in lei era divenuta troppo intensa, perché la potesse sopportare.
Quando riaprì i suoi begli occhi, si trovava nel salotto di Arturo. Accanto a lei c’era Philippe, che la bella avrebbe volentieri cacciato via.
– Marghot, io ho fatto sì che il tuo amante ti vendesse a me – le disse Arturo – e poiché sono riuscito a convincerlo con le buone e lui &egrave stato così accondiscendente, tu dovresti essere più amichevole, più disposta ad amarmi ed ascoltarmi.
– Chi &egrave lei? – chiese la bionda.
– Il mio nome &egrave Arturo – le rispose l’altro, sorseggiando la sua coppa di champagne.
– Philippe, perché dice questo? Che storia &egrave mai questa, amor mio?
– Costui non ti ha mai amata, ti voleva al suo fianco soltanto per un breve periodo, d’altronde non ti ha mai meritata. Sono stato io a notarti, a scoprire la tua prorompente bellezza. Philippe ti considerava un inutile bagaglio. Philippe ti ha venduta a me, per venti milioni, sì, si &egrave lasciato convincere dalla forza del denaro.
– Marghot, io credo che sia giunta l’ora che me ne vada – disse Philippe, quasi adirato, raccogliendo la sua giacca e concedendo alla sua amata un ultimo sguardo.
– Mi lasci qui? – gli chiese lei. – Ma come! Che ne sarà di me? Che cosa mi accadrà?
– Arturo &egrave il tuo nuovo amante. Siate felici!
A quel punto la bella si slanciò verso di lui, lo prese per una mano, gli fece capire che era arrabbiata, ma non a morte, tanto che era disposta a tornare a casa con lui.
Philippe le rispose dandole uno schiaffo.
Marghot, allora, offesa profondamente, lo lasciò al suo destino.
Quando Arturo fu rimasto solo con la sua nuova amica del cuore, le disse:
– Philippe non &egrave mai stato nulla nella tua vita. Era così innamorato di te, che quando gli ho detto che non avrei mai rinunciato ad averti, mi ha proposto di dargli una ventina di milioni in cambio ed io ho acconsentito. Tu sei mia, Marghot! Mia, soltanto mia. Io non ho avuto mai nessuna donna prima d’ora. Non ho ancora potuto conoscere la cosa meravigliosa che gli umani chiamano felicità. Spero di scoprirla insieme a te. Sono stato forse un malvagio? No, ho soltanto sbagliato, ho commesso degli errori gravi, ma ora credo che sia finalmente giunto il mio momento.
Marghot fu in procinto di aggredire Arturo, che le era antipatico a morte. Avrebbe potuto rompergli sulla testa la bottiglia di champagne che vedeva sul tavolino.
– Dammi del tu, carissima – le disse il suo compratore. – Non voglio farti del male, né prenderti con la forza.
– Philippe non mi amava – mormorava Marghot. – No, non mi amava’ Ma tu, tu, tu chi sei?
– Calmati, stai tranquilla’
– Io non posso calmarmi! Io non ti conosco, non so chi tu sia, non credere di potermi avere facilmente’
– Io ti avrò, invece! Perdinci, se ti avrò! Ti avrò e sarai mia!
In quell’istante, affacciandosi alla finestra, Marghot vide passare una giovane donna. Sì, era una figura femminile, che vagabondava come un dolce fantasma sotto gli alberi dalle ombre languide, che sembravano fatte apposta per nascondere dei convegni amorosi.
Philippe, andandosene, aveva incontrato quella colomba notturna.
– Sì, sono io – gli disse la bella senza nome, alzando il suo sguardo. – Sono la tua Aurora! Sono ancora viva, Philippe, sono ancora viva’ Ti amo ardentemente, appassionatamente’
L’altro taceva estasiato, non riusciva a trovare le parole’ Non esistevano frasi con cui esprimere le sue sensazioni, in quelle circostanze.
– Aurora, io’ – le mormorò, giungendo le mani e togliendosi il cappello blu.
– Non dire nulla. Mi credevi morta, lo so’ Arturo mi ha ritrovata. Ero finita nel fiume, mi avevano confusa con un cadavere, qualche malvagio aveva voluto che una tomba portasse il mio nome, senza che vi fosse il mio corpo, bensì quello di un’altra donna. Fu Arturo a salvarmi’
– Allora, eri tu, in cattedrale, quel giorno’
– Sì, ero io. Ti guardai e soffersi’ Vattene, ora’ Non guardarmi più, non pensarmi più, non incontrarmi più’ Dimenticami!
– Dimenticami! – le fece eco Philippe, che non trovò altro da dire se non l’ultimo, appassionato imperativo di Aurora.
Era vero, Aurora era viva, era ancora viva.
Quel comando, quell’ordine quasi crudele, quell’imperativo tonante, rivolto a Philippe, era stato come la manifestazione di ciò che era veramente l’animo suo, in quel tempo.
Era lei, ora, con la sua bell’arpa, ad allietare le domeniche di Pontvieux-sur-Lasson, a scandire la solennità delle funzioni religiose più importanti che si celebravano nella grande cattedrale dalle guglie rosse, che infuocavano il cielo ed ardevano come il fuoco sullo sfondo bianco delle Alpi immense.
Aurora lavorava nella biblioteca *** ed era diventata amica di Arturo, che l’aveva salvata dai suoi nemici.
Durante una giornata grigia, particolarmente cupa e piovosa, in cui, dalle finestre della biblioteca, all’ultimo piano, si poteva osservare soltanto uno spettacoloso rovescio di pioggia, Aurora si trovava seduta vicino alla sua amica. Fiorenza (questo era il suo nome), i capelli sciolti e cadenti sulle spalle, in parte scoperte, il maglione di lana color avorio, scollato, addosso, pensava.
– Aurora – disse l’amica.
– Sì?
– No, niente’ In questo periodo, sono oppressa da pensieri poco piacevoli.
– Che genere di pensieri?
– Non riesco neppure a lavorare con tranquillità. Forse, &egrave solo una crisi passeggera. Ad ogni modo, mi sento ossessionata, &egrave come se avessi addosso un fantasma’
– Mi incuriosisci’
– Sai, nel mio passato, c’&egrave stata una donna poco amichevole, che mi ha addirittura resa triste. Penso a lei e mi accorgo che &egrave un’ombra, non ancora del tutto scomparsa. Siamo parenti, ma &egrave come se non lo fossimo’
– Perché mai?
– Siamo parenti, ma &egrave come se non lo fossimo, &egrave come se non lo fossimo, come se non lo fossimo’
– Mi parli con un accento tanto cupo e grave’ Che hai?
– Ella non &egrave mai stata buona e comprensiva con nessuno. Forse, &egrave addirittura cattiva. Il suo nome &egrave Marghot. Non sai quanto mi dia fastidio il solo pronunciare quella parola, che si riferisce ad una persona tanto inquietante e cupa’
– Marghot! – ripeté Aurora. – Che nome strano, raro’ Non avrei mai detto’
– Ascoltami! – la interruppe Fiorenza.
Fu allora che la donna diede inizio alla narrazione della storia tenera e lugubre di quella creatura, che assomigliava ad un pipistrello. Si trattava di una vicenda avvolta in particolari che, in alcuni punti, rasentavano il mistero.
In quel tempo, Marghot era una bella giovane. Aveva dei capelli biondissimi, un volto dolce ed aggraziato, che splendeva di un’avvenenza e di una levità incomparabili a quelle delle altre fanciulle.
Proveniva da un’infanzia che, per lei, era stata alquanto infelice.
Forse, aveva trascorso una delle fanciullezze più difficili che si possano immaginare, tra il padre, uomo dedito al bere e pieno di problemi di salute, e la madre, che aveva lasciato il mondo quando lei era ancora in tenera età.
Suo papà, uomo rozzo e violento, l’aveva picchiata più volte e continuava a farlo.
Marghot appariva molto religiosa, molto devota.
Cantava nel coro della cattedrale, tutte le domeniche. Aveva una bella voce da mezzo soprano, assai femminile.
Ogni volta che andava a cantare, si divertiva alquanto.
Era stato forse il suo fratello maggiore a favorire la sua passione per la musica e per il canto.
Dimenticavo di dirvi che il fratello suo era sacerdote, aveva preso gli ordini da non molto tempo ed alcuni lo consideravano fervente. Egli, in realtà, non lo era mai stato troppo ed amava il denaro.
Don Guglielmo, questo era il nome del buon sacerdote, sarebbe presto diventato parroco, perché la gente ne conosceva i costumi esemplari e la grande umanità, che lui manifestava sempre con comportamenti che, ad alcuni, facevano addirittura invidia, tanto parevano confacenti ad un santo.
Un giorno, al termine di una cerimonia, il vescovo lasciò cadere il suo sguardo su una delle ragazze che cantavano nel coro.
Era Marghot.
La bella, accorgendosi di essere guardata, arrossì. Non capiva proprio il motivo che poteva avere indotto il vescovo a guardarla in quel modo. Possibile non indovinarlo? La sua bellezza’
L’ecclesiastico non distoglieva un attimo il suo sguardo da lei e non aveva alcun timore di essere notato, dal momento che i fedeli, ormai, se ne stavano andando.
Dopo quelle strane emozioni (a Marghot era parso addirittura che il vescovo la accarezzasse, mentre la coccolava con i suoi sguardi), accaddero altri avvenimenti simili a quello che aveva originato tanto turbamento nella cara ragazza.
A Marghot, forse, non piacevano troppo le attenzioni del vescovo. Si sentiva quasi oltraggiata nella sua giovinezza, avvertiva la rude senilità dell’ecclesiastico sulla sua pelle, le sembrava che posasse le sue mani rugose sul suo bel viso, il suo bel corpo e credeva che tutto ciò fosse peccato, come le avevano insegnato una volta, al catechismo.
Era da un po’ di tempo, però, che Marghot non credeva più al catechismo che le avevano fatto imparare ed andava a cantare soprattutto per sfoggiare la sua bella voce, nonché per il piacere che ciò le procurava.
Una volta, accadde qualcosa di inaudito.
Accadde che rimanesse sola con il vescovo.
Questi, accarezzandole i lunghi capelli biondi e giocando con i suoi boccoli graziosi, le disse:
– Se vuoi, possiamo giocare insieme, sai? Sei la ragazza più bella che abbia mai visto. Io, ad una certa ora del pomeriggio, mi annoio sempre e vorrei che tu, così bella come sei, venissi a farmi visita, a distrarmi’
Marghot non rispose nulla al vescovo.
Credeva di aver sentito male, di essersi sbagliata. Tuttavia, ciò che aveva udito era vero, l’ecclesiastico la voleva, si era invaghito di lei, che era giovanissima, nel fiore della giovinezza e della bellezza!
Senza volerlo, era riuscita a trafiggere il cuore del grande prelato.
Ma non avrebbe mai potuto acconsentire a quelle premure!
La sua femminilità doveva rimanere vergine, ella non era disposta a concederla a nessuno e si sentiva ancora molto ingenua e tanto, tanto poco matura!
Le profferte dell’ecclesiastico la sconvolsero a tal punto, che ne parlò al caro fratello, che era la persona con la quale aveva più confidenza al mondo.
La reazione di don Guglielmo la turbò profondamente, forse più di quanto l’avesse sconvolta la voce del vescovo, allorché s’era sentita rivolgere quelle parole affettuose.
– Forse tu vorresti rifiutare? ‘ le disse, con voce grave, don Guglielmo. ‘ Io non riconosco in te una sorella, ma soltanto una vile bambina!
– Che dici mai? ‘ si meravigliò Marghot, stringendo le labbra e mordicchiandosele.
– Dico che tu non vuoi nemmeno un po’ di bene a questo tuo fratello’ Sei mia sorella, in fondo’ Dovresti capirle, certe cose’ Com’&egrave possibile non intenderle?
Don Guglielmo voleva far capire a Marghot ciò che con le parole non si poteva esprimere, perché era troppo sfacciato ed iniquo. Egli la trattenne a lungo, quasi avesse deciso di metterle in testa che un rifiuto, da parte sua, sarebbe stato una grave infrazione alla morale.
Marghot si sentiva sconvolta. Era timidissima, suo fratello non si era mai mostrato tanto antipatico nei suoi confronti prima d’allora; del resto, quella era la prima volta che gli parlava di un problema così scottante ed irripetibile.
– Quell’uomo &egrave probabilmente disposto a riempirti di regali, a colmarti di favori, Marghot ‘ diceva il prete, seriamente, alla cara sorella. ‘ Tu non puoi rifiutare’
Ma la bionda continuava a non voler capire ciò che il sacerdote sperava di riuscire a farle intendere. Era stanca di stare a sentirlo e voleva andarsene. Le parole dell’altro la tormentavano e lo fecero ancor più allorché don Guglielmo decise di parlare chiaro a quella dura cervice.
– Se tu rifiuterai la corte di Monsignore, ti giuro che, dall’alto del mio dorato pulpito, griderò che ti ho sorpresa mentre cercavi di portare via un ex voto dalla mia chiesa.
Marghot rimase alquanto impressionata. Sì, si ricordava bene di quando era accaduto il fatto e del momento vergognoso in cui l’avevano scoperta.
Se aveva tentato di fare una cosa simile, in passato, aveva avuto i suoi motivi. In quel periodo, il padre suo era molto malato, al punto di far temere per la sua vita.
C’era l’assoluta necessità di dargli delle medicine, allora piuttosto difficili da reperire e molto costose. A Marghot era già parso di vedere il genitore morto sul suo letto’ Temeva che il suo potesse essere il presagio di un evento catastrofico.
A Pontvieux-sur-Lasson non c’erano persone che la potessero aiutare, ne era certa. Toccava a lei fare qualcosa, tanto più che suo padre le aveva rivolto delle minacce terribili.
– Se mi lascerai morire così ‘ le aveva detto ‘ io me ne andrò da questo mondo, ma ti perseguiterò per l’eternità, sarò il suo accanito accusatore quando, un giorno, Iddio ti giudicherà. Credimi, ti farò avere la dannazione eterna, anzi, ti farò dannare già in questo mondo!
Siffatte parole non avrebbero potuto non fare effetto su Marghot, la quale, alla fine, si era decisa.
Tristissima, era stata minacciata, era stata scoperta ed ora la si ricattava, le si imponeva di concedere il suo corpo ad un fornicatore, un depravato, che avrebbe attinto da quella fonte soltanto degli ottusi piaceri capitali.
– Hai capito? Quel vescovo, quando sentirà che sei mia sorella, cosa che tu gli confiderai al momento opportuno, non rimarrà impassibile. Grazie a questo amoretto, potrò diventare parroco di una grossa parrocchia!
Don Guglielmo sorrise di piacere.
Marghot tremava, aveva paura tanto di suo fratello, quanto di quel brutto vescovo.
– Ma che cosa farò? Cosa gli dirò? ‘ domandava sconsolata, esitando.
– Ti dirà tutto lui. Vedrai, ti toccherà appena. Non avere paura, fare l’amore &egrave bello, &egrave bellissimo’
Marghot pensava. Poteva ancora tirarsi indietro? No! Una voce le ordinava, imperiosamente, di obbedire ai comandi di suo fratello. Era la voce della paura, la voce dell’angoscia’
– Hai capito? ‘ le disse don Guglielmo, prima di lasciarla andare via. ‘ Devi ascoltarlo, devi lusingarlo, devi accontentarlo. Altrimenti, avrai il disonore, la vergogna e commetterai un irreparabile peccato mortale. Io sono prete, me ne intendo di morale!
– Sì, sì! ‘ sussurrò lei.
Marghot annuì a lungo, poi, quasi precipitosamente, si allontanò dal fratello, che si era trasformato, per lei, in qualcosa di simile ad un mostro.
Il vescovo riuscì a sedurla.
Era stato facile, per lui, fin troppo’
Un paio di volte la settimana, di pomeriggio, l’uomo di chiesa riceveva la visita di un sacerdote, che portava una lunga talare scura, un cappello da prete sul capo e teneva un breviario aperto davanti agli occhi, il che consentiva allo strano religioso di celare, in parte, il proprio volto.
Alcuni avevano notato quella figura balorda, alla quale non veniva data assolutamente importanza.
Il fratello prestava i suoi abiti a Marghot, la quale se ne serviva per recarsi agli appuntamenti che le fissava l’ecclesiastico.
Sotto il bel cappello da prete, nascondeva i suoi lunghi capelli, che ne uscivano furtivamente, qua e là, a ciocche bionde e arricciate.
I suoi grandi occhi, neri, alabastrini, erano costantemente bassi e non li rivolgeva che al vescovo, il quale, al contatto con il suo sguardo seducente ed affascinante, quasi sveniva di piacere.
Quell’esperienza la maturava molto, era come un passaggio obbligato ed improvviso dalla fine della prima giovinezza all’età adulta.
La bella diveniva, a poco a poco, spregiudicata a propria volta.
– Lo sai quanto mi piaci, così? Eh? Lo sai quanto mi piaci? ‘ le sussurrò il vescovo, durante uno dei loro incontri, stringendola a sé con vigore ed appoggiandosi alla scrivania.
Marghot si lasciava andare senza pensare a nulla; Sua Eccellenza l’aveva tra le sue braccia ed avrebbe fatto di lei ciò che preferiva, ne era certa.
Lo soddisfaceva.
– Ah, spogliati! Voglio vederti nuda, voglio i tuoi baci, i tuoi ardenti baci! ‘ mormorava il prelato.
L’uscio era chiuso a chiave, nessuno poteva entrare e Marghot si sentiva posseduta da lui, avvertiva il suo fiato, senile, virile, pesante, contro il suo corpo, che quelle mani grandi, tozze, dalle dita vizze e grosse, liberavano dall’abito talare.
Era sua, inevitabilmente sua. Perdeva quasi il senso di se stessa, il senso della vita, mentre si intratteneva con il vescovo. Ad ogni modo, non provava paura.
Forse aveva tremato un poco, quand’era rimasta sola con lui per la prima volta, ma poi non aveva provato più alcuna ritrosia.
A poco a poco, diveniva tutt’uno con quell’uomo spregiudicato e senza scrupoli, che, si accorgeva, le plasmava l’anima secondo la sua iniquità.
Che importava, ormai? Tutto era compiuto, lei gli apparteneva e non si sentiva in colpa.
– Farò per te quello che vuoi! Farò per te quello che vuoi! ‘ le diceva nelle orecchie il prelato, mentre, nudi, a cavalcioni, godevano dei frutti di un rapporto tanto proibito.
– Quello che voglio? ‘ domandava lei.
– Quello che vuoi, sì! Sei mia, sono tuo! Tuo! Hai bisogno di denaro, di favori? Chiedimeli! Ti voglio! Ti voglio! Ti voglio! Ah, sì, non avrei mai immaginato che potessero esistere dei piaceri tanto intensi!
Marghot era diventata una sorta di passatempo per quell’uomo, che non vedeva più in lei la persona, l’essere umano, ma soltanto la bellezza, le perfette, giovanissime, fresche forme, dalle quali trarre un piacere illimitato.
Che altro sarebbe stata la vita, per il vescovo, se non vi fossero state persone come Marghot, con le quali dimenticare il tedio, l’uggia di tutti i giorni?
Quale pentimento avrebbe provato alla fine, se non quello di non avere fatto abbastanza per godersela?
Marghot, sbigottita, incerta, ma sicuramente troppo poco pensosa per poter provare vergogna o gioia, travestita da sacerdote, con il breviario davanti agli occhi, la lunga talare che le copriva la femminilità, continuava sempre a recarsi agli appuntamenti.
Era come se i suoi pomeriggi bruciassero di vanità.
Riferì al fratello che il vescovo non faceva che dichiararle appassionatamente di essere disposto a concederle qualsiasi favore.
Quale migliore notizia di quella, per don Guglielmo? Egli vedeva già una magnifica parrocchia ai suoi piedi e la carriera ecclesiastica aperta, spalancata, davanti a sé! Il sipario, finalmente, s’era sollevato e soltanto grazie al suo ingegno, al suo savoir-faire.
Marghot sapeva cosa avrebbe dovuto chiedergli.
Non poteva tirarsi indietro, ora che le minacce sembravano lontane e le sue azioni avevano l’apparenza di essere naturali ed assolutamente spontanee.
Don Guglielmo e Marghot, tuttavia, avevano dei nemici segreti. Per meglio dire, la giovane aveva suscitato un’inimicizia, senza nemmeno accorgersene.
Quella persona, segretamente disprezzata, segretamente operava.
Avrebbe probabilmente azzardato qualcosa, ma nessuno lo avrebbe potuto indovinare.
Marghot, dunque, al successivo appuntamento, avrebbe chiesto al suo amante una parrocchia per il fratello e l’avrebbe senza dubbio ottenuta, se, com’era vero, l’ecclesiastico continuava ad essere animato da tanta passione nei suoi confronti.
La giovane non aveva d’altronde pensato di poter sfruttare quella relazione a proprio esclusivo vantaggio.
Quel giorno, nel suo abito nero, tremava, chissà per quale ragione. Era probabilmente per la richiesta che doveva rivolgere al suo amante, che la emozionava a tal punto, da farle perdere la testa. Ella sapeva tuttavia vincere degli istanti di tensione ancora maggiore.
Quel giorno, ella non trovò il vescovo nel suo ufficio e ciò accrebbe la sua angoscia. Ad ogni modo, si imbatté in un biglietto, che s’affrettò a strappare e che solo lei sapeva leggere: voleva riceverla nella sua cappella privata, dove si era ritirato in preghiera.
Le raccomandava di non tardare un solo istante.
La desiderava ardentemente, appassionatamente; quell’attesa doveva cessare presto, perché era una tortura troppo insopportabile per lui. Le aveva scritto che l’amava’
Ma perché riceverla nella cappella dal soffitto turchino, dipinto di stelle? Se fosse entrato qualcuno? Se li avessero scoperti?
Marghot camminava a passi lenti; era già arrivata sulla soglia del luogo convenuto e stava per entrare.
L’uscio, spalancandosi, cigolò appena.
Venne richiuso immediatamente, frettolosamente, con sollecitudine.
La giovane era entrata.
Alla luce di una cinquantina di candele, che bruciavano fulgide e languide in un angolo, comparve il volto pallido, senile e maestoso del vescovo di Pontvieux-sur-Lasson.
Tra le mani, che erano un po’ tremanti, egli stringeva un piccolo libro di preghiere, che teneva chiuso.
Marghot era nella penombra. Si avvicinò a lui lentamente e quasi timorosa; eppure, non avvertiva alcun sentimento di timidezza.
Il vescovo alzò lievemente il suo sguardo su di lei. La fissò per un istante: guardò ciò che era suo, quel bel corpo, quei bei capelli, che lei, proprio allora, metteva in libertà, togliendosi il cappello, che posò su di una panca di legno.
– Vieni, vieni da me ‘ disse lui, sottovoce, facendole un cenno col dito.
In quell’istante, i capelli biondi di Marghot sfolgoravano in modo strano e contrastavano al massimo grado con il nero opaco della sua veste.
Gli occhi dei due amanti si incontrarono, ripetutamente, ardentemente.
– Non sai quanto ti desidero ‘ le disse l’ecclesiastico, prendendo la bella, bianca mano che lei gli porgeva gentilmente ed invitandola a sedersi accanto a lui.
Marghot vedeva, ad un passo da loro, il bell’altare della cappella.
Perché mai volerla ricevere lì? Era forse in quel luogo che doveva essere consumato un altro dei loro accoppiamenti bollenti?
– Perché? ‘ sospirò Marghot. ‘ Perché qui?
– Perché ti amo ‘ rispose lui, avvicinandosi teneramente. ‘ Non &egrave solo lussuria, lo sento’
Tutto cominciava, come sempre, con la stessa calda, travolgente passionalità.
La luce tremula e irregolare delle candele illuminava quell’incontro perverso e languido, il lucore vago delle fiamme sembrava incendiare il loro amplesso appassionato e il male, irresistibile, li consumava.
– Sì! Sì! Sì! ‘ rantolava il vecchio, che nemmeno si accorgeva di quello che stava facendo.
– Ah! ‘ Marghot, assorta, si lasciava trascinare dalle passioni, dal piacere.
Furono momenti bellissimi per entrambi. Facendolo in cappella, toccavano l’acme della spregiudicatezza, ma si sentivano felici, pieni di soddisfazione e d’orgasmo.
Non immaginavano minimamente, in quelle circostanze, che, al mondo, potesse esistere altro che quello che provavano.
Mentre il vescovo guardava Marghot, che andava su e giù, mentre entrambi si preparavano all’eccelso, al sublime, all’irresistibile, inaspettato, scoppiò lo scandalo.
La porta della cappella fu aperta violentemente.
Il mondo, il nemico, la morale, gli obblighi terreni del vescovo, abbagliarono e distrussero le loro sensazioni e il loro rapporto amoroso.
Marghot si stringeva al suo amico, il quale, ormai, non poteva più proteggerla, ne aveva la certezza.
Era arrivato il dies irae.
– Amore mio! Amore mio, che cosa succede? ‘ mormorava Marghot, affranta, appoggiandosi ad una spalla del suo illustre amante.
– Non lo so! Marghot, &egrave la fine’ Il mondo sta precipitando davanti ai nostri occhi!
– Oh, no! No, no!
Scoppiarono in lacrime entrambi; forse, non tutto era perduto.
Una donna era la radice di quanto stava accadendo.
Una donna, ferita, offesa, era venuta a conoscenza della relazione tra Marghot e l’ecclesiastico e non aveva potuto non fare in modo che fossero sorpresi, con grande scandalo e vergogna.
Quella donna portava il nome di Odile.
Odile aveva avuto una relazione immorale con don Guglielmo.
Era stato un amore simile a quello tra Marghot ed il vescovo, ma s’era concluso terribilmente. La donna, infatti, era rimasta incinta di lui e chissà che ne sarebbe stato del loro figlio. Odile aveva saputo che Marghot era sorella dell’infame che aveva approfittato della sua avvenenza. Per lei, rovinare Marghot era stato come rovinare don Guglielmo.
Ora che lo scandalo era scoppiato, per l’ecclesiastico sarebbero stati guai, ma la sua ira si sarebbe riversata sulla sua amante. Infatti, secondo il prelato, la bellezza di costei era la causa di tutto, era stata lei a sedurlo, a rovinarlo, a distruggerlo come uomo e come vescovo!
La odiava.
Sapeva che don Guglielmo era suo fratello e gli fece subire in prima persona il suo sdegno e il suo furore. Ad ogni modo, lo scandalo non aveva avuto il tempo di inghiottire il vescovo con le sue fauci. Qualcosa di più tragico, di più temibile, si era impossessato definitivamente dell’alto prelato.
La morte!
Il vescovo, pochi giorni dopo l’accaduto, era morto, sull’altare. Sì, fu sull’altare, di cui aveva calpestato più volte la sacralità, che lo colse la morte.
Fu una sorta di punizione divina, ineluttabile.
Di Marghot si persero, per alcuni anni, le tracce; nessuno più, dopo il clamore iniziale, parlò di lei.
Mentre narrava tutte queste vicende e la voce sua si perdeva nel racconto di tanti particolari tristi e deprimenti, come il vento può smarrirsi in un bosco dalle mille fronde cupe, Fiorenza sentiva crescere dentro di sé un profondo raccapriccio.
Il tempo era volato. Degli interi quarti d’ora erano fuggiti, mentre Fiorenza, tutta assorta e pensosa, era stata intenta a raccontare la storia di quell’infelice.
– Molti giorni passarono così, come le foglie d’autunno, senza che Marghot fosse più ricordata, ma poi, superato quel periodo, la giovane riemerse in tutta la sua affascinante avvenenza.
Così sospirò la narratrice.
– In che modo? – chiese Aurora.
– La giovane era innamorata, molto innamorata’ Non era semplicemente affezionata’
Queste parole cabalistiche, che sapevano di mistero, furono tutta la sua risposta.
Poi Fiorenza aggiunse:
– Io e Marghot siamo parenti, ma lei non ha mai voluto avere benevolenza verso di me.
La freddezza della bionda nei suoi confronti era stata, invero, a dir poco glaciale.
– Forse io le ho persino voluto bene, ma lei mi &egrave stata addirittura nemica, poiché le ero antipatica’ Mio padre, prima di morire, aveva promesso a me e a Marghot dei soldi. Infatti, egli doveva incassare una somma di denaro piuttosto ingente, non so da chi, né in che modo’ So soltanto che quella somma doveva essere spartita amichevolmente tra me e Marghot, ma’
– Oh! – esclamò Aurora.
– La bionda disse di non avere avuto la sua parte e mi accusò di averla presa di nascosto. Ella diceva e forse continua a dire che sono una ladra. Bugiarda!
Ad ogni modo, tutta quella storia, tutto quel raccontare, avevano impressionato profondamente Aurora, che volle stringere l’amica al suo petto, forse infinitamente incuriosita da quella storia, ma anche assai commossa.
Fiorenza si spinse sino ad aggiungere degli ulteriori particolari, più scottanti che mai.
– Dici sul serio? Lei? Tuo padre? – mormorava la bella arpista, a bocca aperta, lasciando vedere la bellezza delle sue labbra rosse ed il bianco dei suoi denti eburnei.
– Sì’ Ricorda: ti ho detto soltanto che &egrave una persona triste’
– Ma allora?
– Allora, dimmi: che cosa mi posso aspettare, da una persona simile, che forse mi serba ancora del rancore?
– No, non avere paura, non temere, ci sono io qui con te’ Ci sono io, la tua cara amica’
Marghot era stata una mantide. Dopo essere caduta nelle mani di Arturo, però, non aveva più saputo reagire.
Le giornate sue trascorrevano sempre uguali, in una monotonia stancante ed ossessiva.
Arturo tentava di convincerla ad amarlo con tutti i mezzi che aveva a sua disposizione. Le regalava continuamente delle rose rosse, si metteva in ginocchio davanti a lei per porgergliele, ma l’altra però nemmeno lo guardava.
Marghot, fiore sciupato, forse, ma ancor brillante e meraviglioso, piangeva, ed ogni volta che lo faceva mandava in estasi il suo nuovo spasimante, al pari di quando sorrideva.
Philippe, in lei, era completamente svanito, come una nuvola grigia, che se ne andava dopo la tempesta, oltre le torri medievali della città e le guglie rossastre della cattedrale, nell’ora del tramonto.
Ad ogni modo, Arturo voleva Marghot tutta per sé, si era scritto nella mente il suo nome, se l’era stampata nel cuore.
Invano cercava di baciarla, di accarezzarla, di parlare con lei, invano cercava di destare la sua attenzione e di conquistare la sua amicizia. Otteneva in cambio soltanto una pacata indifferenza, che sapeva d’edera, di rose, di mistero, di fragranze boschive e selvatiche: il suo profumo.
– Sì, Marghot, sì – diceva Arturo, appassionatamente, durante i suoi slanci affettuosi. – Sarai mia! Ti avrò, avrò la felicità, che non ho mai avuto. I bagliori della bellezza si riflettono in te.
Ella era ormai semplicemente sua, come una parte di lui stesso, quantunque non accettasse le sue premure. Era un suo braccio, una sua gamba, una delle sue mani, uno dei suoi occhi, una delle sue labbra.
Allorché Arturo si accendeva di veemenza, quando diventava crudele, Marghot lo guardava.
No, non era veramente uomo, l’amore non poteva accarezzarlo. I suoi occhi le facevano più impressione che tenerezza, i suoi capelli dai riflessi strani, magici, non le ispiravano che un senso di repulsione.
– Ah, Arturo – gli diceva talvolta – che cosa puoi fare, tu, uomo perduto?
Quando la bionda gli parlava così, il suo spasimante si faceva muto, per ascoltarla, ma inutilmente.
– Arturo, Arturo, Arturo, Arturo, Arturo’ Come potrai mai rendermi felice? L’amore &egrave una stella che brillava in me una volta, ma ora &egrave spenta, nelle eternità siderali.
Simili parole risuonavano come schiaffi nelle orecchie di quell’amante insaziabile.
In risposta, le gridava:
– Ora basta, Marghot, ora basta! Tu mi apparterrai! Tu sarai mia!
E mentre lui la maltrattava, quasi con violenza, lei piagnucolava assorta, dimentica della realtà.
Era come se un autunno dei sensi fosse stato intorno a loro.
– Marghot, noi due saremo presto una cosa sola, sei contenta? – le chiese lui un giorno.
L’altra restava muta e impassibile’ Doveva rispondergli!
– Dimmelo! – le urlò lo spasimante, afferrandola per un braccio.
– Sì, Arturo, sì – gli mormorò lei, con voce flebile.
– Noi due saremo presto una cosa sola, mia amata’ Lo siamo già, Marghot! Marghot! Marghot! Guardami negli occhi, mentre ti parlo! Leggi l’amore che provo per te’ Ti amo, ti amo alla follia!
Egli la scuoteva, la tratteneva per le spalle e le scarmigliava i lunghi capelli biondi, che ricadevano disordinati sul suo volto. In quell’istante, la donna, che portava un maglione nero, sembrava un essere dissoluto e sfocato.
– Tesoro, &egrave necessario che tu mi sposi’ Voglio che tu mi sposi’
Così le canticchiava lui.
Lei taceva.
– Tu mi sposerai’ Diventerai valdese, come me’ Valdese, hai capito? – le disse poi l’innamorato.
– Come vuoi – sussurrò poco dopo la bionda. – Vivremo insieme, staremo insieme, ci ameremo’
– Vedi che lo vuoi anche tu? Vedi che siamo un’anima sola? Posseggo la tua anima! Sei già mia!
Arturo cominciò a mettere in atto il disegno che aveva concepito.
– Amore caro – gli disse un giorno Marghot – io non so se diventerò valdese. Non sono sicura di volerti sposare’
L’altro divenne improvvisamente scuro in volto ed assai minaccioso.
– Tu farai quello che ti dirò io! – le gridò, alzando un dito verso il cielo. – Tu mi obbedirai! Ti farò diventare valdese, sì’
Fu così che la condusse dal pastore valdese che dirigeva la piccola comunità di Pontvieux-sur-Lasson.
Era un giovane dall’aspetto elegante, ma forse un po’ triste. Nel suo abito blu scuro, provocò una strana impressione in Marghot. Gli occhi del religioso si sollevavano di rado, accesi da un vago pallore e si posavano ora su Arturo, ora sulla sua amante. Parlò loro della chiesa valdese, una chiesa che canta’
Il nome del giovane pastore era Federico.
Dopo che il suo amore e la sua felicità erano stati calpestati dal destino, egli aveva compreso l’assoluta necessità di cercare un valido rifugio nella religione, che era stata per lui un porto di salvezza, dove mettersi al riparo dalle tempeste dell’esistenza.
Per questo aveva deciso di diventare pastore valdese ed era divenuto capo del ristretto numero di fedeli di quella città alpina.
In Federico rivivevano spesso i sogni e le visioni di un tempo, che allontanava da sé con pena e malinconia. Ad ogni modo, la sua dimensione spirituale, si ripeteva spesso, era quella in cui avrebbe dovuto vedere immersa tutta la sua vita.
– Io e Marghot ci vogliamo bene, ci amiamo di un amore che sembra crescere giorno dopo giorno – diceva Arturo, ma con una voce simile a quella con cui recitavano gli attori.
Federico, ascoltandolo, lo guardava. Egli sapeva leggere gli sguardi e le intenzioni sepolte nel cuore degli umani. La sua sensibilità triste, quanto le cattedrali sperdute nelle Alpi, lo guidava nell’intimo di quel balordo interlocutore.
Marghot annuiva sempre’ Sembrava che qualcuno l’avesse drogata, per costringerla ad acconsentire a tutto.
– Sì, &egrave vero, lo amo’ Lo amo molto – trovò la forza di dire poco dopo.
Il religioso non doveva farsi una cattiva idea del rapporto tra i due amanti, né della decisione di lei di entrare a far parte della chiesa valdese.
Federico fece i complimenti ad Arturo, perché era riuscito a farsi amare da una giovane bellissima. Poi aggiunse:
– Se Marghot vorrà veramente unirsi a noi, non potrò che accoglierla a braccia aperte.
– &egrave il suo più grande desiderio, unitamente a quello di sposarmi – rispose il promesso sposo, in vece della sua compagna.
– Marghot, se l’affetto per quest’uomo ti ha fatto trovare la vera felicità e ti ha fatto scoprire e scegliere la verità, io non potrò fare altro che esserne felice e rivolgerti i miei più vivi rallegramenti!
‘Marghot sta per diventare valdese come me, saremo due cuori e una capanna’ pensava Arturo, dopo il suo colloquio con Federico.
La bionda era rimasta fortemente turbata. Non le erano piaciute affetto le parole fin troppo convincenti di quello spasimante, che forse era riuscito davvero ad ingannare quel virtuoso uomo di chiesa.
Quando il suo amore la portava a passeggio e le faceva respirare l’aria salubre del meriggio, che sapeva di monti, di pini e di boschi, le sembrava che godesse, ma soltanto di se stesso, perché lei, nei suoi confronti, non provava nulla di veramente affettuoso, ne era convinta.
Era soltanto per fargli piacere e non vederlo arrabbiato che gli diceva di amarlo.
– Tutto questo &egrave soltanto il preludio della nostra felicità – ripeteva sovente Arturo alla sua bella. – Vedrai che presto saremo una cosa sola con questi fringuelli, queste tortore silvestri, questi alberi secolari, di cui il vento conosce i nomi’
L’altra annuiva, tenendo le sue palpebre abbassate e mostrandogli le sue belle ciglia lunghe, nerissime e dolci.
Ogni volta che si incontravano, Federico spiava Marghot da dietro i suoi occhiali rotondi. Allora, la scopriva fredda e come di marmo.
Il pastore valdese si rendeva conto sempre più della necessità di ascoltarla a tu per tu, senza la scomoda presenza di quello spasimante, che forse, con il suo discorrere ininterrotto e sapiente, riusciva ad oscurare la vera volontà di quella donna.
‘Forse costui &egrave addirittura perverso’ pensava Federico, una volta. ‘Marghot sembra una margherita di montagna, molto sensibile e affettuosa’.
La giovane cercava invano di parlare all’uomo di chiesa con i suoi sguardi ammalianti.
Durante uno dei colloqui con i due amanti, il pastore disse:
– Mi rendo conto che la sincerità della conversione di Marghot &egrave fin troppo palese. Eventi tanto gioiosi e consolanti accadono ben di rado. Vorrei parlare per un attimo da solo con Marghot, per farmi raccontare in confidenza i primi albori di questa sua crescita spirituale.
– Faccia pure – disse Arturo. – La mia amica del cuore &egrave a sua disposizione.
Federico chinò il capo, poi, rialzandolo e rivolgendosi alla bionda, le disse, dopo che furono rimasti soli:
– Venga, non abbia paura, mi segua nell’altra stanza.
L’altra si alzò in piedi dalla sedia a braccioli sulla quale stava seduta. Il pastore valdese la condusse nell’altra stanza, le cui pareti erano arredate come quelle di una biblioteca.
Il religioso attese qualche istante, prima di cominciare il suo discorso. Fissava Marghot con inquietudine; era certo che quel bel viso ovale, quei capelli d’oro, quella bocca di corallo, celassero un’anima dannata.
Sembrava che un fuoco cupo e appassionato la divorasse. Gli parve di vederla avvolta dalle fiamme, in un castello medievale, dove c’erano i draghi.
– Marghot, posso darti del tu? – le chiese poi. – Qui il tuo futuro sposo non può sentirci. Siamo soli, tu ed io. Non desidero metterti a disagio, non voglio che ti spaventi’ Ma non voglio nemmeno che tu sia infelice!
Ella alzò il suo sguardo su di lui. Federico si sentì percorrere da un brivido; non avrebbe mai creduto che due occhi neri, in apparenza spenti, potessero far provare un’emozione tanto ardente e profonda.
– Rifletti, Marghot! – esclamò il pastore valdese. – Qui Arturo non può sentirti’ Tu non lo ami! Non sei veramente innamorata di lui!
– Ebbene, egli’ – mormorò la giovane.
– Stai per diventare valdese a tutti gli effetti’ Lo vuoi tu, o lo vuole Arturo? Sei sicura di volerlo sposare? Vi amate? Appassionatamente? Marghot, basta un solo cenno del capo! Marghot, sei sua? Ti ha plagiata? Non riesci a volere? Svegliati, Marghot!
– No! No! Non farmi singhiozzare’
– Lo sapevo’ Lo sapevo! Lo ammetto, per un istante, avevo sperato che’ Ma mi illudevo! Arturo parlava a dismisura, tu eri troppo cupa e silenziosa. Tu non diventerai mai valdese’
– No, non lo diventerò’
– Quell’uomo &egrave uno dei malvagi di cui narra la Bibbia’ In questo periodo, non ha fatto altro che maltrattarti, &egrave un bravo attore e sa recitare la sua parte’ Ma io gli impedirò di farti piangere!
– Ti ringrazio, Federico, &egrave bello averti come amico e darsi del tu come fratelli!
– Sì, non andrò contro la tua volontà. Ti rispetterò, ogni essere umano ha il diritto di essere rispettato. Anch’io ho sofferto, ho molto sofferto e purtroppo’
Non era giusto che qualcuno si rendesse colpevole dell’irrimediabile infelicità di una bella giovane come Marghot.
Il grazioso pastore valdese divenne irremovibile. Non esitò a dichiarare che, per lui, Marghot non era pronta, né completamente matura per la conversione e il matrimonio. Qualora le insistenze di Arturo fossero divenute più pressanti, gli avrebbe detto in faccia, minacciosamente, tutto ciò che pensava di lui.
Ma l’antipatico era troppo balordo ed invaghito per rinunciare alla sua bella.
– Nessuno può stroncare il mio sogno d’amore!
Così gridò l’innamorato, il volto rivolto verso il cielo, davanti alla cattedrale gotica di Pontvieux-sur-Lasson.
‘Federico la pagherà a caro prezzo’ si ripeteva l’infuriato. ‘Lo toglierò di mezzo. Ma come fare? Egli &egrave un uomo tutto d’un pezzo, &egrave risoluto, &egrave duro come la corteccia dei pini di questi boschi, in cui abitano i picchi rossi, dai becchi lunghi e aguzzi’.
Ben presto egli ricevette un biglietto, indirizzato a lui. Ecco il contenuto di quel messaggio:
‘So come liberarla da questo incomodo. La aiuterò, a patto che lei, a propria volta, aiuti me. Sono a conoscenza di segreti che lei ignora. La sua felicità dipende da me. Colgo l’occasione per salutarla.
Un’amica’.
Chi mai poteva essere l’autrice di quello scritto?
Un giorno, Arturo ricevette la visita di Aurora, che, nei suoi confronti, era sempre stata gentile ed amichevole.
Egli le raccontò che stava per sposare una donna, che si sarebbe convertita alla sua religione, diventando valdese a tutti gli effetti. Le parlò di colui che dirigeva la piccola comunità di Pontvieux-sur-Lasson. Le descrisse l’aspetto fisico di quell’uomo, la sua sensibilità, la sua delicatezza, la sua nobiltà d’animo.
– Il suo nome &egrave Federico? – chiese Aurora.
Ella sapeva quasi tutto di quel pastore. Se così non fosse stato, un rossore vivo, naturale, d’emozione, non le avrebbe colorito le belle guance, che sovente sembravano di marmo. All’improvviso, in lei si era risvegliato il ricordo di quel giovane meritevole e caro.
Ben presto, i due si incontrarono.
Aurora non riconobbe subito Federico in quell’uomo altero, dall’aria cupa e nebulosa e dietro il lungo abito blu che indossava.
Era radicalmente cambiato. Forse, erano stati i tempi a mutarlo a tal punto.
Il religioso, spiando nei begli occhi furtivi di quella giovane donna, sentendo sul suo volto la carezza del suo sguardo amorevole e infinito, capiva.
In un attimo, il ricordo, l’amicizia, la sorpresa, li vinsero.
– Aurora! – mormorò Federico, stringendole affettuosamente entrambe le mani. – Ci crederesti? Tu’ Oh, che gioia!
Ad ogni modo, in lui rimanevano le tracce di qualcosa di inenarrabile, di uno smarrimento che l’aveva ineluttabilmente segnato.
Egli aveva amato ed aveva perduto.
Aurora indovinò ciò che era rimasto in lui e quanto doveva averlo sconvolto, inaridendo l’anima sua. Il religioso cominciò a parlargliene ed ella lo fissò, con gli occhi umidi ed accarezzandosi i lunghi capelli, che le ricadevano come nuvole sulle spalle eburnee.
Fu così che seppe di un tale Valentino, seppe di mille cose, che prima ignorava e non aveva nemmeno immaginato.
Forse, quel racconto la impressionava troppo e le toglieva gran parte dell’ardore e della dolcezza che le avevano invaso il cuore. Ad ogni modo, ella ascoltava, ascoltava sempre, silenziosa e immobile.
– Davvero ti &egrave successo tutto questo? – esclamò la bella, allorché la narrazione del suo interlocutore si interruppe, in mezzo ai singhiozzi. – Oh! Perdonami, Federico! Perdonami! Io ero qui, a Pontvieux, ma non sapevo nulla. Mi sentivo confusa, smarrita, dopo tanti e tali eventi’ Se solo avessi saputo! Se avessi potuto confortarti prima!
– A che cosa serve rattristarsi per nulla, amica mia? Perché non dimentichiamo? – disse l’altro, chinando la testa; sì, sapeva che dimenticare poteva essere assai difficile. – Ti voglio bene, Aurora’ Ti voglio bene!
– Anch’io! Anch’io, Federico.
La giovane non poteva non provare una profonda tenerezza nei confronti del suo giovane amico. Mentre lo guardava negli occhi, sentiva che il cuore le sussultava nel seno, accarezzato dall’affetto sincero e meraviglioso che nutriva nei confronti di chi le stava innanzi.
Se gli parlava, si accorgeva di essere in una dolce e spontanea confidenza con lui, che non aveva mai avuto con nessuno prima d’allora.
Il pastore valdese non aveva mai avuto una vera madre. Aurora lo era diventata nei suoi confronti.
Entrambi erano pervasi dall’unica cosa che si possa veramente desiderare a questo mondo e per la quale soltanto valeva la pena di vivere; più nulla, oltre a questo, poteva avere un senso per loro.
– Voglio che tu mi stia sempre accanto – le mormorò Federico, accarezzandole la mano. – Ho bisogno di una persona come te.
Sì, era vero. Aurora lo nutriva d’amore.
In ogni caso, entrambi già scoppiavano di una vicendevole felicità, una felicità sconvolgente, che scintillava brillante e fulgente, nei loro occhi, mentre si trovavano insieme.
Federico le narrò altresì della sua vocazione, di come e perché avesse scelto di diventare un pastore valdese.
– Non vi &egrave nulla di più bello che conoscere Dio e la sua verità – le diceva, appoggiando la testa sul suo seno. – Forse, questa &egrave stata la sola cosa che mi abbia consolato, facendomi uscire dal baratro nel quale ero caduto.
I due parlarono anche di Arturo, persona che Aurora aveva appena citato e per un solo istante, dalla loro conversazione, emerse la figura di Marghot.
– Per il mio amico &egrave giunto il momento di sposarsi – sussurrò la bella.
Allora, in Federico vi fu uno scoppio di ombrosità, che gli inaridì il volto.
Ma passò velocissimo, come un dolore misterioso e sconosciuto, che passa subito dopo che ci si &egrave accorti di provarlo.
– Ma che cosa fai? Come vivi? – chiese lui.
– Non faccio nulla di particolare, vivo alla giornata, mio caro – rispose l’altra. – La musica non basta più per vivere, tanto che per me &egrave stato necessario trovare un altro lavoro.
– Sì? Quale?
– Lavoro in una biblioteca. Non &egrave faticoso, &egrave soltanto un po’ tediante.
– Tediante, dici?
– A volte. Ma per fortuna, questo mondo ci riserva anche degli amici, in compagnia dei quali le ore sembrano volare. Conosco una persona, infatti, della quale sono molto amica e, quando siamo sole, parliamo del più e del meno per distrarci.
A quel punto, Federico ebbe un sussulto involontario. Fu una sorta di presentimento.
All’udire il nome di Fiorenza, il buon religioso sembrò rattristarsi. Ma era soltanto apparenza; se aveva abbassato lo sguardo, era stato per puro caso.
– Forse perché lavoriamo insieme, forse perché lei mi ha narrato ogni particolare della sua vita, ci vogliamo bene – disse la bella.
– &egrave giovane?
– Sì, abbastanza, ma non saprei dire con esattezza quanti anni abbia. A dire il vero, non me l’ha mai detto.
L’altro si fece pensoso.
A poco a poco, Aurora gli descrisse sempre più in profondità la sua dolce amica, in modo che lui potesse farsene un’idea più precisa. Gli parve di avere davanti a sé un ritratto, racchiuso da una cornice d’oro. Nella sua mente, Federico già tracciava i vaghi collegamenti tra una parte del suo passato che credeva sepolta e la persona che la sua interlocutrice gli descriveva appassionatamente.
Alla fine, il pastore non trovò più nulla da dirle. Era travolto dalla moltitudine di pensieri che lo assediavano. Si sentiva talmente assorto e confuso, che quando lei lo salutò, andandosene, non se ne accorse nemmeno.
Ad Aurora pareva sonnolento, ma si sbagliava.
Allorché si rividero, fu il buon religioso a chiederle di parlargli ancora di Fiorenza.
L’altra lo fece con piacere.
– Quella persona mi rende inquieto – disse alla fine Federico. – Non saprei proprio definire il mio stato d’animo, ora che mi hai riferito tutti questi particolari vaghi.
– Che intendi dire? – gli chiese lei.
– Aurora, tu mi hai ricordato un mio amore perduto! Se quello che mi hai raccontato &egrave tutto vero, impazzirò per l’illusione. Suo padre &egrave morto, non &egrave così? Aveva come un debito da saldare? Dei problemi di denaro con i suoi congiunti? Parlamene ancora, ti prego! Fiorenza, un tempo, si chiamava Giovanna’ Non so per quale ragione abbia mutato il suo nome! Ci siamo amati ardentemente e’
La voce sua svanì in un sospiro affettuoso.
Aurora gli strinse entrambe le mani e lo guardò negli occhi con una curiosità tutta femminile.
Fiorenza e Federico si incontrarono, si parlarono, erano stati una cosa sola, un amore solo, ma la forza del destino li aveva separati’ Così sembrò loro.
La bella arpista aveva dato al caro pastore valdese un’opportunità per essere nuovamente felice.
C’era in ogni caso una persona che seguiva tutte le mosse ed i pensieri delle pedine che si muovevano sul nostro scacchiere. Era Arturo.
Egli sapeva di avere in qualche modo solleticato il punto debole del pastore valdese e di essere in procinto di liberarsi della sua opposizione. Non poteva vivere senza Marghot, né pensare di sposarla senza il rito valdese.
Federico era il suo avversario, pertanto doveva toglierlo di mezzo, ad ogni costo e secondo i suoi disegni.
Arturo venne a sapere che il buon religioso ANDAVA A TROVARE FIORENZA e ciò accadde con molto piacere da parte sua.
Il suo piano funzionava. Ma dove voleva condurre quei due esseri umani? Quali emozioni dell’intimo avrebbe fatto provare loro? Che cosa avrebbero visto accadere tutt’intorno?
Il destino era nelle mani di quell’uomo cupo, dall’impermeabile grigio.
Un giorno, Federico, il pastore valdese, andò a far visita a Fiorenza, nella biblioteca. Era stata lei a permettergli di andarla a trovare in quel luogo, particolare che aveva fatto impazzire il giovane.
– Non mi interessano i libri – le diceva. – Sei tu che m’interessi, più di qualsiasi altra cosa al mondo.
Fiorenza, sentendosi rivolgere simili lusinghe, arrossì di passione.
– Lo sai che mi piaci? – gli disse.
– Sono venuto qui per te, solo per te. Ti ricordi chi sono?
– Tu sei il mio caro Federico.
– Sì. Ma rammenti chi sono veramente per te? Che cosa sono stato nella tua vita? Scoprire il tuo volto &egrave stato per me riabbracciare la felicità perduta. Non avevo smarrito la letizia, bensì un bene ancor più prezioso, che ritrovo accarezzandoti.
– Come? Me?
– Credi forse siano mie fantasie? No, ti sbagli’
– Tu sei nato per me, amor mio’ Le parole che mi rivolgi sono meravigliose, troppo belle perché possa capirle’
– Quando mi dissero che la morte ti aveva colta, un brivido mi percorse. Ma erano voci false e malvagie. Tutto ciò che pensai un tempo si &egrave dileguato in questo istante, in questo supremo istante, in cui posso abbracciarti, stringere le tue mani ardenti e contemplare i tuoi occhi opalescenti!
Forse era a causa del silenzio di lei che il caro pastore le parlava con un’intensità sempre maggiore e le narrava storie che ella non capiva, perché la malinconia doveva chiuderle la mente.
– Non ricordi? Non mi riconosci, Fiorenza? Amore bello, guardami negli occhi e poi ricordati dell’uomo che amavi un tempo! Ti sai chi sono! Io non credo di sbagliarmi. Se mi sbaglio, aprimi gli occhi, disilludimi, anche se resterò cieco per sempre!
Lei era travolta dai ricordi appassionati del passato, del tempo in cui una ragazza era stata costretta a cambiare nome, a causa dell’odio nero dei suoi nemici. Le nuvole nere di una volta le parvero una tempesta, una tempesta! In essa, ardeva un amore inestinguibile.
– Fiorenza! Gli stessi capelli! Gli stessi occhi! Lo stesso volto! Le stesse mani, alabastrine! Fiorenza!
– Federico, sì, sei tu!
– Fiorenza, sei tu, tu, soltanto tu!
– Sì, sì!
Così si parlarono i due amanti.
Ma Federico la lasciò all’istante. All’improvviso, tutto il suo ardore si trasformò in una morta tristezza, che cancellò dal suo sguardo ogni parvenza di soavità.
I dolci attimi erano svaniti.
Un pensiero nero aveva strappato al buon religioso la felicità ritrovata.
– Che hai? – gli chiese Fiorenza, accarezzandogli le guance.
– Nulla. Non ho più nulla.
Eppure, quegli occhi, quello splendore! Sembrava lei! Perché mai gli resisteva? Perché?
Forse, soltanto perché lo amava.
Prima di andarsene, lui volle mormorarle di nuovo:
– Fiorenza! Sei tu! Non nasconderti, non hai bisogno di celarmi il tuo volto’ Siamo felici’
Ma Federico si era accorto che la donna con cui parlava non era la stessa che aveva illuminato il suo passato come una stella. Anche la sua interlocutrice se ne accorse.
Fiorenza portava al seno un dolce ricordo, profumatissimo, di legno di rosa’ Se il buon pastore valdese lo accostava, per un istante, all’odorato, veniva come a contatto con il profumo di un amore. Era stata la sua amata di un tempo a toccare quel rosario, più volte, con la bocca semichiusa, come un fiore pronto a sbocciare.
– Era suo – disse Federico.
– Sì, suo.
– Ci siamo sbagliati, tu non sei colei che cerco’ Ma &egrave una profonda consolazione sapere che porti un dono che le apparteneva!
– Tienilo, &egrave tuo.
– Vorresti regalarmelo? Sì, &egrave come se fosse mio. Ma so quanto tu tenessi a lei’
– Voglio che sia tuo e rimanga per sempre con te.
– Mio?
– Tienilo con te, non separartene mai! Credo di capire quanto lei ti volesse bene’
– Oh, se soltanto l’avessi anche sentito!
Ma non c’era più tempo.
Il tempo s’era fermato, per consentire loro di piangere.
Calava la notte e nella biblioteca erano rimasti solo loro due. Un brivido travolse le anime di entrambi. Se poco prima erano stati la tristezza, la timidezza, l’amore, ad affratellarli, ora li univa qualcosa di più grave e cupo.
Erano caduti nell’inganno, senza accorgersene, accecati dalla follia dei sentimenti ed ora era troppo tardi.
Troppo tardi! Troppo tardi!
Una voce nera lo gridava dentro di loro.
La biblioteca andava a fuoco!
L’incendio sembrava essere scoppiato per caso, forse a causa di un’imprudenza o per un mozzicone di sigaretta, abbandonato sbadatamente.
Mentre un uomo e una donna erano rimasti trasognati, a contemplare e rimpiangere il passato lontano, le fiamme assassine erano divampate.
Tutto era accaduto con una tale celerità, una tale ineluttabilità, da far rabbrividire chiunque avesse assistito a quello spettacolo agghiacciante.
– Federico, Federico, andiamo via! – gridava la voce di Fiorenza, smorzata dallo spavento.
In quel mentre, la donna comprendeva l’angoscia che doveva avere distrutto i dolci momenti di lui. Ora discerneva dinanzi a sé la medesima desolazione, avvertiva nel suo cuore lo stesso senso di vuoto, che potevano indurre un amabile essere a commettere un sì insano gesto.
– Perché la morte? – mormorava il giovane, rassegnato.
– Federico, facciamo qualcosa! Federico!
– Troppo tardi.
Era fatale.
Le fiamme incenerivano i loro ultimi sentimenti. Abbracciati nella morte, era come se si amassero e se l’antico e scomparso amore di Federico e Giovanna rivivesse in quelle circostanze inenarrabili.
Il ricordo era in loro, con gli stessi occhi splendenti di dolce soavità, ma con il gelo della fine che percorreva tutte le membra.
– Giovanna! Giovanna! Giovanna! – urlò il pastore, mentre si sentiva bruciare, divorare dalle fiamme e s’accorgeva che l’incendio s’era esteso ormai all’intera biblioteca.
Sì, la chiamava. Forse, non gli rimaneva che morire’
Chiamala, Federico! &egrave dentro di te, ce l’hai accanto! Ti accarezza l’anima, puoi sentire il palpito del suo cuore tra le tue mani!
‘No, non voglio che anche quest’ultimo ricordo muoia. Ma se morirà, sarà soltanto insieme a me’ pensò il buon religioso.
– No, non sono la tua Giovanna – diceva Fiorenza, mentre il suo compagno di sventura, in un ultimo, disperato tentativo di salvezza, si sforzava di arrivare all’uscita, con lei tra le braccia. – Forse, sarei potuta esserlo’
Federico sentiva che la sua pelle bruciava. Il dolore non era nulla, per lui, in confronto all’incolmabile vuoto del suo cuore.
Fiorenza, intanto, era svenuta tra le sue braccia.
Il calore sprigionato dalle fiamme era divenuto insopportabile. Federico si sentiva venir meno, il fumo lo soffocava, il bagliore del fuoco lo accecava e non aveva più forza.
– La porta! La porta! – mormorava.
Vi era quasi arrivato. Era a un passo dalla salvezza, si diceva. Le membra sue, ormai, erano distrutte dal fuoco o così gli sembrava. Gli occhi suoi non potevano più vedere. Le gambe non lo potevano più sostenere.
– Giovanna! Giovanna, amor mio! – gridava, per quanto possibile, ma non poteva che emettere gemiti e bisbigli.
Voleva morire, se così doveva essere, ma almeno gli sembrava di averla tra le braccia, gli pareva che fosse ancora viva e di esserle vicino, nelle circostanze più estreme.
La maniglia! Egli allungava penosamente la mano, nel tentativo di afferrarla.
Ma l’uscio era irrimediabilmente chiuso a chiave.
L’incendio fatale divampava sempre. Era come se il caro pastore valdese innamorato fosse morto insieme a lei, il volto carbonizzato, le mani bruciate.
Le fiamme rossastre e cupe splendevano di tenebra nella notte già profonda, quando s’udì una chiave penetrare nella serratura della porta, che si apriva, lentamente, lentamente’
Una gran colonna di fumo, nero e minaccioso, uscì attraverso l’uscio spalancato.
Un essere umano, una donna, aveva aperto. Le mani sue non tremavano. Il volto suo era compunto ed immobile. I capelli suoi apparivano scarmigliati, lunghi e come d’alabastro.
Davanti a sé trovò Federico e Fiorenza, teneramente abbracciati, come due amanti sorpresi dalla morte.
La donna si fermò, per un istante.
I suoi sguardi erano stati come rapiti dalla spettacolare visione d’incendio, che si poteva avere attraverso le finestre infuocate della biblioteca. Mai attimo più impressionante e sconvolgente sconvolse quell’essere, durante il resto della sua esistenza.
Lo sguardo di ghiaccio, si chinava.
Lo aveva tra le braccia.
In quell’istante, con l’anima aperta e tranquilla, ma quasi sospettosa e timorosa, arrivava, prestamente, Aurora.
Era stato il buon religioso a darle appuntamento per quell’ora, in quel luogo, prevedendo che quel suo incontro con Fiorenza si sarebbe concluso nella gioia di un ritrovamento.
Aurora vide le fiamme, vide la colonna di fumo, nerastra e nebulosa, che correva attraverso un uscio, nella notte. Allora, un brivido agghiacciante le travolse il cuore.
Vide, come in una visione, lei, in mezzo alle fiamme, mentre scendeva la scalinata ardente, con la vittima, morta, tra le sue braccia; scendeva le scale, sì, il volto illuminato da una luce pallida, allucinante.
Aurora la riconobbe all’istante.
Era Marghot, la sventurata Marghot!
I loro sguardi si scontrarono, fatalmente. Fu un lampo, ma terribile ed infinito, quanto un inferno.
– Sei tu che l’hai ucciso – gridò Aurora, la voce alterata dal dolore. – Tu, tu sola potevi farlo! Perché?
I volti di entrambe si accesero di un rossore indescrivibile. I loro occhi, vitrei, erano affondati nella disperazione e circondati da occhiaie nere come la pece.
– Disgraziata! – ripeteva Aurora. – Disgraziata!
Marghot era giunta a un passo da lei. Non le separava nient’altro che l’abisso.
Federico, inanimato, stretto dalle braccia di Marghot, era la morte, la stessa che si rifletteva sui volti delle due giovani, che stavano l’una dinanzi all’altra e si guardavano sempre.
In mezzo al crepitare disperato delle fiamme, che divoravano quanto rimaneva della biblioteca, Aurora sentiva sorgere dentro di sé, forse per la prima volta in vita sua, l’odio. Era più feroce e assassino del fuoco che aveva incendiato la sua felicità.
Marghot, impassibile, le consegnava Federico, senza che l’altra potesse provare un solo fremito.
Forse, un grido stava per uscire dalla bocca pallida della bella arpista, ma a che cosa sarebbe servito?
Tutto era accaduto come in un incubo e come in un incubo Marghot, quando Aurora si voltò, non c’era più.
Il pipistrello s’era dileguato nelle tenebre.
Sarebbero arrivati i soccorsi’ Ma ormai non c’era più nulla da fare!
Aurora piangeva, il volto tra le mani, era affranta. Una voce le diceva:
– Ma dimmi! Come &egrave accaduto? Chi &egrave stato? Chi?
– Nessuno, soltanto il destino’ – mormorò l’innocente.
Insieme ai soccorsi, giunse anche don Guglielmo.
– Senta, le devo parlare – gli sussurrò la cara arpista, con gravità. – In queste circostanze, non posso più tacere la verità. Cielo, quanto &egrave difficile parlare così! Non ci conosciamo bene’ Ma lei saprà’ Sì, saprà’ Si ricorda di Odile?
Nel volto di don Guglielmo apparve una ruga di disperata malinconia.
– So benissimo quello che lei prova in questo momento – gli disse Aurora. – Ma lei ha dinanzi a sé suo figlio!
A quel punto (forse fu realtà, forse soltanto immaginazione e sogno) gli occhi di Federico si spalancarono, dipinti d’oblio.
Don Guglielmo poté guardarlo e si sentì inaridire l’anima dallo sconforto, al quale s’abbandonava.
– Figlio mio! – gli mormorò.
Gli sguardi che si scambiarono furono come l’abbraccio più caldo ed estremo.
Il buon pastore valdese chiudeva gli occhi, dolcemente. Moriva in pace, il volto e l’anima consunti, sussurrando queste parole:
– Il destino, allora, non aveva mentito. Non aveva mentito!
– Oh, Federico, non morire! Non lasciarci! – gridava Aurora, slanciandosi su di lui e stringendolo al petto, inutilmente.
Fu lei a chiudergli gli occhi, per sempre.
– &egrave morto, ahim&egrave! – disse don Guglielmo, chinando la testa, tutto afflitto. – Morto!
Soltanto allora aveva potuto sapere il terribile segreto e piangeva, dentro di sé, mentre le fiamme, a poco a poco, cominciavano a perdere forza, nella notte stellata.
Il rogo più devastante era quello del suo cuore.
Tutto era tanto struggente, da impedire persino il pianto!
Federico, morire così! La sua felicità, la sua giovinezza, la sua vita, infrante!
Era tutto finito! Tutto finito!
Impossibile credere a tanto, eppure era vero.
Gli astanti singhiozzavano mestamente. Molti piangevano.
Aurora non seppe per quanto tempo rimase là, come immobile e partecipe della morte di un essere così buono, così giovane, così innocente. Una mano posata sulla sua spalla la riscosse dal torpore nel quale era precipitata. Non trovò neppure il coraggio di alzare il capo, perché gli occhi suoi erano ancora bagnati di dolore. Distinse un’ombra, ferma davanti a sé. Forse le sorrideva, forse era un’illusione.
– Chi &egrave lei, scusi? – domandò vagamente la bella arpista.
Sentì di nuovo quella mano sulla sua spalla.
– Ti ricordi? – le disse una voce roca e vellutata.
Ella rispose col silenzio. L’eco della memoria risuonava nella sua mente, invano.
– Florimond – mormorò lo sconosciuto. – Florimond’
Aurora si alzò in piedi. Lo aveva dinanzi a sé e le sorrideva quasi con passione. Le accarezzò i capelli, forse perché comprendeva quanto gravemente era sconvolta.
– Oh! – disse l’arpista, mentre, quasi senza avvedersene, si abbandonava sulla spalla di quell’uomo, singhiozzando.
– Che hai?
L’altra non rispose; continuava a singhiozzare, i bei capelli sparsi sulla spalla del suo consolatore. Ma anche Florimond, purtroppo, era inconsolabile.
Nell’oscurità, la giovane non se ne accorse.
– Sono disperata, amico mio, disperata! – gli disse. – Sapessi quanto ho sofferto e quanto soffro! Oh, &egrave terribile! Hai visto quello che &egrave accaduto?
Florimond annuì silenzioso. Sembrava che, in quell’istante, non potesse parlare, invece era strano. Soltanto allora Aurora distinse due grandi occhiali scuri, che gli nascondevano gli occhi. Il giovane l’aveva tra le sue braccia e lei, come una bambina, si consegnava a lui.
Mentre gli era accanto, era come se un turbine di turpitudini si disperdessero, vane.
Aurora non ricordava lo sdegno che aveva colorito le sue ultime giornate con quell’uomo, sapeva soltanto di avere bisogno della compassione di qualcuno. I due erano stati amici intimi, in un passato non remoto. Una volta, Florimond l’aveva baciata e abbracciata, mentre lei suonava l’arpa, nella bella cattedrale dalle guglie rosse.
– Come mai sei qui? – gli chiese la bella.
Egli tacque. Rispose accarezzandole le guance e le fece intendere di avere molte cose da dirle.
Aurora vide le sue mani tozze ed ormai senili. Il tempo aveva potuto molto in quell’uomo, forse lo aveva vinto.
– Mi vuoi ancora bene? – domandò Florimond.
– Sì – sussurrò lei, giungendo le mani.
– Ricordi, un tempo? Ricordi quello che siamo stati? Come mi baciavi’
– Lo rammento a stento’ La mia mente &egrave come confusa, ora. Sento di aver bisogno di te! Una persona che mi era assai cara &egrave appena morta. Quanto gli volevo bene! Eravamo come fratelli’
– Sono addolorato.
– Non solo se n’&egrave andata la persona cui forse tenevo di più al mondo, ma &egrave scomparsa anche la mia migliore amica. Sono morti insieme, abbracciati, il destino sa come!
– Vieni, afferra la mia mano, ormai non c’&egrave più nulla da fare!
Aurora alzò il suo sguardo e, alla luce turchina di un lampione risalente alla fine dell’Ottocento, s’accorse della fatale realtà. Florimond s’orientava a stento, oltre a portare quei grandi occhiali neri.
– Sì, hai indovinato – le mormorò. – Ammetterlo &egrave molto triste ed ancora più triste &egrave stato diventarlo!
Egli era cieco.
– Lo sono diventato per disgrazia e, da allora, ho vissuto nelle tenebre – aggiunse, singhiozzando.
– Ma come vivi?
– Male, o forse bene. Non vorrei che ti facessi un’idea sbagliata di quello che sono. Non mi comporto come una persona che si chiude in casa a piangere, mi rassegno.
I due passeggiavano nell’oscurità, velata soltanto da rare luci. Meglio non scoprire il proprio volto in quello dell’altra, meglio non vedersi, meglio l’incertezza, la penombra, la tenebra stellata.
– Ma perché passavi da quelle parti? Dove abiti ora? – gli chiese l’arpista.
– Te lo dirò’ Ti racconterò tutto! – le rispose Florimond, con una voce che tradiva un’emozione inenarrabile.
La bella tacque e si appoggiò, stanca, affannata, sonnolenta, al suo braccio, gli occhi affettuosi e sognanti.
Ovviamente, quanto allora la legava a quell’uomo non poteva essere altro che l’amicizia più tenera ed appassionata che si possa immaginare. Dei sorrisi amichevoli, delle mosse fraterne, delle parole affettuose e sussurrate erano tutto ciò che poteva contraddistinguere il loro rapporto.
E poi, ora che Florimond aveva perduto la vista, la giovane provava anche una vaga compassione nei suoi confronti; se però lui l’avesse letta anche una sola volta nei suoi occhi, non avrebbe mai potuto accettarla.
Tutto ciò che desiderava da lei era amicizia.
Trascorsero insieme delle ore amene, senza nemmeno accorgersi, in apparenza, di ciò che facevano durante quel tempo. Si recarono sovente fuori città, con una vecchia bicicletta che sembrava d’antiquariato.
Lui la faceva sedere sulla canna, davanti a sé; le gambe di Aurora, che in quelle occasioni vestiva abiti leggeri, sporgevano leggermente all’infuori. Lei reggeva il manubrio e gli diceva di stare attento, mentre lui pedalava.
In quegli istanti, nella grande cornice delle Alpi, era come se Florimond non fosse mai stato cieco, tale era il calore che li avvicinava.
Il sole era sempre limpido e sereno nel cielo, terso e tranquillo.
Si recavano quasi sempre nello stesso luogo, all’ombra di un gran rovere, dalle fronde maestose e verdeggianti, si sedevano sull’erba, ad ascoltare i rumori della natura.
Sovente quel silenzio s’interrompeva, ma era come se continuasse. Sovente l’arpista proferiva delle domande che disegnavano sul volto di Florimond delle sfumature cupe ed impenetrabili.
Talora si parlavano, ma non riuscivano a comprendersi, forse perché un distacco interiore si frapponeva tra loro.
Allora, bastava un sorriso, una parola indefinita il cui sussurro fosse però inconfondibile, perché l’armonia dei magici affetti li riavvolgesse.
Ma non sempre era così. C’erano dei giorni in cui, dopo poche frasi, rimanevano avvolti in un’indifferenza reciproca. Il vecchio albero, al cui tronco s’appoggiavano lieti, aveva forse centinaia di anni. Era cresciuto solo, in mezzo a un campo, in quella valle dorata, quasi senza che nessuno se ne accorgesse. Aveva molte cose da narrare, da sussurrare, da sospirare, benché allora, vecchio tronco ancora verde, non potesse più sperare nei bei colori del mondo.
– Mi dispiace molto che tu abbia avuto questa sorte – diceva Aurora un giorno al suo compagno di viaggio. – Potessi fare qualcosa per te’
– Tacere – le rispose lui. – Il silenzio onora la sventura più di qualsiasi parola di conforto.
Aurora lo guardava con i suoi grandi occhi pieni di cielo, ma era tutto inutile. Florimond le narrava di come fosse rimasto cieco.
Le frasi con cui raccontava la sua vita passata si mescolavano, in un brusio confuso, al bruire ininterrotto e precipitoso di un vicino ruscello, sul quale scintillavano i raggi del sole.
Ma vaghe e terribili erano le passate eventualità di quell’uomo.
Aveva avuto una strana malattia agli occhi, che un giorno si erano chiusi dolorosamente’ La sofferenza, insopportabile, lo costringeva ad assentarsi, di tanto in tanto, dalle fatiche del lavoro e gli divorava la vista, giorno dopo giorno.
Aveva perduto entrambi gli occhi, sì!
Era stata quella la ragione per cui la sua vita s’era trasformata in una serie continua di stenti, noie e malinconie. Quella, la causa di una miseria solitaria e struggente, che lui aveva attirato su tutti i suoi cari.
La sua amante di allora l’aveva abbandonato ed aveva cercato di rifarsi una vita, con un altro uomo. Ma il suo nuovo spasimante non aveva accettato di dividere la vita e l’amore con un altro, perché la voleva tutta per sé.
La donna si era spinta al punto di portare con sé persino la figlia e la madre di Florimond. Cento volte la vecchia aveva tentato di ricondurre la fuggitiva dal suo amore di una volta, inutilmente’ Alla fine, però, la vecchia s’era ammalata, per poi spegnersi, pochi giorni dopo.
– Amore mio – aveva detto un giorno la donna di Florimond al suo nuovo uomo – a me non piace che tu tratti la bambina in questo modo. Non &egrave giusto, sei troppo severo. Sei così cattivo, persino nei miei confronti!
– Sei libera di andartene in qualsiasi momento! – era stata la risposta dell’altro bruto.
– Sì, lo farò! Stanca e malata, ma lo farò! Prenderò la piccola tra le mie braccia e non ci vedrai mai più!
– Vattene! Vattene!
Le erano arrivate percosse da tutte le parti’ La poverina aveva stretto forte al petto la figlia, nel vano tentativo di raddolcire i colpi provenienti da quell’essere spregevole.
‘Caro Florimond’ aveva scritto ‘ti ho insultato, ti ho offeso, ho sbagliato. Se vorrai, potremo cancellare il passato, ma nulla, purtroppo, cancellerà mai il profondo rincrescimento che provo per averti fatto tanto male. La bambina ti vuole, ti desidera, ti vuole bene. Te ne voglio anch’io, ma il rammarico supera in me questo sentimento. Perché stare lontani, perché mai? Il perdono &egrave difficile, lo so, &egrave il tesoro più arduo da trovare. Cercalo: forse, lo troverai dentro di te, nei tuoi ricordi!’.
Florimond aveva ricevuto numerose lettere simili a quella, senza però mai riuscire a trovare il coraggio per rispondere.
Lei aveva tentato persino di parlargli di persona, per dirgli tante cose’ Invano! Florimond non si era nemmeno lasciato trovare.
Perdonarla sarebbe stato impossibile!
– Sapevo che era malata, in lacrime – mormorava, parlando con Aurora – ma non mi importava, perché la ferita che mi aveva fatto non si rimarginava’
– Malata! – ripeté l’arpista, accarezzandosi la bella chioma.
Florimond era rimasto solo, definitivamente solo, abitava nella casa della solitudine, ma non ne era deluso.
– Mi aveva rubato la madre e la figlia – aggiunse piano.
– Sì, &egrave difficile perdonare – fece la bella, accarezzandolo.
– Avevo perduto persino la mia Bugatti, tutto’
– Oh, sì, la tua bella Bugatti rossa, me la ricordo!
Aurora, tutta commossa, seguiva allora i propri pensieri. Gli fece una carezza, poi si allontanò lievemente, mentre i vestiti suoi, leggeri e quasi sericei, ondeggiavano nel vento, che sembrava una brezza mite dei laghi svizzeri.
Ella si diresse verso il ruscello, forse con l’intento di immergervisi. Desiderava sentire l’acqua sulla pelle, la sua carezza leggera e freschissima. Florimond s’era accorto del suo allontanamento e le domandò:
– Che fai?
Gli giunsero dei calmi sciacquii d’acque. Erano suoni incantati per quel cieco, che non poteva contemplare quella sorta di dea greca. La mente sua, che poc’anzi s’era aperta per evocare un tragico ricordo, sorrideva allora all’allegrezza.
Quando lei ritornò dalle sue acque, Florimond sentì di averla ad un passo da sé. Volle accarezzarla, toccarla, godere delle sue fragranze, della sua pelle lieve, delle sue forme, che mai avevano perduto la giovinezza. Una seta vaga nascondeva il suo corpo. Quella sua favolosa avvenenza riluceva tra le mani di un essere virile.
Aurora lo lasciava fare: in quegli istanti erano come due fanciulli, che facevano un nuovo gioco.
Le gocce d’acqua che imperlavano le mani di Florimond erano per lui dei richiami alla vita; più sfiorava quei vestiti bagnati, più sentiva la pelle giovane, vellutata di lei contro la sua, più si lasciava addormentare da una calma soave. La meravigliosa donna gettava delle piccole risa, divertita. Quella specie di gioco le piaceva molto; forse, era andata al ruscello apposta perché lui la toccasse.
Era, infatti, irresistibile.
– Sei una giovane rara e sublime – diceva il cieco. – Mi piaci, lo sai?
– Ti ringrazio – rispose l’altra.
– La tua bellezza &egrave irripetibile! Vorrei poterti dire che’
– Taci, taci! Taci, non dire nulla, basterà il silenzio’
E gli mise, lievemente, un dito sulla bocca, perché non parlasse. Le parole sue avrebbero potuto rovinare quelle emozioni.
– Ah! – sospirava la bella. – Ah, sì! Quanto mi &egrave giovato incontrarti!
Gli occhi di lei vagavano per i campi e per i monti, mentre, nascosta sotto le fronde avvolgenti del vecchio albero, stringeva Florimond, tutta commossa.
La aggrediva una luce che faceva quasi sognare; oh, perché, perché il suo compagno non poteva ammirare quello spettacolo della natura?
– Se potessi, rimarrei per sempre qui con te – gli disse. – Non mi separerei mai da questo bell’albero, né dalle tue braccia.
Il sonno, sublime, avvolgente, li prendeva, a poco a poco, conducendoli così nel suo mondo di favole ed abbagli.
Florimond ed Aurora si erano incontrati. Questo particolare era conosciuto da un uomo di cui non conoscevano l’oscurità di pensiero e d’azione.
Una donna, nella città alpina di Pontvieux-sur-Lasson, era stata derubata da Florimond. Egli le aveva portato via, con estrema astuzia, il vecchio baule con il denaro lasciatole in eredità dalla madre.
Era stato come se le avesse strappato l’anima.
– Lei deve liberarmi di quella canaglia – aveva detto quella sconosciuta ad Arturo. – Mi ha fatto del male e deve pagare. Non ho prove per inchiodarlo davanti a un giudice, ma sono certa che &egrave stato lui’
– Non si preoccupi, non ci sarà alcuna difficoltà – le rispose Arturo.
– Posso stare tranquilla, dunque?
– Tranquillissima! Il nome del suo nemico?
– Florimond.
– Io faccio sia le mie vendette che quelle degli altri, se mi giova ed &egrave possibile. Vuole riavere il suo denaro?
– Sì’ Le sarò riconoscente!
Un giorno, Aurora conversava intimamente con Florimond.
– Aurora, io ho una somma di denaro – le disse lui. Sono riuscito ad accumularla grazie alla fortuna ed &egrave una somma piuttosto ingente.
– Una somma forte?
– Si tratta di un vero e proprio tesoro. L’ho nascosto in campagna, ma nessuno potrebbe venirne mai in possesso, perché io solo so dov’&egrave nascosto.
– Ah!
– Per averlo, occorre una chiave, che ora non ho con me. Pensa che avrei potuto sperperare quel denaro con rapidità, se mi fossi rimesso a giocare.
Arturo ascoltava la loro conversazione da dietro un cespuglio. Sapeva che in quelle parole poteva celarsi il segreto del quale doveva venire a conoscenza.
– Un po’ per volta, Aurora, ti voglio dire come venire in possesso di quel denaro. Tu ne godrai insieme a chi ami’
– Perché lo vuoi dire proprio a me?
– Perché ti voglio bene.
Quel tesoro era, chiaramente, il denaro rubato di un tempo.
Ma se Florimond voleva sedurre Aurora, allora Philippe, che ancor l’amava alla follia, sarebbe diventato geloso. In quel periodo, il sognatore blu pensava alla bella arpista, sebbene non molto intensamente.
Arturo gli mandò una lettera.
‘Amico mio,
la donna che tu un tempo amavi e che forse ami ancora, corre oggi dei gravi pericoli. Non saprei proprio come dirtelo, ma &egrave necessario che tu faccia qualcosa per salvarla. Un uomo strano, imprevedibile, le fa la corte; &egrave una persona assolutamente inaffidabile, che si finge suo amico, ma vuole soltanto attirarla in un tranello. Non so raccontarti i suoi baci criminali e le sue premure. Forse &egrave un delinquente ed &egrave stato lui a prendere il tuo posto, nel cuore della bella Aurora.
Il tuo amico Arturo’.
Leggendo quelle righe, Philippe sentì risvegliarsi dentro di sé un fuoco strano e terribile.
Io non so se fosse gelosia o un vago timore che alla cara arpista potesse accadere qualcosa di brutto.
Tempo dopo, ricevette un secondo messaggio:
‘Ora lo so, il suo nome &egrave Florimond. Vuole servirsi di lei e dei suoi sentimenti per spacciare delle banconote false, stampate da lui’ Quando l’avrà usata, la avvelenerà senza pietà. Uccidilo, Philippe, uccidilo! Solo così riavrai l’amore della tua bella. Io ti sono amico, ascolta i miei consigli. Quell’uomo vuole distruggere te, la tua amata e i vostri sogni di felicità! Aggiungo, in calce alla lettera, l’indirizzo completo di quell’infame.
Il tuo amico’.
Philippe stracciò la lettera. Era pazzo.
– Aurora, con lui! – gridava, tutto solo. – Aurora &egrave libera di amarmi o meno, &egrave libera di fare ciò che vuole, ma Florimond vuole distruggerla, come si può fare con una bambola di porcellana! Non glielo permetterò!
Era una sera soave. Pontvieux-sur-Lasson era lievemente avvolta nella nebbia e scintillava addormentata in mezzo al blu.
La bella arpista e Florimond s’incontrarono affettuosamente. Philippe li guardava da dietro i vetri appannati della finestra, senza che i due se ne accorgessero.
– Bella serata – mormorò Florimond, appoggiando una mano sulla spalla della giovane.
Poi prese una bottiglia, la stappò e riempì due bicchieri.
Philippe li vide brindare.
– Aurora, credo sia giunto il momento di confidarti dove si trova il mio tesoro. Per me, ormai, non c’&egrave più nulla da fare’
– Ma che dici? Oh, non farmi sentire triste, con queste parole’ – sussurrò lei.
– Sì, lo so, lo so’ Ma ho paura, tanta paura’
– D’accordo, allora, come vuoi.
– Vedi, sono ammalato’
– Oh! Possibile?
– Sì, irrimediabilmente malato e credo di dover finir male. Mi dispiace dirtelo’ Il tesoro, amica mia, &egrave nascosto in campagna. Per aprire il baule, occorre la chiave dorata che stasera porto appesa al collo. Se vorrai, te la donerò.
– Sì, sì’
– Allora, &egrave nascosto sotto il rovere. Ora che te l’ho rivelato, mi sento più tranquillo. Sotto il rovere, il caro albero presso il quale passammo momenti di felicità e d’idillio’ Scava verso nord, un po’ in distanza dal tronco e lo troverai.
– Oh, Florimond! Io’ Io’ Ti voglio bene!
– Anch’io! Ma dimentichiamo le tristezze che ti ho appena detto! Voglio che sia una bella serata per entrambi!
– Sì, lo desidero intensamente, ardentemente’
Entrambi erano inebriati e forse innamorati.
Soltanto allora Philippe poté osservare le splendide sfumature dei capelli di Aurora, che quella sera riflettevano lucenti la penombra.
Nel chiarore vago che illuminava la scena, la sua amica gli sembrava ancora più affascinante e bella di una bellezza tenera e naturale.
Florimond, si diceva il nostro protagonista, avrebbe rovinato tutto. Quel cieco la voleva distruggere. Era un depravato, un malvagio che desiderava approfittare del suo affetto.
Eppure, i due sembravano così sereni, così innocenti, mentre, alla luce indefinita e debole delle applique, dimostravano la loro amicizia con qualche piccola effusione e sussurrandosi paroline dolci negli orecchi.
Quando Aurora concedeva al suo interlocutore il minimo gesto affettuoso, Philippe provava la sensazione che l’altro, come un ragno, fosse pronto a darle il morso fatale, prima di divorarla.
‘Forse, glielo ha già dato e lei &egrave nelle sue mani’ si disse lo spione, sempre più sconvolto.
Doveva tacere, ascoltare, vedere.
Conversavano o rimanevano in silenzio? Erano l’uno accanto all’altra o separati? Non avrebbe saputo dirlo.
Le emozioni lo sopraffacevano, al punto che non riusciva più a rendersi conto di ciò che accadeva a poca distanza da sé. Le risa affettuose, amene, tranquille di lei si diffondevano nella stanza.
– Vieni – disse l’arpista, prendendo per mano Florimond.
– Cosa vuoi che facciamo?
– Vieni! – ripeté l’altra, divertita, tenendolo per mano e portandolo dove voleva.
In un angolo, lontano dalla finestra, nella luce nebbiosa di un abat-jour, c’era un pianoforte ottocentesco.
Lei desiderava ascoltare della musica e sapeva che il suo amico era capace di suonare bene quello strumento.
– Oh, ma dove mi hai portato? – le chiese Florimond. – Vuoi ascoltare qualcosa, vuoi che suoni?
– Sì, &egrave quello che voglio! – esclamò lei.
Aurora, però, non voleva smettere di stringere le sue mani affettuosamente. Chissà che cosa provava, dentro di sé!
Ad ogni modo, ella aveva giurato a se stessa di non amare più come un tempo e gli disse poi, pacatamente:
– Vieni, siediti sulle mie ginocchia e suona.
– Lo vuoi veramente?
– Sì.
Florimond la esaudì. Appoggiò, lentamente, le dita sui tasti bianchi e neri e, come per incanto, la musica, sublime, avvolta nell’eleganza, prese a diffondersi come un profumo.
Tutto l’ardore, tutta l’armonia, tutta la bellezza di una sonata di Schubert erano le sole sensazioni di quegli istanti.
Aurora lo sentiva respirare profondamente, mentre percorreva la tastiera con le dita agili e la fredda musica blu li univa.
Le piaceva sentire il suo corpo, la sua virilità, su di sé, tra le sue braccia; adorava quelle sensazioni e non sarebbe mai stata capace di dimenticarle.
Ma i due rimanevano sempre e soltanto amici.
Al di là della realtà, in quella musica sublime, nel fascino e nell’incanto di quelle note, di quei passaggi soavi e appassionati, era come se fossero innamorati.
Florimond lo sentiva, lo voleva.
Nondimeno, non avrebbe mai confessato quel suo desiderio alla cara Aurora.
I capelli di lei, fulvi, incendiati di rosso, risaltavano come non mai, raccolti da un fermacapelli bianco, che la faceva sembrare una ragazzina.
E come due ragazzini, lei e Florimond, in quella sonata, si divertivano a giocare all’amore.
– La, la, la, larallallà’ – canticchiavano insieme.
Il cuore di entrambi batteva forte, nei passaggi più emozionanti della melodia, tra gli accordi sconvolgenti e romantici, nella calma dolcezza che li toccava, al pari della bella musica.
La sonata continuava sempre, non finiva mai’
Florimond, quasi in estasi, non s’accorgeva più nemmeno di suonare, eppure, tra le braccia della cara arpista, non commetteva nemmeno uno sbaglio. Doveva finire’
E come un magico, virtuale amplesso, come un abbraccio d’effusione o un bacio languido, la sonata finiva, ma in un crescendo d’intensità, in una passione sempre più sconvolgente e tumultuosa.
S’innalzava a sfiorare il cielo, l’universo, l’infinito, l’eterno; poi, finalmente, l’ultima, vibrante nota, che poneva fine a quei momenti appassionati e li lasciava nel silenzio.
Allora, Florimond provò un violento, irrefrenabile desiderio di baciare Aurora. Non volle farlo, ma lei provò il medesimo impulso affettuoso, che la divorò.
Erano stati una cosa sola, anche se per gioco, nel sogno’ Non avevano il coraggio di ammetterlo.
Ma le note, la musica, continuavano a rimanere nei loro cuori.
Florimond accarezzava con la sua mano lunga i capelli della sua amica del cuore.
Era come se quella morbidezza, quella leggerezza, gli comunicassero, al tatto, tutta la bellezza che scintillava accanto a lui e che poteva sfiorare con un dito.
Li sentiva sulle sue spalle, lo seducevano.
Entrambi sarebbero voluti essere ancora più vicini.
Rimanevano taciturni, Aurora guardava a lungo, rapita, il suo amico, cercava di penetrare i suoi occhiali neri, profondi, sentendosi incatenata dalla passione. Sospirava!
Si strinse forte a lui, era impossibile evitarlo. Gli si abbandonava? Gli si concedeva?
Florimond le regalava dei sorrisi, ma non voleva che quella serata mutasse radicalmente il loro tenero rapporto.
– Sì, Florimond, sì! – disse Aurora, sopraffatta dai suoi sentimenti. – Sì, ancora, amico del mio cuore, ancora! Ancora!
– Non sai quanto ti desideri’ – le mormorò l’altro.
Philippe, che si trovava allora dietro la tenda, si accorse del modo in cui il suo rivale stringeva Aurora, di come le parlasse con passione e ardore, di come volesse farla sua.
Nella mente del sognatore blu risuonavano le parole di Arturo. Prima o poi sarebbe stato necessario farlo, farlo!
Il nostro protagonista non s’ingannava: tutto quello che vedeva, sentiva e ascoltava era vero.
Florimond non smetteva mai di accarezzare la sua Aurora e soprattutto di toccare i suoi bei capelli rossi.
– Sento che questa sera sei tutta per me’ – le diceva il suonatore cieco, parlando davanti a quella bocca dolce, rossa, semiaperta, che tanto avrebbe desiderato baciare e godere.
– Ti ringrazio – sussurrò lei.
Le mani dell’arpista, che Florimond sentiva tra le sue, erano perfette. Le sue dita lunghe, bianchissime, dalle unghie rosa ed eleganti, avrebbero potuto rendere felice chiunque.
– Aurora, desidero tanto fare una cosa, lo desidero pazzamente e spero tu me la permetta’ – disse il rivale di Philippe.
– Che cosa mai?
– Adoro i tuoi capelli ed il profumo che esalano. C’&egrave una bella vasca da bagno, tutta dorata’ Vuoi che te li lavi?
Aurora arrossì di piacere, tutta lusingata.
Lo desiderava anche lei. Florimond poteva farla impazzire!
– Se vuoi, sì’ – gli mormorò. – Mi farebbe piacere.
– Facciamolo, allora!
La bella, alzandosi, faceva, con un rapido movimento del capo, volare i suoi capelli attorno a sé, perché Florimond glieli aveva messi dolcemente in disordine.
I due si diressero verso il bagno.
Philippe li aveva sentiti. Era arrivato per lui il momento di uscire da quel nascondiglio e di agire. Aveva deciso.
Al suo udito perveniva, continuo, lo scroscio armonioso dell’acqua, che riempiva la vasca da bagno.
– Uh, &egrave tiepida – diceva una voce melata, in lontananza. – Perfetta’ Sarà dolcissimo’
La fronte di Philippe era imperlata di sudore gelido. Era certo che lavarle i capelli fosse soltanto un pretesto, per annegarla nella vasca. Le parole di Arturo lo ossessionavano, in quell’occasione specialmente.
Lentamente, a poco a poco, l’acqua riempiva la vasca, nella quale Aurora avrebbe immerso i suoi lievi capelli.
Florimond avrebbe goduto di quell’istante, di quelle sensazioni piacevoli, di quella morbidezza che inebriava il tatto, di quella tenerezza furtiva. Ah!
L’acqua cessò di scorrere.
Il rubinetto era stato chiuso.
Il cieco tuffava le mani nei capelli di lei, che a propria volta si tuffavano nell’acqua, soave e magica.
Philippe, improvvisamente, uscì allo scoperto. Aveva lo sguardo impassibile ed un’espressione atroce, da incubo, dipinta sul volto.
Aurora languiva di piacere, mentre Florimond la bagnava, le cospargeva i capelli di schiuma, la coccolava.
Tra gli schizzi, la bella arpista vide il suo amante perduto.
– Cielo! – esclamò, in un lampo, quasi terrorizzata.
– Che cosa c’&egrave? – chiese Florimond.
Non c’era tempo per parlare.
Philippe era stravolto, gli occhi suoi riflettevano l’inferno del suo animo, l’atrocità dell’odio appassionato, della collera, ma soprattutto il timore, ardente, che lei potesse soffrire.
Il nostro protagonista non parlò, si gettò sul rivale, lo afferrò e’
– Fermati! – gridò la giovane. – Che cosa gli vuoi fare, cattivo? Non vedi quanto &egrave disgraziato? Vuoi prendertela con un povero cieco?
L’aggressore non l’aveva sentita.
– Philippe! Fermati, per amor mio! – urlò allora Aurora, con voce tremante.
Il sognatore blu ebbe la meglio su Florimond, il quale aveva tentato di difendersi, invano.
Sì, forse quel rivale aveva veramente architettato tutto per riuscire ad avere il cuore di Aurora, si era finto cieco, malato, soltanto per l’amore di lei’ Così pensava Philippe, dopo averlo afferrato per il collo, mentre gli immergeva la testa nella vasca.
Era terribile, voleva ucciderlo!
Florimond annegava nell’acqua’ Forse, era lo stesso amore per Aurora ad ucciderlo’ Aveva sbagliato tutto!
– Philippe! Philippe! – chiamava la bella, i capelli bagnati appiccicati al volto, in mezzo alla schiuma disperata, la stessa nella quale avveniva la morte.
Un uomo stava per essere ucciso dalla passione, un altro dalla gelosia disperata.
– Philippe, lo stai uccidendo!
– Lasciami fare, Aurora! Egli &egrave un malvagio, voleva distruggerti! Tutto questo &egrave per il nostro bene’
Così si parlarono i due amanti.
Il nostro protagonista era fuori di sé. Le sue mani divenivano, a poco a poco, sempre più deboli, le forze cominciavano ad abbandonarlo, ma per il poveretto non c’era più molto da fare.
Aurora cercò di impedire al folle di portare a termine il suo gesto. Alla fine, Philippe lasciò il suo rivale, che ricadde nella vasca, perché ormai era quasi annegato.
– L’hai ucciso, Philippe! – gridò Aurora. – L’hai ucciso! Era così buono, così dolce e sfortunato e tu hai potuto prendertela con lui!
– Aurora, non capisci? – le disse l’altro. – Era tutta apparenza’ Sono certo che costui non &egrave mai stato cieco. Florimond era un falsario, il tesoro che ti ha promesso era fatto soltanto di banconote false. Voleva che tu le spacciassi per lui! Aurora! Aurora!
Egli le aveva messo entrambe le mani sulle spalle e la scuoteva con veemenza.
– Ed ora – sussurrò Aurora, tenendo in mano la chiave che apriva il forziere – che succederà?
– Vattene da questa casa, mio tesoro, vattene! – le disse Philippe, con voce impetuosa. – Dammi quella chiave, amica mia, dammela! La voglio!
– Perché mai?
– Appartiene alla menzogna, all’illusione!
– No!
– Quella chiave, Aurora, ti aprirà le porte della disperazione! Dammela!
Philippe la ottenne con la forza, se la fece dare, sì, tra le grida disperate della sua carissima arpista, che fuggì, i capelli ancora bagnati, le mani tremanti e le forze che la abbandonavano.
Quando fu rimasto solo, il nostro protagonista disse nel silenzio:
– L’ho ucciso! L’ho ucciso!
Le parole sue parvero un singhiozzo.
Si accorse che respirare gli diventava impossibile, l’angoscia e il terrore lo sopraffacevano.
Era il male!
Philippe corse via.
Tempo dopo, non faceva che rigirarsi quella chiave misteriosa tra le mani. Ne scopriva il tragico luccichio, vedeva la luce riflessa da quell’oggetto dorato che gli feriva l’anima.
Ebbe una sorta di allucinazione, in mezzo ai bagliori dell’aurora, in un angolo solitario di Pontvieux-sur-Lasson. Qualcuno si trovava davanti a lui, il volto immobile, le mani infilate nelle tasche, le sopracciglia leggermente aggrottate. Il sole e la brezza scomponevano i suoi capelli bianchi, che riflettevano però le sfumature del rosso più acceso.
– Philippe – gli sussurrò in un orecchio quella visione. – Philippe!
– Sì – rispose l’altro, mettendosi le mani in tasca e fissando il vuoto.
– Bravo! I miei complimenti! Sì, sei stato veramente bravo, ma ho ancora bisogno di te. Sei una persona preziosa, lascia che ti metta una mano sulla spalla’
– Che cosa c’&egrave?
– Qualcosa di importante. Ho bisogno di te, Philippe, ormai noi due siamo amici e tu non mi puoi più rifiutare nulla. Sei mio’
– Mi hai fatto uccidere un uomo’
– No, ti ho fatto salvare Aurora’ Ricordati che &egrave per merito mio e tuo che ella &egrave salva, &egrave grazie a me che la potrai riabbracciare.
– Sì, ora la potrò riabbracciare’
– Amico mio, ti devo chiedere un favore.
– No!
Gli occhi di Arturo lampeggiarono.
– No, non te lo posso negare – fu costretto a dire il sognatore blu, poco dopo.
– Sei un bravo ragazzo, lo so – riprese il suo interlocutore. – Philippe! Quell’uomo ti ha parlato di un baule, quella sera. Più precisamente, di un forziere, nel quale &egrave contenuta una fortuna.
– Sì.
– Quel denaro &egrave falso! Voleva farlo spacciare dalla tua Aurora! Tu hai una chiave’ Sai dove si trova il forziere e’
– Sì, ce l’ho, ce l’ho.
– Tu me la darai. L’hai addosso, ora, non &egrave vero? L’hai in tasca, dimmelo!
– Arturo, liberami da quest’incubo, &egrave come un martello che mi tormenta, come una sanguisuga che mi indebolisce.
– Ti capisco, mio caro. Avanti, dammela, liberati! Dammela! Dammela! Dammela!
Arturo gli prese la chiave. Aveva ottenuto quello che voleva. Uno dei suoi più impenetrabili sorrisi fece capolino sul suo volto, pallido come il giorno.
– Bravo, Philippe – fece Arturo, che già s’allontanava a passi lenti e sembrava svanire nell’ombra. – Addio, mio caro, addio!
Arturo era certo che il tesoro si trovasse sotto l’albero dei dolci appuntamenti, l’antico rovere. Fu proprio là che andò a scavare nottetempo. Alla fine, il suo badile urtò qualcosa, era il forziere; il denaro era diventato suo.
Con sua grande sorpresa, egli s’avvide che la sua chiave non apriva che due delle quattro serrature che chiudevano il forziere. Che rabbia disperata!
Tuttavia, nei giorni che seguirono, Arturo rinvenne, in casa di Florimond, un biglietto che diceva:
‘Germana 842123.
Crede sia la chiave di un cassetto contenente giornali vecchi’.
Dunque, il cieco aveva affidato l’altra chiave ad una certa Germana?
Arturo ne era sicuro. Ma allora non poteva occuparsi di quell’oggetto come avrebbe voluto. Infatti, nella sua vita c’era un avvenimento più importante.
Egli avrebbe finalmente potuto coronare il suo sogno d’amore con Marghot.
Il giorno del matrimonio era ormai vicino; eliminato Federico, quell’ostacolo apparentemente insormontabile, non gli rimaneva che gustare i frutti di un sentimento immortale.
Marghot fu sua, secondo il rito valdese.
Il giorno del matrimonio fu una favola.
– Sei felice oggi? – le chiese lo sposo.
Lei non rispondeva, non era in grado di rispondergli. Le dispiaceva profondamente che Federico fosse morto e in una maniera così atroce. Ad ogni modo, il povero pastore non avrebbe mai potuto salvarla dalla passione di quell’uomo, che allora la abbracciava forte, suo malgrado.
Arturo poté poi occuparsi dell’altra chiave. Germana era una donna dai capelli lunghi, lisci e bruni, dal volto pallido, dagli occhi chiarissimi ed inquietanti, nei quali si rispecchiava sempre una calma inenarrabile. I due si incontrarono in casa di lei.
Arturo si presentò come un semplice amico di Florimond, le disse che questi lo aveva incaricato di ottenere la chiave che possedeva la donna.
– Lei &egrave in possesso di quella chiave, non &egrave vero?
– Ce l’ho ancora, sì.
– La prego, in nome del suo amico Florimond, di consegnarmela al più presto.
– Lo farò. Quando vuole venire a prenderla?
– Anche domani, se vuole.
– D’accordo, d’accordo. Gliela darò, mi dia soltanto un po’ di tempo. Credevo che Florimond vi tenesse molto e l’ho nascosta in un luogo sicuro.
A Germana occorsero alcuni giorni per prendere la chiave.
Il sole brillava nel cielo di un pomeriggio come tanti a Pontvieux-sur-Lasson, il viale V. Hugo era affollato soltanto da pochi e rari passanti.
La luce pesante, quasi dissolta, del sole, si rifletteva come a specchio sui raggi delle ruote di una carozzina.
La spingeva una donna.
C’erano delle nuvole bianche e rade nel cielo, che era divenuto di un azzurro quasi cupo.
Il sole giocava continuamente coi nembi, che ora ne soffocavano la luce, ora gli consentivano di fare ardentemente capolino tra i loro candori vaporosi.
L’aria era immobile, si sarebbe potuta dire stagnante. I rumori sembravano sordi, quasi impercettibili e si spegnevano nel silenzio.
La donna continuava a spingere la carrozzina, lentamente, quasi fermandosi, a tratti.
Lo sguardo di quella persona era fisso sul pavé della strada, mentre la sua anima giaceva nel nulla.
Il piccolo era assonnato, dormiva, ignaro di qualsiasi cosa potesse accadere attorno a sé. La madre, stanca, si fermava. I bagliori del sole e le ombre disturbavano. Ella si riparava dai lucori con una mano, mentre con l’altra teneva la carrozzina. Era come se qualcosa le avesse ferito lo sguardo e la sua anima sanguinasse.
Nulla. Soltanto ombre, in quel pomeriggio strano, lungo quel viale non molto ampio, a quell’ora desolato.
La madre riprese a spingere la carrozzina, stavolta con una celerità inaspettata. Sentiva il sangue palpitare nelle sue vene, la testa le faceva male, male, male!
Una febbre segreta la divorava. Aveva visto qualcosa o qualcuno e doveva forse fuggire, ma non ci riusciva, non poteva far nulla.
Respirava affannosamente. Temeva forse per il suo piccolo? No. Sentiva dei passi, i passi, dietro di sé, e non aveva il coraggio di voltarsi.
Era come spaventata.
Guardò il sole: era completamente nascosto dalle nuvole, l’ombra possedeva quel viale, si proiettava su di lei, la divorava.
I passi, i passi!
– Cielo – mormorò la donna.
Non le avrebbe fatto del male, ma era dietro di lei e la fuga era impossibile.
– Sei qui, ti ho trovata – diceva la voce.
Marghot si voltò e la vide. Era lei, Aurora.
La bionda indietreggiò, quasi timorosa; gli occhi suoi tremavano forte in quella penombra.
Improvvisamente, in quell’istante, il sole brillò sul volto pallido di Aurora e fu come se le baciasse i lineamenti.
Aurora mise una mano sulla spalla di Marghot.
– Non voglio farti del male, non voglio farti del male – le sussurrò l’arpista.
– Oh’ – diceva l’altra, incapace di fare altro che proferire sillabe vaghe.
– &egrave come se fossi distrutta, dopo tutto quello che &egrave successo. Ma ora che sei madre, come vedo’ Ora che sei madre, tu puoi capire che cosa significhino certe pene d’amore.
Marghot cercava di allontanarsi, non aveva voglia di parlare con Aurora; in quel periodo, si sentiva talmente sconvolta!
– No, non te ne andrai, per favore. Ho dimenticato tutto, &egrave per caso che noi due ci incontriamo, così come &egrave per caso che molte cose accadono, credo.
Marghot aveva le lacrime agli occhi. Non sapeva che cosa dire e tremava.
– No, non voglio farti del male – riprese Aurora. – Anche Federico, ti avrebbe’
– Perdonata? – sussurrò l’altra.
– Forse.
– Aurora, tu non puoi immaginare quello che io provo in questo istante! Tu non sai quanto sono infelice!
La bella arpista le si avvicinò amichevolmente.
Marghot non riusciva più a trattenere le sue emozioni, che la sopraffacevano.
– Certi eventi sono l’anticamera della morte – diceva la bionda. – Io li ho passati e non auguro a nessuno di sperimentare tanto.
Marghot aveva fatto tutto ciò che non avrebbe mai voluto fare. Era persino costretta ad accettare quel figlio, indesiderato e per il quale, nondimeno, si preoccupava alquanto.
– No, Aurora, no!
L’arpista abbracciava Marghot’ Aveva compreso che in lei non c’era nulla di strano, ma soltanto ciò che &egrave incancellabile dal cuore di molti umani.
– Non &egrave mai accaduto nulla, mai accaduto nulla’ – sussurrava Aurora, magicamente.
– Sono stata costretta a fare tutto ciò che ho fatto dal destino! – aggiunse Marghot, che prese il suo piccolo dalla carrozzina e lo mostrò alla sua interlocutrice.
In quell’attimo, la luce accarezzò le due donne ed il pargolo che la bionda teneva tra le sue braccia.
Aurora era incantata. Quella donna, di cui conosceva parte dell’infelice storia, aveva un figlio, lo amava e glielo mostrava.
Il piccolo sorrideva, lasciava andare la testa all’indietro, era ancora un neonato, era così inesperto della vita! Non la conosceva neppure, ma era come una festa per lui, poiché l’esistenza già lo conosceva.
La bella arpista lo volle tra le sue braccia.
No; anche se in un primo momento aveva sospettato che Marghot fosse capace di commettere un sì turpe atto, anche se nell’angoscia, nella disperazione improvvisa, l’aveva creduto, ora sapeva che anche quella donna, al pari di ogni essere, possedeva un cuore. Quel pomeriggio, Aurora poté sentire tutta la tenerezza e l’affettuosità che il cuore della bionda poteva provare come madre.
– Sì, Marghot – diceva la nostra protagonista – tu sei buona.
La sua interlocutrice, dopo averle fatto abbracciare il bambino, desiderava che spingessero insieme la carrozzina.
Era bello vederle passare, l’una accanto all’altra, mentre passeggiavano ridendo, sotto la luce amena, che meravigliosamente incorniciava il loro cammino. Erano silenziose amiche.
Nondimeno, Marghot manteneva un’oscurità di pensiero e d’animo impenetrabili per la sua compagna. In quella donna permanevano dei misteri; il mistero l’avrebbe eternamente posseduta.
Gli occhi suoi brillavano di gioia materna, era felice di poter avere al suo fianco una persona che, quella notte, aveva creduto di dover affrontare come una nemica.
– Non voglio che sia il destino a rendermi crudele nei tuoi confronti – disse l’arpista. – Ti voglio quasi bene.
La sua interlocutrice era commossa, si asciugava il sudore e le lievi lacrime con un fazzoletto, si toglieva il cappellino rotondo, decorato con fiori finti e voleva che l’amica di Philippe lo provasse.
Era come se scherzassero.
– Mi dici il suo nome? – chiese Aurora, che desiderava intensamente conoscere il nome del piccolo.
L’altra glielo sussurrò in un orecchio, lentamente. Aurora si sentì felice.
Per lei, aver abbracciato quel piccolo essere era stato come conoscere l’infanzia una seconda volta e con gli occhi di una madre. Aveva forse provato le stesse sensazioni che uniscono un figlio a colei che lo ha generato.
– Almeno – diceva l’arpista – la vita ti offre, di tanto in tanto, le sue piccole dolcezze.
– Sono soavità – rispose Marghot – e, in fondo, io voglio bene al mio cucciolo.
‘No, non la odio’ pensava Aurora. ‘Forse, &egrave stato il Cielo a farmela incontrare, oggi pomeriggio, affinché non fossi ingiustamente crudele, nei suoi confronti’.
La bionda del mistero doveva rivelarle qualcosa.
– Credo che Arturo – le disse – sia coinvolto in affari non molto chiari. Sta cercando con ossessione non so quali oggetti e soprattutto una chiave, per aprire non so che cosa.
Il volto di Aurora si rabbuiò. ‘Una chiave!’ si diceva. ‘Un forziere! Arturo! Ma come può averlo fatto?’. La mente sua impazziva, le venne il sospetto che nel forziere fosse contenuto il tesoro che Florimond le aveva voluto donare, ma senza riuscirci.
– Sta cercando una chiave? – mormorò l’arpista.
– Per aprire un forziere – rispose l’altra.
– Sai da chi?
– Il suo nome, se non sbaglio, &egrave Germana. Immaginati una donna non più giovane, che conosceva Florimond, il cieco. Ho sentito più volte Arturo fare discorsi strani, nel sonno. Pronunciava anche il tuo nome.
– Germana? Una donna attempata?
Aurora volle che le riferisse di quella persona. Diceva:
– No, non &egrave possibile! Non ci credo’
Arturo non doveva venire in possesso della chiave; Aurora aveva saputo una parte della verità e glielo avrebbe impedito.
Ella non conosceva Germana, ma se le avesse accennato qualcosa, se le avesse detto che, per un bene superiore, doveva, adducendo un pretesto qualsiasi, rifiutarsi di consegnargli il prezioso oggetto, la chiave, probabilmente lei lo avrebbe fatto.
‘Forse &egrave stato Arturo il vero assassino di Florimond, non ne so nulla” pensava l’arpista. ‘Può darsi che si sia messo d’accordo con Philippe!’.
Ma ormai, si disse, quel denaro era irrecuperabile. Si poteva soltanto sperare di salvarlo da quell’uomo, che non lo meritava.
Germana era in procinto di consegnare ad Arturo la chiave, assai ingenuamente. Ma il breve messaggio che ricevette la fece ricredere.
‘La prego, in nome di Florimond, di non fare nulla di ciò che le chiede il signor Arturo. Si allontani da lui, cerchi di non farsi trovare in casa, quando verrà a bussare al suo uscio, perché &egrave una persona pericolosa. Il mio compito &egrave quello di aiutarla, ma soprattutto di impedire che un tale essere venga in possesso della chiave che aprirà la porta di un inferno’.
Germana ebbe paura.
Arturo le era parso un uomo tanto onesto, tanto sulla retta via! Ora, ne scopriva tutta l’oscurità.
In quegli occhi verdi, verdissimi, si diceva, si nascondeva senza dubbio una personalità balorda. I due, però, si incontrarono, lungo un sentiero di montagna, fiancheggiato da cespugli irti di spine e caprifogli.
– Mi lasci andare, per favore! – si lamentò Germana, cercando di sottrarsi alla sua stretta, perché l’aveva afferrata per un braccio.
– Perché? Che cosa c’&egrave? – strillò Arturo.
– Non vede che non ho nulla da dirle?
– Allora!
– Che cosa vuole? Stia attento, perché mi metterò a gridare ed attirerò l’attenzione di’
– Zitta, befana! Zitta, altrimenti giuro che’
– Che vuole? Avanti, me lo dica!
– La chiave, voglio la chiave per aprire il forziere!
– Non ce l’ho.
Arturo s’infiammò di collera. Sembrava che non fosse più in grado di trattenersi, tanto che Germana credette che fosse in procinto di scagliarsi su di lei.
– No, non le farò del male – le disse sottovoce quel brutto ceffo.- Florimond non l’avrebbe voluto mai’ Ma le giuro che non avrà il tempo’
– Dica, avanti!
– Niente, niente’ Ma &egrave sicura di non poterla cercare meglio?
– Sì, lo sono.
– Lei &egrave una donnaccia, lo sa?
A quel punto, Germana si disse che, nel caso in cui Arturo le avesse dato degli ulteriori problemi, sarebbe stato meglio per lei rivolgersi alla polizia, prima che fosse stato troppo tardi.
Poi, però, la donna si disse che forse avrebbe dovuto dargli la chiave. Se gliel’avesse data vinta, forse non si sarebbe trovata in una situazione tanto angustiante.
– Stupida! Stupida! Stupida! – gridò a voce alta, quando fu rimasta sola con gli alberi e i rovi selvatici.
Se la prese con se stessa.
Germana aveva delle fotografie di Florimond. Le avevano scattate insieme, nei giorni in cui l’amicizia li aveva fatti sentire assai uniti. Una volta, le teneva fra le sue mani e le sfogliava. Tra le sfumature in bianco e nero di quei perpetui ricordi, provava come la sensazione che Florimond fosse morto.
Doveva essere vero, si diceva, sconsolatamente. Che singhiozzi, i suoi!
Perché se n’era andato via così? Senza una parola, né un abbraccio affettuoso’
Ad un tratto, una mano misteriosa, rugosa, da uomo, prese una pagina del bell’album di fotografie e la strappò.
– No! – gridò Germana, con tutta la sua voce. – Perché?
Si voltò.
Arturo era dietro di lei, con la pagina strappata in mano. Poteva distruggere le più belle foto contenute nell’album, perché aveva preso la pagina più bella.
– No! Dammela, ti prego! – strillò la donna.
Il perfido non rispondeva. I suoi sguardi erano atroci, così come il gesto che stava per compiere. Con entrambe le mani, lentamente, fece a pezzi i più soavi ricordi a cui Germana era affezionata.
– Vattene! Vattene! – gli gridava lei, in lacrime.
– Ti ho sorpresa, non &egrave vero? – la canzonò malignamente quel brutto ceffo. – Occhio per occhio, dente per dente. Non ho fatto altro che fare a te quello che tu hai fatto a me. Carissima, per te, &egrave arrivata la festa della verità.
L’altra, intanto, singhiozzava per la paura ed il rimpianto! Poi, trovò la forza di chiedergli:
– Che dici? Cosa vuoi dire?
– Ora mi dirai dove hai messo la chiave. Te lo giuro!
– Che vuoi farmi?
– Te lo giuro!
– Va bene, va bene, lasciami! Te lo dirò, te lo dirò’
Nella mano destra, Arturo teneva una bottiglia colma d’un liquido che avrebbe fatto impazzire quella donna. Senza concederle il tempo di parlare, senza che lei potesse in alcun modo tentare di resistere o di fuggire, il perfido le fece aprire la bocca.
– Bevi! – le disse. – Sarà meglio per entrambi!
Poi, quando lo ritenne opportuno, le staccò la bottiglia dalle labbra, pensando che avesse già trangugiato un bel po’ di quel brandy.
Ma Germana glielo spruzzò tutto sugli occhi!
– Ah, maledetta carogna! Carogna! Carogna! – urlò Arturo, disperatamente. – Falla finita, altrimenti ti uccido!
La donna si pentì di avere osato tanto.
Arturo, in maniche di camicia, le puntò sul volto una lampada e seppe essere così violento, nei suoi confronti, così crudele e rude, da farle passare la voglia di sputargli addosso; poi, la ubriacò profondamente.
Poco dopo era tutto intento ad agitarla, a darle degli scossoni; la faceva andare su e giù, perché desiderava infinitamente che parlasse nel tormento!
– Parla, dov’&egrave la chiave? – le ripeteva.
– La tengo nascosta qui in casa’ – mormorava l’ubriaca.
– Dove?
– E poi che farai, ti andrai a divertire?
– Dimmelo, avanti! Altrimenti, giuro che’
Germana glielo disse.
Arturo corse a prendere la chiave, nel nascondiglio dov’era stata messa e la trovò.
Uscì fuori correndo. Aveva ancora da dire due parole a Germana ma, mentre stringeva la chiave tra le dita e provava tutto il piacere che gli dava tale contatto, era come se avesse già fatto tutto il necessario.
Poi tornò dall’ubriaca e le sussurrò in un orecchio queste parole:
– Germana, tu sei come una mosca, io posso schiacciarti quanto voglio. Non costringermi a farlo, per favore, tu sai che non lo desidero’
– D’accordo, come vuoi – piagnucolò la donna.
– Tu non ricorderai nulla, assolutamente nulla, di quello che &egrave accaduto oggi, in casa tua.
– Va bene, nulla.
– Se qualcuno dovesse chiederti qualcosa’
– Nulla!
– Se ti chiederanno dove hai messo la chiave, tu dirai a tutti di averla perduta. Sì, tu l’hai perduta!
– Perduta!
– Tu non mi conosci. Non mi hai mai visto in vita tua. Non ci siamo mai incontrati.
Dopo aver proferito queste parole, Arturo se ne andò.
Finalmente egli aprì il forziere, cacciò le mani nel denaro che vi era contenuto, lo sentì suo, si convinse di possederlo e di non avere più bisogno d’altro nella vita.
Aurora non venne a sapere che quel brutto ceffo era riuscito ad impossessarsi di quei soldi. Se l’avesse saputo, lo sdegno e la rabbia, in lei, non avrebbero mai avuto limiti.
Quando Arturo si guardava allo specchio, sorrideva a se stesso. Egli amava soprattutto sentire tutto il calore della sua Marghot, quando erano insieme; era bellissimo stringerla tra le braccia ed accorgersi della giovinezza che palpitava in lei.
– Che cosa faremo di bello, insieme? – le diceva scherzoso, rallegrandosi di tutto.
– Quello che vorrai – gli rispondeva la bionda, commossa.
– Voglio portarti in giro, farti vedere il mondo, divertirti!
Fu così che un suo amico lo invitò ad una cerimonia, alla quale non sarebbe mai potuto mancare. Volle che Marghot fosse elegante e che portasse anche il loro bambino. Si fece confezionare per l’occasione un bel vestito nuovo ed acquistò un paio di scarpe nere, elegantissime.
Nei suoi vestiti favolosi, Arturo sembrava non avere più età; non era più attempato, ma non lo si sarebbe nemmeno potuto dire giovane; il volto suo appariva smarrito, tra le nubi ed i bagliori pallidi che, di tanto in tanto, lo percorrevano.
Quel giorno, Arturo aveva fretta di andare, c’era come qualcosa che lo attirava, desiderava partire. Consultava continuamente il suo orologio. Mancava solo un quarto d’ora.
– Marghot, voglio che ti affretti, dobbiamo arrivare, presto – diceva alla sua donna.
Fu così che giunsero in prossimità della piccola chiesa ove si sarebbe tenuta la cerimonia.
Il sole, bianco, ardeva nel cielo ed abbagliava con i suoi raggi, che si nascondevano al di là del campanile.
La chiesetta era grigia, isolata, quasi cadente, l’edera s’arrampicava vagamente sui suoi muri un po’ decrepiti. L’avevano costruita in cima ad una collinetta erbosa e verdeggiante; un giorno, non sarebbe stata più che un rudere cadente.
I prati erano più brillanti del consueto; aveva piovuto a lungo, perciò il sole era più fulgente e splendeva in un cielo lindo e ceruleo.
Marghot, vestita di rosso, con un magnifico cappello nero e rotondo sul capo, era più scintillante che mai. I suoi capelli biondissimi e ricci attiravano gli sguardi di tutti.
La cerimonia ebbe inizio, al suono di un organo.
Arturo pensava forse a suo figlio; poi, però, la mente sua fu turbata a tal punto, che si sedette su una delle panche di legno, sfinito. Le sue mani tremavano, rugose, il suo volto sembrava rannuvolarsi e cambiare aspetto.
– Non ti senti bene? – gli chiese Marghot.
– Sto benissimo – le rispose lui – &egrave solo che non ce la faccio più a stare in piedi.
– Ti capisco, ti capisco’
Arturo volle che la sua amata gli facesse una carezza. Dopo che la mano di lei si fu posata sulla sua spalla, si sentì meglio; era come se il buonumore gli fosse tornato, tutto in una volta.
Al termine della cerimonia, tutti uscirono dalla chiesetta, per fare delle fotografie all’esterno. Il sole splendeva con più vigore e luminosità di prima; era letteralmente abbagliante. Arturo voleva farsi fotografare vicino al suo amico, con Marghot, che teneva il figlioletto in braccio.
Ma la fotografa era Germana!
Il perfido si raccomodò i capelli, che erano sparsi e quasi scarmigliati sulla sua fronte gelida. Aveva davanti agli occhi, bruciante, l’immagine dei momenti atroci che aveva fatto passare a quella donna. Era come se un bagliore lo accecasse.
Germana cominciava a scattare le fotografie, Arturo si sentiva sempre peggio, il rumore di quella vecchia macchina fotografica lo inquietava, gli scatti si moltiplicavano e si moltiplicavano i battiti del suo cuore. Egli non ce la faceva più; poco dopo, provò un dolore forte, acuto, penetrante, che gli perforava l’anima.
Portò, come d’istinto, una mano al petto, che sembrava quasi scoppiare. Il dolore suo cresceva, aumentava, diventava insopportabile, disumano, orrendo! Arturo riusciva a stento ad aprire la bocca, ad emettere un gemito sordo. Nessuno si era ancora accorto di quanto gli stava accadendo, nessuno!
Arturo socchiuse gli occhi, il dolore gli prendeva il braccio, si diffondeva attraverso tutto il suo corpo, al pari di una struggente, disperata agonia.
Egli si lasciava andare, si lasciava cadere!
Germana continuava sempre a scattare fotografie e lo vedeva andare incontro alla morte.
– Arturo, che hai? – gli chiesero poi Marghot e, assieme a lei, tutti coloro che s’accorsero di lui.
Intanto, Arturo era caduto all’indietro e ruzzolava giù per la discesa, vertiginosamente, precipitosamente, pazzamente. Avvolto nel suo bel vestito elegante, gli occhi chiusi, la bocca semiaperta, che sbavava, mandava dei lamenti penosi. Non si fermava più’ Le sue unghie, nere quanto la morte, erano come piantate, inchiodate nel suo petto, il cuore lo tormentava, tanto che cercava di strapparselo.
Non poteva gridare, non poteva far nulla, se non ciò che gli concedevano le sue forze e quel male. Alla fine smise di cadere, si rannicchiò al suolo, ma si contorceva ancora, nel suo pallore mortale e doloroso. La tonalità fatale di quel lampo, che l’aveva stroncato, appariva ancora tetra su di lui, che era poco più di un cadavere.
Il suono forte e acuto di una tromba lo raggiunse. Gli parve un’improvvisa marcia funebre, suonata per lui. Gli squilli, vibranti di tenuità, lo commuovevano, lo tormentavano, per quanto fosse ancora possibile. Erano gli urli delle fanfare di una banda, che passava, senza che lui la potesse discernere.
Lo illuminavano la luce cupa del lutto, il suo sentimento, la sua ultima emozione, che s’innalzava, mentre lo lambiva l’inafferrabile crudeltà della sorte.
Le mani sue potevano sfiorare l’erba del prato, verde e cupa. Persone dai volti vaghi di precipitarono su di lui, le loro mani cercavano di scuoterlo, di prenderlo, di soccorrerlo. Ma quale soccorso sarebbe stato migliore della morte? Questo si domandava lo sventurato.
– Lasciatemi’ – rantolava.
Molti erano sconvolti. Egli era paralizzato, non poteva muoversi, la sua bocca era contratta, probabilmente nella sua ultima, tragica smorfia. Svaniva, nell’oscurità dissolta del suo declino.
– Marghot’ – poté mormorare; poi tacque, definitivamente.
Era come se il mondo non sapesse più che farsene di quell’uomo.
Gli occhi suoi avevano smesso di brillare della profondità consueta; il suo volto, pallido, contratto, inaridito, non aveva più fisionomia.
I vespri si spalancavano dinanzi a lui, nel fluire tiepido delle loro sfumature luminose, nel caldo accento di malinconia di una visione che si dileguava.
Egli era rimasto solo, sulla veranda della sua dimora, con accanto la giovane e bella moglie. Si trovava su una carrozzella e non poteva più muoversi. Era consapevole della sua sorte e di come sarebbe stato il resto della sua vita, fino alla fine.
La luce suprema di un giorno qualsiasi languiva davanti a lui, toccava le case, la città, illuminava scialbamente il suo volto, mettendone in risalto l’estremo, tragico pallore.
Il cielo era spruzzato dei vivi, offuscati chiarori crepuscolari, i cuori di entrambi esplodevano, al pari di quello spettacolo inenarrabile e vano.
Da un capo all’altro dell’orizzonte si muovevano, nebulosi, nembi elevati, che s’innalzavano quasi minacciosi nell’etere e poi scomparivano, come all’improvviso, trascinati dal vento irresistibile che dominava l’atmosfera.
Di tanto in tanto, a destra, a manca, gli edifici più grandi lumeggiavano nello spazio evanescente e poi la luce taceva, quasi silenziosa.
Pontvieux-sur-Lasson era immobile, dinanzi alle Alpi ed ai loro occhi, nei quali si disegnavano le ultime sfumature del giorno, del mondo.
Gli sguardi dei due innamorati continuavano ad essere travolti dalle nubi, cariche di lucori vaporosi, di brillantezze opalescenti, di leggere levità; venivano a contatto con l’ultimo sole, che, quasi un occhio incendiato e tragico, li guardava nel supremo istante.
Non s’udiva alcun rumore, soltanto il battito, ininterrotto, dei loro cuori, soltanto il dimenticare ogni cosa, così come la luce obliava l’orizzonte.
La luna non s’innalzava e tutto pareva rimanere dissolto in quegli sprazzi di debole languore.
Arturo si muoveva nella sua carrozzella. Andava su e giù per il terrazzo, cigolando.
La mente sua era sgombra di tutto, fuorché del travaglio. Di tanto in tanto, i suoi occhi impazzivano.
Contemplava l’ombra.
Porgeva l’orecchio al vento, lo sentiva bruire e poi tacere, lentamente; nessun’altra sensazione, nessun altro sussurro lo toccava. Ma le sue orecchie non avrebbero potuto udire, non potevano più udire altro che tristezza, dopo le note agghiaccianti di quella tromba ed i suoi squilli forti, insopportabili.
Gli pareva di discernere foglie verdi, naturalmente dipinte di smeraldo. Scorgeva la strada, vuota, cupa, grigia, affollata da passanti senza nome, che confabulavano, mormoravano chissà che.
Egli provava sensazioni fredde e Marghot era ad un passo da lui. Le prendeva le mani, voleva sentire le dita di lei tra le sue, ah, sì, quelle belle dita lunghe, affusolate, che rare donne possedevano. Lo sventurato era inconsolabile.
Allora, i capelli di Marghot sembravano più lucenti che mai, ma a che cosa serviva la bellezza del mondo? A che cosa giovavano il piacere e il dolore?
Quell’uomo non poteva resistere al dispiacere cieco che lo prendeva. Forse quello che provava era soltanto rimorso, ma comprendeva quanto fosse inutile e tardivo.
Una scintilla di luce tenue si riflesse sui raggi della carrozzella dalla quale Arturo non si sarebbe mai potuto separare per il resto della sua vita.
Poi, svanì.
– Marghot, io ti ho amata! Ti ho amata, anche se non lo sai, ricordatelo!
Così le disse. La bella si voltò verso di lui; era quasi innamorata. Avrebbe forse desiderato fargli una carezza, scambiare con lui qualche segno d’affetto, ma le sembrava impossibile.
– Tu mi hai amata? – chiese la donna.
– Ho fatto di tutto per te, per renderti felice. Lo so, &egrave difficile da capire, ti ho amata a modo mio, forse ti ho dato dei dispiaceri, lo ammetto, ma era soltanto per renderti felice’ Se vuoi, dimmelo! Dimmelo, avanti: sono stato un mostro, sono stato un uomo terribile’ Ti ho maltrattata, ti ho sciupata, ti ho sedotta vilmente e vilmente ottenuta, ti ho comperata con il denaro, tu avresti desiderato rimanere con lui, sognavi quei palpiti, i suoi, quelli di Philippe! Brillavi come un angelo sotto le luci del mondo.
Sì, Marghot era veramente stata trasformata. Ma chi aveva operato in lei i mutamenti più importanti era stato soltanto il vivere.
La bionda posò dolcemente le sue mani sulle spalle di Arturo. Si sforzava di essergli vicina, di volergli bene.
Ma sembrava che l’altro non la vedesse, non la sentisse. La sua presenza era come inesistente, per lui, in quanto i due non si capivano, l’uno era nulla per l’altra.
– Tu hai fatto’ – diceva Marghot. – Tu hai fatto molte più cose di quante io ne possa capire. Ma a che serve, mio Arturo, pensare a fare tanto? A che serve?
Gli occhi del disabile lampeggiarono di commozione e di languore. L’emozione che si stava impadronendo di lui era insopportabile.
Mentre Marghot gli era di spalle, egli si avvicinò alla ringhiera del terrazzo e, con le ultime forze che gli rimanevano nelle braccia, si sollevò dalla carrozzella e si mise a cavallo del parapetto.
Stava per gettarsi di sotto, nel vuoto.
Allora, desiderava la morte come non mai e come non mai la morte gli era vicina.
Ma che cosa stava facendo? Se lo domandava inquieto. Forse, quel gesto non sarebbe servito a nulla e Marghot non si sarebbe mai ricordata di lui.
Gli mancava l’equilibrio. Ancora un istante e poi sarebbe caduto.
– Marghot! – mormorò alla sua innamorata, in una sorta di urlo sussurrato.
La bionda lo vide ed ebbe paura. Gli si avvicinò; in quegli istanti, sembrava una dolce madre, più che una moglie.
Lo abbracciò e gli impedì di commettere quell’assurdità.
– Non farlo, non farlo, amore mio – gli diceva, mentre due lacrime bianche, tristi, le scendevano dagli occhi chiusi, sui quali premevano affettuose le labbra dell’infelice.
– Perché? – le chiese l’altro.
– Non farlo’
– Mi vuoi bene? Se &egrave così, dimmelo, te ne prego’
– Sì, ti amo’
Le strappò una sillaba che per lui era forse un sorso di vita. Quella sillaba fu un abbraccio generoso, un bagliore di luce, che non si aspettava, perché non se ne credeva degno.
– Come vivremo? Come spereremo? – le sussurrò affettuosamente.
– Così!
Allora, Marghot si chinò sul suo uomo e sulla sua bocca contratta, in una smorfia perpetua, posò un bacio, che, per un secondo, nel sogno di quell’attimo, la fece ritornare com’era un tempo.
– Sì! Preziosa’ Tu sei la donna più preziosa – vaneggiò Arturo.
Marghot, nei pensieri di lui, nella sua mente, nel suo mondo segreto, era veramente tale.
Il disgraziato avrebbe desiderato cento, mille altri di quei baci. Per contro, quello sarebbe stato il primo e l’ultimo.
– Vivrai per te stesso e per me – disse Marghot.
– Per te! Soprattutto per te, mia adorata sposa!
La adorava come non mai. La voleva, voleva quel volto, quell’anima, quella persona, quell’essere sublime che dimostrava di volergli bene.
– Vedi questo cielo? – gli chiese lei. – Ora &egrave diventato buio, ma tra poco rifiorirà di luce.
Lo sventurato era incantato. Forse, non credeva a quelle parole, ma si lasciava cullare e trascinare dal loro senso, dalla loro tenerezza, che lo estasiavano. La sorte aveva in serbo per lui una nuova vita?
Questa era la domanda che poteva rendergli la serenità perduta.
– Non ti ho mai sentita così amica come ora – disse Arturo, mentre coccolava la sua amata.
– Tu vivrai per me, per il mio affetto, amico mio – gli disse lei, guardandolo negli occhi assai a lungo. – Tu ritornerai com’eri un tempo, tu sarai’ Oh!
Marghot era troppo commossa per parlargli ancora. Poi, tenendogli una mano, sussurrò:
– Presto partirai per quella clinica in Svizzera, sulle Alpi. &egrave lontana, ma guarirai, ti riabiliteranno e sarai al sicuro dai tuoi nemici.
Il volto di Arturo si rabbuiò. Non voleva partire!
– Lo so, &egrave difficile, ma pensa che cos’&egrave la morte e che cos’&egrave la vita! – aggiunse lei.
– Voglio che tu sia sempre al mio fianco!
– Sì, ti verrò a trovare qualche volta.
– No, sempre!
– &egrave impossibile, lo sai, caro! Voglio vederti com’eri una volta, ti voglio sentire vigoroso, tu hai bisogno di me ed io ho bisogno di te. Tuo figlio ha bisogno di te. Pensaci!
La voce di Marghot tremava, mentre gli diceva tutte quelle cose. Nel frattempo, Arturo le stringeva le braccia con le sue mani rugose e ormai senili.
– Sono vecchio – le disse. – Chissà che cosa potrò fare ancora a questo mondo’
– No, tu non sei vecchio, Arturo. Sei ancora un uomo e puoi avere delle speranze!
– Marghot, non avrei mai immaginato di poter udire, un giorno, parole simili, dalla tua bocca. Non avrei mai pensato che tu potessi essere tanto premurosa nei miei confronti. Averti accanto &egrave come avere presso di sé un tesoro.
Ma a dividerli erano le stesse tenebre della notte, la stessa profondità di ciò che di più cupo regnava dentro di loro.
– Partirai – insistette Marghot e il suo fu come un dolce comando. – Andrai in quella clinica svizzera, in mezzo ai boschi.
– Sì, partirò – le fece eco lui. – Ma dammi la mano, carissima, dammela!
– Sì, prendila, &egrave tua! Prendila, stringila, ma non morire. Io non voglio che tu muoia!
Non avrebbero mai più trascorso insieme serate come quella. Arturo non avrebbe forse più potuto pronunciare la parola ‘insieme’, né chiamare la persona che amava.
Egli andava lontano, molto lontano.
In un bel pomeriggio di sole, l’acqua dei torrenti che attraversavano Pontvieux-sur-Lasson brillava gioiosamente amena.
I raggi dorati dell’astro fulgente animavano la superficie inquieta di quei rivi, sorridevano nel blu, giocavano con l’ombra.
Le acque scrosciavano, scrosciavano sempre, senza fermarsi mai e le ore sonnolente del giorno passavano con lentezza.
Le case, intorno, erano come spente, nella loro bianca presenza.
L’oblio, delicato, sublime, calava, senza che alcun rumore potesse turbare la quiete pomeridiana. I salici si muovevano tardamente, pigramente, con le loro fronde cadenti, a cascata, che intingevano nell’acqua gorgogliante.
Una donna, stanca, pensierosa, era seduta su una riva e bagnava i piedi nel torrente, come assonnata.
Si teneva il volto tra le mani.
Fissava la superficie dell’acqua, che rispecchiava il suo viso e i suoi capelli, neri, erano baciati dal sole.
Era Germana.
Che cosa faceva sola, cogitabonda, in quel luogo solitario?
Aveva bisogno di respirare all’aria aperta, perché la mente sua era piena di turbamento. In mano teneva dei piccoli sassi, che gettava, uno dopo l’altro, di tanto in tanto, nell’acqua. Quando si tuffavano, era come se lei si svegliasse, per un momento, dal sonno fantastico che la avvinceva.
Pluff’ Pluf’ Le pietruzze cadevano dalla sua mano e precipitavano nel torrente. Affondavano così e’ Oh! Le ore non passavano mai, così le sembrava.
Ogni tanto, il silenzio veniva infranto dai rintocchi lontani di una campana; poi, tutto ritornava silenzioso e lei ricominciava a gettare sassolini, che disegnavano sulla superficie blu dei cerchi indefiniti, confusi, disordinati.
Germana sentì una sorta di rumore alle sue spalle.
Poi, più nulla.
Forse, era stata un’impressione, volata via nelle sue fantasticherie. La donna non desiderava la compagnia di nessuno, si era recata in quel luogo con l’intenzione di restare sola.
Ad un tratto, Germana vide riflessa sulle acque l’immagine di una donna. Chi era? Che cosa voleva da lei?
La giovane che si specchiava nel torrente era Aurora. Lievemente, allegramente, disse:
– Ti ringrazio!
Poi aggiunse, sussurrando:
– Ti conosco da molto tempo, ormai, e desidero esprimerti tutta la mia gratitudine. Sono stata io a chiederti di fare tanto, a guidarti e senza nemmeno conoscerti, in fondo.
– Sei stata tu? – chiese Germana.
– Ti sono profondamente riconoscente. Ora, per te, non sono che una visione, intrappolata nei bagliori di queste acque e parlo alle tue spalle.
Dopo il tragico episodio, Philippe era confuso e temeva di non poter più rivedere Aurora, che forse gli serbava del rancore.
‘Non posso farci nulla, devo rassegnarmi a vivere così, come un vagabondo’ pensava il nostro protagonista.
Egli però si era quasi completamente dimenticato della scena terribile, della quale era stato l’artefice. Florimond era scomparso dalla sua fantasia, così come dalla sua vita e da quella della bella arpista.
Philippe aveva voglia di lei, lei, lei’ Le rare occasioni in cui la vedeva di sfuggita erano traumatiche. Allora, egli si sedeva sul marciapiede, si prendeva la testa fra le mani, udiva indistintamente il passo degli sconosciuti, che lo irritava ancor di più. Ah, tutto questo era soffrire!
Forse, la colpa era tutta di Arturo.
Ma che importava, dopo che il presente, per lui, s’era tinto di inesprimibile sconforto? Mentre pensava, era come se delirasse, follemente, dentro di sé.
Dirigeva la sua mente dove lo conduceva il caso e s’accorgeva che un sogno di felicità era ancora possibile.
Aurora era diventata praticamente un’amica di don Guglielmo, dopo averlo incontrato in quelle fatali circostanze. I due si parlavano spesso in confidenza.
Ah, quell’amicizia! Quella confidenza! Forse, Philippe avrebbe potuto trovare uno spiraglio, attraverso il quale passare, per giungere all’amore!
Il cuore del sognatore blu palpitava di gioia e di attesa.
La mente sua, guidata dai sentimenti, dalle passioni, dal desiderio di arrivare a lei, insostenibile, indominabile, aveva escogitato.
Philippe, accorgendosi di quel disegno inatteso, che lo faceva sperare, s’accorse di avere gli occhi umidi, per la forte emozione.
Quel pomeriggio egli aveva un aspetto assorto e compunto ed era come se fosse rimasto allegro soltanto interiormente.
S’era messo il bell’abito che indossava sovente per recarsi in chiesa ed uscì a passi lenti, dirigendosi verso il luogo in cui il pensiero, il cuore, la vita, lo conducevano.
Non era agitato, ma gli occhi suoi tradivano l’affetto e l’incertezza.
‘T’amo, Aurora’ pensava Philippe. ‘Non voglio perderti, non voglio che tu mi perda. Dobbiamo essere felici, insieme!’.
Era il desiderio a fargli compiere tanto.
Il nostro protagonista entrò nella Casa di Dio, si segnò in fretta e si diresse verso un confessionale.
Ad attenderlo, c’era don Guglielmo.
Prima dell’inizio della confessione, l’innamorato ordinò bene le sue idee, che in quel momento erano stravolte dalla confusione.
Ed ecco, s’inginocchiava, intravvedeva attraverso la grata il volto di don Guglielmo, senza nemmeno alzare il suo sguardo.
– Padre, ho molto peccato – gli disse Philippe, giungendo le mani; la voce sua fremeva per l’emozione.
In quegli istanti, il nostro protagonista s’accorse di amare Aurora più che mai, più di quanto avesse mai amato qualsiasi altro essere al mondo. Era il suo amore a farlo parlare, erano gli slanci appassionati di cui si rammentava e che sperava di provare ancora, al fianco di lei, al suo petto.
– Iddio &egrave pronto al perdono ed avrà misericordia di te, figliolo – gli rispose don Guglielmo.
Le labbra di Philippe tremarono. Poi mormorò, lentamente, al termine di un silenzio grave forse quanto le parole che stava per dire:
– Ho attentato alla mia vita.
Don Guglielmo tacque. Poco dopo, gli chiese:
– Quante volte?
– Non ricordo – rispose l’altro, esitante. – Sono così tante, che non posso averle a mente tutte.
Il confessore sospirò profondamente; si rattristava sempre, ascoltando i racconti delle misere azioni umane. Eppure, sapeva che in ogni uomo c’&egrave una forza misteriosa, che lo può spingere alla depravazione, all’abominio.
– Tutto accade per lei, a causa di lei – aggiunse Philippe. – Sì, &egrave lei che vedo, negli istanti in cui tutto sembra essere in procinto di finire. &egrave lei che mi accompagna mentre soffro e mi contorco, tra i morsi nell’agonia. Non sono mai riuscito a portare a termine il mio gesto. Purtroppo!
– Ma’ – sussurrò don Guglielmo. – Che cosa dici, figliolo? Dovresti rendere grazie a Dio, per questo! Iddio ti ha salvato dalla morte, che sia benedetto!
– Mi creda, &egrave difficile poter dire quelle parole. Anzi, impossibile. I sentimenti che mi divorano sembrano essere più importanti di qualunque altra cosa; &egrave lei che mi consuma, come una fiamma, &egrave lei che mi uccide’
– Lei? No, figliolo, non può essere lei. Perché mai vorresti forzare i suoi sentimenti? Se non ti ama, &egrave perché tu non le ispiri amore. Il tuo comportamento &egrave da egoista; facendo così, sbagli!
– Io non posso continuare. Mi ricordo della tenerezza che un tempo c’&egrave stata tra noi e la confronto con il vuoto del mio presente. Mi accorgo di essere inutile; senza di lei, tutto &egrave inutile!
Philippe tacque un istante.
Poi, confessò di aver commesso delle azioni irrazionali, numerose atrocità, parlò di alcune situazioni drammatiche, scoppiate dal nulla, soltanto perché la sua innamorata non gli rispondeva e lo aveva lasciato, senza che vi fosse stata una precisa ragione.
– Il suo nome &egrave Aurora? – chiese don Guglielmo.
– Sì, Aurora – rispose il sognatore blu, la cui voce cominciava ad essere rotta da un pianto vago. – Mi farà dannare!
Il confessore, con aria grave, gli disse:
– Tu non puoi staccarti da quella donna, non &egrave vero?
– Temo di no, padre.
– Pensa bene a quello che hai detto! Pensa alla tua anima, figliolo! Forse una donna vale la tua salvezza?
– No. Ma quando penso a lei, &egrave come se non potessi più ragionare, &egrave come se le mie azioni fossero dettate non dalla mia volontà, ma dal mio istinto.
– Ogni problema &egrave risolvibile. Se tu la ami e lei non ti ama, non farne un dramma. Se il tuo amore &egrave autentico, alla fine, ella non ti rifiuterà. Ma non pensi che potrebbe avere già un amore?
– La conosco, so che &egrave nubile e non c’&egrave nessuno’ – l’innamorato singhiozzava.
– No, non disperarti, figliolo, Iddio ti aiuterà.
– Sì! Lo spero. Mi aiuti lei, padre!
– Sì, sì! Lo farò, pregherò per te. Pregherò.
– Ma il mio amore non &egrave egoistico. Io le voglio bene veramente, ma’ Lei non mi crede, &egrave talmente disinteressata a me, che non mi considera neppure.
Don Guglielmo tentò di consolare Philippe, il quale, in realtà, avrebbe inevitabilmente continuato a piangere, fino a quando il suo cuore non fosse stato curato dall’amore della sua Aurora.
Don Guglielmo rimase molto impressionato da quella confessione. Di solito dimenticava le vicissitudini che gli venivano confessate subito dopo averle udite, ma le parole di Philippe continuarono a risuonare nella sua mente.
Era come se quell’uomo, afflitto, con l’intensità dei suoi sentimenti sconsolati, fosse riuscito ad imprimergli nella mente tutta la sua costernazione.
D’altronde, quell’amore, quelle gesta, erano tanto appassionati!
Don Guglielmo non avrebbe mai pensato che un uomo potesse innamorarsi di una donna fino al punto di fare per lei delle cose così inaudite.
Era chiaro: quella era la stessa bella arpista di sua conoscenza, ma come poteva una donna così dolce e bella ridurre in quel modo un essere umano, semplicemente con un suo sguardo, con un abbaglio della sua avvenenza?
Ogni apparenza poteva ingannare. Sì, nessun mortale avrebbe saputo dire che cosa si celasse nel cuore di un suo simile.
Il prete decise di parlare ad Aurora di quel caso. Avrebbe taciuto il nome di colui che gli aveva fatto quella confessione, anche se l’altra l’avrebbe indovinato facilmente.
Un giorno, il sacerdote rimase solo con la bella; l’amicizia li aveva portati a chiacchierare allegramente per un’ora, senza nemmeno accorgersene.
– Sai, mi capita spesso di ricevere delle confessioni toccanti e dal significato profondo – le disse don Guglielmo, dopo aver portato la loro conversazione fino a dove voleva arrivasse.
– Lo capisco, voi preti conoscete i lati più oscuri degli esseri umani. &egrave una vita difficile, la vostra – rispose la bella.
– La nostra parrocchia sembra insignificante, ma credo che anche nelle comunità più piccole (non &egrave il nostro caso) accadano molte cose.
– Davvero?
– Mi ha colpito soprattutto la confessione che ho ricevuto poco tempo fa, da un uomo afflitto, che non sa più che cosa fare della sua vita. Io ho cercato di indirizzarlo, ma non so che cosa possa nascere dentro di lui. Pare che nel suo cuore sia sbocciato un amore invincibile per una donna. Questo amore gli fa commettere delle azioni sconsiderate, commoventi’ Tutto questo, soltanto perché la sua amata continua a respingerlo!
– Oh!
– Il suo caso &egrave toccante, anzi, assai grave.
– Perché mai?
– Egli ha tentato più volte il suicidio, mi ha detto, ed ha commesso non so quante azioni crudeli, tutto per causa sua.
– Tu dici che la ama davvero?
– Io non lo so, Aurora.
Don Guglielmo si rivolgeva a lei chiamandola per nome ogni volta che si sentiva particolarmente turbato.
– Non lo so, amica mia – continuò, con voce rotta. – In fede mia, non so a che cosa possa portare tutto ciò, o meglio, lo immagino, mio malgrado. Ma quello che ignoro &egrave il modo in cui può nascere una passione tanto indomabile, da far perdere la testa. Colei che lo respinge deve avere delle ragioni valide per farlo, altrimenti sarebbe veramente crudele!
– Sul serio? – sussurrò l’altra.
– La ama, Aurora! La ama! – gridò don Guglielmo, posando entrambe le sue mani sulle spalle di lei e fissandola a lungo, pateticamente.
– Perché mi guardi così, amico mio? Vuoi farmi piangere?
‘Philippe ha fatto tutto questo per colpa tua!’ diceva una voce, nel cuore della bella arpista. ‘La colpa &egrave tua se accadono tante sventure! Sei cattiva!’.
Ma le ritornarono in mente le circostanze in cui s’erano visti l’ultima volta. No, non avrebbe mai potuto dimenticare un evento simile! I lamenti di Florimond continuavano a risuonarle nella mente e soprattutto nel cuore. Ah! Com’&egrave abominevole far soffrire gli innocenti!
Ad ogni modo, Philippe desiderava donarsi teneramente a lei, voleva che il suo sogno d’amore si trasformasse in realtà! Le era sempre stato fedele, si ripeteva il sognatore blu, ogni volta che si esaminava, per scoprire se era veramente degno di quella donna.
Proprio quando Aurora considerava ormai trascorsa la rivoluzione sentimentale che le parole di don Guglielmo ed il pensare a Philippe le avevano causato, s’accorse che lui le era affezionatamente vicino.
Il suo innamorato le inviò un messaggio, con il quale sperava di intenerirla, di toccare il suo cuore con la sua fantasia affettuosa. Era stata tanto fredda nei suoi confronti!
Nel biglietto c’era scritto, nella calligrafia sublime che gli aveva ispirato il suo ardore:
‘I tuoi giorni sono i miei giorni, il tuo cuore &egrave il mio cuore. Piccolo amore, hai dipinto nel mio intimo i sentimenti più dolci. Sei un fringuello del mattino, che canta dentro di me le melodie della felicità, ma quando ti cerco, quando il tuo cinguettare mi raggiunge’ Oh, voli via, angelo mio, e non potrò riaverti mai, neppure nella fantasia!
Perché non essere felici insieme? La gioia &egrave il nostro amore e tu sei la delicata gemma da cui sboccia.
Profumi di dolcezza, ti desidero, ti voglio accanto a me. Quando ti sono vicino, &egrave come se fossi ad un passo dal paradiso. In te ho riposto quanto ho di più caro al mondo, in te sola, nel tuo sorriso, spero.
Ti amo, arrivederci a presto.
Philippe’.
Ma Aurora fece scorrere appena il suo sguardo su quelle righe, scritte con tanta cura e dettate dall’amore. Per lei era come se fossero aride, come se non esistessero.
Le leggeva, le leggeva, ma non vi trovava nulla.
Alla fine, appallottolava il foglio, stanca di tante parole apparentemente insensate… Era come se mentre lui cercava di guardarla negli occhi, lei li socchiudesse.
Ma Philippe era letteralmente divorato dalla passione.
Le scrisse ancora.
‘Subito, subito, senza attendere, senza una parola, l’amore, tu, insieme’ La tua mancanza mi fa sentire le spine che difendono la tua bellezza. Ah, sono acute, dolorose, pungenti! Perché, supremo incanto della natura, vuoi punire chi spera soltanto di accarezzarti? Questo silenzio mi trafigge l’anima, perché ormai sono unito a te.
Qualcuno ti ama e ti contempla giorno e notte, senza mai stancarsi di pensare a te, senza mai smettere di dire dentro di sé: ‘Ti adoro!’.
Sei bellissima e soave, come la rugiada che asperge e rinfresca l’erba dopo l’arsura diurna.
Chi mai potrà rendermi queste felicità, quando le avrò perdute?’.
Era lui, sempre lui, soltanto lui, a pensare cose tanto favolose ed a fare di lei, Aurora, l’oggetto di quelle frasi innamorate.
Ella non avrebbe potuto resistergli, non avrebbe potuto rifiutarlo ancora, no!
Questo pensava Philippe ogni volta che le scriveva, nella sua serenità infantile, ma venata d’incertezza.
I suoi biglietti amorosi si moltiplicarono.
Riportiamo, di essi, soltanto quelli che Aurora decise di leggere, perché furono troppo numerosi.

‘Ti ho vista sbattere le ciglia.
Ho sognato in quelle pupille, ho palpitato nel tuo palpitare, ho scoperto il tuo inenarrabile scintillare.
Oh! Come avrei desiderato posare, in un soffio, le labbra su quegli occhi socchiusi, come ti guardavo! Tu, timorosa, timidamente mi sfuggivi. Ma il tuo amore mi rapisce. Il tuo tacere mi appassiona, ti amo!
Perché, perché continui vanamente a calpestare, sublime, i miei sentimenti?’.

‘Che cosa fai, sola, affascinante, nei miei sguardi? Come una bambina, o forse una gattina, mi vedi un solo istante e poi fuggi.
Dove vai? Che cosa pensi, dolce speranza del mio cuore? Mi strappi aneliti appassionati, mi infiammi di dolcezza o d’illusione, ti sussurro la mia passione e tu rimani così lontana! La tua benevolenza &egrave così impossibile!
Sei la mia ballerina, danzi per me nella musica sublime dell’amore. Un giorno può durare un
attimo, se solo sfioro il tuo sospiro’.

‘Non sono un giocattolo. Ho deciso di averti, di amarti, di aspettarti, per sempre, nel mio intimo, dove spero verrai, semmai. Ti lascerai cullare affettuosamente dalle mie parole.
Amare non &egrave scherzare. Tu, sorgente dell’amore, mi disseti. Ma, ahim&egrave! Tutto inaridisce, tutto muore, se mi dimentichi! Sei presente in me in qualsiasi istante, vicino al tuo bel volto assaporo i più teneri bagliori di felicità della mia vita.
Vorrai essere con me e placare i tuoi capricci?’.

‘La tua femminile levità, la tua spontanea, naturale beltà! I miei occhi languiscono, quando hanno la gioia di incontrati! I palpiti mi uccidono, quando sento che mi sei accanto!
Ma il bel sogno &egrave infranto. Ho vissuto con te, vicino a te, anche se non mi hai visto. Il tuo splendore mi ha fatto diventare cieco a qualsiasi altra bellezza. Io sono per te e tu sei per me.
E se la cupa avversione ti possiede, se la tua sensibile anima &egrave travolta da pensieri che ti portano via, t’allontanano da me, oh, che infelicità!
Tutto ciò che ho fatto e immaginato, nella mia vita, era illuminato dal tuo volto, che mi auguravo di poter accarezzare, sfiorare’ Per te potevo uccidere qualsiasi altra passione, potevo uccidere anche me stesso.
Sei il fiore proibito e per poterti avvicinare ed ammirare, devo affrontare le insidie della roccia!’.

‘Mi sei necessaria, come il sole che brilla nel cielo &egrave necessario al giorno, come la freschezza del vento &egrave necessaria all’aria tranquilla.
Voglio che tu sappia quanto ti amo, voglio che tu mi veda e legga sul mio volto l’espressione dei miei sentimenti. Se ciò accadesse, sarei felice.
Viviamo insieme, stiamo insieme!’.

‘Cara Aurora, forse quello che ti devo chiedere non &egrave un sospiro segreto, ma la grazia dell’anima.
Forse &egrave che tu mi perdoni, non perché non ti ho amata abbastanza, ma perché non sono stato capace di dimostrartelo come avrei voluto. Forse nei tuoi pensieri scintillano lampi di sdegno e ti senti addolorata per quanto &egrave avvenuto un giorno, mentre il tuo cuore era vicino ad un altro uomo.
Ma quell’essere era un mostro, credimi. Ciò che ti aveva rivelato di sé era un abbaglio, per te, dato che non era vero. Le sue sventure erano menzogne.
Persino i suoi occhi potevano vedere la luce, al contrario di quanto ti aveva narrato.
Egli ti avrebbe sfruttata, avrebbe fatto di te la sua serva, ma io ti ho salvata.
Sì, ho forse bisogno di essere perdonato, ma soprattutto perché non mi sono fatto amare da te!’.

‘Aurora, tu sei la mia sera e il mio mattino. Vedo il tuo volto sulla luna che illumina teneramente la notte, vedo la tua bellezza che incendia il sole, quando sorge, quando splende e quando, al crepuscolo, muore.
Tu rischiari il mio sonno e lo accendi di dolci visioni.
Tu sei la luce della mia vita e se mi mancassi, la notte, le tenebre si impadronirebbero di me, per sempre.
Le mie mani tremano sovente, sperano di poter stringere un giorno le tue. Nel sonno, nella veglia, mormoro il tuo nome, so che sei lo scopo della mia vita, l’unico essere per il quale valga la pena di continuare ad esistere.
Un bacio, che &egrave come un arrivederci’.

‘In te vivrò, Aurora, e in te morirò. Sono il tuo burattino, il tuo Philippe, e desidero che tu abbia tutto me stesso e tutto ciò che posso darti.
Non spiegazzarmi tra le tue mani, come un foglio di carta inutile che si sciupa.
La mia mente si rivolge sempre a te e quando ti vedo languida, nel sole, la mia felicità, la mia insoddisfatta, terribile felicità, spera di risvegliarti’.

‘Un velo ti ricopre il volto, soavemente.
Ma &egrave come se quando ti scopro, quando ti immagino, un ago mi pungesse il cuore e lo facesse sanguinare’.

‘La tua indifferenza sta per trionfare. &egrave come se mi uccidessi, &egrave come se, a poco a poco, mi inaridissi. Perché, perché ti comporti in questo modo? Lo sai che cosa sei per me. Lo sai che cosa sono pronto a fare per un tuo sguardo.
Non voglio che finisca così. Non voglio che tu spenga in me quello che provo nei tuoi confronti. Aurora! Aurora! Senti la mia voce? Capisci le mie parole?
Sono intrise d’amore’.

‘Le tue guance si sono tinte di rosso, l’ultima volta che ho avuto la gioia di incontrarti e di posare su di te, sia pure per poco, per troppo poco, il mio sguardo.
Oh! Dimmelo, Aurora, che cosa ti accade? Che cosa si risveglia in te? Vorrei tanto avessi portato in grembo fino ad ora il sentimento che credo stia per sbocciare in te!
Forse, ciò che esploderà, sarà per sempre! E per sempre ci unirà affettuosamente, come un albero al suolo di settembre.
L’amore e la gioia saranno le nostre radici’.

‘Asciuga le mie lacrime, Aurora! Asciuga la mia tristezza, con i tuoi baci e la tua voce, quella voce amata e sospirata, che non ho più potuto udire!
Sussurrami il tuo affetto, sussurrami ciò che ho sempre atteso, senza mai poterlo scoprire!
La mia anima &egrave come un desiderio, come un mare desolato, solcato dalla mestizia di un’inconsolabile delusione. Consolami! Sei tu il balsamo che mi può dare sollievo.
Aurora!’.

‘Ti sognavo.
Eri luce, tra le mie braccia. A te apparteneva il mio essere ed io potevo gioire della tua femminilità’.

Gli ultimi messaggi di Philippe produssero uno strano effetto nella giovane arpista.
Era come se le avessero vellicato l’anima, i sentimenti, le emozioni.
Per poco, ella pensò a lui, si ricordò di lui, lesse profondamente assorta quanto le comunicava. Si accorgeva che le sue palpebre nascondevano due occhi bagnati di commozione, qualcosa in lei avveniva, lentamente, tardamente, pigramente.
Philippe! Philippe!
Era come se dentro di lei qualcuno ripetesse quasi continuamente quel nome, con rare interruzioni. Era una tenera ossessione.
S’era forse smarrita nell’intensità di tale soavità?
Le sembrava soprattutto di essere tenuemente discesa in un labirinto onirico, di specchi; era bellissimo, ma quello che provava era incredibilmente intenso.
In quell’atmosfera trasognata, quasi irreale, lui!
In ogni angolo, ogni volta che alzava il suo sguardo, lo vedeva.
Don Guglielmo le parlò ancora di Philippe. Lo faceva ogni volta in un modo nuovo, per evitare di urtarla o di ferirla. Le voleva far capire amichevolmente che la strada da percorrere era lasciarsi vincere dal sentimento, che, senza dubbio, giaceva dentro di lei. Quell’uomo di chiesa doveva essersene accorto.
Sì, quell’amore era sincero, felice, indimenticabile. Era una forza sublime e travolgente, tanto da contagiare anche don Guglielmo, per fargli vivere quella dolce avventura al fianco di Aurora e di Philippe come un’ombra segreta.
Desiderava che fossero felici e perché ciò accadesse, si sarebbero dovuti incontrare. Ci avrebbe pensato lui.
Ad ogni modo, se il loro amore era autentico, il suo aiuto non sarebbe stato neppure necessario. Forse, ogni grande passione, ogni sentimento profondo, sboccia da sé, come i petali di un fiore.
Aurora volle parlare a Germana, divenuta ormai sua amica, della sua inquietudine amorosa. L’arpista, che credeva triste, difficile risolvere il turbamento che la affliggeva, comprese che in realtà l’amica glielo avrebbe fatto dimenticare allegramente.
– Oh, non ti spaventare ‘ le diceva Germana, con una voce ovattata. ‘ Queste cose accadono a molti.
La nostra protagonista s’accorse dal tono di quella voce che l’altra non era affatto preoccupata per lei. Infatti si sentì dire:
– Non &egrave il caso di affliggersi per un sentimento che fa affliggere!
– Hai ragione ‘ rispose Aurora. ‘ Ma &egrave difficile capire quello che &egrave giusto fare. Che cosa devo fare?
– Questo non lo so’ Se &egrave amore quello che lui prova e te ne fa provare, vedrai che, prima o poi, lo scoprirai. Sarà come vivere una favola, della quale tu sola sei la protagonista.
– Sì, una bella favola, una piccola favola, trallallà’
Aurora lasciò Germana. Provava il desiderio di godere della piacevolezza che aveva potuto cogliere appena dai discorsi della sua amica, la cui voce era rimasta sepolta dentro di lei.
Era un’attesa, la sua.
Ricordo di un mattino tranquillo a Pontvieux-sur-Lasson.
Le rues erano solitarie, sembrava che tutto giacesse incantato nel sogno. L’ombra delle case e dei palazzi si confondeva con la luce diurna, il rumore, il vago rumore della cittadina, che svaniva come una bruma.
Ad un tratto, tutto taceva.
Il sole splendeva al di sopra dei tetti e dei pensieri umani, la luce brillava sericea e leggera dovunque. Non v’era un passante, non una parola umana, non un gemito, non un sussurro.
Una piazzetta, perduta nel suo silenzio, era allora ancor più affascinante e come immersa in un’immaginaria penombra.
Giungeva di lontano un respiro quasi affannato, un passo leggero, veloce, che risuonava fra i muri, nel silenzio.
Era un passo virile, il passo di un uomo.
Philippe, dopo aver tanto corso, dopo aver camminato speditamente, si fermò. Si passò una mano sulla fronte, era quasi sudato, ma che importava?
Aveva voglia di una donna, si sentiva fremere nell’anima, non poteva resistere alla passione che, struggente, s’era impossessata di lui.
Era impossibile resisterle.
Philippe amava, lo sapeva, non ne aveva il minimo dubbio, ma quale angoscia gli teneva stretto il cuore! Temeva di non poterla rivedere, di non poterle più parlare’ Improvvisamente, la vide. Era davanti a lui, in carne ed ossa. La luce del sole le baciava il volto, che brillava come non mai.
– Aurora! – gridò il sognatore blu.
Lei si fermò, ma non aveva il coraggio di voltarsi.
– Fermati! Fermati, ti prego!
Così la chiamava il suo innamorato.
Ma ella sfuggiva allegramente. Sembrava che l’indifferenza l’avesse abbandonata, sembrava giocasse.
Sorrideva, lietamente, correva sempre più piano e’ Forse, desiderava lasciarsi prendere.
Philippe si accorse di come scioglieva il fazzoletto che le avvolgeva i bei capelli rossicci e, con la sua mano di fata, lo teneva sospeso, nell’aria, lo faceva volare nel vento. Poi lo lasciò andare e lui, che era ad un passo dalla sua bella, tanto da udirne, sublimi, gli aneliti, lo prese, tutto bramoso.
Lo poté portare all’olfatto, poté sentire il suo tenue, meraviglioso olezzo.
Ma lei, la cosa più importante, s’era fermata, miracolosamente, fatalmente’ Lo guardò, lo degnò dei suoi sguardi amorosi, finalmente.
– Aurora! – mormorò Philippe, in estasi.
Poi gli sembrò che svanisse, come una visione. Paventava di non rivederla più, eppure avvertiva ancora la sua dolce presenza.
– Ti amo! – le gridava lui, incantato. – Ma dove sei? Non ti vedo più, amore mio!
Si era nascosta dietro una colonna; Philippe si accorse delle sue morbide mani dalle dita affusolate e lunghe, che si avvicinavano a lui. Era come se giocasse a nascondino, era innamorata.
In un solo istante, gli mostrava il suo bel volto, poi lo celava, prestamente. Il suo innamorato la ammirava, era dorata. Poi udì la voce sua esclamare:
– Sono stati i tuoi meravigliosi messaggi a riconquistare il mio cuore! &egrave la tua fantasia, la tua poesia, che adoro. Vieni, Philippe, prendimi!
Aurora riprese a correre, a piccoli passi, e lui le era dietro. Il nostro protagonista la sentiva respirare forte; appassionata, scoppiava di felicità.
– Vieni – gli disse poi, facendogli un cenno della mano. – Vieni qui, da me’
Fu così che lo abbracciò forte, con tutta la sua affettuosa veemenza; aveva il dolce sogno degli attimi più belli dipinto sul volto.
– Vieni, Philippe – lo chiamò. – Ti amo, sono innamorata’
– Oh, &egrave dunque vero! – rispose lui. – Con queste parole, mi guarisci da tutte le mie malinconie!
– Sì, ti guarisco e sono tua, per sempre tua.
– Tutte le mie ferite si sono rimarginate miracolosamente, ascoltandoti!
La toccò, si posò sulle sue labbra, che avevano il sapore dell’amore. Non si era sbagliato, ella lo amava, gli voleva bene come non mai e lui cadde sulla sua bella, travolto dai suoi sentimenti inenarrabili. Come un fanciullo, ingenuamente viveva la sua puerilità virile e lei si abbandonava mollemente alle sue carezze.
– Chi sei, Aurora? – le chiese il nostro protagonista. – Sei un angelo, sei il paradiso, sei l’amore? Lascia che ti copra di baci, sì, così’
– Mi ami e mi rendi felice’ – gli rispose l’altra, sospirando incessantemente, mentre i capelli suoi ricadevano molli sulle sue spalle e sfolgoravano, ma brillavano ancor più nel cuore di Philippe, al pari delle sue frasi.
– Che cosa faremo insieme?
– Quello che vorrai. Sì, amico dei miei sogni, quello che vorrai!
– Ormai più nulla ci può dividere.
– Più nulla. Siamo l’uno per l’altra, siamo un’anima sola.
Aurora lo guardava amorevolmente, era come se con lo sguardo gli avesse voluto comunicare quanto lo amava. Philippe era lieto di aver sofferto, se tali sofferenze gli avevano potuto procurare quell’istante di estrema felicità. Le accarezzava il volto, ma le mani dell’arpista rapivano le sue e lui sentiva la sua femminilità, le sue forme dolci e flessuose, il suo cuore difficile ma tenerissimo, dal quale non si sarebbe mai separato.
– Vieni qui, Philippe – mormorava Aurora. – Senti come palpito? Sì, &egrave la tua presenza, il tuo amore, che mi fa fremere’
– Ascolta’ – rispose lui, prima di sussurrarle parecchie frasi appassionate nelle orecchie, mentre lei gli sorrideva.
– Sì, dimmelo ancora, dimmelo ancora, mi fai impazzire!
Furono sensazioni intramontabili, eterne. Nulla le avrebbe potute cancellare dai loro ricordi, dai loro cuori, quand’anche il destino li avesse spezzati.
Era come se dall’ultima volta in cui erano stati intimamente insieme non fosse trascorso che un istante.
Quel lampo era stato la vita, colma di amarezze e di futilità. Soltanto per Aurora, soltanto per il suo cuore, soltanto per l’amore era valsa la pena di sopportare tutto.
– Ti ho pensata a lungo, ma eri così irraggiungibile, così lontana’ – diceva Philippe.
– Anch’io desideravo amarti, ma non sapevo più cosa fosse l’amore – gli rispose la bella arpista.
– Ora lo sai ed &egrave meraviglioso!
– Sei l’essere più importante per me, non ho mai amato nessun altro, soltanto tu, tu’
Florimond era dimenticato. La tragica scena, il terribile momento erano caduti nell’oblio, per sempre.
– No, non potevo credere che non mi amassi più – sussurrava il nostro protagonista.
– Sono qui, tua, prendimi, amami’ – gli comandò teneramente l’innamorata.
Erano soli, l’uno tra le braccia dell’altra, nessuno li guardava, nessuno poteva contemplare quell’esplosione abbagliante di dolcezze e levità. Mai in un’intera vita si sarebbero potute provare emozioni più profonde e sentimenti più sinceri di quelli dei due amanti, in quegli istanti.
Le morbide gote di Aurora erano così tenere, così rosee, che Philippe, facendole teneramente il solletico, credeva avesse poco più di diciotto anni.
Il tempo non era mai esistito. L’amore lo vinceva, lo oltrepassava, lo scavalcava.
– Aurora, io’
– Sì?
– Ti voglio per sempre.
Così si parlarono i due innamorati. Con siffatte parole, Philippe le manifestava il suo travolgente desiderio di dividere il resto della vita con lei.
Aurora non avrebbe mai potuto rifiutare, era pazza di lui, del suo sguardo profondo e puro, del suo volto virile e vellutato, del suo respiro affannoso.
La dolce arpista gli parlava, gli parlava e lui godeva del suo dire. Il lungo, interminabile silenzio che aveva dovuto subire, da parte sua, fino ad allora, aveva finalmente termine e tutto rifioriva di splendore, senza che nulla potesse minacciare la loro quiete appassionata.
Philippe si fermò e senza pensarci due volte le comperò una rosa, dal profumo intenso e caldo, dai petali accesi da un rosso vivo e fiammeggiante.
– Tieni, ma tu sei il fiore più bello – le disse.
– Grazie, ti ringrazio affettuosamente, caro amore.
La giovane così gli rispose, annusò quella rosa, rapita dall’estasi, e sentì che emanava le fragranze dell’amore del suo Philippe. Passava lievemente le dita sui morbidi petali, li sentiva carichi di tenerezza e di bellezza; era un fiore misterioso, acceso dalla passione.
Non si stancava mai di odorare quel delicato profumo. Ma la cosa più grande che Philippe le aveva regalato era il suo intramontabile, folle amore.
Aurora era pensosa, assorta, lo guardava e poi posava il suo sguardo sul bel fiore, mentre le guglie della grande cattedrale gotica le stavano dinanzi e si slanciavano al di sopra dei tetti, rosse come il ferro fuso. Erano più infiammate del sentimento che univa i due amanti.
Quante parole, quante frasi leggere, di cui ogni sillaba conteneva quel sentimento, l’unico, vero sentimento, che entrambi avevano atteso da sempre!
– Oh, che cosa sarà il nostro amore? – domandava Philippe, abbracciando la sua bella ed accarezzandole i lunghi capelli.
– Quello che vorremo, quello che vorrai – rispose Aurora. – Desidero che sia don Guglielmo ad unirci in matrimonio.
– Sì, sarà lui, soltanto lui, a benedire la nostra unione. Anch’io sono affezionato al buon sacerdote.
Sì, don Guglielmo era diventato un vecchietto affettuoso, amico di entrambi. Era stato il destino, forse Iddio, avrebbe pensato il religioso, a prevenirlo, a farli incontrare, nella tenera illusione dell’amore.
– Andiamo – disse Philippe, posando la sua mano virile e stanca sulle spalle languide della sua innamorata.
– Sì. Il futuro ci aspetta.
Il ricordo della terribile separazione, della lontananza, s’era dissolto nel vento del loro amore, era stato cancellato dalla novità di un sentimento sempre vivo, ma ora fatalmente sbocciato.
Al termine del meraviglioso giorno che li aveva visti di nuovo uniti, ognuno rivolgeva la mente a quello che ne sarebbe stato di loro. S’accorgevano di quanto roseo fosse il sentimento che bruciava nei loro cuori e di quanto emozionante fosse sapere che non si sarebbe mai più sopito.
Il sognatore blu le dimostrava ogni giorno, in modo sempre nuovo, quanto la amasse.
Non si stancava di dirglielo, di ripeterglielo… Ogni qualvolta si sentiva rispondere con frasi accese dal suo stesso ardore, sospirava. Egli desiderava soprattutto farle una sorpresa, andare al di là di qualsiasi cosa lei avesse potuto immaginare. Nella mente sua brulicavano i pensieri e le fantasticherie della giovinezza; era come se accanto a quella donna non si accorgesse del tempo che passava e rimanesse sempre, perpetuamente infantile.
Era una domenica assolata, bellissima, a Pontvieux-sur-Lasson.
Lo sguardo degli umani vagava nel cielo, limpido e sereno come non mai, ed incontrava l’infinità, la dolce infinità che non poteva arrivare a toccare.
Era bello lasciarsi carezzare dai raggi solari, sentire sulla pelle la luce tiepida del giorno, lasciare che ti facesse scintillare i capelli, gli occhi, l’intimo! I canti dei merli, dei fringuelli, dei tordi e di non so quali uccelli alpini riempivano il silenzio, lo rendevano più bello.
I gioiosi rintocchi delle campane della città correvano da un capo all’altro del cielo, nel quale volavano angeli bianchi. Gli scampanii prolungati, quasi ininterrotti, si diffondevano a distesa, toccavano le Alpi, giungevano all’udito di Philippe, che, seduto in casa sua, fantasticava.
Aurora, il capo avvolto da un fazzoletto turchino, vestita con i suoi abiti più belli, si recava alla Santa Messa; camminava a passi moderati, non aveva fretta.
Aveva ancora dipinto nella fantasia il magico momento che aveva vissuto poco tempo prima: la gioia, la serenità provate allora non la abbandonavano mai.
La cattedrale era gremita. La bella arpista entrava, guardava l’orologio, s’accorgeva che era esattamente l’ora d’inizio della funzione.
Le campane suonavano le undici in punto.
Ella si sentì avvolgere dalle preghiere che venivano recitate, dal suono dell’organo, dai canti, che allietavano, ma non riusciva a tenere ferma la sua mente, che, senza sosta, volava verso il suo amato.
Ad un certo punto, sedendosi, s’accorse di qualcosa di singolare, di incredibile, inciso sul banco ove era seduta.
C’era come un grande cuore, proprio sullo schienale e, all’interno di esso, spiccava la scritta, in caratteri maiuscoli, che chiunque avrebbe potuto leggere:

PHILIPPE
AMA
AURORA
PERDUTAMENTE

Le pupille di lei tremarono, quando s’accorsero di tanto.
Oh, fino a dove era arrivata la fantasia di Philippe! Che cosa aveva osato fare per lei! Tutto per lei, solamente per lei! Il cuore le batteva forte nel seno, non si stancava mai di leggere quella scritta, di accarezzarla, con le sue mani tenere…
Non prestò più alcuna attenzione alla funzione in corso. Il suo cuore e i suoi pensieri erano rapiti in estasi, sentiva di essere diventata una cosa sola con lui.
Posava la mano sul legno, sul ruvido legno, dove era stata fatta quella magnifica incisione. Non si stancava di posarvi il tatto ed era come se la leggesse con i polpastrelli delle sue dita. Ad un tratto, però, ebbe un pensiero che la fece smettere di toccare il banco in quel punto e si sedette in modo da coprire il bel cuore, nonché la scritta che conteneva.
Paventava che qualcuno potesse leggere quelle parole, cosa che le sarebbe dispiaciuta alquanto, perché appartenevano soltanto a lei, si disse. Era come se tra la giovane e il suo Philippe vi fosse un legame profondamente intimo, al quale tutti gli altri rimanevano estranei. Se occhi indiscreti avessero scoperto quella incisione, la gelosia di Aurora si sarebbe inevitabilmente infiammata. Ma quando aveva agito il suo innamorato? E come aveva fatto?
“Quell’uomo farà delle follie per me” pensò la bella, mentre i suoi occhi brillavano. “Spero di poter essere sua per sempre”.
Mentre l’arpista pensava al suo amore ed a quanto aveva fatto per lei, Philippe era seduto a un tavolino, in casa sua. Dinanzi agli occhi suoi c’era una fotografia in bianco e nero di Aurora, racchiusa da un portaritratti d’argento.
Nello stesso istante in cui l’innamorata aveva scoperto il cuore e le parole che conteneva, lui aveva pensato a lei intensamente ed era stato come se l’avesse vista.
– Ah, angelo mio, quante cose vorrei facessimo insieme! – esclamò Philippe, prendendo il portaritratti e stringendolo tra le sue mani.
Era come se la sentisse sussurrare.
Fissava l’immagine, sentiva il freddo del metallo ed il caldo della passione.
La mente sua era sgombra.
Il sereno, come nel cielo di quella splendida giornata, vi aveva trionfato; così come al di sopra dei tetti spioventi brillava il sole, dentro di lui rifulgeva il volto di lei. Si spingeva lontano, nell’avvenire, nel domani, e lo vedeva splendente, pieno di luce, illuminato da Aurora.
Oh, quale era il suo tesoro! E quale il suo inestimabile valore!
Egli prese il portaritratti e se lo appoggiò sul petto. Sentiva che sempre, da vicino, da lontano, nell’ombra, nella luce, la sua innamorata gli concedeva dei sorrisi smaglianti, che donavano speranza.
Anche allora, era come se lei gli baciasse il cuore.
– Ti voglio, ti voglio, sempre, sempre… – mormorava Philippe, perdutamente.
Ma il sognatore blu divenne improvvisamente triste, senza poterne indovinare la ragione.
Era come se il volto di lei, che gli stava dinanzi, divenisse inspiegabilmente cupo. La giovane chiudeva gli occhi suoi, la sua bocca si contraeva in una smorfia addolorata, era come se lanciasse delle grida disperate.
– Aurora, che cosa c’&egrave? Che hai? – diceva Philippe, sconvolto.
Forse era soltanto la sua fantasia, ma il volto della sua innamorata cadeva in un vortice, che la rapiva, la conduceva nell’abisso, precipitosamente. Angelo caro, dove andavi? Dove cadevi, povera piccola? La voce del tuo amato non faceva che gridare il tuo nome ed al suo udito non giungevano che le tue urla disperate, mentre dicevi:
– Philippe, aiutami! Philippe, salvami! Salvami, aiuto! Aiutami, ti supplico!
Ma lui era impotente. La bella era finita in una sorta di mulinello marino, affondava, affondava, la voce sua diveniva via via sempre più fioca ed inintelligibile…
Philippe cercava di risvegliarsi da quell’incubo, si dibatteva, si batteva i pugni sul capo, i suoi occhi erano chiusi, non potevano aprirsi, eppure!
Le urla disperate di Aurora continuavano a tormentarlo. Per quanto tempo ancora le avrebbe udite?
Il lampadario tintinnava.
Il rumore sordo, balordo, di qualcosa che si muoveva, che non poteva stare fermo e stava per scoppiare era spaventoso.
I tintinnii, sempre più acuti e sconvolgenti, riscossero Philippe, il quale s’avvide che l’incubo peggiore era quello che accadeva dinanzi a lui.
– Aurora! – gridava. – No! No!
E invece i muri tremavano, la casa tremava, tutta Pontvieux-sur-Lasson tremava!
Philippe si nascose il volto tra le mani, non poteva fare nulla per fuggire, né per salvare la sua amata.
Il tonfo agghiacciante e profondo del lampadario, caduto sul pavimento, lo uccise. Che fare? I calcinacci gli cadevano in testa, non sapeva più pensare, non poteva più agire, era disperato!
– Aurora! Dove sei? – urlò.
La sua felicità svaniva.
Philippe si precipitò dalle scale, cercò di uscire, prima che l’edificio gli crollasse sulla testa.
Ma non era su di lui che crollava il mondo. Il mondo si era già preso Aurora, l’aveva come imprigionata e la portava via con sé. Le era caduto addosso e la tramortiva.
I singhiozzi del nostro protagonista s’innalzavano al cielo.
Ma nessuno li ascoltava.
La gente fuggiva terrorizzata. Molti morivano seppelliti dalle macerie, altri non riuscivano più ad uscire dagli edifici.
Tutto crollava. La bella città, il bel sogno in cui Aurora e Philippe avevano vissuto il loro amore, andava in frantumi.
I muri, i bellissimi palazzi antichi, cadevano, s’infrangevano, come se fossero stati di vetro. La polvere inghiottiva le strade, s’alzava, a nuvole, offuscava il sole.
Furono scosse violentissime.
La favolosa piazza di marmo bianco era irrimediabilmente rovinata, poiché nel suolo s’aprivano continuamente crepe e fenditure.
Infine, la cattedrale, nel pieno di una solenne cerimonia, cessava per sempre di esistere e crollava, divorando tutte le persone che l’affollavano.
Quando ci si accorse del terremoto, era già troppo tardi.
– Ah! Che Iddio ci salvi! Aiuto! – si udiva, da ogni parte.
Si levò una preghiera accorata e terribile, ma fu tutto inutile. A nulla servì alzare le braccia e gli occhi al cielo, strapparsi rabbiosamente i capelli, disperarsi.
Le belle guglie, le torri altissime, i magnifici portali, la storia, le tradizioni, il passato legato a quel monumento grandioso ed irripetibile… Tutto andava distrutto!
Gli alberi parvero scossi da un vento fortissimo.
Dovunque, il rumore, glaciale, della devastazione, della morte.
Sulla superficie del fiume, fino a poco prima dorata dal sole, s’erano scatenate le onde del più furioso degli oceani. Tramontava l’astro del giorno e sorgeva quello delle tenebre.
Aurora era sotto le macerie.
Il terremoto non l’aveva risparmiata, così come non aveva avuto pietà delle altre vittime.
Eppure, all’inizio, il cielo era limpido ed il sole brillava!
Eppure, nei cuori c’era stata l’armonia di un giorno soave!
Eppure, avevano pregato!
Ma ora non restava più nulla, nemmeno il ricordo di ciò che era stato, nemmeno il dolore, lo sconforto. E la catastrofe era accaduta in un solo istante, in un lampo, così, semplicemente.
L’amore era morto, forse per sempre. La disperazione strideva acuta, aveva soffocato i momenti d’incanto di tutta una vita.
Philippe era ancora vivo, ma era come se fosse già morto e nel modo più crudele che il destino avesse potuto immaginare.
Della sua casa rimanevano soltanto pietre, ruderi, polvere. Egli avrebbe preferito perire in quella sventura.
– Tutto &egrave crollato, tutto &egrave crollato – si ripeteva il misero.
Egli non avrebbe saputo dire per quanto attese, solo, vanamente, prima che dinanzi a lui apparisse una figura balorda, trafelata, ansante, che lo chiamava.
– Philippe!
– Che accade, Cielo? Oh, &egrave già accaduto tutto! – disse lui.
Era Germana, il volto suo era tutto insanguinato, i suoi vestiti erano strappati, sgualciti, ricoperti di polvere grigia, gli occhi suoi, iniettati di sangue, sembravano quelli di un’indemoniata.
– Si tratta di Aurora, si tratta di lei? – le chiese l’innamorato.
– Sì – gli rispose la donna. – Corri, Philippe, alla cattedrale, alla cattedrale!
Detto questo, Germana svenne.
Il sognatore blu pensò che amava ancora… Mentre correva, mentre si precipitava per le strade, in mezzo alle rovine, tra le macerie, mentre si accorgeva che della antica e vetusta Pontvieux-sur-Lasson non era rimasta che quella traccia dissolta, il suo cuore era con lei.
Allorché egli s’accorse di come veramente la cattedrale gotica fosse distrutta, di come fosse possibile che anche Aurora fosse morta per sempre, si sentì mancare.
Si gettò al suolo, strinse tra le mani la polvere, le pietre di quella città sopraffatta dalla sventura, e mentre il sole scarlatto illuminava tenue il deserto, egli si rattristava e gemeva inconsolabile.
– Aurora! – mormorò.
Lei era là, sotto le macerie.
Erano arrivati i primi soccorsi, si era cominciato a scavare. Purtroppo, fino ad allora, poche persone erano state trovate ancora in vita.
Philippe scavava, senza neppure sapere quello che faceva. Aveva le mani coperte di graffi, si aiutava con tutto, faceva come poteva, ma non trovava nulla…
Temeva fosse tutto inutile, inutile!
Non smetteva mai di scavare, si ostinava… Gli dicevano di smettere, ma lui continuava, continuava sempre. Goccioloni di sudore gli imperlavano la fronte bruciante. La sentiva vicina. Ma era viva? Poteva sperare? Alla fine, gridò:
– L’ho trovata! L’ho trovata!
Gli ultimi lampi dell’incubo scintillarono dinanzi a lui; accecavano. Non poteva essere finita così, perché dopo il gelo dell’inverno esplode la primavera, con i suoi canti ed il suo verde, dopo la calura dell’estate arrivano le freschezze dell’autunno.
Sì, Aurora non era morta!
– Vivi! – le gridò Philippe. – Vivi, vivi per me, vivi per noi!
Egli raddoppiò la lena, dicendo:
– Respira! Respira!
La bella arpista era salva. Il suo cuore batteva ancora, i suoi occhi, semiaperti, fissavano il suo innamorato, forse riuscivano a distinguerlo, nella nebbia del destino.
Le braccia di lei si alzarono, perché voleva stringerlo, quantunque le forze le mancassero.
– Philippe, dove sei? – mormorava.
– Sono qui, accanto a te, amore mio – le rispose il suo amato, stringendole le mani affettuose, accorgendosi delle sue ferite, ma certo che la vita in lei non si fosse ancora spenta. – Sopravviveremo, Aurora!
– Anche tu sei salvo!
Chi mai avrebbe potuto ricostruire Pontvieux-sur-Lasson? Chi mai l’avrebbe potuta ricordare, dopo che, morendo, s’era portata via anche le persone care? Oh, la bella, irripetibile cattedrale, dalle guglie rosse quanto la passione, gli edifici antichi!
Gli uomini potevano ricostruire, ma non far rinascere quello splendore. Ci sarebbero voluti degli anni, il tempo sarebbe volato e, alla fine, nessuno più avrebbe potuto ricordare quel giorno, né sentire il fascino di una città che poteva rivivere soltanto nella memoria.
– Hai resistito per me – disse Philippe alla sua bella. – Sei rimasta in vita per me!
– Sì, per te, solamente per te – gli rispose lei, baciandolo ardentemente.
Ora che a Pontvieux-sur-Lasson non rimaneva che polvere e tutto era vanificato dalla calamità, quale struggente senso di vuoto avvertiva la cara arpista!
Ella era sopravvissuta soltanto grazie all’amore per il suo Philippe.
Ecco, ricostruivano la città.
Gli occhi di lei s’accorgevano delle case, dei palazzi, dei monumenti, che tornavano a innalzarsi, ma nulla sembrava come un tempo. Quante persone erano morte!
La nuova Pontvieux-sur-Lasson sembrava in bianco e nero.
– Sposiamoci – disse Aurora al suo amato.
– Sì, &egrave la cosa migliore – le rispose lui.
– Sono stanca dei giorni che passano inutilmente…
C’era qualcosa di strano e di cupo nell’aria, qualcosa di inspiegabile.
Aurora lo sentiva, vagamente, e fremeva.
Ben presto ricevette un messaggio da una persona dalla quale non si sarebbe mai immaginata di ricevere una cosa simile. Accadde alcuni giorni prima del suo matrimonio.
“Ti devo dire delle cose importanti. Vieni al vecchio ponte, che tutti chiamano il Ponte degli Amanti; colà, potremo discorrere con tranquillità, domani, alle sette del mattino.
Non spaventarti, non &egrave nulla di grave, desidero soltanto scambiare due parole con te.
Arrivederci, vieni, te ne prego!
MARGHOT”.
Se le aveva fatto pervenire un simile biglietto, significava che non aveva trovato la forza di parlarle direttamente. Che cosa poteva essere mai?
Aurora non avrebbe saputo proprio indovinarlo, ma non voleva fare un torto a Marghot e mancare.
Non si sarebbe fatta accompagnare da nessuno, tanto più che immaginava che ciò che Marghot le doveva dire riguardasse strettamente loro due e sarebbe stato meglio che nessuno le avesse udite.
Aurora, nel momento di recarsi all’appuntamento, venne assalita da un vago turbamento.
Era qualcosa di passeggero, qualcosa di insignificante.
Sapeva bene dove si trovava il Ponte degli Amanti; era un luogo tanto incantevole quanto misterioso e lugubre. Vi si potevano dire soltanto delle cose gravi ed intime.
Era stato costruito in un boschetto di aceri rossi, non molto lontano dal centro della città morta; congiungeva le due sponde del fiume che attraversava Pontvieux-sur-Lasson.
Faceva freddo. La brezza, impetuosa ed invisibile, solcava le prime ore del giorno, mentre l’alba sorgeva.
Le tremule foglie degli aceri rossi incupivano il paesaggio, con le loro sfumature accese di porpora ed il loro sottile stormire.
L’acqua del fiume taceva, nel suo celere scorrere.
Il cielo era torbidamente avvolto nelle nubi, che lo ricoprivano come un mantello; sotto le fronde degli alberi, tra gli arbusti, vagabondava il saporoso risveglio del bosco.
Solitario, il vecchio ponte di legno, antico e delizioso, scricchiolava sotto i passi di una donna.
Oh! Il terremoto sembrava quasi essersi degnato di risparmiare quel prezioso e raro vezzo, che abbelliva la città.
Ma sembrava soprattutto una beffa, uno scherzo della natura e del destino, cui la bellezza e lo splendore non impedivano di distruggere e rovinare.
Il rumore di passi, lento, si propagava per tutto il bosco.
Era Marghot, il volto confuso, l’espressione turbata.
Il vento le sfiorava i lineamenti e li rendeva come di ghiaccio. Di tanto in tanto, dalla sua bocca faceva uscire un profondo sospiro, che come una nuvola si smarriva nell’etere. La bionda si appoggiava al parapetto del ponte e guardava giù, nell’acqua, verso il fondo. Le foglie scarlatte ed appuntite degli aceri, i loro tronchi neri, cupi, risaltavano alquanto nel cielo vano e ceruleo di quel mattino.
Una figura, improvvisamente, s’avvicinava.
Dopo averla toccata con il suo sguardo, Marghot si accorse di chi fosse.
Non vedeva l’ora che arrivasse. Era come se dentro di lei l’ansia, il desiderio di discorrere, la divorassero.
Le sembrava che Aurora avesse un assoluto bisogno di lei, un’urgente necessità di ascoltare quanto le avrebbe detto.
– Dai, presto – le disse la bionda, a bassa voce, non appena lei fu tanto vicina da poterla udire.
Aurora affrettò il passo.
Era vestita con un lungo soprabito rosso, le sue guance arrossivano per il freddo e l’emozione.
Il rumore dei suoi stivaletti faceva trasalire Marghot, la quale pensava che il ponte avrebbe potuto cedere; in tal caso, l’altra sarebbe, fatalmente, annegata.
– Raggiungimi, sì, vieni, sono io – le sussurrò con voce spettrale. – Qui sotto l’acqua &egrave più profonda…
Aurora esitava, perplessa e timorosa. Cosa voleva dire Marghot, con quelle parole?
– Perché incontrarci qui? Che cosa mi vuoi dire? – le chiese, con uno strano accento.
– &egrave questo, mi sembra, il luogo più adatto per dirti certe cose – le rispose Marghot.
Rimasero silenziose.
– Io ti voglio bene, Aurora, e non voglio che ti accadano delle brutte cose – riprese la bionda, mormorando.
– Ti ringrazio, ma di che cosa parli?
Marghot guardava la sua interlocutrice negli occhi. Era come se avesse voluto entrare dentro di lei attraverso le sue pupille, o se il suo desiderio fosse che il volto dell’altra si disegnasse nei suoi occhi.
– Che hai? – chiese l’innamorata di Philippe.
– Niente, ma ascoltami, per favore!
Aurora tremava, un po’ per il freddo, un po’ per la paura. Marghot, tuttavia, era ormai diventata sua amica e non poteva più temere niente da lei, si diceva.
– Amica mia, pensa bene a quanto ti sto per dire, perché ne va della tua vita, della tua felicità – fece la bionda del mistero.
La nostra protagonista non riusciva ad udire distintamente le parole della sua interlocutrice. Il suo sguardo era rapito, così come la sua attenzione, dal fascino incantato di quel luogo.
Guardava le foglie rosso cupo degli alberi, sentiva con gli occhi i loro ruvidi tronchi.
Il vento spazzava via polvere e foglie, oltre ai suoi pensieri. Era come se parlasse.
– Aurora, hai visto che cos’&egrave accaduto? – le chiese Marghot.
– Sì, purtroppo.
– Ogni cosa, in questa città, &egrave andata distrutta. Qualcuno ha fatto qualcosa perché ciò accadesse? Qualcuno ne ha colpa? No. Soltanto il caso… Capisci?
L’altra non rispose e continuò a guardarla teneramente.
– Dimmi, puoi trovare qualcosa, di ciò che avevi un tempo, qui, ora? No, perché &egrave tutto finito. Ma per fortuna, tu sei ancora te stessa, tu, Aurora, hai la fortuna di amare qualcuno.
– Amare qualcuno? Tu lo sai?- chiese l’arpista.
– Sì, amica mia. So che amare può sembrare la cosa più felice del mondo. Mi rallegro con te, sono lieta che tu abbia finalmente conquistato l’amore, ma ascoltami, ti prego!
Marghot s’interruppe, perché l’emozione agghiacciante che provava la sopraffaceva.
Aurora le guardò le mani: erano raggrinzite, le sue unghie colorate di smalto rosso sembravano quelle di una strega.
– Ti voglio bene, Aurora – ripeteva Marghot. – Ti voglio bene, ma ascoltami, per favore… Ascoltami, ascoltami, ascoltami…
L’altra la osservava impressionata.
– Prima che vi fosse questo terribile terremoto e che tutto, qui, ritornasse macerie e polvere, io ho udito una voce, dentro di me. Non &egrave stata una mia impressione.
– Una voce? – chiese l’innamorata di Philippe.
– Sì. Ho udito parole di fuoco. L’ho ascoltata, mentre mi diceva che Pontvieux-sur-Lasson sarebbe stata distrutta e che a te, subito dopo, sarebbe accaduto…
Marghot non riusciva più a continuare. Il suo volto era contratto, teso, tanto che sembrava più vecchia di vent’anni.
– &egrave una pazzia – le disse Aurora, bruscamente.
– No, non &egrave una… Ascoltami, per carità! Potresti pentirti di non aver dato ascolto alle mie parole. Ti sarebbe accaduto qualcosa di grave, di gravissimo… Avresti sposato Philippe, sì, ma poi…
– Poi?
– La situazione sarebbe precipitata. Un male misterioso, come una nube oscura e nefanda, ti avrebbe presa, inghiottita… Sarebbe calato su di te e ti avrebbe rapita…
Aurora non credeva alle sue orecchie. Quel luogo le faceva paura e quelle parole ancor di più!
Marghot la stringeva forte tra le sue braccia. Che cosa stava accadendo?
– Una malattia che presto ti condurrà alla morte – sussurrò la bionda, con voce cupa e terribile, come quel vento, che agitava le foglie scarlatte.
– Che cosa stai dicendo? Lasciami! Lasciami! – gridò la bella arpista.
La sua interlocutrice la stringeva follemente, fremeva per il suo destino. La paura che quanto aveva udito si potesse tramutare in realtà le faceva perdere il senno.
– Io ti imploro, Aurora! – disse Marghot.
– Che cosa devo fare? – chiese l’altra.
– Io ti imploro, amica mia, e so di non chiederti poco… Ma non sposare Philippe! Non sposarlo, o sarà la tua morte. Il mondo ti piomberà addosso, come un uragano.
La voce di Marghot era terribilmente grave, impossibile non crederle, impossibile non sentirsi sconvolti, guardando nei suoi occhi. Ella parlava con gli spiriti!
– Aveva predetto il terremoto – continuò la bionda. – E il terremoto c’&egrave stato. Accadrà anche il resto e sarà atroce…
Aurora si sentì come ferire da ciò che le diceva quella donna. Voleva a tutti i costi non crederle, tutto le parve impossibile…
– Ma tu come fai a conoscere il futuro? – le chiese la nostra protagonista. – Tu sai forse che cos’era quella voce? Tu sai forse se era fantasia o realtà?
– No, ma di quello che mi ha rivelato, la prima parte s’&egrave avverata…
– &egrave stata soltanto una coincidenza. Molti di noi hanno l’abitudine di parlare con i propri pensieri. Tu appartieni a questa categoria di persone.
Il vento soffiava più forte, le foglie degli alberi stridevano, nel loro mormorio oscuro.
Aurora fissava Marghot con rabbia ed angoscia.
– Io non so da dove proveniva quella voce – riprese la bionda. – Tutti rimarremo vergini da qualcosa che non abbiamo conosciuto e non conosceremo mai.
– Tu sei matta – le disse l’arpista, a testa alta.
L’altra tacque.
– &egrave soltanto un’assurda menzogna per non farmi sposare il mio Philippe, per non farmi afferrare la felicità – gridò la nostra protagonista, appassionatamente. – Pensavo che tu potessi essere una persona, invece sei soltanto un fantasma!
– Taci, Aurora! – le rispose Marghot. – Puoi saperlo, &egrave stato sempre Arturo a pilotarmi, a farmi fare quello che ho fatto, ma ora, egli &egrave infelicemente punito…
– Allora, tu sei coinvolta… Oh! Ma che cosa mi sta succedendo? Mi sento svenire, la testa mi scoppia!
– Non &egrave una macchinazione, non &egrave uno scherzo, non &egrave quello che puoi pensare! Oh! Ma temo di non poter fare nulla, contro il terribile avversario che ti ucciderà. Forse non sono più in tempo…
Era come se Marghot si sentisse male, come se Aurora l’avesse offesa, ferendola mortalmente. Entrambe vacillavano, fremevano e quasi rantolavano. L’arpista provava la sensazione che la sua interlocutrice frugasse dentro di lei, sfogliasse, pagina dopo pagina, i suoi scritti segreti, nascosti nell’animo suo, dove aveva annotato i suoi istanti più belli.
– Siamo tutti creati in miniatura, Aurora. Gli uomini sono come vane tracce di vita, nel mondo; poi, la vita li annienta – sussurrò la bionda, con voce spettrale.
– Che cosa dici? Tu deliri… – disse l’amata di Philippe.
– No, non deliro. Non sono assurdità le mie. &egrave come se fossi in trance…
– Vattene, smettila di farmi paura!
– Io non posso andarmene… Desidero convincerti, a tutti i costi! Aurora… Aurora… Aurora… Senti come mormoro il tuo nome? Non ti chiedo di rinunciare al tuo Philippe!
– No, quello che tu dici non può accadere! No!
– Lo sposerai egualmente?
– Sì! Non credo affatto alle tue bugie!
– Non sono bugie.
– Lasciami in pace!
Aurora si voltò.
Non aveva più voglia di guardarla in faccia.
Non credeva più a Marghot; la vedeva profondamente commossa, ma alle sue orecchie la voce dell’amica sembrava finta e le sue frasi, recitate.
– Mi hai fatto venire qui apposta! – protestò la nostra protagonista. – Mi volevi intimorire, spaventare…
– Mi dispiace – rispose la bionda. – Io ho tentato, sapevo che era difficile, speravo non fosse impossibile. Ma se tu amassi veramente Philippe, penseresti a ciò che ho detto.
– Se permetti, me ne vado, addio! – disse Aurora, voltandole le spalle e cominciando ad allontanarsi.
– Aspetta!
– Addio!
La nostra protagonista, avvolta nel suo soprabito scarlatto, se ne andava, a piccoli passi, tremando. Marghot la guardava e si sentiva piena di sconforto. L’unica cosa che veramente le dispiaceva era ciò che sapeva sarebbe accaduto alla sua amica.
– Oh, se solo ti fermassi! – gridava la bionda del destino, invano.
Tutto inutile, ormai la sventurata era lontana.
Ah, Aurora! Che cosa avevi fatto! Che cosa avevi fatto! Forse ti saresti pentita, amaramente pentita, un giorno, accorgendoti del dolore che, a poco a poco, ti avrebbe trascinata via con sé!
Questo fu il pensiero di Marghot.
Forse, fu il suo ultimo pensiero.
Non riusciva ad andarsene. Qualcosa la teneva inchiodata a quel bosco di aceri rossi. Provava la sensazione che in mezzo agli alberi si nascondesse la sua morte e temeva di non sbagliarsi. Le pareva di scorgere, sull’acqua, il volto di Arturo, quel volto arcigno che, un tempo, aveva avuto suo marito, che non vedeva da tempo.
– Vattene! Non mi tormentare! – gridò, portandosi una mano sulla fronte, mentre si sentiva mancare.
Il suo corpo, ah! Il suo corpo non obbediva più alla sua volontà.
La paura e l’ansietà la sopraffacevano, le facevano fare cose assurde, che altrimenti non avrebbe mai fatto in vita sua.
Era rimasta sola, completamente sola.
Il fiume aveva cominciato a gorgogliare rumorosamente. Sembrava che scorresse ad una velocità assurda.
Marghot si aggrappò al parapetto, le mancava l’equilibrio…
– Aurora, perché! – vaneggiava.
Sentì qualcosa che le bruciava al dito. Era la sua fede nuziale, forse l’unica cosa, ormai, che la legasse a suo marito. Non poteva più tenerla! Le faceva male, troppo male! E d’altronde, a che cosa sarebbe servito portarla ancora? Era soltanto una tristezza, come quel mattino.
Fu così che se la tolse e la sentì, per un attimo, tra le sue mani.
Bruciava, bruciava forte, irresistibilmente. Doveva gettarla via, doveva farlo, sì, doveva, doveva…
Non fu lei a gettarla nel fiume.
Infatti, le cadde; le sue mani tremanti l’avevano lasciata cadere, non erano state la sua volontà, il suo cuore…
– Arturo, dove sei? Arturo! – chiamava Marghot, smarrita.
Era accaduto tanto senza che lei nemmeno potesse rendersene conto.
– Oh, che afflizione! – mormorò, in un singhiozzo.
Era come se, sulla superficie del fiume, distinguesse non il suo volto, ma la sua anima.
Eppure, non la vedeva distintamente.
Forse era davvero meglio morire e lasciarsi andare…
La corrente del fiume l’avrebbe trasportata lontano, inesorabilmente, così come fino ad allora l’aveva trascinata la corrente della vita.
I suoi singhiozzi erano strazianti.
– Vado! – mormorava. – Vado e non tornerò.
No, non sarebbe tornata mai più.
Scomparve.
Da allora, nessuno più la vide, nessuno più la incontrò.
Di lei, non si seppe più nulla.
Il suo nome fu cancellato da ogni mente, al pari del suo volto e dei ricordi legati a lei.

Aurora dimenticò le parole di Marghot, nelle quali non era stata capace di trovare che oscure falsità. Lo spavento e l’inquietudine che momentaneamente le avevano procurato passarono presto. E come non sarebbero potuti passare?
Al suo fianco, aveva il suo Philippe! Dentro di sé, serbava l’amore, che bruciava ardentemente, appassionatamente e nel loro matrimonio avrebbe trovato piena e perfetta realizzazione.
Il tempo che li separava da quell’indimenticabile momento volò.
Come trasognati nell’incanto, i due amanti si resero conto di essere divenuti marito e moglie. Si gettarono l’uno nelle braccia dell’altra; dentro di loro, qualcosa scoppiava di felicità. Forse erano i loro cuori, che erano rimasti divisi a lungo, in una malinconica e segreta nostalgia.
La loro unione sfavillante, meravigliosa, era avvenuta; più nulla ormai poteva spaventare Aurora, dato che avrebbe avuto il suo uomo per sempre accanto a sé.
– Philippe, &egrave tutto vero, &egrave tutto vero! – diceva lei, piena di giocondità.
– Sì, lo so – le rispose il suo sposo.
Così com’era arrivato, il giorno delle nozze si allontanò, celermente, ma i due non potevano accorgersi del trascorrere della vita.
Tuttavia, in un momento meraviglioso che avevano trascorso durante il giorno sublime, lui le aveva chiesto:
– Vorrei che il ricordo di tutto questo non passasse mai e che nulla lo potesse cancellare. Come possiamo fare perché ciò avvenga?
– Sarà facile – gli aveva risposto la cara arpista. – Il fiore del nostro amore non può essere che la rosa. Ricordi? Tu me ne donasti una, dopo il primo, intenso abbraccio dal quale &egrave sbocciato tutto.
– Sì.
– Ne pianteremo di bellissime, nel nostro giardino, affinché tutti le possano ammirare.
– Sì, sì. I loro petali saranno carezze delicate, emaneranno il più armonioso dei profumi’ Le loro spine non pungeranno, i loro colori saranno quelli delle stelle più vive!
– Ah, finalmente possiamo godere l’uno dell’altra!
Perciò, nel giardino antistante la loro casa, crescevano, bellissime, le rose. Erano l’amore di entrambi; sarebbero state tutte variopinte e brillanti, come occhi aperti e meravigliosi.
Era il loro piccolo parco, sognato e dorato, nel quale si rifugiavano sempre quando si sentivano avvolti nella nebbia. Durante la bella stagione, vi avrebbero respirato i profumi vivaci e solari che li facevano rinascere.
Per curarle, Aurora chiamava una persona con la quale aveva fatto quasi amicizia. Era un giovane di vent’anni, dall’aria assopita e talvolta cupa, dai capelli castani e ricci, sempre vestito da giardiniere.
Si chiamava Augusto.
Egli non chiedeva denaro per prendersi cura dei fiori; gli bastavano le belle ore che trascorreva occupandosene, perché le rose, stando a quanto diceva, erano la sua passione.
– Ho sempre sognato un giardino così – ripeteva. – Queste rose mi faranno impazzire!
Aurora gli credeva.
E lo vedeva arrivare, con il suo furgoncino grigio, alla francese, i suoi arnesi alla mano’ Le piaceva osservarlo. Non se ne era mai chiesta il perché.
Augusto poteva trascorrere molto tempo da lei ed era molto bravo nell’arte del giardinaggio. Quale passione, quante premure ci metteva e come crescevano bene, le rose!
La nostra protagonista gli porgeva sovente i suoi complimenti.
Ma Augusto non la ascoltava; sembrava più preoccupato dei suoi pensieri e dei fiori, che di lei.
Ogni tanto, Aurora notava che aveva un’aria eccentrica, cupa. In quelle occasioni, il caro giardiniere sembrava non avere più vent’anni.
Un giorno si era recato dai due amanti, poco dopo le due del pomeriggio. La bella, incuriosita, si mise ad osservarlo dalla sommità della scalinata esterna e notò che il suo volto era così infantile, così delicato, che a malapena dimostrava la sua età anagrafica. Le sue mani sembravano piccole come quelle di un ragazzino, i suoi occhi erano scintillanti, purissimi.
Che cosa faceva?
Sarchiava le aiuole.
Il cielo era azzurro.
Delle nuvole bianche, gonfie di luce, volavano allegramente da un capo all’altro dell’orizzonte, ma non coprivano il sole. Passavano e poi s’allontanavano.
Ad Aurora, quel pomeriggio sembrava una tranquilla sera d’estate. Non si stancava mai di dirigere i suoi sguardi verso il tenero giardiniere, che la faceva tornare indietro ai ricordi dell’infanzia.
Forse, l’arpista avrebbe desiderato giocare con lui. Ma non sapeva più giocare, purtroppo.
Augusto si chinava e i suoi capelli si spettinavano, si arruffavano lietamente, lievemente.
La padrona di casa scendeva piano le scale e si avvicinava a lui, per stargli vicino’ Alle quattro era solita prendere la sua solita tisana di tiglio.
– Che bella giornata di sole! – disse.
Una volta accadde che Augusto si pungesse, con una delle spine acute dei rosai. Dal dito indice gli sgorgò molto sangue; la nostra protagonista gli diede di che medicarsi e lui, come per sbaglio, le macchiò di sangue il vestito.
– Mi dispiace che tu ti sia fatto male! – esclamò lei.
Un giorno, Philippe scambiò alcune parole con il giardiniere, fraternamente.
– Vedrà, vedrà, signore, come saranno belle queste rose, di qui a qualche tempo! – disse Augusto, con voce allegra. – Saranno l’invidia di tutti!
Era quel giovane che le faceva crescere rigogliose e bellissime, lui, che le innaffiava e le trattava come sue figlie.
Una volta, gli occhi di Augusto sorrisero per un istante. Fu prima che chiedesse ai due amanti:
– Oggi vorrei servirvi io l’infuso. Mi piace vedervi insieme, abbracciati’ Siete proprio una bella coppia!
Le mani di Augusto tremarono, per un istante. Ma proprio allora, egli versò il liquido bollente sulla mano di Philippe, che teneva la sua tazza.
– Ah! – gridò l’offeso. – &egrave bollente!
L’altro non aveva fatto attenzione. Forse, gli era preso qualcosa di strano. Aveva fatto male a Philippe ed Aurora gli ripeté più volte che avrebbe dovuto stare più attento.
– Non so come sia potuto accadere – si scusò il giardiniere.
Il sognatore blu gli diede una pacca sulla spalla, in segno di amicizia. Augusto non la rifiutò, ma chissà se aveva fatto apposta oppure no.
Un giorno, l’aria innocente e trasognata, nonché gli occhi sfavillanti del giovane giardiniere scomparvero. Fu come se un idillio, fatto di prati, di luce, di fiori profumati e tanti baci, si spezzasse.
La tempesta scoppiò, notturna e terribile.
Aurora non era spaventata. Sentiva i tuoni fortissimi e, di tanto in tanto, i bagliori, i lampi, la accecavano. La natura fremeva, violenta ed impetuosa, le sue grida scuotevano la casa e gli animi di quanti la abitavano.
Mai prima d’allora tanta pioggia era caduta dal cielo in così pochi istanti.
Il vento trascinava via con sé i ramoscelli secchi e fragili degli alberi, scuoteva persino la pioggia, la trasformava in turbini, ululava attraverso le fessure delle porte e delle finestre.
Di tanto in tanto, al tenue e celerissimo passaggio delle nuvole, la luna s’affacciava nel cielo nero ed era come se la cupa tenebrosità del temporale divenisse più agghiacciante e inquieta.
Erano chiaroscuri d’angoscia.
I lampi di luna e dei fulmini si alternavano alla notte.
Lo scroscio profondo, inenarrabile, della pioggia, faceva soffrire Aurora e Philippe lo ascoltava silenzioso.
I due amanti rimanevano immobili, nel presagio.
Il caos che sconvolgeva l’etere e il mondo non poteva non riflettersi dentro di loro e urtarli.
– Philippe, che cosa accade? – chiese lei.
Egli non le rispose. Si trovava in un’altra stanza.
Meglio non pensarci, meglio ignorare tutto ciò che poteva suggerirle la mente, la quale, allora, era sconvolta.
Mentre la bella preparava la cena, il rumore dell’olio, che friggeva nella padella, le fece dimenticare, sia pure per poco, lo smarrimento nel quale si agitavano i suoi pensieri.
Attraverso la finestra, poteva discernere gli alberi, che si muovevano nell’ombra, come persone travolte da un’incontrollabile isteria. E la pioggia, che cadeva pesante, copiosa, li voleva forse distruggere, precipitando ovunque, con potenza.
Tutto stava per finire.
Di tanto in tanto, lungo la strada, passavano delle auto d’epoca, le cui ruote sembravano muggire confusamente sul pavé.
– Philippe, dove sei? – domandava Aurora, in continuazione.
La voce di lei non poteva più essere udita da lui. Lo scroscio incessante della pioggia la soffocava.
Il vento sembrava un indemoniato.
La luna non poteva infrangere quelle tenebre, la sua luce disperata, soffocata dalle ultime nubi che ottenebravano il cielo, quasi si smarriva ed i suoi raggi non potevano toccare la terra, bagnata e sconvolta.
La bella arpista sentiva il cuore che le batteva forte nel petto.
– Che cosa fai qui? – chiese all’improvviso al suo Philippe.
– Niente, mia cara. Aspetto.
– Chi?
– Te!
Ella non capì che cosa il marito le volesse dire. Nella cantina era quasi buio, ma lei lo vide, lo trovò, in mezzo alle botti di legno, gli andò incontro. Qualcosa le gridava di gettarsi tra le sue braccia. Lo fece.
Ma non si abbandonava alle sue mani, non si lasciava soffocare dalla sensazione, forte, che le dava il contatto con il corpo del suo Philippe. S’accorgeva di non essere più se stessa, ma un’altra donna. Il muro al quale s’appoggiava era grigio, freddo, sconnesso e le dava una sensazione sgradevole. La parete era ruvida, sì, insopportabilmente ruvida.
– Sei sublime, come sempre – le diceva Philippe, baciandola e toccandola.
Ma le parole di lui non erano credibili.
D’altronde, la bella non riusciva a udirle. Qualcosa non funzionava. L’insoddisfazione, la disillusione si scatenarono in entrambi.
– Che cosa succede, Philippe? – disse Aurora, sconsolatamente.
Il sognatore blu non diceva nulla. Si disprezzava.
– Philippe, perché? Rispondimi! – Aurora, infelice, scoppiò a piangere, perché la loro unione era come spezzata.
– Oh, &egrave terribile, mia cara – le rispose l’altro poco dopo.
– Ma come? Perché?
– No, non funziona. Non può funzionare, mia bellissima. &egrave la fine del’
– No, non dire così!
La nostra protagonista aveva le lacrime agli occhi. Quella circostanza era per lei più grave e insopportabile di quanto si potesse immaginare.
Perché accadeva? Fino ad allora, la loro vita insieme era stata felice e serena. Ma in quei giorni, per entrambi era come sperimentare un rapidissimo declino.
Le gote di Philippe, nella semioscurità, s’infiammarono di rabbioso smarrimento. La sua bella piangeva.
Entrambi erano certi che non sarebbe più stato possibile vivere felici. La tempesta peggiore era quella delle loro menti, divise da una fatalità che andava ben oltre una semplice disarmonia.
– Aurora, &egrave come se non potessi più amarti! – le disse lui.
– Non sai quanto mi rendono infelice queste parole! – sussurrò l’altra.
– Che cosa c’&egrave? Che cosa c’&egrave?
– Una forza cupa sta portando via Philippe alla sua Aurora, e Aurora al suo Philippe! &egrave la stessa forza che uccide il nostro vicendevole, appassionato amore. Andiamocene da questo luogo! Non serve a nulla rimanere qui!
Ma prima che potessero fare un solo passo, Aurora si sentì male e fu in procinto di svenire. Un volto disumano e mortale era apparso agli occhi suoi. Era stato per un istante, le era parso una folgore, che le aveva squarciato l’anima. Aveva rotto la penombra con il suo sorriso arcigno e la sua espressione minacciosa.
– Vattene! – mormorò lei.
Quel volto deformato, vizzo, era quello di Augusto. Forse, quell’essere si era interposto tra i due amanti e si rendeva artefice delle loro sventure.
Era lui, maledettamente lui!
Quel bagliore cupo scomparve, così com’era apparso. Ma la nostra protagonista ne portava in seno l’inguaribile ferita.
Aurora piagnucolava e stava male, tanto che dovette abbandonarsi alle braccia molli di Philippe, che forse non l’amava più.
Egli la trasportò per le scale, mentre lei aveva gli occhi chiusi.
– Augusto, Augusto! – rantolava Aurora. – Sei la mia, la nostra dannazione! Lampi, tuoni e maledizioni ti avvolgono! Vattene, vattene dalla dimora dei due amanti, sparisci dalla loro vita, altrimenti tutto sarà perduto!
– Taci! – la interruppe il suo sposo.
La divisione, come una cappa nera, piombava su quegli innamorati, perché lui non riusciva più ad essere felice con lei, non era più in grado di possederla carnalmente, poiché un altro essere la stava possedendo al posto suo.
Inutile rattristarsi e dare adito allo sconforto!
Tutte le rose del giardino erano morte.
I loro boccioli, pronti ad aprirsi a nuovi splendori e a dolci fragranze, erano bruciati. Pendevano all’ingiù, tristemente assassinati, le loro foglie s’erano tinte d’un giallastro opaco e impressionante. Delle gocciole d’acqua, inutili e vane, cadevano, precipitavano tra le loro acute spine, poi si perdevano al suolo, vagamente.
Uno squarcio di luce abbagliò Aurora, i cui occhi furono quasi accecati da un bagliore disperato.
Era come se fosse morta assieme alle rose, perché in quei fiori c’era l’amore per Philippe, che non sarebbe mai sbocciato!
Voleva toccarle, ma non riusciva a tener ferme le sue mani, che tremavano disperate. Si pungeva, si faceva male; cercava di credere di essersi sbagliata, ma non era vero.
– Philippe! – chiamò, con voce stridente.
Le rose erano secche, aride, quanto primavere mai arrivate, come medicine somministrate troppo tardi per fare effetto. Erano distrutte! Il sognatore blu non rispondeva, i richiami di Aurora si dissolsero, come cenere al vento!
Il male avvelenava il loro dolce idillio.
Germana era parente di Augusto. Di tanto in tanto, i due si incontravano, all’ora del t&egrave.
– Sai, da un po’ di tempo vado a curare le rose a casa di un’amica – le aveva detto il cupo giardiniere. – A quanto pare, crescono meravigliosamente! Conosci anche tu Aurora e Philippe?
– Sì, li conosco bene, da prima che diventassero marito e moglie. Ah, quanto ha fatto Philippe, per lei! Nessuno li avrebbe mai potuti dividere. La loro storia mi ha commossa’
– Nessuno?
– No, il loro legame sfidava l’impossibile. Dovevano trascorrere il resto della vita felicemente insieme’ Certi sentimenti non si possono assopire, si possono soltanto uccidere.
– Ah, uccidere’
Mentre ripeteva quella parola, gli occhi di Augusto parvero accendersi e diventare rossi come il fuoco. Mandavano dei lampi!
Germana aveva raccontato la storia dei due amanti. Come un racconto strappalacrime, si era dissolto nel mondo, ma continuava vagamente a risuonare.
In un bel mattino luminoso, era un piacere passeggiare lungo i torrenti sassosi.
Sembrava fosse maggio, un maggio colmo di sensazioni e di freschezze, di vento profumato di soavità, di tiepida e lieve vanità.
Pontvieux-sur-Lasson, ricostruita soltanto in parte, ancora polverosa e confusa nelle rovine di ciò che era stata un tempo, si specchiava sull’acqua, in lontananza.
Una lunga fila di cipressi, alti e maestosi, brillava di riflessi smeraldini sulla superficie di un corso d’acqua, il sole indorava leggermente i loro rami più elevati, la brezza, sublime, sfiorava e agitava le loro cime verdissime.
Un vialetto di ghiaia correva bianco e solitario a lato dei cipressi, lungo un torrente gorgogliante e sembrava non finire mai.
Due figure passeggiavano assorte in lontananza, avvolte nella quiete silenziosa e solitaria, senza che i loro passi si potessero udire distintamente. Erano tediate, quasi confuse; di tanto in tanto si fermavano, per gettare dei timidi sguardi tutt’intorno.
Gli uccelli, taciturni e vivaci, si posavano talvolta sui rami dei cipressi, si nascondevano tra le loro fronde, e dall’ombra s’innalzavano cupi dei cinguettii smorzati, quasi surreali.
S’udì poi un distinto rumore di passi, che sfioravano il vialetto ghiaioso, lentamente. Si udivano lievi, ma sempre più sensibilmente.
Erano un uomo e una donna.
Per un istante, il sole accese i loro lineamenti, che brillarono di una luce viva.
Poi si spensero, come per caso.
Erano Aurora e Philippe.
Lei sembrava vestita di luce e, di tanto in tanto, si riparava dai riflessi del sole sull’acqua con la sua mano d’alabastro. Sul capo portava un cappellino ornato di fiori, che le donava alquanto e metteva ancor più in risalto il volto suo.
Non sorrideva, non parlava. I suoi sguardi fuggivano.
Philippe, la giacca blu sottobraccio, teneva fissi i suoi sguardi al suolo, tutto pensoso e mesto.
Discernevano le ombre lunghe, nere, dei cipressi, che si disegnavano sulla terra e sembravano toccarli. In fondo, era una passeggiata grigia, della quale forse i due amanti avrebbero fatto a meno volentieri.
– Andiamo – disse uno dei due passanti.
Poi, però, venne un’ombra.
Era Arturo, che prese a gettare dei sassi sui due amanti, come per divertimento.
– Vattene, o chiamo i gendarmi! – gridò Aurora.
Ma quella figura cupa le rispose sghignazzando.
– Vi ho resi infelici! Vi ho perseguitati e vi perseguiterò ancora! Sto cercando di rovinarvi e vi ridurrò in cenere!
Così diceva quell’essere raccapricciante.
– Vieni, Aurora, non dargli retta! Non ascoltarlo! ‘ disse Philippe, porgendole il braccio.
Ma era impossibile liberarsi di lui’
– Ogni colpa ricadrà su di voi! La disgrazia e la sventura vi perseguiteranno! Sentite! Io vi prometto fantasmi, lampi e uragani! Ricordi il sapore delle fresche tisane di tiglio che sorseggiavamo insieme, Aurora? Ricordi i dolci pomeriggi, in cui mi occupavo delle rose? Serbo ancora il profumo di tiglio nel cuore. In quegli infusi, versai più volte sostanze misteriose, pozioni incantate, capaci di avvelenare il vostro amore. Le avete bevute insieme!
Poi, quella voce, nera come la pece, svanì nel vento.
Philippe disse aspramente:
– Tu! Ancora qui? Non ti basta quello che hai fatto? Non ti sembra già abbastanza? Come pensi di riuscire a farci del male, verme?
Ma nessuno prestò ascolto a quelle parole.
Il cuore dei due amanti batteva forte, perché quell’essere raccapricciante aveva fatto loro paura.
Aurora e Philippe rimanevano avvolti in un torpore amoroso che concedeva loro soltanto dei rari slanci di vicendevole passione.
Fortunatamente, i brutti momenti di dolore e smarrimento erano trascorsi. Nondimeno, avevano lasciato il loro segno nei due amanti.
Chissà! Aurora si era domandata spesso se quelle tracce fatali avrebbero segnato inesorabilmente il resto della sua vita con Philippe. Ma non aveva trovato risposta.
La tempesta era ancora sopita. Alla bella sembrava un risveglio come tutti gli altri, invece non lo era.
Tra gli sbadigli, una volta si accorse di essersi svegliata in un giorno particolare. Era l’anniversario del loro matrimonio!
“A che cosa servono queste date” si diceva “se non ad accrescere un senso di viva malinconia?”.
Si stropicciava gli occhi, perché era ancora un po’ assonnata.
Ella sperava che arrivasse una nuvola rosa, con il ricordo delle dolcezze lontane di quel giorno. Forse, avrebbe coperto pateticamente le loro tristezze, come in una favola.
Guardava Philippe, il quale continuava a sonnecchiare sul letto, accanto a lei. Sarebbe mai stato di nuovo affettuoso?
Erano le sette.
I due si alzarono, fecero colazione come al solito. Nulla sembrava sorridere alla letizia. Gli occhi del sognatore blu erano spenti a qualsiasi entusiasmo. La guardavano, languidi, per poi nascondersi celeri e sfuggenti. Non si sarebbe potuto indovinare cosa provasse, quel mattino.
Entrambi desideravano il sorriso.
Philippe disse alla sua amata:
– Vuoi venire?
– Dove? – chiese lei.
– Non lo so.
Dovevano uscire, volevano uscire. Lui la prese per mano, non voleva costringerla…
– Vieni, andiamo – le sussurrò.
Salirono sulla loro automobile e partirono, lentamente, silenziosi. Non vi fu un solo sospiro.
– Sarà un lungo viaggio? – chiese Aurora.
– No, affatto – le rispose il nostro protagonista, continuando a guidare con calma.
Le sue mani portavano i suoi bei guanti di pelle, teneva il volante con la maestria di un perfetto autista.
Attraverso il finestrino, la cara arpista poteva ammirare Pontvieux-sur-Lasson, i cui edifici s’innalzavano al cielo in tutta la loro maestosa meraviglia.
Oh, era già passato così tanto tempo dal giorno del loro matrimonio e dal terribile momento, in cui la città era crollata per sempre! Impossibile rivederla nelle ricostruzioni, bello sognarla, bello cercare di immaginarla com’era un tempo, preziosa, unica, ma così fragile!
In quegli istanti, Aurora avrebbe pianto a calde lacrime per la sua Pontvieux-sur-Lasson perduta e forse lo aveva già fatto ardentemente, in gran segreto. Allora, avrebbe lasciato scorrere volentieri le lacrime dai suoi begli occhi, ma non ci riusciva!
Quel giorno desiderava essere felice, ma non poteva esserlo nemmeno nelle dolcezze di un rimpianto!
Philippe non voleva saperla infelice.
I due si dirigevano là, dove un tempo sorgeva la magnifica cattedrale, dove speravano di sentirne ancora il fascino e la maestà, almeno nell’animo.
S’illudevano!
Arrivarono. Philippe volle che Aurora scendesse dalla macchina, per provare insieme a lei delle emozioni che neppure s’immaginava.
Era come se la sua intenzione fosse stata quella di mostrarle, in un solo mattino, quanto fosse mutato il volto della città e quindi del loro amore.
– &egrave forse per rattristarmi, che mi porti qui? – chiese Aurora, quasi delusa.
– No, pensavo di poterla rivedere!
Così le rispose lui, con una voce divenuta morbida e vellutata, come un tempo.
Egli comprese quanto amaro disagio le procurasse la vista di quel luogo, per lei fatale e rovinoso. Le mise una mano sulla spalla. Non voleva rimanessero là. Aurora lesse forse nel suo cuore un’intenzione sublime, ma non volle farsi delle illusioni.
Risalirono in macchina.
Philippe vide le lacrime della moglie, che, freddamente, riusciva a piangere. Gli parve un languido pianto!
– Non fare così – le disse. – Non fare così…
Quelle parole ebbero il potere di commuoverla più profondamente di quanto si potesse immaginare.
– No, Aurora! – riprese il sognatore blu. – Così fai piangere anche me!
– &egrave troppo – rispose lei – e non posso…
Che cosa non poteva? Lasciò la frase in sospeso, perché anche il suo cuore era sospeso. Lui sembrava dimentico di ciò che c’era stato una volta, pareva che la grande passione di allora si fosse definitivamente spenta nel suo intimo!
Perché mai? Com’era potuto succedere? Ad ogni modo, egli la accarezzava, malgrado l’altra quasi non accettasse le sue mani.
Aurora smise di piangere, ma rimase pensosa.
Le sembrava di rivedere luoghi familiari, che ciò che vedeva fosse realmente Pontvieux-sur-Lasson e se ne rallegrava.
Arrivarono ad una chiesina.
Era là che il povero don Guglielmo aveva celebrato tante volte la messa. Era una chiesa piccola e bellissima, dove la cara arpista era entrata tanto sovente per pregare. Avevano appena finito di ricostruirla. Era proprio come allora.
Philippe prese Aurora per mano e le mostrò, con l’indice, il luogo sacro.
– &egrave meraviglioso, amico mio – disse lei.
Ma il suo amato aveva qualcosa da dirle. Erano parole che aveva fatto crescere dentro di sé, come una pianta, appartenente a chissà quale specie botanica. Egli gliele disse guardandola negli occhi e stringendola tra le sue braccia, là, su quel prato:
– Aurora, l’amore nei tuoi confronti non &egrave mai venuto meno in me. Ti appartengo e tu lo sai. Oggi &egrave il primo anniversario del nostro matrimonio e nel dolce ricordo di quel giorno, in cui &egrave esploso il nostro amore, ti auguro di essere felice per sempre. Ti prometto che lo sarai, che lo saremo, ed &egrave come se fosse ieri, perché ti amo allo stesso modo, se non di più, malgrado sembri impossibile.
La bella era piena di tenera commozione.
– Allora – gli mormorò, con voce soffocata dal suo sentimento amoroso – non te ne sei dimenticato!
– Oh, e come avrei potuto? Sei l’essere al quale tengo di più al mondo!
– Ah, Philippe, quanto dolci sono le tue parole e quanto grande &egrave il tuo cuore!
Sul sagrato della chiesa i due amanti vissero di un abbraccio eterno e appassionato. Era come se don Guglielmo, dall’alto dell’infinità, da dentro i loro cuori, li guardasse, amorevolmente uniti, e i due sposi sentissero la sua benigna presenza.
Sì, era lui, era lui che aveva donato loro quell’istante!
Don Guglielmo, il povero, caro don Guglielmo…
– Aurora – disse Philippe, tutto premuroso – ti vorrei regalare…
– No – gli rispose lei, affettuosa, sfiorando lievemente le sue guance virili e posandovi un tenero bacio. – No, amor mio. Che cos’altro di più prezioso di queste parole potresti mai regalarmi?
Per Philippe, Aurora era tutto ciò che un uomo potesse desiderare al mondo.
Dopo tante sensazioni vissute nell’intimo ed avvolte in una caliginosa dolcezza, la bella arpista apriva i suoi begli occhi, che fino a poco prima erano rimasti languidamente socchiusi. La prima immagine nitida che si formava nelle sue pupille era il volto del suo Philippe.
– Oh, che cosa mi succede? Non ricordo di avere mai provato tanta gioia in vita mia!
Così sussurrò la nostra protagonista, il cui volto brillava come il sole.
– &egrave come un ardore, che mi divora – aggiunse poi l’innamorata.
– Andiamo a casa? – le chiese il suo amante, prendendole la mano. – Ci sarà la festa.
– La festa?
– Sì, una festicciola intima, segreta, ma infinitamente allegra. Ho invitato una persona.
– Chi?
– Germana.
– Non l’avrei mai sperato. Philippe, io non ho mai dubitato del tuo amore, ma ora mi fai capire quanto &egrave grande. Anch’io ti amo, follemente.
Non c’era più tempo per parlare; era come se ogni parola, ogni sguardo innamorato li soffocasse di felicità.
A casa, presto! Come due uccelli in amore, due cigni bianchi e immacolati, che nuotano sull’acqua cristallina! Come due stelle vicine, che splendono tanto da sembrare una sola!
Ecco, arrivava l’amica dell’amore, arrivava lei, Germana… Stavano tutti quanti insieme.
No, la nuova venuta non turbava la loro intimità, non impediva che i loro occhi si parlassero e scintillassero di una luce fulgente, quanto quella che aveva illuminato il loro primo incontro!
Le loro mani si cercavano, come se si fossero appena innamorati.
La loro ospite era toccata da quanto vedeva e capiva.
– Di passioni intense e amori tanto languidi non ve ne sono molti e questo &egrave il caso più irripetibile – sussurrò loro.
C’erano le paste, i pasticcini, i bon-bon e tutto ciò che si sarebbe potuto desiderare per allietare un meriggio qualsiasi.
Era un anniversario memorabile e lo era ancor di più, perché il loro amore appariva raggiante e senza nubi. Sembrava che quel giorno non dovesse passare mai. Fino a quando l’uno fosse rimasto al fianco dell’altra, non ci sarebbe stata una fine. Era come un frutto, che maturava nell’intimo dei due amanti, sino a raggiungere la perfezione.
Quella sera, in vestaglia, Aurora contemplava le immagini che le rimanevano di quel bel giorno, le sfogliava, una dopo l’altra, piena di letizia. Sembrava che la malinconia non potesse ghermirla, perché sapeva di avere il suo Philippe accanto, il suo tesoro era con lei per sempre… Chissà quanti altri giorni gioiosi sarebbero venuti, si diceva la bella. Il suo amore glielo prediceva.
Ma la cara arpista, allorché accese il suo abat-jour, s’accorse di qualcosa di cupo, che le stava intorno.
Ah, Cielo, che cosa mai poteva essere?
Aurora si prese la testa fra le mani. Oh, la testa, quella testa, era diventata piombo insopportabile. I brividi la aggredivano nel suo letto e sudava freddo. Quanto stava male, quanto stava male! Sembrava che quel malore improvviso non dovesse passarle mai!
Il male la affliggeva, la struggeva.
La nostra protagonista singhiozzava, quasi avesse capito tutto. Avrebbe voluto strapparsi quegli occhi, che bruciavano di dolore, staccarsi quella testa, pesante e insopportabile, strapparsi i bei capelli, che le ricadevano infuocati sulle spalle e la bruciavano. La sua bella pelle diveniva livida. Il suo volto era pallido, perché la bellezza lo aveva abbandonato, sì!
Era fredda, di ghiaccio.
Che cosa poteva dire? Poteva gridare? Poteva lamentarsi? No, il suo male non glielo permetteva.
Finalmente, passò.
Ad ogni modo, le era accaduto qualcosa di troppo inquietante, perché la mente sua non ne risentisse negativamente. Tutto il suo corpo era stato scosso, insieme alla sua anima.
Per fortuna, ella aveva ancora Philippe al suo fianco. Poteva rifugiarsi in lui e lasciarsi consolare dalla loro passione.
Forse, però, non sarebbe bastata.
Ben presto s’accorse di avere delle altre crisi. Tutte le sue energie venivano meno e la sua mente svaniva.
“Ma che cosa mi sta succedendo?” si chiedeva. “Oh, non sarà mica…”.
Sospettò il peggio, l’assurdo. Purtroppo, oramai non era più in grado di ragionare ed attraversava dei momenti di pazzia.
Non disse nulla al suo amato, perché temeva di rattristarlo inutilmente; si ripeteva, quasi in continuazione, che non era nulla, sarebbe passato presto, senza lasciare traccia.
Invece, la sua salute svaniva, per lasciare il posto a delle sofferenze indicibili.
Una volta, mentre passeggiava lungo uno dei viottoli di Pontvieux-sur-Lasson, si accorse di essere rimasta sola. Si disse che non c’era nulla da temere, doveva soltanto fare attenzione a non inciampare. Tuttavia, aveva la sensazione che la vista le si annebbiasse, che gli occhi suoi non potessero più vedere il mondo nitidamente. Tutto era confusione e languore. Affrettò il passo, come se qualche cattivo la stesse seguendo.
I suoi sguardi fuggivano, cercavano di guardare attraverso le finestre delle case, che avevano le inferriate e i tetti spioventi, la testa le girava.
No, non era il corpo, a farle male.
Si fermò. Non riusciva più ad andare avanti. Si mise le mani sugli occhi, che le bruciavano. La testa le stava per scoppiare.
Era giunta dinanzi ad una casa che sembrava fatta tutta di legno, era dipinta di rosso, fuorché il tetto e le imposte, che erano nere come la pece. Sulla sommità del tetto avevano posto una sorta di gallo di ferro battuto, che indicava in quale direzione soffiava il vento. Davanti all’uscio c’erano come delle cariatidi lignee, che raffiguravano esseri mostruosi. Il cigolio cupo di una finestra che si apriva colse inaspettatamente la nostra bella, tanto che le fece battere il cuore per l’ansietà.
– Fermati, Aurora! – le gridò qualcuno, con voce gutturale.
– Oh! Che cosa c’&egrave? Che vuoi? – sospirò lei, mettendosi una mano sul petto. – Ti avevo detto di sparire, di non torturarmi più!
Lo vedeva, sì, ma nei bagliori di una visione. Le parve che vi fosse ben poco di reale in quanto allora le comunicavano i sensi.
Era Augusto, con gli occhi sbarrati, infuocati, e i capelli ritti sulla testa.
– Che cosa vuoi? – ripeté la sventurata arpista. – Che cosa c’&egrave?
– Aurora! Aurora! Aurora… – mormorò il suo interlocutore. – Tu non mi hai perdonato!
– No, non ti ho perdonato…
Così gli rispose lei, in un mormorio. Oh, ma non riusciva più a reggersi sulle gambe, il suo corpo sfuggiva al suo controllo! Le sensazioni più forti erano quelle che le provocavano le parole cupe di Augusto.
Aurora si accorse che la finestra aveva un’inferriata, accesa e rossastra come il ferro fuso di una fornace. Non riusciva a guardarla, perché quella luce maledetta la accecava. Un fumo grigiastro, che sembrava stregato, si propagava da quel metallo.
Quell’essere le parlava da dietro le sbarre arrugginite, il suo volto era divenuto del loro stesso colore!
Aurora stava male. Credeva che fosse tutta colpa di quella sua triste serie di malori.
– No, non sei così fortunata – le disse Augusto, che le aveva letto nel pensiero. – Quello che vedi &egrave la realtà…
– Lasciami in pace! – gridò l’infelice. – Ti prego, vattene!
– Ora tu ascolterai le parole che non potrai mai dimenticare e che ti tormenteranno in eterno!
– Non riesco a respirare, il mio cuore soffoca nella disperazione…
Era come se la notte fosse calata proprio in quel momento. L’etere era divenuto di un rosso ardente e cupo. I pipistrelli disegnavano nel cielo la tragicità dell’inferno. Volavano disordinatamente, oscuri come le tenebre. Gettavano le loro grida sorde, con la voce del mistero.
– Sei maledetta, Aurora! – diceva Augusto, dagli abissi. – Sei malata! Sì, sei malata!
– No! – gridò lei, tutta sconvolta.
– Per colpa tua io sono maledetto. &egrave per causa tua che io sono dannato, in eterno. Tu mi hai negato il tuo perdono! Mi hai fatto precipitare nelle viscere del dolore! Tu hai tentato di essere felice ugualmente, tu hai ritrovato l’amore per Philippe! Ah, ma non potrai avere la pace, non riuscirai a vivere!
L’altra si fece di ghiaccio.
– Tu, Aurora – aggiunse lentamente, con accento esiziale, Augusto – morirai.
– Ah! – si lamentò l’altra, piegandosi in due e quasi strappandosi i capelli, perché la sua sofferenza si faceva insopportabile. – Ti prego, no!
– Sì, invece, sì, sì, sì, sì! Io ti impedirò di essere felice e riceverai una punizione infinita!
La sventurata si mise le mani nei capelli, che, scarmigliati, le ricoprivano il volto. Vedeva il ghigno sinistro di Augusto e continuava, suo malgrado, a sentire quello che le diceva.
– Non ci sarà rimedio, né medicina, né medico in grado di curarti – mormorò quell’essere cupo. – Il male ti colpisce oggi e ti colpirà ancor più atrocemente domani, perché &egrave dentro di te!
– Oh, Dio, dimmi tu che cosa ho fatto, per meritare questo! – esclamò la poveretta.
– Il male! Dentro di te, ogni affetto si inaridirà, così come si sono inaridite le tue rose e morirai disperata, sola, abbandonata!
Quel giovinastro era un mostro. La sua voce disumana, il tono glaciale con il quale le parlava, le fecero provare in anticipo tutta l’agonia che stava per assalirla.
– Augusto, io ti perdono! Ti perdono, ti perdono! – disse la nostra protagonista, giungendo le mani, in un ultimo tentativo disperato.
– &egrave troppo tardi! La tua situazione &egrave irreparabile! A che cosa servirebbe ora il tuo perdono? Sarebbe soltanto vano, quanto un autunno di foglie vizze ed illusioni!
La bella stava per morire, ne era certa. Aveva dei sussulti tremendi, che le torturavano l’anima.
– Sarai dannata, Aurora – le gridò il perfido, fatalmente. – Le fiamme degli inferi ti divoreranno e ciò che provi ora &egrave nulla, in confronto alle pene che ti affliggeranno un giorno!
Era troppo.
La sventurata cadde a terra, si guardò le mani, che erano diventate simili a quelle di uno scheletro, mentre dalla sua bocca uscivano delle bave.
– Allora, non c’&egrave nulla che io possa fare! Nulla, per salvarmi! – gridò la bella.
Il suo interlocutore le rispose ghignando.
Anche lui era prigioniero, perché era stato catturato, inesorabilmente, dal dolore.
– Vattene, Aurora! Vattene, vattene, se non vuoi morire ora, se non vuoi essere privata anche dei tuoi ultimi giorni di vita sulla terra, che saranno i tuoi ultimi istanti di luce, prima di precipitare nelle tenebre!
Questo le urlò quell’essere fatale.
– Aspetta, Augusto! Augusto, ti supplico! – rantolava la maledetta. – Ti scongiuro, non privarmi di Philippe! Lasciami almeno…
– No! No! No! Questi ultimi giorni saranno come un dono, per te, non li meriteresti neppure…
– In nome del Cielo! Augusto!
– Se non te ne andrai, mi prenderò anche lui!
Aurora tentò di fuggire, benché il caos la dominasse. Tutto era così struggente! Ella si alzò, ma era troppo debole… Vacillò, si appoggiò al muro, che non voleva reggerla. Osò guardare la finestra stregata, attraverso la quale le aveva parlato quell’orribile essere, ma non c’era più nulla. Quella casa spettrale era svanita.
– Vivrò, nella morte! – mormorò l’infelice arpista, il cui petto si sollevò per un profondo singhiozzo.
Gli occhi della sventurata, dopo quella atroce ed abbagliante visione, non videro che ombre. Nell’anima sua c’era una ferita profonda, che non si sarebbe mai rimarginata. Forse, però, non aveva un’anima.
Dove andava? Cosa faceva?
Aveva perso la testa.
– Hai una malattia, hai una malattia, hai una malattia – ripeteva la nostra protagonista, tappandosi le orecchie per non sentire la voce che la divorava dall’interno.
Sì, era ammalata, ormai non poteva più dubitarne.
I suoi affanni, i suoi malesseri si intensificarono, divennero via via sempre più insopportabili. Lei cercava in tutte le maniere di dissimulare a Philippe la sua cattiva salute. Ma ormai non aveva più vita.
Di notte non riusciva a dormire e il giorno, per lei, non era che una successione di colpi mortali, che una forza malvagia non si stancava di infliggerle.
Ma ad affliggerla c’era qualcosa di ben più grave. Era la paura che il suo amato potesse indovinare, si potesse preoccupare, disperare per lei, inutilmente!
Ella doveva tacere, tacere e tacere!
Si chiudeva in se stessa e, ogni volta che il suo compagno affettuoso le sembrava strano, gli sorrideva. Si disse che non sarebbe potuta andare all’ospedale. Ad ogni modo, avrebbe almeno avuto la felicità di morire accanto a lui, tra le sue braccia, confondendo con i sospiri amorosi il suo ultimo anelito.
Di tanto in tanto, vedeva la sua tomba: nera, vuota, avvolta dalle fiamme, la aspettava. Che triste sorte, la sua! E l’avello non sarebbe stato altro che l’inizio del suo dramma!
La sventurata non riusciva ad allontanare da sé quell’infausto pensiero.
Aurora volle farsi visitare, in gran segreto. Forse, c’era una cura e poteva sperare! I medici controllavano il suo corpo, lo esaminavano, lo toccavano, ma alla fine tutti le concedevano uno sguardo colmo di compassione e le dicevano con parole commoventi che, purtroppo… Oh!
Le raccomandavano di farsi coraggio…
– Come? – chiedeva lei. – Spiegatemi come! Oh, siamo ben infelici, noi umani!
E non riusciva a dire altro.
Poteva soltanto nascondersi il volto tra le mani, mugolare, gemere, lamentarsi, piangere!
Ma i suoi lamenti non facevano che accrescere il suo dolore, che non le concedeva quasi più tregue. Era come un freddo assassino, che la privava della vita a poco a poco, succhiandole il sangue. Lei non voleva morire… No, non voleva! Amava il suo Philippe e pensava che presto avrebbe cominciato ad inquietarlo, a dargli fastidio, a provocargli delle angustie.
L’alba succedeva al tramonto, il sole alla pioggia, la luce alle tenebre, tutto passava.
Non le restava più molto tempo.
Almeno, aveva capito come sarebbe stata la sua fine. Aveva immaginato tutto: il terribile momento, i sentimenti che avrebbe provato, ma non quanto le sarebbe accaduto dopo. Vivere uno squarcio di serenità, durante quei giorni, era diventato assolutamente impossibile. Era tempo! Aurora doveva andarsene, prima che fosse troppo tardi. Lei non voleva che tutto diventasse irrimediabilmente triste, perché avrebbe contagiato con la sua disperazione anche Philippe!
L’ultimo giorno, per lei, ebbe le sfumature atroci degli ultimi spasimi.
L’ammalata non poteva godere della luce, ma era già da molto tempo che non riusciva a vederla.
“Ah, per fortuna sono arrivata al capolinea!” si diceva, senza farsi la benché minima illusione. “&egrave stata dura, &egrave stato difficile, chissà come &egrave stata, quest’agonia!”.
Il suo amante non faceva che guardarla con occhi compassionevoli ed era assai pensoso.
Scendeva la sera, l’ultima sera.
Aurora tremava. Sapeva che, per lei, non ci sarebbe stata un’altra giornata da vivere. Chiudeva gli occhi; si ripeteva, mentalmente, con veemenza, ciò che doveva dire al suo Philippe e quello che stava per accadere.
“No, il male non lo toccherà” pensava. “Ha preso soltanto me e soltanto me porterà via con sé”.
Era debole, molto debole, ma la situazione estrema ed il suo grande coraggio le davano la forza per agire.
Quando le parve che il sole fosse tramontato definitivamente, si mosse.
Era come se il suo amato aspettasse da lei delle parole, una sorta di implicita spiegazione di tutto.
– Philippe, vuoi che andiamo a fare un giro? – gli chiese Aurora, sforzandosi di ritrovare tutto il suo ardore.
– Un giro? A quest’ora? – rispose lui.
– Sì, nella tua Bugatti rossa, quella nuova.
Era notte. Lui non riusciva a comprendere la ragione di quella proposta, ma forse, il suo cuore, sì.
I due salirono in macchina. Il raggio di luce dei fari tagliava come una lama l’oscurità notturna. Il motore della Bugatti da corsa rombava forte.
– Andiamo al boschetto degli aceri – mormorò Aurora. – Gli aceri rossi, lungo il fiume, dove c’&egrave il Ponte degli Amanti…
– Sì, lo so… Conosco quel luogo.
La bella riusciva a stento a tenere aperti gli occhi suoi, che erano spenti, ma, una volta, avevano brillato. Il suo tremulo sguardo si perdeva nel nulla.
Quasi vanitosa, quella notte aveva voluto essere più bella del solito, ma il suo volto tradiva i suoi affanni.
A poco a poco, cominciava a piovere.
Aurora intravedeva appena le grosse gocce, che precipitavano sul parabrezza, scrosciando. Come avrebbe voluto che la pioggia fosse arrivata anche dentro di lei e l’avesse liberata dalla torbida inquietudine, dal travaglio ininterrotto e martellante che la divoravano! Ella non poteva più pensare, eppure aveva delle cose importanti da dire al suo Philippe. Erano le ultime cose. Doveva ricordarsele, ma ogni sforzo della mente, per lei, era una pugnalata.
Durante il breve viaggio, i due amanti non incontrarono anima viva.
La luna giocava a nascondino con le nubi ed imbiancava scialba gli edifici che incontravano lungo il tragitto e sui quali si posavano mesti gli sguardi di Aurora.
– Non andare troppo forte, Philippe – disse lei. – Devo dirti alcune cose…
Ma erano arrivati. Il suo amato aveva fermato la Bugatti sotto gli alberi. Le loro ultime parole si sarebbero confuse con il bruire argentino della pioggia.
La nostra protagonista ansimava. Disse al suo caro:
– Philippe, fino ad oggi, fino a questa sera, io ti ho sempre amato profondamente. Non ho vissuto che per te. &egrave soltanto per merito tuo che sono stata felice, in questa vita!
– Anch’io – le rispose lui, ma avrebbe fatto meglio a tacere.
– &egrave vero, &egrave vero, tu mi hai resa felice e il tempo trascorso senza di te…
– Che cos’hai?
– Niente, niente… Continua a guidare, Philippe, anche se siamo fermi… Continua a vivere e non preoccuparti per me! Ho commesso parecchi errori, lo ammetto. Forse, non &egrave stato soltanto a causa della mia fragile natura. Forse, &egrave stato a causa del mio amore, troppo intenso! Oh, non so nulla!
– Calmati, Aurora, sei agitatissima!
– No, non lo sono. Ti giuro che il mio male non riuscirà a farmi tacere in questo istante!
– Che cosa stai dicendo? A che cosa mirano le tue parole? Che hai? Mi stai facendo perdere la testa…
– Manca molto perché arriviamo?
– No, siamo già arrivati…
– Va’ piano, Philippe… Ricordati di non avere mai fretta, di non scherzare mai, nemmeno con te stesso…
– Ma come parli? Eppure, sei tanto bella, sei truccata e ti sforzi, tristemente, di sorridere! Aurora, c’&egrave qualcosa che ti uccide? Dimmelo, ti prego!
– No, non &egrave nulla. Non voglio che tu soffra!
– Mi sembra che tu stia delirando, ma dolcemente, appassionatamente.
– &egrave un po’ per colpa mia… Avrei dovuto comportarmi meglio in questa vita e non lasciarmi soffocare dalle passioni. Se soltanto avessi saputo perdonare!
I suoi erano accenti di inconsolabile rimpianto, di tragico rimorso.
– Non ti posso capire, o forse ti capisco, anche troppo – mormorò Philippe. – Ma perché, perché, se &egrave vero quello che mi sembra di vedere in questa nebbia, tacere fino ad ora?
– Per te, per la tua felicità – rispose lei.
– Avresti potuto…
– No, Philippe! Sarebbe stato inutile, sarebbe stato distruggere un altro cuore! Io ti voglio bene… Nessuna donna avrebbe potuto volertene più di me, credo, ma ora! &egrave davvero impossibile evitare che accada.
– Vuoi dire che…
– Lo temo. Se sapessi che non può capitare non lo temerei, ma so che quell’istante arriverà…
I due amanti erano arrivati. Alla destra di Aurora si delineava il boschetto, sommerso dalla notte.
– &egrave vicino, Philippe! – sussurrò la bella, stringendo la mano del suo amato. – Sì, &egrave vicino, vicino, vicino…
Il sognatore blu spense il motore della Bugatti, che era rimasto acceso. Il picchiare insistente della pioggia soffocò le parole della sua donna.
– E ora, che farai, cosa mi dirai? – le chiese.
Aurora taceva.
Gli occhi suoi, umidi ed ormai incapaci di vedere, si fermavano sulle fronde bagnate del bosco.
Le foglie degli aceri, sotto il candido lucore notturno, splendevano, lucenti e soavi. Il loro tremulo lume vagava nell’oscurità, misteriosa quanto il cupo crepitare della pioggia.
La bella arpista aveva in mente il volto di Marghot, che, dal profondo, sembrava chiamarla.
Sì, forse le gridava qualcosa. Era come riascoltare le parole che aveva udito da lei l’ultima volta che si erano incontrate. Erano dei sussurri sinistri, quasi spaventosi, che la tramortivano.
La nostra protagonista sentiva che qualcosa stava per prenderla e si impossessava, a poco a poco, della sua vita.
Era la fatale rapitrice dell’ignoto, che gli umani chiamavano morte.
“No!” gridava Aurora, dentro di sé. “Non voglio! Lasciami almeno un ultimo secondo, per Philippe!”.
Ma si rivolgeva al nulla.
Cercò di dare un ultimo abbraccio al suo amato. Doveva dirgli un’ultima cosa, ma non aveva più parole da proferire, né voce per parlare.
Capì allora che sarebbe potuta essere più eloquente che mai, anche solo con un’effusione.
Il bacio, il caldo e timido bacio sulla bocca, che gli diede, fu il suo ultimo messaggio per lui. Mentre lo riceveva, Philippe sentiva sulla sua pelle un tocco glaciale, disumano ed affettuoso ad un tempo.
“Un morbo fatale la distrugge, l’ha distrutta” diceva tra sé il sognatore blu. “Non posso fare altro che soffrire”.
Aurora non voleva andare. Gli prendeva la mano, cercava di stringerla, con i suoi ultimi aneliti di femminilità.
– &egrave vero, mi amavi veramente, Aurora, ed io non posso lasciarti… – mormorò Philippe.
L’arpista era silenziosa, non le restava altro da fare che ciò che sapeva.
Eppure, gli occhi suoi parlavano ancora.
Le sue lacrime, vaghe e disperate, commossero Philippe, che non riusciva nemmeno ad asciugarsi gli occhi.
Lui volle che lei gli appoggiasse la testa sulla spalla. Allora, la sentì palpitare. Erano i suoi ultimi respiri.
La pioggia cadeva, più copiosa che mai.
Una voce impetuosa chiamava Aurora, la quale non poteva rifiutarsi di obbedire.
Quale voce?
Qualcuno rubava per sempre il tesoro di Philippe, si impadroniva per sempre di ciò che li aveva resi felici.
– Ora va’, &egrave tempo che tu vada – disse lui, guardando il suo orologio d’oro, che aveva comprato a Lione.
Aurora aprì lo sportello della Bugatti.
Invano il suo amato si era illuso di poter udire da lei una risposta.
Invano la guardava, la contemplava, mentre si sforzava di scendere.
Che cosa ne sarebbe stato di lei?
Aurora era scesa. Chiuse la portiera, soltanto con un lieve rumore. Debole, pallida, prese a camminare verso il bosco degli aceri rossi, verso il corso d’acqua e il ponte ove aveva incontrato Marghot prima che morisse. Camminava, camminava, a piccoli passi, i suoi piedi affondavano leggermente nella terra molle, la stessa che si preparava a riceverla. La pioggia la infradiciava, i suoi capelli inariditi e bagnati diventavano del colore delle tenebre. Si accorgeva di quanto il suo corpo fosse consunto e la sua anima illanguidita. “Oggi per me il mondo cessa di esistere” pensava la donna. “E non ci sarà alcun domani, per me”. La freschezza della pioggia le ricadeva leggermente sul palmo della mano.
Era come se, goccia dopo goccia, il diluvio la cancellasse.
Ora Philippe la poteva distinguere soltanto a stento, attraverso il parabrezza della Bugatti. La bella stava diventando, a poco a poco, invisibile.
Man mano si addentrava nel bosco, la vegetazione, umida e scrosciante, la nascondeva.
Aurora non si vedeva più. Era scomparsa, tristemente scomparsa.
La vanità, la fatale vanità, l’aveva dissolta, nell’ombra di quella notte, nel crepitare di quel diluvio.

FINE

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