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La Baronessa

By 17 Aprile 2017Gennaio 16th, 2020No Comments

Questa storia comincia in maniera molto banale: con una giornata di lavoro andata a male per un temporale improvviso.
Doveva essere una giornata semplice, tranquilla, un giorno di shooting per un catalogo di vestiti in una villa che veniva solitamente affittata per eventi e matrimoni, nel giorno di chiusura.
Una di quelle giornate di lavoro che alcune in agenzia disdegnavano perché non si trattava di Grandi Firme o Prestigiose Riviste Di Alta Moda, e invece per me erano mera fonte di guadagno, senza mai ambire a chissà che celebrità.

La villa si trovava quasi sulle rive di un lago che quel giorno era di un colore ben poco invitante, dal quale potevi aspettarti che uscisse un qualche mostro squamoso, il cielo grigio, con qualche sporadico brontolio. Nonostante il pericolo di pioggia, la giornata andava benissimo per fotografare, la luce era diffusa, pochi problemi di ombre, e tutta l’illuminazione necessaria riempiva il furgone.
Eravamo arrivati, accolti da uno dei responsabili della villa e ci eravamo accomodati in una saletta di servizio con bagno adibita a camerino improvvisato. Una agitatissima tizia continuava a girarmi attorno per l’inevitabile trucco e mi ero già vestita con l’abito dei primi scatti.
“Se va tutto bene, non ci vorrà moltissimo” disse scrutando il cielo la fotografa, conscia che le aspettative artistiche per quel catalogo non fossero eccessive. Un lavoro fatto bene, professionalmente, non “arte”.
Correzione luci, bilanciamento bianco, una prova, sistema quello spot, e…

BOOOOMM!!

Un lampo unitamente a un tuono fortissimo, e giù le secchiate dal cielo. Elettricista che stacca ogni luce, telo cerato buttato sulle attrezzature per portarle al riparo velocemente, corsa sotto il portico arrivando in uno stato pietoso, complici anche dei tacchi poco utili allo scatto da centometrista.
“Potremmo fare degli interni…” suggerii io all’assistente in piena depressione, ma questo scosse la testa “…Bisogna vedere la proprietà, se vuole, eravamo d’accordo per il giardino e basta.”
“B&egrave, io vado ad asciugarmi, intanto…” dissi, sentendo il bruciore della matita sciolta negli occhi. Nel bagno, rimirai uno spettacolo più consono ad un film dell’orrore che ad altro, un panda sbavato, che mentre si dava al latte detergente, si rendeva conto di aver portato solo un piccolo asciugacapelli. Inutile.
Infatti, dieci minuti dopo stavo avvolta in un asciugamano gigante, mentre un attrezzino minuscolo dalla potenza calorifica e di ventola inesistenti, coraggiosamente tentava di lavorare.
Spensi il piccolo arnese aspettando che si raffreddasse un po’, mi alzai in piedi per controllarmi allo specchio.

E nello stesso momento in cui l’asciugamano decideva di cedere alla gravità, si apriva la porta del locale improvvisato.
“AH!” esclamai, girandomi. “OH!” gridò una ragazza, girandosi velocemente e chiudendo la porta.
“Dovevo chiudere la porta del bagno!” dissi, raccogliendo il telo e coprendomi.
“Dovevi sì, cazzo!” imprecò lei, senza attirarsi molte mie simpatie. La guardai storto. “Che c’&egrave?”
“Mi hanno riferito che cercavate la proprietà per chiedere l’uso di un interno…” disse lei, girandosi incurante che fossi o meno di nuovo coperta. Evidentemente poco le importava di vedermi, serviva non mi vedessero fuori. Apprezzai il gesto, anche se non troppo. Mi sistemai l’asciugamano, rispondendole che doveva cercare la fotografa, io ero solo la modella fradicia con un phon da sorpresa dell’uovo di Pasqua.
Sbuffò, forse divertita dal phon, forse da me, con una mano davanti alla bocca, mentre il piccolo attrezzo ricominciava a soffiare un refolo d’aria a malapena tiepida, decretando totalmente la mia antipatia nei suoi confronti.

Dei colpi risuonarono alla porta, e feci svogliatamente cenno con la testa che per me era ok se apriva, e nello stanzino balzò subito dentro la fotografa e il suo assistente.
Subito furono uno stuolo di convenevoli e saluti rivolti alla giovane, la ringraziarono duecento volte per la concessione -che non supponevo, comunque, gratuita- della location, e si scusavano che a causa del tempo saremmo rimasti fermi per un po’. “Come se fosse colpa nostra” pensai, spazzolandomi i capelli fradici, guardando nello specchio il terzetto di persone, e focalizzandomi presto sulla ragazza.
Va detto che né la fotografa, né l’aiutante, erano particolarmente alti, ma la loro interlocutrice era decisamente fuori misura, anche per i miei occhi abituati a trampoliere d’alta moda che giravano in agenzia.
Alta e snella, non pareva dotata di grandi forme, a suo modo affascinante. Di un volto dagli zigomi un po’ pronunciati, dai lineamenti dritti, spiccava sicuramente un naso non minuscolo, ma dritto come fosse passato sotto una pialla, due labbra sottili che non avevano intenzione di fingersi sorridenti. Una descrizione quasi perfetta anche per il suo sguardo, due occhi non piccoli, ma dal taglio sottile, che le davano un’aria diffidente come un gatto.
Dall’alto, con le mani in tasca di un completo dal taglio piuttosto mascolino, annuiva quasi impercettibilmente con l’aria di chi ti stia a sentire ma chiaramente vuole farti intendere che non sei il suo maggior pensiero. Uno chignon dal quale venivano fatte scientemente fuggire alcune lunghe ciocche, mi fecero solo supporre la enorme lunghezza della sua capigliatura.
La giovane si scostò con un gesto rapido una ciocca di capelli dal viso.

“Non posso concedervi la disponibilità delle sale al piano terra.” interloquì, rimettendosi la mano affusolata in tasca. “Sono in pulizia. Si potrebbe utilizzare la dépendance.” buttò lì la ragazza, premendo il tastino di un cercapersone alla cintola.
“Oh, sarebbe davvero magnifico!” squittì l’assistente. “Se non &egrave di disturbo, sarebbe perfetto!” tubò la fotografa, e ambedue si lanciarono in salamelecchi infiniti, mentre una donna arrivava di fretta (“prego, anche lei?” pensai, tenendomi l’asciugamano addosso più stretto) e la ragazza uscì senza salutare accompagnata dalla nuova arrivata.
La porta si chiuse dietro di loro, lasciando fotografa e assistente a tirare un profondo sospiro di sollievo.

“Contenta che si sia sistemato?” sorrisi allo specchio, stupendo la donna.
“Contenta che non ci abbiano sbattuti fuori!” disse quasi sottovoce.
“Che dici, avrà scopato?” sorrise il suo assistente, con aria complice.
“Chi?” chiesi girandomi.

Mi raggiunsero, parlando con un tono decisamente basso, tanto l’asciugacapelli non procurava un rumore tale da essere di disturbo.
“La ragazza che era qui, è la figlia dei proprietari!” disse l’assistente. “Quella è meglio che o la lecchi, o non ci hai a che fare.” concluse, prima di uscire.
Mi scappò quasi da ridere, pensando a ‘come’ si potesse leccare una stangona simile con una faccia da figlia di papà viziata.
La fotografa commentò distrattamente l’inutilità del mio asciugacapelli, prima di dirmi, con tono grave:
“Attenta, Viktorie. Quella non ci mollerà un minuto da adesso in poi. Non darle corda, non raccogliere provocazioni e soprattutto non farle tu. Perché ti conosco abbastanza: se mi rovini la giornata di scatti per giocare a chi è più stronza, ti garantisco che Lunedì il tuo culo non sarà più materia dell’agenzia.”
Se ne uscì senza aggiungere altro, e mi sforzai non poco per continuare a mantenere un’espressione neutra fino a che non si chiuse la porta, dopodiché mi potei permettere di sibilare un paio di termini non troppo lusinghieri al suo indirizzo, e di insultare l’asciugacapelli, buttandomi a sedere sul water chiuso, con una mano sul viso, mentre riprendevo con il piccolo aggeggio. In realtà, avevo una discreta voglia di piangere.

“… Due su due, tette al vento e seduta sul cesso! Se quando entro qui non sei in pose imbarazzanti non sei contenta?” sentii una voce sconosciuta quasi sul mio orecchio, e balzai in piedi, trovandomi ad altezza seni di qualcuno, alzai lo sguardo e mi trovai davanti Lei.
“Tieni, prima ti asciughi i capelli, prima scattate, prima ve ne andate.” disse con tono meno che gentile, con un phon modello ultraprofessionale in mano.
“…Grazie.” dissi, nel tono più gentile che potevo avere, spegnendo il mio aggeggino bollente e mettendomi di buona lena con il suo. Non sottolineai il fatto che, come se niente fosse, se ne stesse appoggiata ad un mobile del bagno a fissarmi asciugare i capelli, con quello sguardo indecifrabile e un’espressione ironica sulla faccia che mi dava urto istintivo. Finii molto velocemente di sistemarmi, le porsi l’attrezzo con un altro ringraziamento, e mi cominciai a vestire del secondo abito, il primo era ancora troppo umido, appeso a un calorifero riscalda-asciugamani. Dedussi che non sarebbe servito a niente chiederle di uscire, così liberai il mio corpo nudo, per abbigliarmi.
“Becca queste, cazzo di tavola da surf” pensai, indossando con una giusta lentezza il reggiseno giusto per l’abito.
“Sono vere?” disse d’improvviso. “Come?” le chiesi con uno sguardo un po’ sorpreso.
La mano sottile ondeggiò nell’aria indicandomi. “Le tette, sono vere?”
“… Sì.”
“Carine.” alzò le spalle, fissando l’asciugacapelli. Mugugnai qualcosa che poteva essere un ‘grazie’ ma anche uno ‘sticazzi’, raccolsi in buon ordine il tutto e la salutai, diretta verso il nuovo alloggio dei nostri scatti. “Che cazzo…” sbottai, entrando nella dépendance. Se la villa era per sua natura un simbolo di opulenza, quasi ridondante, che sicuramente era mantenuta più che in ordine per la sua funzione di location di grandi eventi, quell’edificio era un sunto dell’opulenza sull’opulenza. Ed era evidentemente un luogo più abitato, quasi privato.
“Ma quanti soldi hanno?” sussurrai all’assistente, mettendo giù le mie cose in un angolo di una sala dall’arredamento antico, con una grossa stufa in maiolica. “Quanti ne riesci a immaginare?”
“Immaginare, parecchi.” sorrisi.
“Ecco, almeno tre volte tanto.”
“Sicuro? Guarda che ne immagino davvero tanti!” dissi ridendo e allargando le braccia, andando a prendere il mio posto e gli ordini della fotografa.
Per fortuna l’attrezzatura elettrica che ci accompagnava fu più che sufficiente a illuminare il tutto, indipendentemente dal cielo scurissimo che scaricava litri su litri di pioggia, e il lavoro procedette piuttosto speditamente. Intravvidi un’alta sagoma fare capolino un paio di volte, e passare distrattamente a dire all’assistente qualcosa.
Il lavoro finì con l’entusiasmo generale, e io venni accompagnata ad un piccolo bagno per sistemarmi. Mi spogliai e mi struccai con attenzione, ripiegai i vestiti, misi in ordine tutto, quando saltò la luce.

“Ty vole…” sospirai, evidentemente il temporale aveva colpito lì vicino. A tentoni cercai la porta, tastai il muro, toccai una colonna, palpai della stoffa.
“Mmh, o più giù, o più su, così è solo solletico!” sussurrò una voce.
Probabilmente mi sentirono urlare fino dall’altra parte della villa.
Cinque minuti dopo eravamo di nuovo nel salone io, la ragazza, e una tizia con una torcia elettrica che lamentava un problema al piccolo gruppo di continuità. Mentre io cercavo di spiegare al mio sistema circolatorio che poteva anche tornare alla normalità dopo lo spavento, le due discutevano un po’, mentre la ragazza lamentava che il mattino dopo un elettricista dovesse assolutamente sistemare il problema, perché almeno le luci di emergenza dovevano funzionare.
“Se dovesse mai con qui degli ospiti, cosa facciamo, candele per tutti?”
“No, certo, ma non pensavamo che non funzionasse…” balbettò la donna. “Mi stupirei del contrario! Che pensaste!” sbottò la ragazza, dando colpi con una mano sottile ad un’altra torcia elettrica che non sembrava voler funzionare.

“Santo cielo, ma cosa mangi a colazione, chiodi arrugginiti?” sbottai, con gli abiti in braccio. Lei si girò come se avesse visto una piovra gigante in mezzo alla piscina della villa, l’altra donna sbiancò.
“Come??” disse in un soffio, stringendo ancora di più gli occhi.
“Ma cosa ti ha fatto di male, &egrave saltata la luce, hai ragione a preoccuparti se capita con dei clienti, ma non puoi trattare la gente come stracci del pavimento!”
Lei ristette per un attimo. “… E non dirmi cose alla ‘tu non sai con chi hai a che fare’, &egrave fiato sprecato con me, lo so e te lo dico lo stesso. A buon rendere.” finii, avanzando malamente verso dove immaginavo si trovasse l’uscita dell’edificio.
Lei scoppiò a ridere in una maniera quasi maniacale, facendomi fermare e girare a guardarla, per quel che si poteva nella stanza buia.
“… Cazzo, mi piaci!” sorrise.
“Non so se esserne felice.” dissi a denti stretti, facendola ridere di nuovo.
Si avvicinò a me con un paio di falcate, mentre la donna filava via chissà dove. “B&egrave, dovrai esserlo per un po’. La tua troupe ti ha mollata qui.”
“Come??” trasalii.
“Hanno caricato tutto e sono andati, la fotografa ha detto all’assistente che andavi con i tecnici, e i tecnici stavano già sgommando. Per quello sono venuta a cercarti. Non sapevo nemmeno io se fossi ancora qui, e comprenderai che non mi riempia di gioia non sapere chi gira per casa mia.”
Sospirai profondamente, chiudendo gli occhi. Appiedata, sotto un temporale, in un posto che non avevo idea se fosse vicino a dei mezzi pubblici, con una merda umana di due metri accanto. Non era una gran giornata.

“… Stai pensando che neanche le bestie le trattano così?” sussurrò, maneggiando ancora la piccola torcia.
“Sì.” dissi, lentamente, colpita dalla sua intuizione. “… Non &egrave un buon periodo, ma questi lavori pagano… Un po’.” Mi riscossi. “Scusa, sono cazzi miei, non volevo.”
La guardai fissarmi dall’alto in basso per un istante, mentre arrivava un uomo fradicio dalla testa ai piedi, praticamente inseguito da una tizia che si lamentava che sporcasse tutto.
“La strada &egrave un fiume, stavo finendo fuori salendo, signorina… Se deve andare via sarà meglio che aspetti un attimo, i tombini rigurgitano… E non sono sicuro che il costone stia lì solo a fare fango.”
“Speriamo non venga giù qualcosa come due anni fa” aggiunse la cameriera, o quel che fosse, prima di fissare con odio le macchie di lercio lasciate dall’uomo.
La ragazza, che sospirò come me, ma più seccata che dispiaciuta.
“… D’accordo. Credo sia il caso di assicurare che tutto quello fuori che non deve inzupparsi, sia al riparo.” proferì, indicando l’uomo che pareva più un giardiniere. “… Credo che Giulio e Stefano siano liberi da mansioni, chiedi a loro di aiutarti.”
Afferrò un telefonino dalla tasca, chiamò seccamente qualcuno “… Sì, sono io. Visto il tempo, verifica come si mette per i prossimi giorni, e se &egrave meglio fare un giro di chiamate ai tavoli per domani. Evitiamo di mandare in cucina da preparare cinquanta coperti se ne avremo zero. Sì.” e riagganciò senza un saluto.

Alla finestra vedevo rovesciarsi piscine intere d’acqua, mentre il vento faceva ondeggiare anche i grandi alberi del giardino. Sperai che i miei “colleghi” non avessero problemi, anche se in parte quasi gli auguravo di doversi rifugiare in qualche bar, bloccati come ero io.
Si accostò a me, la pertica in 100% pura stronzaggine “… In auto posso accompagnarti almeno in stazione. Ma non ora, non finirò giù da un costone che si sbriciola per te, modella.” disse, girandosi e andandosene.
“B&egrave… Grazie…” dissi, comunque grata, mettendomi un po’ a urlare per farmi sentire da lei che spariva chissà dove.
“… Sono d’accordo con la tua idea. Mi chiamo Viktorie, comunque!”.
Alzò la mano come a dire ‘sì sì, d’accordo, come vuoi’, senza neanche girarsi.

Rimasi seduta su uno dei divanetti dell’ingresso alla villa, ad osservare il temporale che non accennava a smettere, per un tempo indefinito. La fotografa mi chiamò scusandosi del disagio, e dell’impossibilità di risalire. “Hanno interrotto la strada per rischio smottamenti!” disse, la rassicurai dicendo che mi davano un passaggio per un’altra via, tanti saluti. Non volevo parlarle, non volevo parlare con nessuno.
Se ci fosse stato un pomeriggio decente, avrei già cominciato ad andare verso la stazione da ore, ma era davvero impossibile riuscire a mettersi in viaggio con quel tempo. Certo, &egrave che non sapevo proprio che fare per ingannare l’attesa.
Inaspettatamente venne in mio soccorso la tizia, annunciata dal rumore dei suoi tacchi nelle stanze, comparendo pressoché sovrappensiero.

“Penso possa esserti gradito un t&egrave.” disse, in pura affermazione. “… Spero che questo gesto di cortesia non sia interpretato come un’affezione di qualsiasi genere, Viktorie.” aggiunse, troncando la mia risposta gentile di netto.
Mi alzai e mi misi a seguirla, quasi tentata dal tirare un calcio in un culo che appariva assai sodo e gradevole.
“Ma da che istituto psichiatrico esce, questa?” non potevo che domandarmi, osservandola parlare sottovoce a una cameriera (o quel che era, non riuscivo ad inquadrare i ruoli del personale) che praticamente sudava freddo nel rivolgersi a lei.
Tornammo alla dépendance, ma non entrammo nell’ala che era divenuta il set di quella giornata da dimenticare, costeggiammo l’edificio sotto il portico vetrato fino ad una scala, e al secondo piano, fino ad un appartamento non di enormi dimensioni, dall’arredamento moderno e pulitissimo, che nonostante un ordine maniacale era evidentemente la residenza di qualcuno.

Un camino largo e basso illuminava tutto il salotto, dato che ancora di elettricità non se ne vedeva l’ombra.
“Tu vivi qui?” chiesi, guardandomi attorno, gradendo non poco il tempore della fiamma.
“No, ci sto qualche volta per qualche giorno, se il lavoro lo richiede, &egrave un appartamentino di appoggio.” sospirai.
“Che c’&egrave?” chiese, dalla cucina.
Indicai intorno con la mano. “… Consideri “appartamentino da appoggio” qualcosa che potresti affittare a non so quanto al mese! Quel divano cos’&egrave, un Kartell?”
Le labbra sottili fischiarono di approvazione, mentre si sporgeva dal vano della porta della cucina con una teiera scura in mano. “Complimenti per l’occhio!” disse con una risata portandola in sala, la prima seria risata che probabilmente faceva da un mese. “… Ma non voglio che tu abbia di me un’idea stereotipata.”
“Troppo tardi.” sibilai, mettendomi a sedere accigliata su un divano che costava come intere rate della mia Università.
Mi guardò, se possibile, con gli occhi ancora più assottigliati, come un animale da preda prima di lanciarsi all’attacco. La luce del fuoco nel camino le dava un’aria ancora più infida.
“Mi piacciono le belle cose, e se posso permettermele, possederle, non vedo perché no. Studio e lavoro, non sono una troia figlia di papà con il culo flaccido che sta a farsi servire, godendosi fortune che non ha mai contribuito non a creare, ma neanche a mantenere.” disse, mettendo un infusore nella teiera, e sedendosi accanto a me.
“Sembra un discorso che conferma tale ipotesi, vero?” sbuffò dal naso dritto, guardandomi di sbieco.
“… Abbastanza. Una difesa appassionata, come punta sul vivo.”
“Non psicoanalizzarmi.” disse con un sorrisetto.
“Non ci penso neanche!” sorrisi. Ci fissamo per un istante, in silenzio. Non provocare, Vik, non provocarla… Oh, no, era troppo divertente.
“… Scommetto che &egrave una tua costante insicurezza, e senti di dover specificare a chiunque che non sei una figlia di papà viziata, nel timore che le persone ti inquadrino al primo sguardo.”

Non mi resi nemmeno conto, dalla sua rapidità, di come fossi finita a impattare sulla superficie del divano, con il suo sguardo piantato addosso a un millimetro dal mio, mentre con le mani lunghe e sottili mi teneva per le spalle, premuta nella seduta del bel divano.
“… Ti ho detto di non psicoanalizzarmi, troia.” sibilò a denti stretti a quattro centimetri dal mio viso. Le sorrisi provocatoriamente. “Quanto ti fa bagnare nelle tue mutandine firmate, quando qualcuno non ti lecca quel culo secco?” sussurrai.
Spalancò gli occhi, con sorpresa e una fiamma di ferocia.
“… Posso garantirti che quel che mi fa bagnare non sono le provocazioni di una puttanella con le tette gonfie.” disse con un sorrisetto abbozzato, prima di tornare seduta. Mi issai in modo più consono anche io, osservandola alzarsi, estrarre l’infusore, servire la bevanda calda -che, assolutamente, ci voleva- quindi si sedette nella poltrona a schienale alto di fronte al divano, osservando un po’ il fuoco nel camino, accavallando le lunghe gambe e giocando con una delle ciocche libere dello chignon.
Mi mossi sul divano, sentendo qualcosa sotto il sedere. “Oh…” trovai un paio di occhiali sottili “brejle…”
La troia alzò un sopracciglio, prima di rialzarsi e prenderli mentre glieli porgevo. “Li ho lasciati lì prima. Non si sono stortati, tranquilla.”
Inforcò le due lenti sottili, e dopo aver preso il té in una tazza giapponese, con voce tranquilla, si mise a parlare, e io evitai molti commenti provocatori, perché mi sembrava di avere, quasi inavvertitamente, incrinato un’anfora dal quale spillava il vino contenuto.
L’anfora era fuori di testa come poche, ma di sicuro emanava un deciso fascino. Tra il modo di parlare, gesticolare, la sicurezza di sé che indubbiamente aveva (salvo, forse, quel neo di rischiare di passare per un’amorfa viziata piena di soldi), per qualche minuto portò un minimo di interesse in quella giornata che era iniziata e proseguiva decisamente storta.

“E di te, che mi dici?” sussurrò all’improvviso, dopo una lunga pausa, calandosi un po’ gli occhialini sottili sul naso. “Oh, non amo parlare molto di me.” dissi sorridendo, prima di dare un sorso al t&egrave.
“Ho forse detto che devi amare parlare di te? Ho detto ‘che mi dici?’. Il silenzio non &egrave contemplato, se non vuoi fare da nanetto in giardino sotto il temporale.”
Risi. “Cosa vuoi che ti dica. Sono qui in una stanza buia sotto l’acqua con una sconosciuta che ancora non mi ha detto il suo nome, mi ha appena velatamente minacciata per la terza volta nella giornata, direi che il tutto &egrave assurdo come molte altre cose della mia vita.”
“Non sei evidentemente italiana. Slava, direi Ceca, da come pronunci ‘brejle’ direi Boema… Praha?”
Ristetti, colpita.
Sbuffò con il naso. “Bei posti, belle ragazze.”
“Stai cercando di ingraziarmi per avere qualcosa?” dissi con un sollevamento di sopracciglia.
“Non ne ho bisogno.” diede un sorso alla bevanda. “Sarai tu che implorerai di potermi dare qualcosa.”
Calò il silenzio, anche se lo scrosciare di acqua sul tetto dell’edificio e il rumore della legna rendevano meno imbarazzante il momento.

“… Studio biologia, faccio la modella più per soldi che passione, così mi pago spese e affitto, suono in una band che fa cover, così mi pago le birre.” dissi in un soffio, come sentissi l’urgenza, in realtà, di apparire anche io speciale, altezzosa, diversa, o non so cosa.
Quella ragazza mi metteva a disagio, non solo nel suo essere sicura di essere spanne sopra gli altri (non solo fisicamente) quanto perché emanava una tale convinzione, da renderlo un fatto certo, incontrovertibile.
“Cover?” disse, curiosa.
“Rock classico, metal, blues, ma siamo così spiantati che se ci paghi in alcool, facciamo anche le canzoncine ai compleanni dei bambini.”
“Zecchino d’Oro Hammerfall Revival?”
“Quasi” sorrisi.
Fece lo stesso, prima di alzarsi. “Vieni, ti mostro una cosa.”

Passammo in un corridoio con una lunga libreria, fino ad una stanza che tentò di illuminare con la piccola torcia, senza grossi risultati. Vidi nettamente qualche custodia di strumenti musicali, e un pianoforte verticale. Ma soprattutto, un’audioteca vastissima.
“Sei una figlia di papà piena di soldi.” dissi, quasi balbettando, vedendo vinili, musicassette, confezioni di quelli che parevano persino nastri di registrazione, praticamente fino al soffitto. Accanto a me, la sentii sorridere. “La musica &egrave un gene dominante, in famiglia.”
Mi sentii poggiare una mano sulla spalla, e come mi voltai, mi abbrancò il viso tra le sue lunghissime dita, piantando quasi pollice e indice nelle mie guance.
Alla mezza luce della torcia finita per terra, la vidi avvicinare il viso a un millimetro dal mio, e non so spiegare come o perché, la mia voglia di darle un calcio non si esprimeva in un gesto concreto.
“Dammi una ragione per la quale dovrei baciarti.” sussurrò, decisa, provocandomi un brivido sulle braccia e lungo la schiena.
Non risposi, rimasi a fissarla, sconvolta, accorgendomi che in effetti, l’idea di un bacio, non mi era così sgradevole. Passò un lungo pollice sulle mie labbra tremanti, tenendomi il viso alzato con l’indice sotto il mento.
“… Baciami e basta…” sussurrai.
“Non sei convincente.” ironizzò lei, prima che me la tirassi addosso, aprendo la bocca contro la sua al primo impattare delle labbra, forzandola a dischiudersi con la lingua, spalmando il mio muscolo contro il suo, mugolando, strattonandola per la giacca in maniera compulsiva, quasi facendola cadere addosso a me.
La sua lingua diede aspra battaglia, e ci staccammo dopo un bel pezzo, fissandoci quasi ferocemente.
Finii contro la libreria in un istante, dolorosamente, con una mano sul collo e l’altra a tenermi un polso.
“Che cazzo credi di fare, troia?” mi sbraitò contro. “Le puttanelle da due soldi come te non devono permettersi di prendere l’iniziativa con me!” mi lasciò il collo, tossii lievemente, chissà come, per nulla intenzionata a scappare da una psicopatica simile.
“Le troie da due soldi saranno quelle che ti scopi per risparmiare e comprarti dei divani di lusso.” sibilai con un sorriso, facendola scoppiare a ridere.
Era una bella risata, evidentemente non molto usata, quasi nuova di zecca. “Lo ammetto. Mi piaci. ” concesse, prima di prendermi per le spalle e buttarmi a terra. Si sedette praticamente all’istante su di me, e mi trovai la sua mano sulla nuca, e sbattuto il viso dritto nel suo inguine caldo.
“Impara qual’&egrave il tuo posto.” disse, imperiosa, autoritaria, così in alto, lo sguardo di sbieco dietro quelle lenti sottili dalla montatura nera, forse solo una microscopica traccia di divertimento all’angolo della bocca.
Mi colsi ad annusare feticisticamente la stoffa e il suo odore caldo, per niente spiacevole, prima che mi riprendessi e mi spingessi via, cercando di riguadagnare una posizione eretta. Mi lasciò andare, e mentre tornavo in piedi, una spallina del vestito scivolò giù, interessandola.
Sembrava di avere a che fare con un animale dallo sguardo penetrante e affamato. Sentii che volevo quasi spogliarmi per lei, desideravo quasi farlo, non mi capacitavo del come o del perché, ma avvertivo che quello fosse il suo desiderio, e mi intrigava assecondarlo.
Ma quando misi la mano dietro la schiena, per aprire la lampo dell’abito, di colpo tornò la luce.
“Cazz…”
“Vole!” imprecammo quasi in simultanea, mentre un’alogena nella stanza cancellava buio, desideri e ambiguità.
In meno di un minuto suonarono alla porta dell’appartamento insistentemente, la cameriera informò del ritorno della luce, e che la strada non era ingombra, si poteva raggiungere la stazione.
Fu davvero difficile ricomporsi, sembrare normali, con le mutandine pregne sotto l’abito, e quella maledetta che sembrava essere assolutamente al tranquillo comando della situazione, come sempre.
Non ero mai, mai, stata eccitata dal venire trattata con una simile, e cruda, fermezza. Ero abituata ad un reciproco gioco di provocazione, di sostanziale parità di ruoli, quella ragazza invece mi aveva ridotta in uno stato di eccitazione inedito, di fatto trattandomi peggio di uno straccio del pavimento.
Riuscii a imporre la mia decisione di prendere un autobus, non volevo disturbare, la strada pulita, non avrei avuto alcun problema… Lontano da lei.
Un secondo prima di mettere piede fuori dalla villa, mi arrivò una pacca sul culo dritta e decisa, facendomi saltare mezzo metro per lo spavento.
Quando ritornai a terra, squadrai immediatamente la troia di due metri che rideva di gusto. “Volevo salutarti.” disse con un sorriso.
“Grazie! Fanculo!” le risposi, affannata. “Non puoi salutare come tutte le persone normali?”
Mi guardò di sottecchi. “Normali. Non io.” su questo aveva pienamente ragione.

Sfortunatamente l’azienda dei trasporti doveva aver deciso che quella fermata non esisteva, il tempo era proibitivo, o chissà cosa, per cui mi trovai 45 minuti dopo il mio arrivo alla pensilina con l’idea di chiamare un Taxi. E già che stavo spendendo soldi in una giornata di merda, sarei andata a bere nel mio solito pub almeno da poter segnare un punto positivo prima di addormentarmi.
Si accostò alla fermata un’automobile scura, sportiva, verniciatura opaca.

“Allora, dove andiamo?” disse una voce, ironicamente, prima ancora di abbassare del tutto il finestrino oscurato.
“A prendere un taxi.” risposi.
“Posso darti un passaggio.”
“No, grazie, me la cavo da sola.”
“Indubbiamente. Solo che se aspetti il 40, arriverà domattina. Circolazione sospesa, ho visto il loro sito.” asserì calandosi gli occhialetti sul naso dritto, con un’aria velenosamente divertita.
Puttana. Puttana lei, il suo sorrisetto, l’autobus, io, la birra, la pensilina, la giornata, tutto.
Mi arresi, e in pochi minuti mi trovai seduta su un sedile di pelle nera di un’auto che aveva fatto girare il 99% dei presenti davanti a un bar quando ci eravamo passati davanti.

“Posso dirti una cosa?”
“Te lo concedo. Stavolta.”
“Sarebbe molto più facile per te avere delle relazioni ignare e non pregiudicanti che tu sia impaccata di soldi, se evitassi di sbatterlo in faccia costantemente a chiunque.”
“E per quale motivo? Comprarmi un mezzo da due soldi? Abiti all’outlet delle sottomarche? Per raccontare a tutti qualcosa che non sono?”
Tacqui, interdetta. ” ‘oh sì, anche io capisco benissimo dover rappezzare per la sesta volta il cappotto che ho trovato in quel cassonetto, cara’!” disse con voce querula e divertita, gesticolando con una mano affusolata.

“Hai un’idea della vita fuori dalla tua esistenza un po’ caricaturale.” commentai.
“Stavo solo ironizzando.” sibilò. “Ma per me &egrave ugualmente idiota fingere di giocare ai poveretti quando non lo si &egrave. Così come sperperare i propri soldi non appena se ne hanno sottomano, tanto per buttare sul tavolo del bar una borsa di Prada per farsi ammirare dalle amichette. Hai presente di quali individui parlo.”
“… Ho una collega che ha il marito dirigente d’azienda e ti dice che va a farsi le acconciature alla scuola dei parrucchieri perché non ha soldi.” sospirai.
“E che il marito coltiva un orto dietro casa così risparmiano sulla spesa.” aggiunse, stupendomene.
“Esatto! Come…”
“Li conosco. Lui lavora per un’azienda dei miei, e lei credo lavori da voi perché il marito ha annoiato a morte qualcuno.”

Calò il silenzio per un istante, se di silenzio si poteva parlare in un’auto con più cavalli di un allevamento equino.
“… Quin…”
“… Esatto, sono tutti giri di conoscenze. Secondo te perché venite a fare i set in villa così facilmente?” scoppiò a ridere divertita da sé stessa.

Non so perché, esplosi. “… Trovo della sintonia tra noi, &egrave solo difficile rapportarsi a te, quando sembri godere solo del far vedere quanto sei figa!”
“Che diamine ne sai tu di cosa mi fa godere?” rispose aspramente, uscendo da una rotatoria.
“Visto? E’ questo quello che dico, puoi smettere per cinque minuti di essere un’altezzosa egocentrica con la sua macchina rombante?”
“Non sono un’egocentrica altezzosa, sono quello che sono! Non sono altezzosa, sono semplicemente più in alto di voi!” urlò, girando quasi in derapata in una via.

Persi le staffe. “Scusi Sua Altezza, non siamo degni di baciarLe gli stivali!”
Rise sguaiatamente. “Assolutamente! Ci sei arrivata!” calò il silenzio tra noi due, mentre girava e rigirava in diverse strade.
L’auto rallentò bruscamente sotto casa mia, e la troia posteggiò perfettamente parallela al marciapiede. L’auto calò i giri del motore in un brontolio.
“Esattamente, Viktorie.” disse, con il fiato pesante, come confessasse qualcosa. “Per come la vedo io, la società &egrave composta da individui che convivono assieme agli altri, ma sono caratterialmente, o spiritualmente, diversi.”
“Questo &egrave innegabile, ci vedi male nonostante gli occhiali.” sibilai.
“Ma questo non implica che gli individui siano tra di loro paritari. Ci sono gerarchie lavorative, sociali, personali… Chi sta sopra e chi sta sotto. Per me questo si traduce in tutto. Tutto.” sottolineò, guardandomi seriamente.
Finii trascinata contro il suo viso, baciata con foga, quasi un morso dal quale mi staccai con forza, assestandole una sberla, scendendo dall’auto.

“Cosa fai Venerdì sera?” disse alzando un sopracciglio, mentre sotto la pelle della guancia arrossata intuii il passare di una lingua, come se cercasse di controllare di non essersi morsa durante il colpo.
“Cazzi miei!” risposi, chiudendo di colpo la portiera.
Ansimai vedendo il mio riflesso nel vetro scuro, lucido.
Spalancai nuovamente il portello. “Venerdì va bene, stronza!” le urlai, senza guardarla, risbattendo la portiera, passando poi davanti all’auto per entrare nel palazzo.
Sentii il ronzio del finestrino elettrico.
“… Alle nove?” disse, ironica. Le aprii la portiera lato guidatore, urlando. “Alle nove va bene!” e sbattei anche quella portiera. Senza un motivo, ci stava bene. Sorrisi, e la vidi fare lo stesso dallo spiraglio del vetro. Venerdì sera alle nove si posteggiò l’auto scura della troia esattamente davanti ai miei piedi.
“My, my… Viktorie, ci siamo messe in tiro?” disse sarcasticamente, uscendo dall’auto e calandosi un po’ gli occhiali sottili per squadrarmi.
“… Ho pensato che tu non sia assolutamente una che va in un pub a bere una birra urlando ad uno schermo che proietta del rubgy.” dissi con un cenno al mio abito scuro e alle decolleté. Niente di esagerato, ma avrei scommesso che camicia e pantaloni avrebbero suscitato solo critiche.
Salimmo e partimmo per una destinazione sconosciuta, mentre l’auto diffondeva da un ottimo sistema stereo del jazz a basso volume.
“Ho pensato abbastanza a te, ragazza.” disse, guidando.
“Devo preoccuparmene?”
“No. Diciamo che mi sembri una persona che detesta le facciate della gente quanto me. Una che preferirebbe sentirsi dire in faccia quello che pensa, capacissima di punzecchiare e infastidire qualcuno finché non esplode a urlarle i suoi veri pensieri. E di fatto &egrave quello che &egrave accaduto in questa stessa auto, l’altro giorno.”
Ristetti, sinceramente colpita dalle sue osservazioni. Centrata in pieno. Colse il mio sconcerto con uno sbuffo dal naso dritto.
“Perciò, ecco cosa ho pensato, nelle mie lunghe, noiose giornate di ricca ereditiera stronza… Stasera ti porto in un locale a luci rosse. Vedrai cosa &egrave per me il rapporto tra alcune persone, senza maschere, senza filtri. Dopodiché potrai decidere…”
Sorrisi. “Se mi piaci? Oh, la Baronessa ha bisogno di un’amica? Oh, piccina!” la derisi, osservando un muscolo del viso che si contraeva più che infastidito.
“Ti hanno mai detto che sei da afferrare per i capelli e prendere a calci in culo?” ringhiò.
“A cazzi in culo, sì!” Risi brutalmente cogliendo il suo disagio. “Portami nel tuo locale a luci rosse frustini e manette, pervertita… E non dare per scontato che io sia una novizia di un night club! Almeno c’&egrave da bere?”

Oh, ce n’era!
Ed era anche uno dei posti con i barman più competenti che avessi visto. La signorina si aspettava forse un mio disagio più evidente, io, invece, mi sorprendevo del non provare così tanto disagio in un locale in cui la metà dei presenti dava del “lei” a chi gli stava accanto, se non direttamente con i piedi sulla schiena.
Poggiate ad un bancone scuro lucido, in cui solo una striscia di luce blu intensa permetteva di distinguere le forme dei bicchieri e delle ciotole di stuzzichini lasciate qui e là, assaporavo un cocktail ancora a me sconosciuto, che dopo un paio di sorsi scalava posizioni in classifica nelle mie preferenze.
“Carina la tua amica, me la presenti?” spuntò fuori una biondona dalle tette così ritte che avrebbe preso il volo dietro quei palloncini, se non avesse avuto due scarpe con le zeppe da dieci kg l’una.
“Sasha, lei &egrave Viktorie.” disse cordialmente la troia, allungando una mano affusolata a indicare prima lei e poi me, portandosi il suo cocktail alla bocca.
“Domme?”
“Come?”
La mia improbabile accompagnatrice sbuffò nel bicchiere. “Né Domme né Sub. Neutrale… Per ora. Solo una curiosa.”

La biondona si accostò a me. “Oh, mi piacciono le curiose…”
“… Sì, ma non sono interessata, grazie.” risposi seraficamente con il bicchiere in mano.
“Ti fanno schifo le donne??” ribatt&egrave piccata la bocca violacea della Barbie zeppata.
Sorrisi, inclinando il capo per squadrarla curiosamente. “No, no, affatto… Anzi, sono bisessuale.” risposi nel tono più serio possibile, non avendo alcuna intenzione di discutere di presunte discriminazioni che mai avrei avuto.
Ta gueule!! Fammi il favore!” esclamò in un perfetto Francese con un colpo del bicchiere sul bancone, la Baronessa, facendomi trasalire.
“No, non ce l’ho con te, slava, mi sto rivolgendo a Sasha… T’&egrave caduto il cazzo di recente? Perché se ben ricordo…” la mano della ragazza scattò in un fulmine a tastare l’inguine della bionda, spiegazzando una cortissima gonna di lam&egrave. “… Hai una spanna di uccello mezzo moscio ancora inutilmente appeso al tuo silicone!”

“Sei sempre la solita puttana!” sbottò la/il biondona/e, prendendo ed andandosene a mento alto. Non riuscii a trattenermi dal ridere, commentando quanto fosse fuori di testa la signorina accanto a me che ordinava un altro giro dello stesso drink.
“Sasha &egrave un personaggio unico. Ma sa diventare molto pressante con chi le piace, e tu di sicuro le piaci. Almeno per un paio di ore non ti seccherà troppo, poi per quel che mi riguarda, puoi anche concludere la tua serata con le eiaculazioni di Barbie sul viso.”
“…” ristetti.
“Ecco, tieni.” disse lei allungandomi qualcosa sul bancone. Girai tra le dita una tesserina color nero, con una banda magnetica a malapena intuibile. “Un pass?”
“Esatto, goditi il tuo cocktail… Poi, se desideri, vai in quel corridoio, con il pass vip puoi entrare nell’altra sala del locale. Tra una mezz’ora… Non ti trascina nessuno con la corda al collo.” si morse un labbro, provocatoriamente.
“Decidi tu. Lì ci sono io, io… Veramente io.” aggiunse dopo una pausa, alzandosi.
Era uno sguardo davvero serio, profondo e intimo quello che avevo colto nella vaga luce del bancone del bar, per un istante?
Durò giusto un battito di ciglia, prima che mi sorridesse dietro le lenti degli occhiali, e sorrisi anche io.

Inutile dire che la mezz’ora successiva la passai girandomi tra le dita quella piccola carta magnetica pensando a cosa fosse meglio fare.
Da un lato, la inevitabile relativa conoscenza con quella persona allertava la mia diffidenza: un night club &egrave un night club, qualche feticista e un transessuale erano anche gestibili, ma un’area vip, in cui era evidente che si implicassero eventi riservati solo ai più discreti?
Sospirai, pensando che in realtà la ragazza mi aveva messo davanti a un bivio. Non approfondire, e quindi implicitamente dimostrare che non mi importasse di conoscerla (e quindi, forse, chiudere la nostra reciproca scoperta?) dall’altro ammettere la curiosità e la disponibilità a vederla senza filtri.
“Temo, Vik, che lei non sia una persona molto aperta.” mi disse la mia coscienza. “Mettiti nei suoi panni.”
“Nei suoi panni? In cui sicuramente andrei corta di altezza e stretta di forme…” risposi a me stessa.
Ma finendo il mio drink presi la mia decisione. Questa persona, decisamente poco comune, stava lasciandomi entrare nella sua sfera privata, e considerando il soggetto, non doveva essere qualcosa di quotidiano per lei. Sarebbe stato estremamente scortese lasciare un invito simile cadere nel vuoto.

Il corridoio in cui mi infilai dava molto presto ad una porta accanto la quale stava una ragazza riccia molto impostata, che si limitò a squadrarmi finché non fui a un paio di passi da lei e le alzai la tessera quasi davanti al viso.
Senza dire niente la prese, la passò in un lettore, e lo scattare della porta accompagnò il suo sorriso composto nel ridarmi la tessera.
Passai la porta sentendomi quasi dentro un videogioco: il corridoio, la chiave, un altro pezzo di corridoio e la stanza in cui accedevo richiamavano, seppure con eleganza e senza torce e catene alle pareti, le viscere di qualche labirinto.
“A saperlo, mi attrezzavo di spada e scudo” sorrisi a me stessa incrociando due donne dalla lunga coda di cavallo parlare di una stanza del dungeon occupata. Un uomo di mezza età si accostò a me con fare titubante.
“Mi scusi” “… Mi dica.”
“E’ la prima volta che vengo qui, sono un po’ disorientato.”
Sorrisi. “Anche io. Mi &egrave stato dato un appuntamento una mezzora fa da una ragazza, ma non ho indicazioni molto precise.”
L’ometto, con un sorriso imbarazzato e qualche goccia di sudore (in effetti, faceva molto caldo) agitò le mani nell’aria. “Sa, sono qui per lavoro, mi hanno dato un pass per questo locale tra i vari omaggi, non pensavo…”
E’ prassi, effettivamente, per alcune aziende, quella di omaggiare clienti importanti con dei buoni per cene in locali rinomati, spettacoli di sorta, o anche ingressi a certi altri locali. Mentirei se dicessi che non ho spedito, nella mia attività di PR, diverse persone a bere a spese (e con beneplacito) dell’azienda in qualche locale. Spesa minima, grande impatto sul cliente.
“… Senta, lavoro per un’agenzia, so come funziona” dissi sorridendo. “le hanno dato un ingresso a un night club e lei si &egrave concesso una serata diversa dal solito. Un paio di drink e qualche culo.”
L’ometto rise nervosamente. “Azzeccato!”
“Le consiglio solo di non farsi fregare: qualcuno con cui deve firmare qualche contratto non ha remore a sfruttare il suo imbarazzo, se non direttamente qualche foto. Se fossi in lei, eviterei di ficcare una banconota nel perizoma di qualche stripper, prima di avere una Polaroid sul tavolo domattina.” dissi quasi sussurrandogli nell’orecchio.
L’ometto quasi mi guardò reverenzialmente, come se avesse un’illuminazione improvvisa. “… A dire il vero, comunque, mi avevano parlato di uno spettacolo.”
“Andiamo, allora.” dissi dirigendomi verso un gruppo di persone a fine del corridoio.
Rivolgendomi a loro, scoprii che effettivamente in una sala a lato corridoio vi era una sessione di arte di legature giapponesi, e il mio cervello fece due più due: ricordai non solo alcune opere orientali nell’appartamento della ragazza, ma anche la sua allusiva battuta sulla corda al collo.

La sala era di medie dimensioni accogliente, tavolini e sedie attorno a quello che era come un piccolo palco con sipario, e ovviamente ero arrivata in ritardo, a giudicare da cosa vidi su quel palco.
Il mio vocabolario mancava totalmente di termini precisi per descrivere la scena, che mentalizzai come “c’&egrave una tizia bendata e in perizoma legata come un salame al soffitto”.
Il primo impatto fu quello. Il secondo istante arrivò una sensazione di pericolo, che passò subito notando come la ragazza non fosse minimament dispiaciuta della cosa.
Al terzo momento, realizzai che la donna era avviluppata da un intrico di passanti, nodi, geometrie, un arabesco complicatissimo che ne decorava e sosteneva il corpo nudo e pallido, esponendone le nudità a tutti gli astanti.
La bocca era lucida di saliva, mentre dei denti candidi quasi mordevano l’aria circostante, come a riprendersi da un’emozione subitanea, mentre una mano tremava leggermente, nel dondolio delle corde.

“Good pain?” sussurrò una voce sottilissima fuori scena.
La donna dai capelli castani balbettò qualcosa assertivamente.
“I not will proceed further.” sussurrò di nuovo la voce, facendo piagnucolare la vittima.

“Go… Good pain, good pain!” disse chiaramente. Intuii che la torturatrice, tale era l’unico termine che mi veniva alla mente, stava procedendo solo quando sicura che la sua vittima non avesse problemi. “dolore buono”, che assurdità.
Tuttavia mi rassicurò vedere che questa legatura giapponese, di cui vagamente avevo sentito parlare, sembrava svolgersi in perfetta quiete, e spontanea volontà della donna-salame appesa.
Ma fu quasi con uno squittio di sorpresa che vidi, improvvisamente illuminata da un piccolo spot sopra il palcoscenico, una figura inconfondibile che giaceva sostenuta da un’altra legatura non troppo distante dalla prima.
Corde chiare pendevano dal soffitto sostenendo quello che pareva un trapezio, come quelli del circo o per danza moderna, a cui stava mollemente adagiata “la Baronessa”. Con una lunga gamba a penzoloni, il viso appoggiato a una mano, come fosse sul suo costoso divano di casa a guardare la televisione annoiata, fissava quella donna bendata come a decidere che farsene.

Con lentezza si mise seduta come se fosse su un’altalena, per lasciarsi cadere all’indietro e rimanere appesa per le gambe. Un esercizio che a danza moderna viene insegnato dopo diversi mesi di allenamento. Non l’avrei mai, mai, mai, fatta così atletica.
No, atletica non era la parola giusta, io ero atletica, lei era come… Come un meccanismo perfettamente oliato.
“My, my…” disse, e ne intuii il sorriso divertito, prima che si riportasse con le mani sul trapezio e quindi toccasse nuovamente terra.
Un incrocio perverso tra una sala delle torture e uno spettacolo circense. In un night club in cui la mia unica conoscente stava afferrando una corda che si divideva dopo un nodo, e con altre legature formava quasi un rombo sull’inguine della donna
La castana sussultò con un miagolio. La corda non doveva evidentemente sostenere del peso, perché la Baronessa cominciò a farla scorrere lentamente tra le cosce della donna. Il miagolio divenne in pochi secondi un ansimare molto convinto, e se lo sguardo non mi ingannava, il tessuto dell’intimo si stava poco alla volta inumidendo.
Intuii che le corde stavano massaggiando la vulva, e forse la clitoride, della donna, che urlò molto poco di dolore quando le lunghe dita della mano libera della torturatrice le diedero un colpo a uno dei grossi e turgidi capezzoli.
“Ahi…” sibilò qualcuno nella sala, facendo voltare con aria irosa e terribile la donna in piedi. Fu così che mi resi conto di come indossasse un top scuro che le donava un ‘underboob’ che poteva passare per vagamente raffinato solo per una donna con ben poco seno. Pantaloni aderenti fasciavano lunghe gambe al cui termine due piedi nudi la reggevano sulle punte, come se avesse avuto bisogno di elevarsi ancora di più.
La Baronessa allungò la mano indicando il commentatore inopportuno, per fare segno verso la porta da cui ero entrata, in un muto segnale di “se devi commentare, fallo fuori”. Nell’inquadrare l’ingresso, però, evidentemente mi vide, e a un lampo negli occhi sottili si aggiunse un suo mordersi il labbro ingolosita.
“Ti faccio vedere di cosa sono capace” sembrò dirmi con un sorriso, a cui, anche se non vista, risposi sorridendo anche io.

Iniziò così una lentissima danza attorno alla “malcapitata”, nella quale si alternavano momenti di stimolazione del suo sesso, a tocchi leggeri e strascicati sulle sue forme, intervallati da brevi fraseggi tra le due. La Baronessa, sensualmente, appurava spesso che la sua vittima non avesse problemi con le legature, e altrettanto spesso rivendicava la sua possessione della donna senza ascoltare le sue suppliche di proseguire con la masturbazione, o di fermarsi.
“I’m the only entitled of your pleasure, or your pain.” disse con autorità la Baronessa quando la sua vittima le implorò di non fermare l’ennesima stimolazione al suo inguine. Con la bocca a un millimetro dall’orecchio, estrasse una lingua puntuta che andò a solleticare il padiglione, e a titillare dolcemente il foro auricolare. Mi parve quasi di sentire quel muscolo guizzante su di me, tanto cominciava a coinvolgermi lo spettacolo, e rabbrividii anche se provavo solo vampate di calore pervadermi.
Mi accorsi che se le mia mente era rimasta all’erta tutto il tempo, nel cogliere novità della situazione e dello spettacolo, il mio fisico stava reagendo quanto la donna sul palco, ergendo i capezzoli sotto il reggiseno, e solleticando il mio inguine. Mi trovai fastidiosamente, e inopportunamente, eccitata.
Stirandosi come un animale feroce, spietato e letale nel suo territorio, la mia “amica” si portò alle spalle della vittima, riafferrando la legatura, e procedendo di nuovo alla tortura. Non scorderò mai lo sguardo compiaciuto, sadico, intenso, che piantava addosso a quella donna, la sua mano a stringerle delicatamente il collo per avvertirne le pulsazioni, i movimenti, lei, la vittima, le corde, erano una cosa unica.

Sembrò che il percorso continuamente e crudelmente interrotto della donna verso l’orgasmo giungesse ad un rush finale, la corda tendeva, stimolava, e intuii che uno dei nodi che erano sparsi sulla sua lunghezza, servisse proprio a impattare sulla clitoride di quella sventurata (diciamo così…) che miagolava e uggiolava come un animale, ansimando per il suo piacere.
Si avvertì quasi l’arrivo al picco di piacere, quell’istante dopo il quale niente &egrave più recuperabile, quasi potevo sentire dentro di me le medesime sensazioni della donna, trattenni il fiato con un labbro tremante, quando…

Quando la torturatrice smise subitaneamente di agire, scostandosi, e portandosi al fianco della donna, che tremava sul culmine del suo piacere, facendo ondeggiare tutte le legature, e balbettando qualcosa che era evidentemente una preghiera.
“No…” sibilò la Baronessa, facendo scoppiare a piangere la donna di colpo “…t yet.” concluse, sorridendo -ci avrei giurato- al mio indirizzo. Ma mentre, allungando una mano sull’inguine della donna faceva prospettare a chiunque lì presente di assistere all’orgasmo della sua vittima, le luci si spensero di colpo, non solo quelle del palco, ma anche le poche, soffusissime, della sala.
Nel nero più totale, sentimmo il gaudente, possente e delirante piacere della vittima squarciare il brusio di voci disorientate, prima che anche qualcuno osasse un qualche applauso.

Quando l’illuminazione delicata tornò nella sala, mi trovai quasi nell’urgenza di correre in bagno, indicatomi da una delle cameriere del locale, e chiusami nella piccola stanza, crollai seduta sul water. Constatai che la mia vagina non era solo felice, era entusiasta, era una produttrice di nettare convintissima da quello a cui aveva assistito, complice forse anche il periodo ormonale di picco.
Mi sistemai al meglio, tornando dopo diversi minuti nella saletta, non sapendo dove recarmi. Mi misi ad un tavolino, con la sensazione di dover bruciare le mie mutande dal fastidio che mi davano, e ordinai da bere, rimanendo strabiliata del fatto che non dovessi pagare, ma sarebbe stato scalato dalla mia carta, che avevo poggiato sul tavolo, con un rapido gesto di un lettore.
“Ma io non ho credito sulla carta” provai a dire, in imbarazzo, mentre l’aggeggio lampeggiava un istante di led verde.
“Non posso vedere il suo credito, ma per questa ordinazione ce n’era!” disse la cameriera con un guizzo di sorriso e seni, e si defilò.
Dieci minuti più tardi senza alcun mezzo termine, si buttò sul divanetto del tavolo la Baronessa con uno sbuffo soddisfatto.

“Ehi…” riuscii a balbettare “… Ehi!!” inveii, mentre si allungava a rubare il bicchiere e ne dava due poderose sorsate dalla cannuccia, con espressione poco convinta.
Nique ta mere…” bofonchiò ridandomi il drink “… Di tutte le miscele, un Long Island sei andata a scegliere.”
“Che problema c’&egrave?” sorrisi sporgendomi verso di lei “La Baronessa non sopporta l’alcol?”
Lunghe dita mi afferrarono per il mento, quasi facendo prendere fuoco alle mie mutande.
“La Baronessa non sopporta miscele in cui si prendono a caso dieci spiriti e li si buttano tutti assieme in un bicchiere, &egrave come un bollito misto di un cuoco improvvisato.”
“… Siamo anche d’accordo, ma avevo voglia di un long island… Se vuoi qualcosa, prenditelo da sola”. risposi divincolandomi e tornando al mio bicchiere.
Ci volle poco perché sentissi la sua bocca sul mio orecchio. “Questo &egrave un invito, vero?” disse sorridendo. “Questo &egrave un invito, vero?” disse sorridendo.

Lo era. Lo era tanto da lasciare il bicchiere del Long Island finito al volo sul tavolo, lo era tanto da buttarsi in bagno, nello stanzino di prima, a baciarci, toccarci, quasi morderci.
“Questo bagno non &egrave degno di vederci assieme” disse affannata dopo l’ennesimo assalto, per cui quasi benedissi i tacchi alti che mi permettevano di arrivare più agevolmente alla sua bocca.
Mi sentii una mano sull’inguine senza mezzi termini. “… My… Tienila così fino a casa, anzi…” la mano dalle lunghe dita, intrufolandosi nello spacco dell’abito, spostò la stoffa del mio intimo fino a farla scorrere tra le mie grandi labbra, e con un paio di movimenti la portò a piazzarsi nel piccolo solco.
Una posizione scomodissima ma resa eccitantissima, che mi costingeva a tenere le gambe un po’ chiuse e solleticava costantemente la clitoride ad ogni movimento.
“Non osare sistemarle. Loro sono mie.” sibilò, imperativa.
“Ora usciremo da qui e andremo in auto, e ogni passo che farai con quei tacchi dubito ti sarà di aiuto nel non solleticare questa fichetta allagata.”
Le diedi retta, uscimmo dal locale, e l’inevitabile movimento di bacino ancora più accentuato dalle calzature mi fece arrivare sul sedile del passeggero quasi con le lacrime agli occhi, in un misto di fastidio e piacere.

Istintivamente avrei voluto sistemarmi, dacché lo sfregamento, anche se lieve, era quasi irritante. Ma al contempo la mia voglia di resistere, di non cedere, di dimostrarmi all’altezza di reggere il confronto con Lei, mi portava a non infilare la mano sotto il vestito. E queste sensazioni contrastanti, il non voler obbedire, l’obbedire, la stimolazione, l’essere soggiogata da lei, mi eccitavano. Ed eccitandomi inturgidivano il mio sesso, e la mia clitoride sensibilizzata, subivano la tortura. portandomi alle sensazioni contrastanti. Un ciclo che si chiudeva da solo, continuamente autoalimentato, che mi portava ad un tremore nelle gambe e un sorriso in volto.
“Ti odio…” dissi quasi mordendomi un labbro, perché i movimenti per camminare e sedermi avevano tirato ancora di più il tessuto anche dietro nel solco tra le natiche.
Non capii la direzione che stavamo prendendo finché non arrivammo sotto casa mia, e la guardai interrogativamente, mentre toglieva le chiavi dal quadro e fissava avanti a sé.

“Credo che tutto questo sia molto nuovo per te. Forse giocare in casa sarà meglio.”
“… Io ho dei coinquilini…” balbettai. Non che vivessi con delle persone totalmente all’oscuro delle mie frequentazioni, o una caserma di moralità per cui ogni attività sessuale privata fosse bandita, ma i momenti di reale intimità senza disturbo non erano così frequenti.
La Baronessa sorrise lievemente, fissandomi con un’aria letale. “Se sono disponibili, possiamo organizzare qualcosa assieme…”
“Non… Non sono in casa questo weekend.”
“Allora non hai coinquilini.” proferì la sua voce mentre già scendeva dall’auto.
Con il cuore a mille uscii dall’abitacolo, con una lacrima solitaria stillata da un occhio che rigava il volto. Non so perché quella situazione mi mettesse così a disagio, probabilmente era la mia totale, inedita sottomissione a Lei.
Non era una sveltina in cui qualcuno mi trascinava in uno stanzino per una copula improvvisa e consenziente, non era una sosta in auto in una strada isolata per approfittare di un cofano caldo, era Lei che mi voleva, e anche senza corde e schiaffi, stava dettando le condizioni. Con la fica fradicia, tremebonda, portata in casa mia, dove voleva Lei. La razionalità di dover aprire la porta del palazzo, chiamare l’ascensore, calmò lievemente i miei bollori, abbastanza da soffiarle, piegandomi leggermente appena entrata nella cabina con lei: “tu mi vuoi in casa mia per dimostrare che tutto quello che vuoi ti &egrave permesso… Violarmi nella mia abitazione, nel mio intimo a… Più livelli… Io sono tua, casa mia &egrave tua, &egrave così?”

Da dietro le lenti sottili un lampo di eccitazione balenò nei suoi occhi. “I miei complimenti, Viktorie.” Sorrisi di rimando, calandomi nel contempo le mutande (con un discreto fastidio, e sullo stato delle quali sorvolo) e tenendole in mano.
“Non sarò mai la tua puttanella come quella tizia legata come un salame di prima, troia senza nome.” le soffiai in viso, approfittando della porta che si apriva al piano per lasciarle cadere sulla sua spalla, e uscirmene.
Non sarei mai, mai, entrata in casa mia come il suo colante cagnolino. Certo mi faceva impazzire, certo la mia mente spasimava per poter godere di, e con, lei, ma era una questione fondamentale per me. L’immagine di una sottomessa avviluppata in corde davanti al pubblico ludibrio mi marchiava i pensieri come qualcosa da evitare, che non volevo essere, men che meno con Lei.

Fortunatamente, l’ultimo dei miei coinquilini ad andare a casa sapeva che sarei tornata la sera, e non si premurò né di chiudere tutte le serrature della porta, né di inserire l’allarme, dato che nell’istante stesso in cui la porta si apriva, una massa umana vi si gettava dentro, e una gamba lunghissima chiudeva la porta con un calcio.
Una mano sulla bocca, la schiena al muro, la Baronessa mi sibilò “Chiedi se c’&egrave qualcuno in casa.” la sua mano si staccò dalla mia bocca più orientata a darle un morso che altro.
“… Eh… Ehi!! C’&egrave qualcuno??” nessuna risposta. I suoi occhi mi squadrarono per un istante.
“Le camere sono sul corridoio…” balbettai. “… Non possono non aver sentito.”
“Giuralo.”
“Lo giuro, due coinquiline sono via da ieri, il terzo partiva questa sera, non ci sono le chiavi appese.” stavo cominciando a temere un po’ troppo queste domande. Erano solo la sua solita necessità di avere tutto sotto controllo, o la sensazione di pericolo che mi solleticava lo stomaco era giustificata?
Strinsi un pugno istintivamente, riflettendo che forse le cose non stessero per mettersi bene, mentre lo sguardo della Baronessa saettava nel corridoio da cui avrebbero potuto fare capolino i miei coinquilini, e capii.

“Nonostante la falcata… Hai fatto il passo più lungo della gamba.” bofonchiai con la bocca appena sotto la sua mano. Mi guardò ferocemente.
“Ti disturba questo ambiente che non conosci. Non hai totale controllo. Sei fuori dal tuo ambiente.” era come a lezione in Università, comportamento animale.
“Stai zitta.” Sibilò. Scoppiai a ridere.
Allora, dopo tutto, era umana! Approfittai del suo momento di stallo per spingere via la sua mano, prenderle il magro viso tra le mie, e scoccarle un bacio lento, e dolce. “Vieni.”
Sì, ecco, avevo del controllo anche io! L’immagine di me come la donna-cotechino appesa si fece più lontana. La trascinai per il bavero del suo indumento per imprimerle un movimento lungo il corridoio, e ancheggiando sentii che mi veniva dietro, sorrisi compiaciuta.

“Camera numero uno!” sentenziai, spalancando una stanza vuota e piuttosto ordinata in cui risiedeva uno dei coinquilini. Fissandola, mi calai le spalline dell’abito, che erano già state issate e ammainate diverse volte quella sera.
Mi incamminai verso la seconda stanza. “Camera numero due… Vuota!” sottolineai con un gesto della mano mostrando la stanza in cui risiedevano le mie due coinquiline, prima di portarmela dietro la schiena, e non senza una piccola difficoltà, calare la zip dell’abito. Ovviamente, questo si afflosciò a terra, e mentre mi dirigevo verso l’ultima stanza, sentii i suoi passi fermarsi a raccogliere l’abito.
Mi fermai di fronte alla mia porta, per poi girare su me stessa, poggiarvi la schiena, quasi con la maniglia nella carne. “Stanza numero tre, qui c’&egrave qualcuno.”
Portandosi lentamente di fronte a me, Lei troneggiava in tutta la sua altezza, alzando un sopracciglio. Si avvicinò, predatoriamente, per baciarmi, ma mi girai di scatto dandole le spalle, perché slacciasse i gancetti del reggiseno.
“Non sei capace da sola?” sorrise quasi sul mio orecchio.
“Sto lasciandoti il controllo, vediamo cosa sai fare…” sospirai a occhi chiusi contro la porta. “… Sempre che tu abbia idea di come si slaccia un reggiseno, vista quella tavola da surf che sei.” ghignai, e quasi urlai dallo spavento mentre venivo sbattuta contro la porta. Una mano si impadronì della fascia del reggiseno, tirandola verso di s&egrave, come un guinzaglio. La pressione non rese i ferretti delle coppe particolarmente garbati nei confronti dei miei seni.
“…Zzo…” imprecai, non so se per il fastidio, o per il sentore che il mio sesso ormai all’aria stesse quasi per sbrodolare. Non mi ero mai, mai, mai, sentita così.
E non avevo mai, mai, mai, sentito una lingua così delicata scorrermi dall’incavo della spalla, su per il collo, fino a lambire con precisione il mio orecchio. Si fermò lasciandomi un brivido, sussurrandomi pianissimo.
“Piccola regola della Sottomissione, stronzetta: nei limiti, che mi autoimpongo, del non provocare ferite, e di non sfociare nella violenza, il tuo piacere &egrave principalmente nell’obbedirmi. Non nel fare o subire tutto quello che ti &egrave gradito. Io provo divertimento in qualcosa, lo realizzo. Tu sei solo degna di godere dell’essere lo strumento del piacere di chi comanda.”
Sbuffai dal naso. “Dovrebbe eccitarmi il non essere altro che uno strumento di… Glorificazione del tuo smisurato ego?”
Sentii che quasi ridacchiava. “Non propriamente, ma in questo preciso momento… Sì. Sei una preda, il tuo destino &egrave solo quello di nutrirmi.”
“Forse sono tossica.” sorrisi quasi con la faccia nel legno della porta, ma rimasi sorpresa nel sentire un lieve colpo di piede tra le gambe, quasi da perquisizione. Istintivamente le aprii per mantenere l’equilibrio, e sussultai nel sentire la sua mano sul sedere.
Lentamente, troppo lentamente, le lunghe dita scivolarono nel solco tra le natiche, e mentre si facevano strada verso il basso, mossi il bacino in su. Il che portò seni e ferretti ancora di più tirati dalla sua presa, e schiacciati contro la porta, ma non ci badai quasi, era puro istinto.
Ero estraniata da tutto, desiderosa solo di portare il mio sesso in fibrillazione più vicino alla sua mano, e non so come non esplosi al suo delicatissimo sfiorarmi.
Tocciò un dito sottile senza fretta, per poi allontanarsi. Piagnucolai molto udibilmente, e mentre la sentivo muovere la mano alla mia sinistra girai non senza difficoltà il viso nell’altra direzione, trovandomi davanti la sua mano su cui rilucevano alcuni umori. Riconobbi facilmente il mio odore, e la guardai estasiata e quasi invidiosa mentre avvicinava la sua bocca, e lentamente si suggeva un dito, come una sommelier che degusti attentamente un vino sconosciuto.
Sorrise lievemente con un luccichio dietro le lenti. “Non sei tossica. Per niente. Edibile.” Fu un lampo, e sentii la sua arcata dentale premersi nell’incavo della mia spalla, sospirai con un lieve dolore, che risvegliò dal torpore dei sensi la mia ironia. “Di sicuro tu sei velenosa.”
“Mh…” mugolò senza lasciare la presa. “Mi stai chiaramente avvelenando, iniettando qualcosa… Cosa &egrave questa sensazione?” sospirai. “… Mi fai impazzire, e non c’&egrave niente in tutto questo che dovrebbe farlo, non amo queste cose…”
Mi accorsi che quasi volevo piangere.

Ero giovane (più di lei? E se sì, di quanto?) e fin dall’adolescenza, dalla scoperta del sesso, dall’apprendere quanto il mio corpo eccitasse gli altri e le altre, avevo sempre goduto di una certa posizione di dominanza. I ragazzi al Liceo erano allibiti dalla loro prima compagna di classe a caricare due seni propriamente detti, all’Università la libertà inedita di molti e molte di loro si mescolava facilmente alla mia facile lussuria. E anche se studiavo e non volevo certo fare la bella fica di lavoro, l’aspetto fisico non giocava molto a mio sfavore in molte situazioni. Insomma, era più facile che qualcuno mi corresse dietro piuttosto che trovarmi a spasimare e sospirare per qualcuno.
Ma ora, Lei.
Ero sbattuta contro la porta di casa mia a piagnucolare che mi scopasse, e non era la voglia di scopata con qualcuno che desideri, che hai irretito. Non era un bel figo che volevo portarmi a letto, e sì sarei anche stata sbattuta al muro, ma per mia volontà, per mio controllo. Potevo essere la troietta di qualcuno, ma qualcuno che avrebbe solo ringraziato a gran voce di avermi.
Ma ora, Lei.
Era eccitata? Sicuro. Ma in modo diverso, quasi distaccato, avvertivo chiaramente che in quel caso IO ero la tacca sul suo fucile, e niente di più. D’altronde nella stessa serata quelle stesse dita si erano infilate (presumevo) nella fica implorante di quella donna-cotechino appesa. O me, o un’altra fica. Mi sentivo, egoisticamente, distrutta.

“Buttami sul letto e scopami…” piagnucolai, ma lei non si mosse. “… Ti prego.” staccò il suo morso per rispondermi.
“Vuoi che lo faccia perché così ti sentirai, almeno, una figa che io desidero?”
“Sì!” Urlai, dimenandomi, cercando di aprire la porta, ma la mano finì bloccata dalle sue dita, ancora umide della sua bocca.
Rise di gusto. “Ti senti davvero una tra le mille e mille possibili? Tu o un’altra, &egrave uguale?”
Annuii.
“E io invece sono l’Unica, vero?”
Annuii di nuovo.
“Non sei assolutamente niente, se non per essere il mio giocattolo riluttante. Di stasera.” Inspirò profondamente, come a inebriarsi di quella frantumazione del mio ego che mi faceva stare così male. E contemporaneamente, liberatoriamente, letteralmente colare piacere lungo la coscia.
“Aspettavo solo che tu abbracciassi questa sensazione, almeno per un attimo, così… Inedita per te.” sorrise sadicamente a un millimetro da me. La fissai, libera da ogni maschera che cercavo sempre di indossare.

E qui, avvenne qualcosa che tutt’ora ad anni di distanza non saprei spiegare. Mi lesse chiaramente dentro.
Mi fissò, e la sua espressione divenne per un istante curiosa, e in un momento, la vidi totalmente disorientata, quasi terrorizzata.
“C’&egrave qualcosa di inedito tra la sensazione di ‘essere un giocattolo riluttante di qualcuno’, e il ‘provarne piacere’.” Cercai di sdrammatizzare.
“… Non…” disse sottovoce.
Mi urtò la mia voce rotta. “… E’ che sia piacevole.”
Finii gettata in camera, la porta sbatt&egrave con una potenza tale per cui il rischio non fu di svegliare coinquilini inesistenti, ma l’intera scala del palazzo, il reggiseno volò via, impattai nel letto nuda, colante, probabilmente con i tacchi che massacravano il copriletto, ma con Lei sopra, non c’era altro a cui potessi pensare.
Ci baciammo, stringemmo, tentai di spogliarla e scioglierle i capelli, ma mi fermò.

Ansante, si rimise in piedi, aggiustandosi gli abiti. Benedissi di non aver abbassato la tapparella, così la fastidiosissima luce della strada mi permise di ammirare la sua espressione scornata mentre si sistemava la crocchia.
“My, Viktorie… Io ti porto a casa come l’ennesima troietta recalcitrante e desiderosa di leccarmi i piedi per la prima volta, e finiamo ad essere così sentimentali?”
Risi. Risi davvero, nonostante quel che di me le avevo rivelato.
“Ma io sono desiderosa di leccarti i piedi!” mi portai un dito alla bocca con espressione vogliosa.
“…”
Risi di nuovo. “D’accordo, la cosa mi fa un po’ schifo, chissà che odore con quegli stivali di plastica…”
“Saresti sorpresa di quante gradiscono. Ed &egrave vera pelle, zoccola da outlet.” sibilò, divertita.
Scesi dal letto con una reverenza da ballerina. “Per stasera, la Sua zoccola da outlet… Mia Mistress.” Ci fu un istante di silenzio dopo le mie parole. Accettai il mio ruolo per quella sera, abbracciando la novità della situazione, e conscia, non so come, che sarei stata estremamente rispettata.
Una zoccola, la Sua zoccola, solo per quella sera. Mi sarei divertita.
La Baronessa, o dovrei ora definirla la Mia Mistress, optò per il poco regale trono della mia sedia alla scrivania, portandola velocemente dietro di sé, e poggiandovi il culo sodo con aria seria, dritta e altera.
“Per stasera.” disse con un tono distaccato.
“Quasi fosse un evento eccezionale…” ghignai, la cosa eccitava me, ma eccitava anche lei. Inclinò la testa guardandomi di sbieco. “… In parte lo &egrave.” in effetti, convenni, lo era. Nessuna era la tacca al fucile di nessuna.
“… In ginocchio, qui.” disse perentoria, feci come mi diceva. La sensazione di bagnato nel mio inguine era una tortura. Abbassai lo sguardo istintivamente, la punta del suo stivale provvide a rialzare il mento.
“Niente segni. Niente contro… La tua volontà. Safeword?” Non capii. “Una parola di sicurezza. Se andrò oltre in qualcosa, il tuo pulsante d’emergenza. Mi fermerò immediatamente.”
“…” non dissi nulla.
“Il nome del tuo cane, una parola a caso, qualcosa che non diresti se non per fermarmi.”
“… Basta?”
Sbuffò indispettita. “Connasse! Quante volte potresti dire ‘basta’ per caso?” si calmò e si piegò verso di me a dita giunte, come per esplicare a una bambina un concetto.
“Una parola che non puoi dire per caso mentre farò sbrodolare la tua inutile vagina. basta, ti prego, ancora, no, sono tutte cose che potresti dire, la Safeword &egrave qualcosa che pronunci solo per impormi uno stop.”
Tavola da surf.” sibilai sorridendo, ammirando per la prima volta la sua espressione spazientita.
“… E sia.” sospirò facendomi ridere. “Zitta.” ordinò, e smisi.

Si sistemò nuovamente sul suo trono, facendomi attendere. “Sguardo a terra. Apri un po’ le cosce.” lo feci, si alzò e mi girò attorno per un paio di volte, prima di piazzarsi dietro di me. Non avvertii che dei rumori, che identificai come quelli del suo levarsi gli stivali solo quando avvertii il suo collant insinuarsi nel mio inguine. D’istinto cercai, esasperata dall’eccitazione, di scivolare con il sesso sulla stoffa, ma dopo un paio di tentativi in cui il gesto le faceva togliere immediatamente il piede, rinunciai.
“Capisci in fretta, zoccola.”
Iniziò così a sfiorare con una delicatezza chirurgica il mio sesso, e non saprete mai la voglia di toccarmi ed esplodere che avevo. Ma mi imposi dolorosamente di resistere. Ansimai, cercando di distrarmi, provai a fissare la luce del mio computer che lampeggiava in stand-by, ma mi accorsi presto della sua capacità di smettere di solleticarmi quando avvertiva il mio piacere crescere.
Io mi ritenevo brava nel tenere sulle spine qualcuno, ma lei era una fottuta artista. E mi portò a un punto di stallo, lasciando scorrere via il piede, ritornando di fronte a me, e se dicessi che avevo la bava alla bocca, non sarebbe una figura retorica.
“Cazzo, legami le mani altrimenti me le butto nella fica!” le urlai quasi, finendo con il viso tirato su per i capelli. Il dolore, diminuì l’esigenza di godere. “Tu non farai proprio niente di tua iniziativa, zoccola. E’ questo il concetto.” sentii la sua voce insultarmi mentre lasciava le mie ciocche. I piedi si posizionarono uno su una mano, l’altro sull’altra, premendo non troppo delicatamente. “Mi appartengono.”
“… Mi fai male…” implorai. “… Non sono tue. Non possono farti male.”
Alzai la testa sul punto di tirare via le mani, forse farla cadere, e prenderla a pugni. “Se sono tue, allora TI fai male. Sei scema?” Tornò a sedersi, accavallando le lunghissime gambe.
“Tu non hai capito il concetto, zoccola. Io sono la tua Mistress, non devo giustificare logicamente ogni mia mossa.” spalancò le braccia “tutto quello che voglio fare, lo faccio, non compete a te capirlo!”

Fu molto rapida, nell’alzarsi e prendendomi per una spalla, ribaltarmi e buttarmi schiena a terra. Dando dei gran colpi di tacco con i piedi per cercare di fare presa e rialzarmi, le mie mani afferrarono il suo piede che in un istante si era posizionato sul mio collo.
“Tu sei uno zerbino. Tu sei uno scendiletto. Apprezza di avere per la prima volta trovato il tuo posto nel mondo, Viktorie.”
“Sei pazza.” le ringhiai contro. “Sono la tua Mistress. Esulo dalle classificazioni, zoccola.”
“La prego Mistress, tolga il suo piede.” sussurrai. Se non lo avesse fatto, l’avrei tirata a terra. Non lo fece. Non la tirai a terra.
Spostò solo il piede, scorrendo sul mio decolleté, tra i seni, e si fermò sul pancino. Doveva essere comodo avere due gambe lunghe così in questi casi. Premette lievemente con il tallone sul plesso solare, imprecai in madrelingua, tolse il piede.
“Così vomito, puttana!” tossii, fecendo per rialzarmi, ma letteralmente mi si sedette in faccia, come in casa sua qualche giorno prima.
“Emetofilia? Estremo. Ma se ti piace…” ghignò da qualche parte, la mia visuale era coperta dal suo inguine.
“A terra. Occhi chiusi.” impose, rialzandosi un istante dopo. Mi misi le mani sugli occhi, conscia che di sicuro se avessi sbriciato mi avrebbe colta in fallo immediatamente. Sentii rumori di stoffa, e quando disse piano “puoi guardare.” vidi che si era tolta la camicia e i pantaloni, posandoli ordinatamente sullo schienale della sedia.
Toccò quindi ai collant, che finirono come un giocattolo rigirato nelle sue mani, mentre mi guardava dietro le lenti dei suoi occhiali.

Con un fisico simile, avrebbe potuto lavorare nella mia agenzia, e l’avrebbero anche pagata più che profumatamente. Altissima, tonica, snella, proporzionata, con un reggiseno semplice senza spalline (un lusso che io con le mie forme non potevo concedermi) un accenno di muscolatura che grazie al fisico magro le faceva mostrare già quelle deliziose fessure degli addominali laterali, due linee guida puntanti a un perizoma sottile.
Troneggiava, si innalzava, a me che a livello dei suoi piedi non potevo che vederla immensamente alta e possente.
Avrei implorato di poterla avere. E anche un po’ di strapparle quella crocchia in cui portava avviluppati i capelli, le dava un’aria così impostata che…
Sbuffai mentalmente. Ovviamente le dava un’aria impostata, che deficiente che ero.
Nel frattempo i collant erano stati appaiati, allungati, ed ora sembravano…
“Prona.” sibilò. Cogliendo un istante di incertezza, precisò “ora sei supina. Il contrario.” Grazie Mistress Vocabolario per colmare le mie incertezze nella Sua lingua. Si mise in bocca il collant per liberarsi le mani.

Mi premurai di inarcare un po’ il sedere per invogliarla a chissà cosa, ma si limitò a portarsi su di me, poggiarmi le braccia dietro la schiena, e con un movimento preciso, quasi unico, mi trovai legata. I collant fasciavano gli avambracci, e anche i bicipiti erano legati in un altro senso. Così sì, era impossibile sfilarsi, a meno di rompere i collant, operazione non semplice.
“Sì o no. Provi dolore?” sussurrò. “No.” risposi. Un istante dopo venni letteralmente issata da una trazione indietro, con il sottofondo del suo risolino divertito, mentre mi mordevo un labbro, sentendo il suo sedere sul mio.
Andavamo praticamente a cavalluccio? Davvero? E tutto questo era opera di una sola gamba di collant? Ero davvero presa al lazo così? Mi fece dondolare avanti e indietro per un paio di volte come a saggiare la tenuta, ripetendo la domanda. Non sentivo dolore. Non sentivo formicolare gli arti.
Si limitò ad alzarsi, lasciandomi ricadere a terra, portandosi di fronte a me. “Inginocchiati.” disse divertita, sapendo che le braccia ferme avrebbero reso l’equilibrio difficile. Ma non ero uscita da lezioni e lezioni di danza per cadere come un fico marcio a terra. Mi issai con uno sbuffo, mi misi come voleva. E come alzai lo sguardo, La ammirai.
Certo ero in camera mia, certo era seduta su una sedia da scrivania presa in un grande magazzino, ma lì, altera, impettita, le gambe accavallate e poggiata sui braccioli come in trono, non potei che avvertire un’infinita distanza tra me e Lei. In fin dei conti, se dovevo proprio nella mia vita finire legata in ginocchio davanti a qualcuno, ingoiando il mio ego a grossi sorsi come ad un festival della birra, era finita bene.
Ed ecco arrivare il Suo piede in viso, alzare il mento e quindi tutto il petto. Scorrere le dita sull’incavo del collo, poggiarlo tra i seni.
“Nel caso te lo domandassi in quella testa vuota, zoccola, faccio così perché non sei all’altezza delle mie mani o di altro.” Sorrise. Non fu esattamente semplice in quell’istante deglutire gli ultimi sorsi del mio ego, e capire che sì, in quel momento lei era molte spanne sopra di me.
Non perché lei lo sostenesse, ci credesse e via dicendo, ma perché me ne aveva convinto. La sentivo realmente così alta e inarrivabile, e non &egrave un sentire che provocasse piacere a una come me.
Eppure, invece, lo faceva. Per un momento della mia vita stavo affondando nella piena sensazione di non essere nessuna al confronto con Lei, in quella situazione (il resto? Forse, ma il resto non esisteva in quell’istante.)
E per un momento la sensazione di totale abbandono alla sua volontà, fu assolutamente dolce. E Lei se ne accorse, anche se lasciai sfuggire solo un sospiro a mezza bocca.
Si portò un lunghissimo indice alle labbra, dandosi un piccolo morso assolutamente ingolosita, gaudente, fiera del suo operato, quasi dondolando sulla sedia come una bambina estremamente perversa che abbia appena convinto la mamma a comprarle un dolcetto.
“Sei mia.” disse pianissimo, e annuii lievemente.
La Sua opera aveva funzionato. Mi aveva avviluppato come un predatore in una tela, mi ero arresa al mio destino di essere nelle sue mani, che tutto in quel momento girasse attorno a Lei, e il mio ego poteva solo alzare le spalle e trovare consolazione nel fatto che Lei fosse Lei, la migliore possibile.

Mi diede un calcio non forte ma deciso, e caddi letteralmente di schiena. In un istante mi preparai al dolore del pavimento, alzando un poco la testa per non dare un colpo di nuca, e quasi urlai di sorpresa nel sentire la morbidezza di un cuscino dietro di me.
“Quando cazzo lo hai messo??” imprecai, mentre si alzava più che regalmente inquadrata a malapena tra le forme dei miei seni che ondeggiavano. “Prima.” probabilmente quando ero distesa sulla pancia, quando aveva smesso di usarmi come un pony. Si portò con tranquillità in piedi sopra di me, ed ecco che mi trovai di nuovo un piede in viso.
Questa cosa cominciava ad essere seccante. In un guizzo di ribellione, soffiai per provocarle il solletico, scoppiando a ridere. Pessima mossa, perch&egrave mi trovai un alluce dritto in bocca, in cui poggiai subito i denti.
“Mordimi e ti spacco la faccia a calci. E da domani in poi potrai solo fare la comparsa in qualche serial televisivo sui reparti d’emergenza ospedalieri, modella.” sibilò. La lasciai, e tornò con il piede a scorrere su tutto il mio corpo, arrivando tranquillamente all’inguine che la implorava di fare qualcosa, fosse anche un alluce, qualsiasi cosa.
“Ti prego, ti prego, mi fa male la fica…” sussurrai. Non &egrave che faceva male, ma ero davvero desiderosa di un orgasmo, e distrutta dal non raggiungerlo. Il suo piede si fermò, dandomi una speranza.
“Non credo di aver capito bene.” “La prego, mia Mistress, voglio godere…”
“Dubito seriamente che andremo molto lontano con una richiesta così priva di stile, zoccola.”
“La scongiuro, divina, mi lasci urlare un orgasmo come la merda che sono ai Suoi piedi, &egrave impossibile resisterLe ancora!” quasi urlai, affannando termini che pensavo di aver vagamente letto in qualche fumetto osceno o racconto.
Scoppiò a ridere in maniera davvero, davvero stronza, e con qualche lacrima agli occhi la guardai tenersi una mano sul petto scarno e ridere guardandomi come una deficiente, prima di portarsi accovacciata quasi sul mio viso.
“Se &egrave impossibile resistere, dovresti esplodere il tuo piacere, o averlo fatto già da un pezzo.” disse con un buffetto sul naso. “No, sei in grado di resistere, vuoi solo liberarti da questa sensazione perché il tuo scarno encefalo da fotomodella pensa che una volta fatto, non sarai così remissiva con me.” disse passando un dito leggerissimamente dietro di sé, sul mio sesso.
Mi prese il viso tra le dita, chinandosi lentamente sopra di me con un’agilità allucinante. “La realtà, Viktorie, &egrave che non sei qui a obbedirmi spinta dal tuo colare” mi passò il dito lucido dei miei umori sulla bocca, e l’odore, il mio odore di femmina ardente mi salì nel naso immediatamente “non stai al gioco che terminerà con la tua schizzatina patetica, e tornerai quella di prima. No, no, zoccola, tu non stai dandomi retta per avere la tua ricompensa e poi &egrave finita, quello lo faranno i mentecatti che stanno ad annuire fintamente interessati della tua vita mentre pensano” -la sua voce si abbassò di tono caricaturizzando quella maschile – “devo solo tenere duro ancora un po’ e poi questa me la darà fino a domattina, reggi il gioco, che con quella bocca da succhiatrice olimpionica vedrai che ti fa”.
La guardai interrogativa. Il suo eloquio era indubbiamente più contorto della mia capacità di comprendere una lingua non mia. Si morse un labbro, prima di portare la bocca sottile al mio orecchio.
“Mysl’ opravdu jako kočka? ‘Jestli jsem dobr’ chlapec, odplat’ mě’? No, kurva, poslouch’ mi, proto’e jsem p’n, ne za odměnu. Jsi suka, ne kočka.”
(‘pensi davvero come un gatto? ‘se faccio la brava, mi ricompenserà’? No, troia, tu sei una cagna, obbedisci solo perché sono la padrona, non per il premio.’)

So che sembra assurdo, ma in quasi tutta la serata furono quelle frasi che mi fecero urlare di sorpresa più del resto. La guardai balbettando, stranita, allucinata, disorientata, mentre il suo viso non mostrava nessun genere di divertimento, passione, neanche distacco. Ero davvero… B&egrave, non ero nulla. Solo una fichetta colante che capiva le cose se gliele ficcavi nel cervello nella sua madrelingua. Molto, molto colante.
Mi accorsi di star lentamente piangendo, e della sua mano nel perizoma.
La troia si stava masturbando guardandomi piangere?

Intuivo le sue lunghissime dita carezzarsi un sesso che non vedevo, fissandomi intensamente con quegli occhialetti sottili che le davano uno sguardo ancora più sadico, se possibile. Il sedere piccolo e sodo si muoveva lievemente sui miei seni, instillando anche una discreta piacevolezza, e io mi trovia a fissarla affascinata.
Lei, si stava dando piacere letteralmente adagiata nella mia disperazione. Quale creatura poteva mai essere tanto perversa da provare davvero eccitazione così? Era assurda, e assurdamente rifuggeva dai miei tentativi, goffi, di arrivare con la bocca a leccarle quelle intimità nascoste.
Potevo fare di meglio, volevo fare di meglio, tutto sarebbe stato meglio di fissarla così, ma la sua mano provvedeva a spingere in basso il mio volto ad ogni tentativo.
Ad un certo punto eccolo, lo sentii nell’aria, nel suo respiro divenire irregolare, il Suo orgasmo. Inspirò profondamente, ergendosi, inarcando la schiena ad occhi chiusi, e con un rauco “oh!” piegarsi in avanti, avere ancora qualche spasmo, mordersi un labbro, e poi inspirare profondamente, mentre una chiazza decisa le tingeva di piacere il perizoma.

Si riebbe dopo un paio di istanti, sbuffando e passandosi una mano a scostare un paio di ciocche di capelli che le erano ricadute sul viso. Mi guardò come se fossi appena comparsa lì, accennando un sorrisetto, prima di estrarre medio e anulare dall’intimo, lucidissimi di piacere, e portarli al mio viso.
“Apri.” obediii. Succhiai quelle dita con una voglia infinita, implorando dentro di me che anche il mio piacere arrivasse e fosse così dolce e interessante.
“Forse come prima notte assieme mi sono fatta un po’ prendere la mano.” ammise sottovoce, mentre la mia lingua carezzava tutta la lunghezza delle dita come un cane la mano del padrone. “E’ mia natura godere del dito nella piaga, del disagio, mi diverte scardinare le convinzioni di certi soggetti. Ma tu, Viktorie, sei come un soffitto marcio.”
La guardai alzando le sopracciglia. “Non troppi complimenti tutti assieme, eh?” dissi con ancora la sua mano poggiata sulle labbra. Rise.

“Volevo svelare qualcosa, e hai ceduto su mille fronti. Ti volevo a piagnucolare di farti scopare da me, se sei qui come una zoccola sottomessa matricolata. Volevo indagare quella che mi pareva una scatola di segreti. Vedo un pozzo infinito.” proferì quasi poeticamente, carezzandomi la bocca con le dita lucide della mia saliva.
“Non farmi del male.” dissi istintivamente, d’urgenza. Avvertivo sopra di me una persona capace di incrinare ogni mia convinzione, ogni particella del mio ego, e non volevo che accadesse, non ero pronta, di nuovo, a vivere certe sensazioni.
Fu un lampo, urlai di sorpresa sentendo le sue dita affondarmi agilmente dentro, e sparii chissà dove per chissà quanto. Sicuramente mi contorsi, urlai ancora, sbattei la testa nel cuscino, perché quando ritornai a galla nella realtà, le spalle erano doloranti e anche la nuca non era felicissima.

Lei come se nulla fosse, accovacciata su di me, si passava il pollice sottile sul labbro inferiore, prima di alzarsi con decisione in tutta la sua altezza. Mi fece girare sul pancino, mi liberò in un istante dalla legatura, anche se non osai mettermi in piedi, preferendo stare seduta, a fissarla quasi diffidente. Nessuna delle due parlava, mentre con calma si rivestiva, ignorando i collant decisamente sgualciti.
Come a casa sua, si controllò nello specchio, e si portò le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni. Poi in due passi lunghi e scattanti, finì addosso a me, si chinò dandomi un lunghissimo bacio in bocca.

“Non ti farò del male, in nessun senso..” disse pianissimo. “Sarebbe troppo banale e stupido farlo. Sarebbe da Mistress incapace, infliggere solo dolore. E poi… Ho la sensazione che arriverei seconda in molti campi.”
“E tu vuoi essere sempre la prima, vero Baronessa Senza Nome?” dissi balbettando, e sorridendo, con il cuore a mille.
Si alzò sorridendo. “Già.”
Si incamminò verso la porta dell’appartamento, seguita a poca distanza da me. La aprì, prima di girarsi.
“Alla prossima, Viktorie!” fece un gesto di saluto con la mano lunghissima davanti al volto, lanciando quello che pareva un biglietto da visita, prima di incamminarsi sulla rampa.
Raccolsi il biglietto da terra, identificando così per prima volta quel soggetto così assurdo.
Certo che bisognava avere un talento speciale, per trovarsi delle amiche così, pensai sorridendo.

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