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Racconti Erotici

Plagiata ed estasiata

By 20 Gennaio 2020Giugno 17th, 2020No Comments

Attualmente mi trovo accomodata e per di più corrucciata ed esasperata all’interno di quella stanza indigente e malinconica, ponderando e valutando al meglio che la peculiare azione che potessi compiere, era quella di trattenere ammodo e convenientemente la collera, assieme al globale risentimento che costantemente m’assaliva. Per la precisione, io avevo già avuto un alacre e sostenuto colloquio direttamente con l’agente diplomatico, che pareva ci avrebbe cavato fuori da quella stramba e deforme circostanza, che ci eravamo implacabilmente e pietosamente cacciati. I tramezzi pitturati con un colore arancione scuro di quel misero ed esiguo sgabuzzino erano insudiciati, la piccola seggiola di vimini zoppicava e il bagliore delle lampade illuminate con la luce del neon, donava in conclusione a quel sciagurato ambiente una tonalità e un piglio ancora più depresso, mesto e sconsolato. 

In quel frangente, infatti, l’enorme e scura casacca che m’avevano fatto infilare era scabra e irregolare, giacché mi faceva prudere sovente l’epidermide pizzicandomela moltissimo. Dapprima di depositare tutto quello che avevo addosso, acclusa la tracolla con tutte le annotazioni e le riproduzioni effettuate, avevo fatto appena in tempo a trangugiare una porzione d’un potente calmante, avendo la cognizione che mi sarei di certo acquietata per svariate ore. Ero naturalmente distesa, allorquando una sorvegliante accedette nella sala e mi fece un gesto d’andarle dietro. Io strascicavo con delle deperite babbucce che m’avevano fatto infilare attraverso quegli anditi peraltro angusti e inzaccherati, mentre rimuginavo al mio socio pensando minuziosamente che fine avessero fatto in conclusione i rullini. Per tempo, con abilità, lui li aveva occultati nella tubatura dell’aria fresca, esortandomi di compiere lo stesso gesto con le bobine della videocamera. 

La guardia che mi precedeva era ammantata con una divisa azzurra, con delle spesse calzamaglie e con delle calzature senza lacci. Non appariva veterana, suppergiù avrà avuto una quarantina d’anni d’età. Ben presto oltrepassammo numerosi cancelli, finché ne aprì uno trovandoci infine all’interno d’una angusta sala senza finestre, una signorina con un camice bianco accomodata dietro al tavolino, mentre accanto alla porta sostava un gendarme. Con un eloquente gesto m’indicarono d’accomodarmi su d’una traballante vecchia seggiola dinanzi al tavolino, in quanto dovetti ben presto replicare a una successione di richieste alquanto irragionevoli e paradossali. L’ambasciatore, poco prima, m’aveva fortemente suggerito di non ribellarmi né di contestare, ma solamente di rispondere placidamente a tutto piuttosto velocemente e di non enunciare che ero una corrispondente, bensì che ero solamente un’assistente accademica. I ferri attorno ai polsi iniziavano a irritarmi, eppure auspicavo che da un momento all’altro si spalancasse la porta proferendomi rapidamente che sarei stata libera d’andarmene, che era stato totalmente un losco quanto indegno malinteso e che potevo avviarmi. Per di più, questo però non avvenne, perché la donna medico fece un ammicco lungimirante e sagace alle altre due collaboratrici, come per manifestare – dai insistete, avanti proseguite – abbondonando all’istante la ristretta sala. 

Subito dopo mi snodarono i capestri che agguantavano la casacca e quando cadde sul pavimento notarono che ero interamente rasata, squadrandosi fra di loro in modo cauto, diffidente e visibilmente sospettoso. Io restai in tal modo discinta ed essenziale in mezzo alla stanza, senza dire una parola le esaminai, in seguito contemplai a lungo il gendarme là accanto. L’altra ragazza lo invitò lestamente di voltarsi in direzione del muro con un accenno, lui fece sdrucciolare lestamente la mano destra dalla cintura alla patta dei pantaloni e si girò. Rimossero una copertura e mi fecero nel contempo sprofondare sul ciglio d’una artigianale branda di ferro, tenuta da parte là per l’occorrenza. 

Io non riuscivo a obiettare, non reagivo, mi stesi immediatamente, intanto che la più robusta m’acchiappò le gambe collocandomele nei supporti e fissandomele con dei cordoncini di pelle conciata, l’altra bloccò la catena tra i miei ferri a un rampino dietro la mia testa. Io non avevo più opportunità di movimento, le gambe spalancate, in totale potere di due strampalate ed esaltate collaboratrici. La più graziosa calzò dei guanti chirurgici e si collocò fra le mie gambe, mentre potevo controllare tutte le operazioni da uno specchio angolato sopra la mia testa. Potevo anche vedere che il gendarme, senza tener conto della copertura, poteva osservare tutto tranquillamente per mezzo dello specchio. Da un ripiano sotto la branda lei agguantò un vaso, introdusse dentro le dita e poi le passò amabilmente sulla mia fica: era un medicamento gelido, ispezionò tutte le pieghe fino a polarizzarsi sul clitoride, accarezzandomelo adagio e spingendo al tempo stesso le dita dentro. In verità ci sapeva fare, non c’è che dire: io non volevo, ma stavo cominciando a bagnarmi. 

Lei, in modo originale e inatteso, mi manipolava in maniera eccelsa, masturbava e spingeva la mano dentro la fica, mentre io iniziavo a non comprendere più nulla, cosicché serrai gli occhi quando avvertii che l’altra stava strattonando i miei capezzoli. Successivamente captai una spinta più forte e, aperti gli occhi, notai che era intenta nello sforacchiarmi la fica. Non potevo più trattenermi, l’orgasmo stava metodicamente lievitando in modo esuberante e incisivo, le tette abilmente palpate, i capezzoli ingegnosamente tormentati, intanto che quelle dita destramente leste e sapienti m’accarezzavano in modo accurato il clitoride. Probabilmente la mia vischiosa e cocciuta sbirra captò che stavo per venire, la fica stava abbozzando a contrarsi, così lei avvantaggiandosi e sfruttando la mia abbondante lubrificazione, intraprese in maniera libidinosa quell’azione avvicinandosi in tal modo all’ano. 

L’altra più robusta, al contrario, seguitò a trastullarsi allegramente con le mie tette, io la osservavo e sembrava una ragazza leggermente subnormale, acciecata e stravolta con un gingillo nuovo fra le sue inattese quanto cupide e ingorde grinfie. Nello stesso tempo sentivo che m’ammansiva il culo con le mani, dopo iniziò a compiere con il mio posteriore quello che aveva lascivamente eseguito con la fica, perché con una forza imprevedibile entrò strappandomi un grido di dolore, dopo m’infilo bramosamente due dita nella fica, dando così avvio a quella bislacca e balzana coreografia: il mio respiro divenne spasmodico fino a quando, all’apice dell’orgasmo tolse le dita senza guardarmi in faccia, si levò i guanti, si sedette nei pressi del tavolino, scrisse una cartellina, si sollevò e uscì. L’altra, più graziosa invece, lasciò la presa sulle mie tette, fece il giro della branda, esaminò discreta la mia fica dilatata e abbondantemente impregnata di fluidi, passò un dito sopra strappandomi un brivido e s’allontanò con la sua collaboratrice. In quel momento, stavo cominciando a gridare quando il gendarme si disfò della sua arma, la collocò per terra, sbottonò i pantaloni da dove fuoriuscì un cazzo di tutto rispetto, non enorme, però ben fatto, dritto e compatto. Lui mi brandì per i fianchi tirandomi più sul bordo della branda e senza troppe formalità m’infilò il cazzo dentro. 

Quel cazzo, effettivamente, scivolò all’istante impregnata com’ero dei miei stessi fluidi, il gendarme iniziò a chiavarmi con parecchia veemenza sorreggendomi per i fianchi, evitando di sbatacchiare i suoi testicoli sul bordo della branda di ferro. Io serrai gli occhi per non scorgere la sua birbante e manigolda faccia, però mi piaceva tanto percepire quel cazzo dentro. In quella circostanza mi tenevo stretta con le mani sul rampino dietro la mia testa, avvertivo di netto che stavo venendo, anche lui forse lo ravvisò perché rallentò la cadenza, sfilandolo quasi completamente per poi rimetterlo dentro con foga. Dopo rincominciò la cavalcata e allora venni con una prepotenza sconcertante stringendomi ancora di più i fianchi, perché le convulsioni del mio orgasmo non interrompessero il suo appagamento. Successivamente, venni ancora alcune volte, lagnandomi in modo strozzato, finché udii che lui stava sferrando i colpi finali. Tutto ondeggiava dentro e fuori di me, spalancai gli occhi e i nostri sguardi s’accoppiarono, lui sogghignò squadrandomi con la pelle grondata per la notevole traspirazione. Appariva assai giovanile, tuttavia certe increspature l’intagliavano il viso. Stavamo presentemente boccheggiando, quando lui agguantò l’arma dalla custodia, rimosse il contenuto dal caricatore e s’infilò le munizioni nel taschino della divisa. 

Subito dopo iniziò a passare la canna dell’arma sulla mia fica aperta e vibrante, finché non l’inondò tutta, la cosparse per bene con le mie secrezioni, in seguito me l’introdusse dentro estraendola di fuori stillante di sperma e me l’appoggiò sulle labbra, imponendomi di leccarla. Durante il tempo in cui compivo quest’atto, non ero capace di distrarre lo sguardo da lui, che m’osservava in modo perverso, turpe e vizioso. Il suo cazzo, infatti, con questi libidinosi e incontinenti espedienti si era ripigliato pienamente, lui mi disimpegnò le gambe annodandomi le caviglie a due funicelle che penzolavano dalla volta della stanza, allargandomi le chiappe con incalcolabile esaltazione. Pigramente, questa volta me lo introdusse dentro e iniziò a chiavarmi, fintantoché la tensione spasmodica non m’invase del tutto e venni di nuovo. Io respiravo con affanno, accaldata e svigorita con gli occhi sbarrati. Intanto lui si stava rivestendo, dopo m’avvinghiò di nuovo le cinture del giaciglio intorno alle gambe e nel tempo in cui dischiusi gli occhi percepii che ero da sola nella stanza. 

Devo sennonché affermare e ribadire, che non sono certa di quanto tempo fosse trascorso, mentre origliavo lo scricchiolio del vetusto aeratore appeso a quella volta, rimanendo pressoché magnetizzata e plagiata dalle pale che roteavano a rilento, allorquando la ragazza robusta alla quale attraevano le mie tette si presentò villanamente entrando a forza nella stanza. Mi esaminò accuratamente il corpo, individuando e scoprendo in ultimo gl’indizi dell’inaudita e sbalorditiva scopata. Dopo, insperabilmente, iniziò a leccarmi. In principio tergiversò parecchio sulle tette, strusciandomele e rosicchiandomi i capezzoli, al punto che iniziai a fomentarmi di nuovo. Per concludere, si genuflesse tra le mie cosce leccandomi la fica, ispezionando ogni cavità e snodando la lingua in ogni piegatura, aspirando e azzannando. Indubitabilmente, in modo certo, era la prima occasione che lei avvistava una fica rapata, poiché peraltro circospetta e guardinga mi pressava la lingua dentro l’ano, dopo rincarava la dose, congiungeva le grandi labbra e ancora più su, poi ripeteva il percorso strofinando la faccia intera tra le mie gambe. 

Io ero sfibrata, esausta e decisamente infiacchita, malgrado ciò i capezzoli si stavano indurendo ancora, il clitoride stava martellando, quella lingua singolare e indiscreta mi frugava sondandomi dentro, le sue mani vispe e irrequiete mi spalancavano tutta, mi tastavano toccandomi dove potevano. Io mantenevo gli occhi sigillati e non m’interessava più di nulla: l’agente diplomatico avrebbe potuto abbandonarmi là per sempre, rimuginavo a fondo con mestizia alla mia esistenza, con un grande abbattimento architettavo prendendo in considerazione di rivedere la mia prediletta nazione, speculavo sulla mia dimora che avevo stentatamente terminato di saldare con fatica, ragionavo nel profondo alla testata del mio periodico illustrato in città, in fin dei conti tutto questo mi passava per la testa. Con radicato scetticismo, con consolidata diffidenza e con duratura sfiducia, giacché questa è la mia personale indole, pensavo già al più indesiderato e nocivo degli avvenimenti, eppure contrariamente ai miei infausti e sventurati pensieri quella porta si spalancò, la ragazza robusta simulò di rintracciare qualche cosa sul lastricato della stanza, perché la donna medico senza rivolgerci lo sguardo schioccò repentinamente le dita, perché quella era la direttiva perentoria per sfilarmi i ferri ai polsi, giacché in seguito mi restituirono prontamente tutti i miei individuali manufatti e gli arnesi personali pignorati. 

In un baleno m’ammantai in modo celere, anche se l’adiacenza con l’imbastitura dei jeans m’irritò un poco, sebbene avessi indosso le mutandine. Il gendarme mi recapitò un astuccio indicandomi l’uscio. Io oltrepassai alla svelta la soglia traballando, mentre un pesante portone di ferro spalancato dinanzi mi fece riassaporare la libertà, facendomi intravedere in ultimo la luce del giorno. 

In quel preciso frangente, riesaminai di getto la circostanza rievocando il mio socio e parimenti connivente della sventurata vicenda. Il crepuscolo incombeva nel cortile sovrastando tutto, accomodato là sopra dei gradini c’era Leonardo il mio collaboratore e al tempo stesso fotografo, che si gustava le sue immancabili e sempre presenti sigarette. Peraltro disgustatissimo e infastidito, mi riferì che lo avevano lasciato tutto il giorno là senza divulgargli né manifestargli nulla. 

Io non lo stavo più udendo, Leonardo mi stava in verità irritando e assillando, perché in conclusione non avevo conteggiato né stimato né valutato quante volte ero impudicamente venuta, là in modo agguerrito e impetuoso dentro quel deforme e malfatto ripostiglio. 

{Idraulico anno 1999}

 

 

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