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Racconti Erotici

Ushuaia

By 21 Marzo 2004Dicembre 16th, 2019No Comments

Quando l’altoparlante informò che era iniziata la discesa verso Buenos Aires, aeroporto Ministro Pistarino, e che l’atterraggio era previsto tra venti minuti, il sospiro di sollievo fu spontaneo.
Ero li da oltre tredici ore.
Poltrone comode, nella business class, certamente, e abbastanza solerte il servizio del personale di bordo che cercava di distrarti: ora una bibita, una rivista, l’invito a guardare il film che si proiettava, la elencazione dei programmi in cuffia’
Comunque, più di mezza giornata in aereo &egrave pur sempre una noia.
Ogni tanto mi ero alzato dal posto, avevo fatto qualche passo nel corridoio, m’ero sollevato sulla punta dei piedi, flettendoli più volte’
Finalmente l’arrivo.
Non era finito.
Scendere dall’aereo, bus, controllo passaporti, ritiro bagagli, eventuale ispezione doganale, ricerca del taxi e poi mi aspettavano quasi 50 chilometri per raggiungere la città.
Se tutto andava bene ci volevano almeno altre due ore prima di trovarmi sotto la doccia nella camera che avevo prenotato all’Emperador, nell’Av. Libertador.

Finalmente a terra.
Disbrigo degli adempimenti aeroportuali abbastanza rapido.
Ritiro bagagli.
Carrello, anche se ho una sola valigia e la sacca a mano.
E’ trascorsa mezz’ora dall’atterraggio, mi avvio all’uscita, per prendere il taxi, passando tra due ali di gente che attende i viaggiatori.
Anche se non &egrave facile distinguerli, mi sembra che ci siano molti Italiani ad aspettare. Del resto &egrave il volo che viene da Roma.
Una giovane signora, alta, simpatica, bruna, dai capelli lunghi, vestita con una certa ricercatezza, mi guarda fissamente.
Ho tolto il soprabito che indossavo a Roma, qui siano a circa 24 centigradi e sono appena le otto e mezzo del mattino.
La signora mi sorride insistentemente, mi fa un cenno di saluto.
A me?
Il suo volto mi ricorda qualcosa, qualcuna, ma non riesco a stabilire chi. Deve essere una rassomiglianza casuale.
Quando passo dinanzi a lei sento chiamarmi.
‘Piero’ ingegner Marini”
E’ lei che chiama, e Piero Marini sono io’
‘Piero, sono Lucia Ponticelli”
Lucia!
Aveva dieci anni quando l’avevo vista l’ultima volta.
Una bella bambina, allora, simpatica, allegra, cordiale.
Una splendida donna, ora.
Affascinante.
‘Lucia”
‘Si!’
Mi gettò le braccia al collo e mi schioccò due calorosi bacioni sulle guance, come faceva quando mi chiamava ‘zio Piero’.
Lucia era a Buenos Aires.
Non immaginavo di incontrarla qui, ad oltre tremila chilometri dalla sua città e dove dovevo recarmi.
‘Ti sono venuta incontro zio Piero, o posso chiamarti Piero adesso?’
‘Ma certo che puoi, anzi devi, altrimenti mi fai sentire troppo vecchio. Mi fai pesare i miei cinquanta e passa!’
‘Stai benissimo, Piero, solo un po’ meno capelli. Hai sempre lo stesso personale.
Come mi trovi? Non mi avevi riconosciuta?’
‘Ti trovo affascinante, come promettevi da bambina, ma al di là di ogni aspettativa.
In quanto a riconoscerti’ avevo notato la somiglianza con qualcuna’ ma chi?
Scusa la domanda, ma so che posso fartela, quanti anni hai?’
Si era messa sottobraccio e stavo andando verso la porta d’uscita dov’era la fila dei taxi.
‘Quasi trenta, sono matura, madura, ed ho un figlio di cinque!
Non da quella parte. Ieri ho noleggiato un’auto, arrivando a Baires, la riconsegneremo domattina alla partenza.’
‘Mi sembra che l’aereo parta poco prima delle undici.’
‘Si, ma da un altro aeroporto, alle 10,48.’
‘Io ho prenotato all’Emperador.’
‘Niente da fare, disdire, saremo ospiti di mio cognato, il fratello di mio marito.’
‘Argentino?’
‘Per cittadinanza si, come me, ma anche lui figlio di Italiani. Sono veneti, come noi, di Padova, i Marcon. E’ medico, cardiochirurgo.’
‘E tuo marito?’
‘Paolo &egrave ingegnere, come te. Ha studiato anche a Torino.’
‘Cosa fa a Ushuaia?’
‘E’ responsabile della società elettrica municipale di tutta la regione: Tierra del Fuego.’
Eravamo giunti all’auto.
Aprì il portabagagli, vi misi la valigia, posi la sacca sul sedile posteriore. Entrammo in macchina, si avviò lentamente, si inserì nel traffico.
Era proprio una bella sorpresa, Lucia, ancor più gradita per la sua avvenenza, per i suoi modi schietti e spontanei, affettuosi.
L’avevo lasciata bambina, venti anni prima, ma mi sembrava che il tempo non fosse trascorso mai.
Mi guardò sorridendo.
‘Parlami di te, Piero. Sempre lo stesso lavoro?’
‘Più o meno, ma cerco di stare di più in sede.
Ti ricordi quando giungevo dopo ore, anzi giorni, di Piper, da Buenos Aires, dopo aver visitato i vari centri dove passavano le condotte?’
‘Si, il Piper che prima di staccarsi dal suolo ansimava”
‘Con quale spesso si atterrava sulla strada, in aperta campagna, profittando di tratti liberi, e qualche auto si fermava aspettando che ci facessimo da parte.’
‘Ho ancora la ‘pupa’ che mi portasti da Rio Gallengos, ed anche il gaucho di Commodoro Rivadavia, non ho buttato il grembiule di Bahia Blanca’!
‘Eri contenta di quelle piccole cose”
‘Ero felice, soprattutto perché me le regalavi tu. Per me eri l’ideale, una specie di cavaliere del sogno’ Non per niente ho sposato un ingegnere!’
‘Senti, Lucia, so abbastanza del lodo attraverso le mail che mi avete mandato per internet, ma vorrei saperne di più.’
‘Certo. Ho anche dei documenti.
La corrispondenza con te, come sai, l’ho sempre curata io, e quelle crocettine, dopo la firma, Lucia, erano i bacetti che ti mandavo’
In quanto al lodo, di cui sei arbitro unico, scelto d’accordo tra le parti, non credo che ci saranno contrasti, siamo tutti certi che il tuo pronunciamento sarà equo e giusto. Per questo ti abbiamo pregato di interessartene. Un tecnico, pratico della questione, conoscitore della zona, di mentalità italiana e quindi vicina alla nostra. Del resto i Monticelli e gli Argenti sono veneti tutti, anche se tra noi Vicentini magnagatti e i Veronesi tutti matti c’&egrave sempre stato da dire. Per questo ci siamo rivolti a un Venessiàn Gran Signor!’
Sempre allegra e spiritosa la Lucietta.
Le carezzai affettuosamente la guancia.
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I Marcon avevano una graziosa villetta, un po’ in periferia, con una dependance che per metà era adibita a studio medico e l’altra era riservata agli ospiti.
L’accoglienza fu calda.
Tutti parlavano un ottimo italiano, con inflessioni dialettali, venete, salvo Ines e Conchita, le due ausiliarie del luogo, che però inframmettevano espressioni italiane al loro spagnolo.
I Marcon erano giunti in Argentina alcuni anni prima dei Ponticelli, e si erano fermati a Buenos Aires, dove avevano cominciato a interessarsi di import-export con l’Italia.
Poi, i rami familiari si erano divisi: una parte si era dedicata alla cura della SAIM, Sociedad Argentino Italiana Marcon, e gli altri avevano scelto le arti liberali: avvocatura, ingegneria, medicina.
Questa diversificazione si era rivelata preziosa allorquando la spaventosa crisi finanziaria spazzò intere fortune.
I Marcon sono riusciti a resistere, e a risalire lentamente la china, grazie anche agli scarsi investimenti bancari.
Andammo a salutare Toni, il capofamiglia e la sua simpatica moglie, Marita.
Gli altri erano tutti fuori, li avremmo conosciuti la sera, a cena.
Pregai Lucia di scusarmi, ma avevo assoluta necessità di una doccia.
Disse che mi attendeva nel tinello.
Dopo mezz’ora, rasato e con una camicia di bucato, la raggiunsi.
Esaminai gli incartamenti che aveva con sé: in genere copie di quanto inviatomi.
Le esposi il mio punto di vista, i criteri che avevo seguito e, quindi, la ripartizione societaria che prevedevo.
Lei era certa che le cose erano state fatte con criterio equitativo e che nessuno si sarebbe sentito leso. Del resto, la ragione sociale restava quella che era, solo il peso dei soci dipendeva dalle quote.
I Monticelli sono emigrati in Argentina negli anni cinquanta, erano tra i primi italiani a raggiungere l’estremo meridionale dell’America del Sud, al 54′ parallelo, la Tierra del Fuego, dove ora c’é anche la Posada del Fin del Mundo, appunto la locanda (letteralmente ‘alloggio’) della Fine del Mondo.
Quegli abitanti, infatti, dicono che le colonne d’Ercole devono essere poste lì, non sullo stretto di Gibilterra.
Una terra che, comunque, avvince, e chi vi si &egrave insediato, aduso ormai a quegli spazi, difficilmente si adatta alle difficoltà e alle angustie delle caotiche metropoli.
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Ushuaia é tremila chilometri da Buenos Aires, quasi quattro ore di aereo.
Ushuaia &egrave al 54′ parallelo.
Le Malvine, le isole che furono oggetto di scontro armato tra Argentina e Inghilterra sono poco più a nord.
La città &egrave al termine della strada nazionale numero 3, al kilometro 3065.
I bambini del luogo sono sempre intorno al cartello che indica tali dati, pronti a farsi fotografare, perché non c’&egrave visitatore di questa città che non lo immortali nei suoi ricordi.
Ho un ricordo ottimo dei Monticelli, di tutti.
In particolare, però, non posso dimenticare la forza magnetica che legava reciprocamente me e la Marietta, la affascinante mamma di Lucia, moglie di Alvise.
Abbiamo più o meno la stessa età, Alvise ne ha venti di più, ma quel forte fluido che c’era tra noi non era solo desiderio erotico, era un insieme di tenerezza che addolciva la fisicità della nostra attrazione.
Chissà se Lucia era a conoscenza della breve storia che c’era stata tra noi.
Per fortuna, allora la mia permanenza a Ushuaia era sempre breve, e non era facile realizzare i nostri desideri.
Era inimmaginabile che andassimo in uno degli alberghi (allora pochissimi), e dovevamo attendere la possibilità di incontrarci nella mia camera, quella che mi avevano assegnato come ospite.
Lo so che può considerarsi cosa spregevole e vergognosa, tradire chi ti ospita, nella sua casa, con la sua donna, ma il richiamo dei nostri sensi era tale che, allora, avremmo sfidato qualsiasi pericolo.
Sono passati venti anni.
Marietta é sempre bella, per lei il tempo s’é fermato.
Fu spontaneo l’abbraccio, comprensibile la commozione, qualche lacrima nei suoi splendidi occhi.
Alvise, sempre forte e robusto, guardava e sorrideva.
‘Ciò, varda la vecia che la se sbrodola tutta.
Ti sa, Piero, non passa giorno senza che parli de ti.
Quasi credo che dovria eser geloso!’
Marietta cercava di mostrarsi divertita, ma il suo sguardo mi diceva tante cose. Antiche e attuali.
‘Dai, Alvise, non dir monàde.’
La sua voce, però, non era chiara e ferma.
Poi si rivolse a me.
‘Vieni Piero, ti accompagno. La tua solita camera. Te la ricordi?’
‘Come potrei dimenticarla?’
Andammo nella camera che era stata testimone dei nostri brevi e focosi incontri, dei suoi gemiti, della mia passione.
Tutto era come prima.
Glielo dissi.
‘Sono passati venti anni, Piero. Venti anni.
Non sono più come prima.’
Parlavamo sottovoce, come in un complotto.
‘No, Marietta. Non sei come prima, ma molto più bella.’
‘Non esser bugiardo’ sono nonna’!’
‘Andiamo via, Marietta, non riesco a starti vicino senza abbracciarti.’
Tornammo in tinello, dove Alvise era ad attenderci.
Forse avevo fatto male ad accettare il loro invito. Potevo trasferire ad altri l’arbitrato, trovare una scusa’ l’età’ la distanza’
L’età.
Mi sembrava di essere tornato all’esuberanza di quando avevo venti anni, ai giorni dei miei trenta, a quelle ore, poche per la verità, trascorse in quella casa, in quella camera, in quel letto.
Con lei!
Non credevo a me stesso. Il semplice ricordo, e non era la prima volta, tornava ad eccitarmi, incontrollabilmente.
Marietta mi appariva come allora, più attraente e desiderabile di allora.
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Si doveva stabilire l’ora dell’incontro.
L’Alcade ci aveva messo a disposizione una stanza, riteneva che la solennità del luogo si addicesse più che una casa privata.
Alvise uscì presto, dopo avermi chiesto se avessi qualche preferenza di orario.
Non appena fu fuori casa, Marietta venne a portarmi il caff&egrave. Ero ancora a letto.
Attese, seduta sulla sponda del letto, che finissi di berlo. Poggiò piattino e tazza sul comodino, si alzò, fece cadere la vestaglia e, così, nuda, s’infilò nel letto.
Tremavo per la commozione, ma mi sentivo, ed ero, nelle stesse condizioni di eccitazione di venti anni prima.
E fu ancora più dolce, più tenero, più inebriante, più voluttuoso.
Avevamo venti anni di attesa.
Chi ci avesse visto ci avrebbe preso per erotomani o pivelli alle primissime armi.
Non ci saziavamo mai.
L’orologio impose un distacco che sapevamo doloroso.
Forse definitivo.
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Lucietta giunse mentre ero a colazione, con Marietta.
Ci guardò fissamente.
‘Controllatevi, siate più sciolti, più naturali.
Si capisce tutto.
Mamma, non ti ho mai visto così.
E tu, Piero, hai un’aria incantata e triste nel contempo.
Attenti.
Sta per tornare papà.’
Tornai in camera, presi un giornale, e facevo finto di leggerlo quando Alvise venne a dirmi che era fissato per il pomeriggio, alle quindici.
Fuori pioveva, il termometro indicava 11 gradi.
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La riunione si svolse senza intoppi.
La ripartizione societaria fu determinata con pieno accordo tra le parti.
Il ‘lodo’ fu sono un atto formale di conferma.
A cena brindammo.
Molti felici, quasi tutti.
Marietta ed io ci sforzavamo di apparire allegri.
Lucietta ci guardava, preoccupata.
Per fortuna, Alvise era troppo intento a far onore al frizzantino per accorgersi di una certa atmosfera che avvolgeva qualcuno dei presenti.
Dissi che sarei partito l’indomani.
Avevo già prenotato.
Decollo alle 10.50 da Ushuaia, arrivo a Buenos Aires in coincidenza col volo per l’Italia, Un B777, Clase Magnifica, posto 1′.
Atterraggio alle 7.30 del giorno successivo.
Marietta, vicina a me, era pallida.
Le poggiai la mano in grembo, la ricoprì con la sua.
Alvise, con occhi lucidi per le libagioni, le porse una coppa piena.
‘Dai, Marietta, bevi un gotto! No xe la stessa cossa, ma te fa’ desmentegàr”
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