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Il lunedì mattina non è mai una festa, ma quel lunedì mi appariva più nero. Dalla finestra filtrava solo una lieve luce, la luce di un’alba di nebbia. Decisi di stare a letto ancora un poco, ma per disgrazia mi addormentai. Oltre alla nebbia così ora avevo anche la fretta di arrivare al lavoro.
L’auto procedeva sui viali alberati della città ancora addormentata. Qualche passante scivolava dentro le prime panetterie aperte, altri correvano alla fermata di qualche autobus. Nulla di particolare. Alla circonvallazione presi per l’autostrada. Ogni mattina era sempre la stessa storia. Scommetto che se avessi lasciato il volante la mia auto avrebbe saputo alla perfezione la strada.
Ero in ritardo… quel ritardo mi sarebbe costato un’ora in più in ufficio la sera e non ne avevo la minima voglia. Lui mi aspettava a cena. Niente ritardi.
Ad un tratto vidi più in là un posto di blocco, segnalato a mala pena dalle luci accese della volante. Un attimo… e vidi la paletta abbassarsi e la mia cena allontanarsi. “Caspita che fregatura… mi faranno perdere altro tempo”. Mi fermai. Vidi i due poliziotti avvicinarsi. Uno alto e piuttosto corpulento e un altro giovane dall’aspetto marziale.
“Libretto e patente”.
Queste sono le ultime parole che ricordo prima di essere catapultata in un incubo. Mi trovai ammanettata nell’auto, diretta verso chissà dove. Vedevo in lontananza la mia auto con i fari accesi parcheggiata a lato della strada. Anche lei sembrava incredula di quanto mi stesse accadendo. Continuavo a ripetermi che non era possibile, e accennavo a parlare, a cercare un perché… ma entrambi stavano zitti e l’unica reazione che feci scattare fu un “zitta”.
L’auto si fermò. Mi guardai intorno. Non era il posto di polizia dell’autostrada, e neppure un posto civile… era simile a una palazzina di vecchio stile. Sembrava una nota stonata in quel posto. Non c’erano altre case vicine, solo prati coperti di nebbia. Mi fecero scendere dall’auto e quello più giovane mi accompagnò dentro, mentre sentivo laltro corpulento ripartire. Non si erano scambiati una parola tra di loro, sembrava sapessero esattamente cosa dovevano fare, e cosa pensassero. Dentro capii di essere arrivata non in un normale posto di polizia, ma in una specie di penitenziario di paese. Un largo bancone, degli scaffali impolverati, delle celle e una porta blindata.
Nessuno era presente, sembrava un posto abbandonato. Mi tolse le manette e mi indicò di camminare avanti a lui. Arrivati davanti alla porta blindata mi spinse contro il muro e cominciò ad aprirla, poi mi fece scendere una scalinata che portava in un seminterrato. Era una cella sotterranea, ricavata all’interno di un ampio scantinato molto grezzo e illuminato da un paio di lampadine che emanano una luce giallognola. Non c’è arredamento, il pavimento era di cemento e le pareti erano formate solo da pannelli grigi a vista.
Mi fece mettere contro la parete, quasi mi ci buttò. Non capivo, avevo paura. Cominciai però ad osservarlo. Era di statura alta, inguainata da un’impeccabile divisa nera, stivali neri alti fin oltre il polpaccio, cinturone alla cinta con la fondina della pistola spostata in maniera anomala sul suo sesso. Aveva capelli biondi e una carnagione perfettamente chiara; gli occhi erano di uno splendido azzurro molto acceso, quasi di ghiaccio. Tutto in lui esprimeva un carattere estremamente intransigente e autoritario.
I lineamenti duri del suo profilo erano quelli di un uomo maturo, anche se non doveva avere più di ventisette, ventotto anni. Dal fondo della stanza, quasi a comparire dal buio, un’altra poliziotta si fa avanti, con una divisa simile alla sua, ma che dall’aspetto deve essere appena maggiorenne; sembrava una bambina. La guardai. Era di altezza media, e i lunghi capelli di un castano chiaro, mossi, le scendevano dietro le spalle. Anche la sua carnagione era chiara, il viso allungato, il naso all’insù, le sottili labbra rosee, aveva un non so che di aristocratico. La guardavo mentre cercava di mantenere un atteggiamento distaccato, ma si intuiva dai suoi occhi che si stava compiacendo della scena, quasi eccitando. Sembra una ragazzina viziata, messa lì in quella veste solo per accontentarne i capricci.
“Spogliati!”.
Un fulmine mi trapassa la mente.. come spogliati? Per quale motivo?
Il tono austero e perentorio non lascia alito a dubbi. Lo guardai sbigottita. Quella mattina, non avrei dovuto svegliarmi… cosa stava capitando? Stavo ancora dormendo e quello era un incubo? Vedendo la mia esitazione il biondo cominciava a sfilarsi dalla cintura il manganello, e a quel punto io decisi, che almeno per il momento, conveniva obbedire. Gli lanciai un’occhiata quasi di supplica, per fargli capire che la presenza della ragazzina mi metteva a disagio. Lui non accennò a nulla, rimase immobile fissandomi con fermezza.
Cominciai a sbottonarmi la camicetta, lentamente, bottone con bottone… quasi sperando di sentire un fermati, sperando che si rendessero conto che stavano commettendo un errore. Invece da loro non viene nessun alito, nessuna parola. Rimangono in silenzio, a scrutarmi con i loro occhi fissi su di me. Quasi a soppesare ogni mio movimento, ogni mia emozione. Mi sfilai la camicetta, e il poliziotto mi fece cenno di lasciarla cadere per terra. Cominciai a sbottonarmi la gonna, la lasciai cadere per terra e feci un passo avanti per sfilarla completamente. Infine mi polsi le scarpe. A quel punto ero coperta dal solo reggiseno, perizoma e autoreggenti. Che freddo mi passava nella mente, cercavo di socchiudere gli occhi, di estraniarmi dalla realtà che stavo vivendo. Sentivo il caldo dei loro occhi fissarmi, scivolarmi addosso. Mi concessi un attimo di pausa; pensai che così potesse bastare, e rimasi in attesa di nuovi ordini.
Il poliziotto mi prese dall’angolo dove ero e mi mise quasi al centro della stanza. Mi sentivo osservata in maniera oscena. Lui mi girava attorno facendo scivolare fra le mani il suo manganello nero e guardandomi con i suoi occhi, che mi penetravano fino nell’anima. La ragazzina ebbe un piccolo moto di impazienza. Quasi uno sbuffo.
Un istante dopo sentii per la prima volta la sua voce: “Togliti tutto!”.
Aveva un timbro ancora acerbo, ma era priva di qualsiasi inflessione dialettale e con una cadenza delle sillabe perfetta. Non c’era nessuna volontà in me di eseguire il suo ordine, nessuna… ma anche se non capivo il perché, o per lo meno non capivo bene… i miei capezzoli s’inturgidivano spontaneamente. Li sentivo preme sotto il pizzo del reggiseno. Sentivo anche un calore conosciuto, ma che non avrei mai pensato di provare in una situazione del genere… il mio sesso pulsava. Tentai di replicare: “Non credo che tutto questo sia legale…”.
“Taci stronza! Fallo e basta” mi zittì subito il poliziotto, che cominciava ad armeggiare minacciosamente con il manganello. Mi trovai a pensare che era veramente un belluomo e quella divisa nera le conferiva un’aria assolutamente superba. Nonostante l’oggettivo disagio che provavo, cominciavo a sentire il mio perizoma che si bagnava dei miei umori. Era assolutamente assurdo… io cominciavo ad eccitarmi! La mia razionalità mi suggeriva di esigere l’assistenza di un avvocato, di proclamare a qualsiasi costo i miei diritti, che lì venivano negati… ma qualcosa dentro preferiva aspettare per vedere fino a che punto quei due volevano spingersi. Non avevo mai avuto esperienze simili, ma devo ammettere di averle sognate.
Poi sicuramente non potevano farmi niente di male, altrimenti ne avrebbero dovuto rispondere a qualcuno. Almeno cosi pensavo. E così obbedii ai loro comandi, prima mi sfilai una calza, presi il pizzo e cominciai a farla scivolare lungo la gamba, lentamente. Ormai ero entrata nel loro gioco, mi piaceva eccitarli, poi l’altra. Poi cominciai a slacciare i ganci del reggiseno, mi fermai un attimo vedendo la ragazzina che non mi toglieva gli occhi dal seno. Avevo la sua attenzione. Ora la faccio morire io. Cominciai con il tenermi il seno con un braccio, coperto ancora dal reggiseno, mentre l’altra mano toglieva una ad una le spalline, infine lo sfilai da davanti molto lentamente, guardandola fissa negli occhi. Per un attimo vidi nei suoi occhi il desiderio, poi io abbassai i miei. Dovevo togliere il perizoma, misi i pollici nei laccetti sui fianchi e lo feci scendere lentamente lungo le cosce e poi lo lasciai cadere a terra.
Alzai gli occhi e mi vidi nuda, alla loro mercè, priva di ogni volontà, mi vidi loro preda. Un rossore copri il mio volto, non so se era vergogna o se era il desiderio, l’eccitamento. Ero sempre convinta che la legge mi avrebbe comunque difeso da qualsiasi atto poco ortodosso, ma qualcosa mi suggeriva che niente mi avrebbe potuta aiutare e che in effetti non sapevo neppure se quei due fossero autentici poliziotti. La cosa comunque mi eccitava da morire. Mi piaceva essere al centro della loro attenzione, delle loro fantasie, del loro potere.
Il poliziotto si avvicinò, sentivo il suo profumo, la sua divisa nera di pelle mi sfiorava il seno, lo sentii allungare la sua mano sopra il mio pube, accarezzarlo. Lo guardai, lui fece entrare fra le labbra del sesso le sue dita, mi prese il clitoride e lo strinse, forte. Non riuscivo più a sostenere il suo sguardo e mi appoggiai a lei emettendo un mugolio… dolore o piacere… non so.
Razionalmente non pensavo lui potesse farlo, non me l’aspettavo, ma il mio corpo ora era desideroso di altre sensazioni. Quel poliziotto non mi stava perquisendo; mi stava facendo un vero e proprio approccio erotico. Era legale? Non penso, ma poco aveva importanza ormai. Ero là in piedi con le braccia lungo il corpo completamente a loro disposizione, lui che mi stava massaggiando il sesso e io che morivo di desiderio. Era solo un porco ecco quello che era, ma io non feci nulla per impedirglielo. Forse avrei potuto ma non volevo.
Ricordi non molto lontani mi riaffioravano nella mente. Sono ricordi di notti precedenti dove le mie fantasie mi portavano a immaginarmi al posto di quello stronzo di poliziotto, dove la mano scendeva sotto le lenzuola e accarezzava il mio sesso. Nonostante la sua arroganza che provocava in me una repulsione, avevo il desiderio che continuasse, che quel gioco iniziato non so come, non finisse. Avverto in lui il piacere che gli provoca avermi a sua completa disposizione, abusare del mio corpo, sottomettere la mia mente, far saltare ogni mio limite. Il ricordo di un tempo non troppo lontano dove la parola Padrone si ergeva sul mio corpo, mi giunse nella mente quasi falciando ogni mio ultimo limite, ormai inesorabilmente il lato oscuro della mia natura è uscito allo scoperto.
La sua mano cominciava a far entrare una ad una, con movimenti ritmici le dita dentro il mio sesso. Non so come, cercai di fare un passo indietro. L’altra mano mi blocco contro il suo corpo. La sua bocca sfiorò le mie labbra. Non le bacio. Le sfiorò. Sentivo il bisogno estremo di arrivare all’orgasmo. Cominciai a collaborare, allargai le gambe per far penetrare meglio le sue dita, e sporsi il culo verso la sua mano che mi stringeva a sé. Mi strisciavo lungo la sua divisa, non pensavo che stavo umiliando me stessa per avere un orgasmo. Dalla mia bocca uscirono dei gemiti sommessi, e me ne pentii subito. Sentii la sua mano lasciare la presa.
Con la coda dell’occhio, vedevo a pochi passi da me, la ragazzina osservarmi con un sorrisetto beffardo, protetta dalla sua bella divisa nera, mentre fletteva tra le mani un frustino. Dal suo sguardo sembrava pronta ad usarlo sul mio corpo, se solo osavo ancora aprire la bocca o ribellarmi. Il mio razionale mi infonde una paura terribile, ma continuavo a ripetermi che non potevano farlo, che qualcuno sicuramente si sarebbe accorto della mia assenza, che la mia auto avrebbe attirato l’attenzione, che…
Così il poliziotto mi prese nuovamente il clitoride fra le dita e, cominciò nuovamente a masturbarmi, la mia eccitazione era ormai sul punto di esplodere.
Sentivo l’umore scorrere lungo le mie cosce, sentivo le sue dita giocare spudoratamente con il mio sesso, sentivo il suo sguardo osceno controllare la mia fica, il mio respiro accelerava, la mia voglia ormai era al suo culmine. Non potevo più evitarlo. Mi lasciai andare ad un lungo gemito di godimento. Il poliziotto tolse la sua mano, la esaminò e con aria da ipocrita, fece un motto di sorpresa. Si girò e la fece vedere alla sua collega: dalle sue dita stavano colando i miei umori, densi come le bave di una cagna.
“Faglieli leccare. E’ solo una cagna in calore, dai…” disse lei.
La ragazzina mi prese per i capelli e mi rialzò il viso. Il poliziotto con la sua mano ancora umida mi passo davanti e mi impose di leccarla. Non era più di sicuro un arresto legale, ma solo un sopruso, un sopruso al quale non riuscivo ad oppormi.
Ora avvertivo il freddo gelido della stanza. Il poliziotto che mi aveva masturbato, si rivolse alla ragazzina con un sorrisetto compiaciuto e, come le stesse impartendo un nuovo insegnamento, le spiegava: “Ecco, vedi? Vorrebbe essere trattata come una persona civile, con tutti i suoi diritti eccetera eccetera… Eppure, le è sufficiente essere ispezionata da una divisa militare, per eccitarsi come una troia!”. La mia mente si ribellava a questa affermazione. Ma effettivamente non potevo confutarla, non riuscivo a dire nulla, non riuscivo a trovare giustificazioni a quel calore che aveva posseduto il mio corpo e che ancora era li, assopito ma era li.
Il poliziotto mi fissava con una smorfia di compiacimento, perfettamente consapevole della mia ansia, e del mio stato di calore. Capii che questo, in qualche modo, lo faceva sentire legittimato per quello che stava facendo, e lo sentii dire alla ragazzina: “Non riesce a controllare i suoi istinti animali, neppure al cospetto di persone che possono decidere del suo destino… Questo è il suo problema! No! Non può tornare nel mondo normale! Finché si comporta come una lurida cagna in calore, che non riesce a dominare i propri impulsi, può costituire un pericolo per sé e per gli altri!”.
“Noooooooo…”. Cavolo che cosa stavano dicendo? Cercai di raggiungere la scala che portava verso la porta blindata, ma il poliziotto con il manganello mi sferzò un colpo ad un fianco, che mi fece crollare carponi sul pavimento.
Quando finalmente mi ripresi mi trovai trascinata sopra ad un cavalletto già preparato in una cella che faceva parte ancora dello scantinato. La luce bassa si diffondeva nella stanza, e allungava le ombre.
Sentivo che il poliziotto stava legando le mie caviglie alle gambe del cavalletto, la sentivo stringere. Ora le mie gambe erano divaricate e la mia intimità esposta e aperta al loro volere.
La ragazzina mi prese i polsi e li appoggiò su un legno, vicino alla mia testa, poi mi chiuse in una specie di gogna. Ero praticamente loro prigioniera.
La ragazzina scivolò dietro di me, la sentivo flettere quel frustino. Non riuscivo a vederla. Ma sentivo quel frustino fra le sue mani. Il poliziotto si mise di fronte a me. Riuscii ad alzare la testa un poco, ero spaventata ma anche curiosa. Lo vidi sbottonarsi la giacca della divisa, ed apparire gli addominali scolpiti come quelli di una magnifica statua di marmo. Sotto non aveva altro. Si slacciò la cinta e abbassò pantaloni. Non aveva biancheria intima. Li fece scendere fino alle ginocchia.
Si chinò su di me, mi prese per i capelli e tirò la mia testa verso la sua: “Ragazza, questa è una prigione.. devi cominciare ha entrare nel tuo ruolo. Ormai qui sei la detenuta, non ti è permesso alcuna pulsione sessuale, e specie quella in cui ti sei fatta sorprendere prima. Non dovrai in alcun modo raggiungere l’orgasmo, avere calore se non che noi lo vogliamo.. ricordalo ci saranno forti punizioni per te cagna. Ricordalo”.
La mia mente si ribellava a questa affermazione e il mio corpo fremeva in un moto di rabbia e di frustrazione, che altro non faceva che esaltare il loro potere. All’improvviso una sonora vergata colpi le mie natiche. Il mio corpo sussultava in modo incontrollato, ma i suoi movimenti erano limitati per via della posizione costrittiva in cui si trova. Non feci neppure in tempo a riprendermi dal quel bruciore insopportabile, che subito ricevetti un’altra scudisciata, e poi una raffica violenta di altre cinque o sei. Mi stavo segnando il collo e i polsi imprigionati dalla gogna, nel patetico ma istintivo tentativo di sottrarti a quella fustigazione del tutto gratuita. A ogni colpo che ricevevo, immaginavo la ragazzina in piedi alle mie spalle, con la sua austera divisa nera e gli stivali lucidissimi, brandire nuovamente in alto il frustino, totalmente incurante del dolore che mi sta infliggendo.
Nell’arco di un breve sprazzo di lucidità, riuscii a vedere ancora davanti a me il poliziotto, che aveva cominciato a masturbarsi; mi stava usando come ispirazione per la sua eccitazione. Il mio dolore era il suo piacere. Alle mie spalle sentii il tipico fruscio di vestiti che vengono slacciati. La ragazzina si stava spogliando… per masturbarsi anche lei. In effetti poco dopo cominciai a sentirne i suoi gemiti. Immaginavo quella puttanella seduta a un banco di scuola, mentre con la sua aria da brava ragazza, fantasticava sulle possibilità che aveva di asservire ai suoi piaceri le sue compagne di scuola e professoresse.
La sentivo godere, la sentivo latrare la cagnetta. No! Non riuscivo proprio a sopportare quell’umiliazione, ma ero costretta a rassegnarmi alla condizione: ora ero in balia di quei due poliziotti, ai quali, almeno per gioco, a qualunque essere umano sarebbe piaciuto essere sottomesso. Solo che non riuscivo a capire dove sarebbe finito quel gioco.
Sentivo il calore del mio corpo aumentare ad ogni loro gemito, sentivo l’odore acre dei loro sessi in calore, sentivo i loro sguardi passarmi ogni parte del mio corpo, ogni recesso più nascosto; avevo un bisogno estremo, impellente, di masturbarmi, di associare il mio piacere al loro. Ma in quello stato non avrei potuto farlo, non avrei potuto toccare nulla, anche se cercavo di strisciare disperatamente la mia fica contro il cavalletto. Ad un tratto sentii la mano fresca e delicata massaggiarmi le natiche, e poi insinuarsi impudentemente tra le grandi labbra e gingillare con il clitoride.
Dopo poco la mano si ritrae: “E’ bagnatissima! E’ una lurida cagna in calore…”.
“Colpiscila più forte!”. Lo sentii ordinare.
Quindi, senza alcuna riserva, la stronzetta ricominciò a fustigarmi il sedere con più crudeltà, e questa volta mi colpii ininterrottamente per almeno una quindicina di volte. La mia voce mi si rompeva in gola, non riuscivo ad emettere nessun gemito, il mio corpo contorceva, mentre il poliziotto continua a masturbarsi liberamente, di fronte a me.
Non so ancora come e quando, ma decisero che si erano divertiti a sufficienza, si ricomposero lanciando improperi contro di me, e sputando sulle mie ferite. Mi sciolsero dal cavalletto e dalla gogna.
Mi fu finalmente concessa una doccia calda. Mi trovai in una sorta di studio molto elegante, con tappeti damascati, poltrone in pelle, una biblioteca piena di volumi, una massiccia scrivania con un pc, un paio di costosi abat-jours lasciati accesi su tavolini in altrettanti angoli della stanza, piante sparse un po’ ovunque e lunghe tende bianche su ampie finestre, dalle quali entra la luce di una giornata grigia.
Ero in piedi al cospetto della bionda. Io, completamente nuda, con i polsi ammanettati questa volta davanti; lei invece, aveva i soliti stivali neri lucidissimi, i tipici pantaloni blu della polizia, con una banda bianca sul fianco, sorretti da una cintura nera con la fondina della pistola e il manganello. Al di sopra della cintura, si stagliava il suo fisico bianco e statuario, completamente nudo.
Si teneva le mani ai fianchi, in atteggiamento autoritario, ed espone con fierezza il suo seno marmoreo, con i grossi capezzoliturgidi e pesanti puntati verso l’alto.
Nella mente mi si affollavano tante domande.. ma anche un unico pensiero.. era veramente bella quella dannata troia. “Sei solo un mio capriccio. Mi serviva una cagnaleccafighe, perché io vivo solo per godere… E così mi sono presa te! Rassegnati… La tua opinione non conta più niente. Sei solo un mio strumento di piacere. Ti conviene essere obbediente e remissiva. Altrimenti… so io come insegnarti la disciplina!”.
Poi, mettendosi le mani dietro la schiena, mi ordinò: “E adesso puoi leccarmi lafiga!”.
Ero sconvolta e disorientata, la mia vita mi stava sfuggendo, non era più mia, nulla mi apparteneva, eppure non riuscivo a togliermi dalla testa che la desiderava, volevo essere la sua cagna preferita. Mi inginocchiai di fronte a lei, sempre con i polsi ammanettati, le slacciai la cintura, che con il peso della pistola e del manganello mi agevolava nel far scendere velocemente i pantaloni fino alle caviglie. Le sue gambe, tanto nelle cosce quanto nei polpacci, sono splendidamente affusolate. Poi le abbassai gli slip, e una folata dell’odore della sua figa bagnata mi giunge alle narici, e mi eccitò ancora di più. Fra le grandi labbra vedevo colare il suo umore caldo e denso. Un istante prima di infilare la testa fra le sue cosce, la vidi guardarmi dall’alto, soddisfatta, a gambe divaricate. Era troppo eccitata, e non riuscì più a tenere le mani dietro la schiena. Cominciò ad accarezzarsi i seni. Io avvicinai la bocca alla sua figa, tirai fuori la lingua e cominciai a leccare il suo umore.
Il suo sapore era dolcissimo, mi fece scivolare dalla mente tutto quello che ero stata prima, una nebbia scese su di me, ora ero solo la sua cagna, la sua perfetta schiava.
Una schiava che avrebbe fatto godere la sua padrona come e quando, e quanto voleva, sempre ai suoi ordini. Ceduta e ripresa quando e come voleva… una schiava per il suo piacere.
Per fare quattro chiacchiere: evoman@libero.it

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