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OrgiaRacconti di Dominazione

Desaparecida

By 27 Giugno 2006Dicembre 16th, 2019No Comments

Aprirono la porta della cella ed entrarono urlando come furie. Elena s’era appena assopita: le grida dei prigionieri torturati non le avevano permesso di chiudere occhio ma vinta dalla spossatezza, alla fine s’era accasciata sul freddo pavimento di cemento. Mentre i due secondini la trascinavano per le braccia, tenendola quasi sollevata da terra, lungo un buio corridoio su cui si affacciavano le porte metalliche delle celle, ebbe il tempo di ripensare ai genitori, al fratello che, nel pieno della notte, avevano dovuto assistere al suo arresto, subire violenze e umiliazioni da parte d’una decina di uomini mascherati, in borghese, probabilmente militari o poliziotti.
L’avevano tirata giù dal letto per i capelli e portata al piano terra dove già si trovavano gli altri componenti della famiglia. Era in reggiseno e slip. Colpirono allo stomaco, con il calcio d’un fucile, il padre che aveva tentato di protestare. Lo vide piegarsi in due e rantolare mentre s’accovacciava a terra. In cucina due o tre del gruppo s’erano seduti a tavola e stavano mangiando col frigorifero aperto, il cui contenuto, quello non finito sulla tavola, lordava il pavimento. Chi pareva essere il capo, l’afferrò nuovamente per i lunghi capelli neri, strattonandoli violentemente verso l’alto fin quasi a mantenerla sulla punta dei piedi. Gli occhi le lacrimavano per il dolore, le gambe le tremavano e a malapena percepì ciò che l’aguzzino urlava: volevano sapere dove stavano altri suoi amici, compagni d’università. Forse, pensò, non li avevano trovati, erano riusciti a fuggire. Diede gli indirizzi. Per tutta risposta ricevette un ceffone che l’avrebbe fatta cadere a terra se non fosse stata trattenuta per i capelli: non erano nelle loro abitazioni.
Spinsero l’intera famiglia nell’ampia cucina. Il capo fece sgombrare il tavolo. Indicò la madre. La donna fu afferrata e stesa supina, legata, con ruvide corde di canapa, in modo che le gambe rimanessero divaricate, ancorate alle gambe del tavolo, le braccia tese all’indietro, a loro volta immobilizzate da corde annodate sempre alle gambe del tavolo. Le aprirono, con una baionetta, la vestaglia: non portava mutande, era completamente nuda, una bellissima donna di poco più quarant’anni alla mercé d’una decina di bruti. Rivolgendosi al padre, uno dei mascherati gli annunciò che quella troia di sua moglie lo aveva sicuramente già fatto cornuto e che di lì a poco avrebbe visto la puttana godere con dei veri uomini. Sempre lo stesso energumeno, puntandogli un revolver alla tempia, gli ordinò di calarsi i pantaloni del pigiama e di mostrare a tutti se fosse fornito dei “giusti” attributi. Elena avrebbe voluto voltarsi, non aveva mai visto il sesso del padre ma soprattutto non sopportava che lo umiliassero in quel modo. Il capo, intuendo forse i suoi pensieri, con una mano le tenne la testa direzionata verso il genitore, comandandole di osservare bene. Suo padre era nudo dalla cintola in giù e, per l’emozione, la paura, mostrava un pene molto piccolo che sembrava volersi rintanare. Tutti i componenti della banda ridevano e insultavano il pover’uomo che, a capo chino, singhiozzava.
Si fece avanti il primo stupratore, pantaloni abbassati, membro eretto di grosse dimensioni, con un glande violaceo; sputò per inumidire il glande e penetrò d’un sol colpo la vagina della donna che emise un breve grido rauco. Altri si misero a torcere e a tirare i seni della donna. Uno sgherro puntò la mitraglietta contro la patta del fratello di Elena: se la signora non avesse accettato di ospitare nella bocca i loro arnesi o se coi denti avesse fatto qualche brutto scherzo, suo figlio sarebbe stato evirato con una raffica di mitra. Così nella vagina e nella bocca della povera donna, si alternarono cazzi in continuazione. Era già stata stuprata da tre uomini e ne aveva soddisfatto oralmente almeno altri cinque – lo sperma le usciva dai lati della bocca – che cominciò ad ansimare: evidentemente stava godendo sotto i colpi del quarto energumeno. Elena notò che il cazzetto del padre si stava animando. Com’era possibile? Di fronte a quello scempio, a quelle efferatezze, suo padre si eccitava. Guardò verso il fratello, di poco più giovane di lei, e, con disgusto, vide che dalla patta senza bottoni dei pantaloni del pigiama, gli usciva l’uccello duro. Non ebbe tempo per deprecare ancora la cosa. Le mani del capo, sistemato alle sue spalle, s’erano infilate nello slip, l’avevano abbassato e alcune dita le titillavano il clitoride mentre altre ora le mantenevano aperte le grandi labbra ora si infilavano nella figa. Aveva il duro cazzo dell’uomo puntato sul solco delle chiappe. Sapeva di non dover reagire per non provocare guai peggiori. Con rassegnazione accettò quell’ispezione sempre più approfondita. Sentì che stava bagnandosi e che l’eccitazione ormai l’aveva afferrata. Guardava la madre ansimante, mugulante, godere mentre veniva fottuta con violenza e mentre sbocchinava con foga quei grossi cazzi; vedeva il padre, che a sua volta osservava la moglie e la figlia, masturbarsi con il viso stravolto dalle mille emozioni; il fratello che se lo menava velocemente. Ma cosa stava accadendo? Si erano trasformati tutti in mostri. La bestialità degli assalitori s’era impadronita anche di loro. La paura di soffrire, di morire, aveva fatto accettare a persone, fino a quel momento, moralmente irreprensibili, una situazione d’una perversità, d’una brutalità innominabili.
Si sentì spingere da dietro. Si ritrovò, con la figa fradicia, di fronte al fratello. Due mani forti, sulle spalle, l’obbligarono ad inginocchiarsi. Il cazzo del fratello all’altezza del viso. Aprì automaticamente la bocca e iniziò a leccarlo. Gli succhiò le palle, passò la lingua dallo scroto sino alla cappella come se raccogliesse le gocce d’un cono gelato. Dalle spalle le mani s’erano portate alle tette, alle sue belle sode tette, facendole uscire dalle coppe del reggiseno. Le stringevano, a volte sentiva male, ma la eccitavano da morire. E quell’eccitazione perversa le fece ingoiare e succhiare avidamente l’uccello fraterno. La figa in fiamme avrebbe voluto un cazzo che la riempisse.
Aveva perso la verginità due anni addietro, ma non conservava un buon ricordo della prima volta. Successivamente ebbe altri due ragazzi e uno, in particolare, seppe farle provare sensazioni stupende. Non s’era mai innamorata ma per far sesso aveva bisogno di ricevere e dare affetto, di provare stima, fiducia nell’uomo che l’avrebbe presa.
Pazzesco: stava commettendo un incesto eppure provava solo piacere, piacere fisico. No, in realtà
provava anche un secondo sottile piacere. Avrebbe voluto negarlo a sé stessa ma fare sesso con
suo fratello, sebbene costretta, la eccitava moltissimo. Girò appena gli occhi per controllare verso il tavolo, mentre continuava a spompinare, se la madre potesse vederla. Infatti la guardava con l’espressione stravolta dall’ennesimo orgasmo. Ormai se l’erano sbattuta tutti.
Sempre da dietro fu risollevata e gettata tra le gambe della mamma. Delle cinghiate sulle chiappe la fecero sobbalzare mentre intorno i ceffi le davano della troia, della cagna in calore. Fu costretta a piegarsi a novanta gradi, con la bocca in corrispondenza della più che dilatata figa materna da cui uscivano fiotti di sperma. Capì. Chiuse gli occhi e iniziò a leccare le labbra rosse, gonfie della vagina. La lingua individuò il clitoride: era grosso, eretto come un piccolo cazzo. Lo succhiò provocando sospiri e fremiti nella madre. Sentì un cazzo bello duro appoggiarsi alla sua figa, lo sentì spingere e scivolare dentro senza fatica. Una voce alterata, quasi supplichevole le chiedeva perdono: suo fratello la stava scopando. La stava scopando divinamente e l’orgasmo sarebbe arrivato presto. Udì l’ordine che intimava a suo padre di mettersi sotto di lei e di leccarle la figa. Adesso la lingua del padre le stava procurando, assieme al cazzo del fratello, mentre lei leccava la figa slabbrata della madre, sensazioni fortissime, stava godendo come una troia senza ritegno. Ogni tanto sbirciava: s’accorse che tutti attorno si masturbavano e uno stava filmando la scena. Venne gridando mentre costringevano il fratello a sborrarle nella figa. La lingua del genitore saettava intorno al cazzo del figlio e si soffermava sul clitoride picchiettandolo. L’urlo di piacere le fu quasi soffocato dalla mano che la spinse ad affondare la bocca nella figa della madre. Venne anche la mamma e poi … Poi fu il buio. La incappucciarono, le legarono i polsi dietro la schiena, la trascinarono nuda fuori di casa e la scaraventarono come un sacco nel bagagliaio d’un automezzo.
Percorsero molta strada. La tirarono fuori mezza acciaccata. Le voci rimbombavano, sentiva ordini
militareschi, motori che si avvicinavano e si allontanavano. Fu spinta contro un muro. Toccò la
pelle di qualcun altro. Era stretta tra due corpi altrettanto nudi. Tremava più per la paura che per il freddo pungente. Due dita s’infilarono brutalmente nella vagina, poi nell’ano. Una specie d’ispezione, pensò. Una voce imperiosa li avvertì che non potevano assolutamente, pena la morte immediata, togliersi il cappuccio, nemmeno quando sarebbero stati in cella. Venne legata per una caviglia a chi le stava davanti e dietro; in fila li condussero alle prigioni. Passarono attraverso dei locali dove tra bestemmie e insulti, urla disumane, colpi sordi, puzzo di carne bruciata, richieste di pietà seguite da grida di dolore, capirono d’essere giunti all’inferno. Le slegarono la corda alla caviglia; venne spintonata in quella che doveva essere la sua cella. La porta si chiuse con un boato. Camminò alla cieca e realizzò d’essere in uno spazio di circa due metri per tre, senza arredi, ed era sola. Si sedette a terra in un angolo e cominciò ad ascoltare. Le grida di sofferenza erano ben percepibili come anche l’odore nauseabondo di carne bruciata. All’improvviso s’aprì la porta. Sentì dei passi dirigersi verso di lei, una voce calma la chiamò figliola e le disse di inginocchiarsi. Sebbene il dolore della graniglia che penetrava nella carne fosse acuto, cercò di resistere in quella posizione. La voce si presentò: era una tal Don …, prete cattolico, confortatore e confessore di quella prigione. Con voce suadente l’informò ch’era lì, appunto, per confessarla. Lei accettò da buona praticante. Dopo il breve rituale, il prete l’informò che da brava cristiana doveva confessare ogni cosa. Lei gli parlò sommariamente dello stupro e del piacere perverso che ne aveva ricavato. Lui volle che entrasse maggiormente nei dettagli. Lo accontentò. Poi le chiese, in modo più autoritario, di svelare dove si fossero rifugiati quei grandi peccatori dei suoi compagni, terroristi nemici dello Stato e di Dio. Ma lei non lo sapeva, li aveva conosciuti all’università e si frequentavano solo là. Aveva menzionato a chi l’aveva “prelevata” alcuni nomi e indirizzi di casa: era tutto ciò che sapeva.
Un manrovescio la fece cadere di lato. Due mani forti la rimisero in ginocchio. Se era così stupida da non confessare, l’avrebbero ammazzata lentamente tra mille dolori atroci. Intanto doveva chiedere perdono per la sua sfrontatezza e baciare ossequiosa il sacro simbolo religioso. Sì, voleva chiedere perdono. Le fu sollevato il cappuccio quel tanto da scoprire la bocca. Arricciò le labbra come per prepararsi a baciare ma sentì appoggiarvisi la cappella d’un grosso cazzo che spingeva. Una mano dietro la nuca la forzava contro quel muscolo duro. Fu trapanata in bocca da un cazzo enorme che si spinse sino all’epiglottide, provocandole conati di vomito. La mano dietro la testa le imponeva un ritmo velocissimo: sentiva la bava colarle ai lati della bocca, bagnarle i seni, le cosce. La voce prima comprensiva, adesso era minacciosa e le prospettava l’inferno in terra, una morte orribile. Il cazzo le eruttò in gola una quantità esagerata di denso sperma. L’orgasmo del prete, se era un prete, fu condito da epiteti e insulti immondi. Come ultima notizia, fu informata che lì tutte le donne di qualsiasi età erano considerate peggio delle peggiori prostitute e che dovevano soddisfare quotidianamente gli appetiti sessuali non solo dei secondini ma anche quelli del migliaio di soldati del vicino campo militare.
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Segue … La sferzata di gelo che la sottrasse al buio, al nero di un sonno, d’una specie di morte che l’aveva avvolta come la coperta d’un qualche pietoso samaritano, la riportò all’orrore, allo strazio di quanto vissuto chissà se un giorno prima, qualche ora prima o solo pochi minuti addietro. La stavano innaffiando e il getto era tanto potente da farla rotolare. Il sacchetto di panno fradicio, a mo’ di passamontagna, appiccicato al viso, le impediva di respirare. Le mani legate dietro la schiena, avevano perso sensibilità, un bruciore lancinante saliva dagli intestini per trasformarsi in urlo silenzioso nella gola secca. La doccia ghiacciata non leniva minimamente l’arsura che aveva dentro. Tremori continui agitavano il suo corpo. Non era per il freddo. I muscoli, i nervi sembravano impazziti. Doveva bere, avrebbe voluto bere qualsiasi cosa purché si estinguesse il fuoco che bruciava le viscere. Chiuso il getto, percepì la voce beffarda d’un uomo che l’avvertiva: non le avrebbero dato da bere per alcune ore altrimenti si sarebbe gonfiata come una rana, fino a scoppiare; l’elettricità, la pica’a non andavano d’accordo con l’acqua.
Ricordava che l’avevano trascinata a lungo per scaraventarla in mezzo a dell’altra gente, tutti seduti a terra, appiccicati nudi gli uni agli altri. Qualcuno si lamentava debolmente, chi le stava vicino pregava. Singhiozzi, pianti, tutti sottotono. Poi la voce di qualcuno, di una guardia che indicava di prelevare quella con le tette grosse e il ragazzino. Sentì le implorazioni d’una ragazza, l’ondeggiare dei corpi lì vicino, silenzio, nuovamente la ragazza che implorava e poi … Poi le urla disumane che supplicavano di smettere, le risate e le frasi sconce di uomini che inequivocabilmente stupravano, sentì l’ordine di usare le tenaglie, urla acutissime di dolore, ancora urla e grida feroci, ronzii sempre più forti, odore nauseabondo di carne bruciata, ronzio e urla, comandi di prelevare altri. Venne sollevata per le ascelle da due persone. La tennero in piedi per qualche minuto poi sentì delle catene attorcigliarsi ai polsi e alle caviglie. Le braccia e le gambe si tesero sempre più, non toccava terra, era come in croce, con gli arti a formare una ‘x’. La chiamavano puttana, troia e le promettevano che da lì a qualche minuto avrebbe confessato d’essere tutto quello che volevano loro. Un cazzo premeva contro l’ano; udì che si lamentavano perch&egrave la vacca monto’era l’aveva ancora stretto: quei terroristi monto’eros avevano degli uccelli ridicoli. Le infilarono un tubo di ferro nel sedere ruotandolo e andando su e giù. Quasi svenne dal dolore atroce. Il male era tanto intenso che non aveva nemmeno il fiato per urlare. Del liquido, sicuramente sangue, le colava lungo le cosce. Mentre la sottoponevano alla dilatazione anale, a turno venne scopata da almeno cinque uomini che le eiacularono dentro. Chi la martoriava dietro, si disse soddisfatto. L’aveva sfondata e adesso era pronta. Fu sodomizzata e contemporaneamente scopata senza pietà ancora da cinque sei uomini. Constatarono che aveva la vagina fradicia benché la puttana non avesse goduto. In realtà aveva avuto più volte l’orgasmo ma non voleva che quelle bestie se ne accorgessero. Provava una tristezza infinita per aver raggiunto il piacere mentre facevano scempio del suo corpo però non poteva opporsi, era come una cosa meccanica. Le tirarono le tette e le consigliarono di dire dove si nascondevano quei porci dei suoi compagni. Anche se avesse voluto parlare, non le lasciarono il tempo: trafissero i seni alla base con qualcosa di molto acuminato; non era dolorosissimo ma sentire quelle punte che trapassavano la carne e uscivano dalla parte opposta, la spaventò molto. Le applicarono come una pinza ad una delle piccole labbra vaginali e un’altra le fu fissata ad uno dei ‘ferri da calza’, così li avevano chiamati, che le trapassava la tetta. In un attimo capì cos’erano i ronzii, l’odore di carne bruciata. Le scosse elettriche divennero sempre più potenti; il ferro nella tetta s’era arroventato e pareva che il seno le volesse scoppiare. Urlava a squarciagola, implorava di smettere. Il corpo tremava e ondeggiava sospeso. Urinò e defecò. Dalla vagina si trasmettevano fitte lancinanti che attraversavano gli intestini. Fu terribile: le tolsero la pinza e le misero un elettrodo direttamente nell’utero, cambiando anche seno, poi nel retto. Perse i sensi parecchie volte ma, facendole odorare della canfora, la risvegliavano subito. Probabilmente venne a mancare un’ennesima volta quando decisero di ricondurla svenuta in cella.

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