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Racconti di Dominazione

Di natura

By 7 Luglio 2010Dicembre 16th, 2019No Comments

Entrò nella mia vita improvvisamente, come un temporale estivo. Simile anche nel profumo, frizzante e nuovo, malinconico a tratti. La conobbi una sera di giugno, fuori dal pub dove ero solito incontrare il mio gruppo per una birra e una chiacchierata. Lei accompagnava un mio amico, mentre faceva il giro delle presentazioni il suo volto sorridente mi fissò solo per un attimo, non mi riconobbe. Io invece la compresi subito, forse per la profondità che lessi nel pozzo dei suoi occhi, o magari per il modo che aveva di stringere la mano, delicato, come se ti offrisse un passerotto ferito che con una minima pressione avresti potuto uccidere. Qualcuno approfittò per scortarla al bancone a prendere da bere, io chiesi al mio amico cosa ci fosse tra loro: ‘Ma che ne so F., questa è parecchio strana.’ ‘Indubbiamente; la cosa incredibile è che tu te ne sia accorto’, pensai. Il mio amico non era famoso per la sua sensibilità, era il classico tipo che dalle donne pretende 3 cose: che siano carine, mondane e che respirino. Come gli fosse capitato quel gioiello tra le mani era un mistero su cui volevo indagare, ma prima che potessi chiedere altro lei tornò con un bicchiere rosa in mano. La coinvolsero nella conversazione, così ebbi modo di osservarla a lungo; sapeva vestire in modo da mettere in risalto il corpo snello, quella sera indossava un paio di jeans tagliati a shorts, una canottiera aderente e sandali con i laccetti, legati alti con vari giri di nastro nero che le fasciavano le caviglie ed i polpacci fini. Dal nodo finale, le sue cosce bianche e sode fiorivano come gigli, suscitando in me immagini cruente. Ma il dettaglio che più mi entusiasmò fu il pezzo di stoffa nero che le avvolgeva il collo: né sciarpa né collana, da subito mi aveva richiamato alla mente l’idea di un collare. Il viso struccato non era bello, non c’era armonia, ma nonostrante questo non era possibile staccarne gli occhi: in ogni istante l’espressione cambiava mettendo in risalto ora gli zigomi alti, ora le sopracciglia perfette, ora la bocca ampia dalle labbra generose e dai denti leggermente irregolari. Era un catalizzatore di attenzione, anche perché non mostrava alcuna timidezza: guardava dritto negli occhi chi parlava, rispondeva in tono pacato ma aggiungendo commenti buffi ed ironici, spesso sorrideva in modo particolare, come se la grazia di un’affermazione avesse un senso nascosto e noto a lei sola. Dopo mezz’ora era riuscita a superare la diffidenza delle fanciulle e a suscitare vivo interesse nei ragazzi, un successo che nessun’altra outsider del gruppo poteva vantare. Ancora più incredibile, quando si allontanò per andare in bagno i commenti furono non solo unanimemente positivi, ma civili e garbati. A quel punto sentii il bisogno di uscire per fumare una sigaretta e ragionare sul mistero di una ragazza che aveva estirpato la volgarità da quelle bestie dei miei amici. Cos’era, una specie di fatina buona? Una di quelle donne che redimono e avvicinano a dio, come nella letteratura medievale? Speravo proprio di no. Il mio amico mi raggiunse fuori e potei continuare l’interrogatorio: scoprii che si erano conosciuti nell’immenso girone infernale moderno che chiamiamo internet e dentro di me maledissi la sua fortuna; poi lui mi raccontò che lei si era subito mostrata disponibile ai suoi approcci, che a letto era fantastica, e che dopo quella volta non gli aveva più permesso di avvicinarsi troppo. Risi sotto i baffi della confusione e dell’ingenuità del mio amico, ma mi guardai bene dal far crollare la sua autostima facendogli notare che probabilmente per lei quell’unica volta era stata tutt’altro che fantastica. Lui comunque sosteneva di non essere coinvolto: ‘Parliamoci chiaro F., figa è figa, ma non fa per me. Certe volte non capisco nemmeno quello che dice.’ Campo libero allora, ottimo. Rientrammo, e feci in tempo a vederla mordicchiare la fragola che guarniva il suo cocktail con aria distratta, lo sguardo perso nel vuoto. Senza pensarci due volte occupai il posto libero accanto a lei e senza dirle nulla iniziai a giocherellare con gli oggetti sparsi sul tavolo. Un ombrellino di carta azzurro, un sottobicchiere, un pezzo di foglio d’alluminio, una buccia di pistacchio’In breve, costruii una minuscola nave da crociera, con parapetti, vele e piscina, nonché persone sdraiate e un cane fatto di ossi di oliva. Lei ammirò la mia creazione in silenzio, poi prese il portacandela che decorava il nostro tavolo e infilò piano i polpastrelli nella cera bollente. Se fino a quel momento non ero completamente certo della correttezza della mia prima impressione, il suo viso estasiato dal dolore mi tolse ogni dubbio. Senza cercare di catturare il suo sguardo le mormorai di venire fuori con me e mi alzai. Lei mi seguì senza una parola. Uscimmo, e l’aria fresca della notte le scompigliò i capelli; fece il gesto di risistemarli, ma la bloccai afferrandole il polso. Questa mossa ci aveva avvicinato parecchio, il suo corpo era a pochi centimetri dal mio, ma non era ancora il momento: mi limitai ad abbassare il suo braccio e le rimisi io stesso a posto la ciocca di capelli ribelle. Poi le offrii una sigaretta, che accettò ringraziandomi con un’occhiata furtiva, in cui lessi una punta di sconcerto e molta curiosità. Le chiesi cosa facesse nella vita. ‘Studio chimica, sono al penultimo anno.’ Ora era chiaro, normale che il mio amico non la capisse: le sue uniche nozioni di chimica riguardavano il contenuto dei funghetti di Amsterdam. Dunque lei era anche intelligente. Fino a che punto? Cosa aveva compreso di se stessa? Le feci altre domande generiche e seppi che viveva con i suoi, che adorava leggere e le piaceva la musica dei cantautori. Per tutto il tempo lei fumò a intervalli regolari, inclinando il lungo collo fasciato per soffiare via il fumo. All’improvviso gettò via il mozzicone e disse ‘Hai un gatto. Bianco.’ Cercai di nascondere la mia sorpresa e la corressi. ‘E’ un siamese, è beige.’ Lei allungò la mano e mi tolse un pelo dalla spalla, che risaltava come argento sul nero della maglietta. Di solito spazzolo i miei indumenti con estrema cura, ma quella volta non ero riuscito ad eliminare ogni traccia di Bast, la mia splendida gatta. ‘Mi porti a conoscerlo?’ Decisamente, questa ragazza sapeva stupirmi, ma nemmeno stavolta le concessi un cambiamento di espressione. ‘No, non le piacciono gli estranei. E io sono molto geloso di lei.’ Fece uno dei suoi sorrisi enigmatici, poi si voltò verso la porta del locale, il mio amico la stava chiamando. ‘Noi andiamo, G.’ Lei guardò me, lessi la domanda nei suoi occhi e fui io a rispondere per entrambi: ‘Va pure, lei torna con me.’ Con poche parole, il mio amico comprese di non aver più alcun ascendente su quella creatura, se mai l’avesse avuto. Lei si limitò a salutarlo con la mano e la faccia di lui non la scorderò mai, mise su un’espressione dura per mascherare lo stordimento e se ne andò a passo svelto verso la macchina. Io la presi per il gomito e la guidai di nuovo all’interno, dove le luci erano state abbassate e la musica araba, passione del proprietario, permeava l’aria. Ordinai due shots alla cameriera, assenzio per me, crema di cocco per lei. I bicchierini si toccarono delicatamente e mandammo giù il liquore guardandoci negli occhi. A quel punto decisi di volerla. Avvicinai la mia bocca alle sue labbra dischiuse e lucide, sentii il suo fiato dolce, poi le scansai i capelli e all’orecchio le sussurrai di seguirmi. Aveva le pupille dilatate, enormi pozze d’ombra su quel viso minuto, simile al musetto di un cane che sta decifrando se dalla tua mano tesa verrà una carezza o un gesto violento. Mi avviai fuori e senza aspettarla presi a camminare. Dopo poco lei mi raggiunse, mi chiese se abitassi lontano. ‘Qui dietro’ le risposi. Ogni tanto la guardavo con la coda dell’occhio, sembrava nervosa, giocherellava con un bracciale pieno di campanellini. Le passai una sigaretta per metterla a suo agio, e nel tempo di fumarla eravamo già sotto il mio portone. Facemmo le scale in silenzio e quando fummo davanti alla porta le dissi di spostarsi: aprii la serratura e Bast con un guizzo si infilò nello spiraglio. Prese a farsi le unghie sul tappetino con foga quasi maniacale e solo quando si ritenne soddisfatta alzò gli occhi sulla sconosciuta e poi su di me, quasi a chiedermi ‘chi è questa, perché porti altre femmine in casa’. La rassicurai con una grattatina dietro le orecchie e invitai lei ad inginocchiarsi e tendere la mano. La gatta l’annusò brevemente, poi sdegnosa rientrò in casa e capendo che sarei stato impegnato se ne andò in balcone al fresco, riservandosi di farmi pagare la mia mancanza di rispetto in seguito. La feci accomodare sul divano del salone, un ambiente piuttosto freddo ed impersonale che mi garantisce relativa immunità nelle rare visite parentali. Accesi il condizionatore e misi un disco di sonate per violini a basso volume. Mi sedetti accanto a lei e nella penombra iniziai a spiegarle cosa volevo. ‘Sei venuta qui di tua volontà, e altrettanto liberamente puoi andar via se non ti sta bene quello che ti chiederò. Ma se decidi di restare, sappi che non mi piace ripetere le cose due volte, né tantomeno essere contraddetto. Qui si gioca a modo mio, e anche se da quello che ho visto penso che ti piacerà, devo dirti che probabilmente ti farò del male. Il bracciale che hai al polso, voglio che lo togli e lo tieni stretto nel palmo della mano. Quando il dolore ti sembrerà eccessivo, dovrai lasciarlo cadere e il rumore dei campanellini mi dirà che vuoi smettere di giocare. Dal momento in cui inizieremo, questo sarà l’unico segnale che prenderò in considerazione da parte tua. Per il resto, ti tratterò a mio piacimento e se non farai ciò che ti viene ordinato sarai punita. E’ tutto chiaro?’ Sedeva immobile, solo un leggero cenno del capo mi testimoniò che aveva capito. ‘Dunque sei disposta ad essere la mia schiava stanotte?’ ‘Si’, stavolta lo disse, poi con un filo di voce aggiunse ‘Padrone’. Ebbi un fremito, di solito questa parola la devi tirare fuori con le tenaglie e invece lei la pronunciò spontaneamente, naturalmente quasi. Ero curioso di scoprire fin dove poteva spingersi la sua arrendevolezza e le ordinai di prendere il contenuto di un armadietto del salone e portarmelo. Lei barcollò leggermente sotto il peso del vassoio d’argento, anche perché non poteva aprire la mano sinistra per non far cadere il braccialetto, ma riuscì a posizionarlo sul tavolino di fronte a me. Le dissi di prepararmi un bicchiere di assenzio usando gli strumenti che erano sul vassoio e lei, in ginocchio, dispose la zolletta di zucchero sul cucchiaio intarsiato e iniziò a versare il liquore. Con mio dispiacere fece tutto a perfezione e quando mi offrì il bicchiere tenendolo con la punta delle dita le porsi quello che restava della zolletta come premio. La mangiò direttamente dalle mie mani, indugiando brevemente con le labbra sulla mia pelle. Se fosse stata un cane, a quel punto l’avrei vista scodinzolare. Sorseggiando il liquore le chiesi se avesse già fatto un’esperienza del genere con altri.
‘No, Padrone’ ed il tono era convinto, ma era difficile credere che nessuno l’avesse addestrata prima, era troppo brava. Ovviamente, c’è sempre un modo per farle sbagliare’ le ordinai di prendere un sigaro dalla scatola sulla libreria, lei eseguì ma quando provò ad aprirla, la cerniera le rimase in mano. Io sapevo che la scatola era già rotta, lei no: anche al buio vidi il suo rossore, sentii il fruscio dei mille pensieri che volavano nella sua testa; alla fine vinse la sua indecisione e mi venne davanti, con coraggio ma a testa china, a mostrare il suo misfatto. ‘Chinati, posa i gomiti sulla spalliera del divano.’ Lo fece senza una parola, come se d’istinto sapesse che le scuse avrebbero peggiorato la situazione. Da dietro, iniziai a sculacciarla con colpi secchi, su entrambe le natiche ancora coperte dagli shorts. Lei gemeva piano a ogni manata, i pugni stretti, uno col braccialetto e l’altro con la cerniera rotta che le era costata la punizione. Gli ultimi colpi furono violenti e ravvicinati, ma lei non si lamentò. Quando ritenni che fosse abbastanza, le dissi di farsi una doccia e che l’avrei aspettata nella camera in fondo al corridoio. Mentre ascoltavo il rumore dell’acqua cambiai le lenzuola del letto e accesi qualche candela, poi tirai fuori i miei strumenti dalla loro custodia e in quel momento lei apparve, i capelli umidi e solo un asciugamano a coprirla. Le dissi di toglierlo e lei lo lasciò cadere a terra. Il suo corpo mi si rivelò di colpo, e fu una scoperta da togliere il fiato: la pelle era perfetta, con pochi nei disposti ad arte; la pancia piatta con un accenno di addominali, il seno alto, grande giusto come il palmo della mia mano e poi il culo, ancora arrossato per il trattamento di prima, tondo e sodo. Con il pezzo di stoffa che prima le avvolgeva il collo la bendai, resistendo alla tentazione di strusciarle la patta gonfia sui glutei; poi la condussi verso il muro, dov’erano appese due polsiere di cuoio alla giusta distanza. Così immolata, così nuda, così cieca e così nelle mie mani la lasciai per qualche minuto, il tempo di scattare una foto e di oliare le verghe. Con quelle mi avvicinai e le infilai una mano tra le gambe, che lei prontamente divaricò, per quanto la posizione glielo consentiva. Era bagnata, come mi aspettavo che fosse, ma poiché avevo voglia di frustarla glielo rinfacciai.
‘Hai la figa che cola, troietta, ti piace essere sculacciata dal tuo Padrone, vero?’ Nel frattempo con le dita la frugavo, dandole ogni tanto pizzichi sul clitoride che la scuotevano tutta. Lei mugulava, muoveva il bacino per seguire la mia mano. ‘Ma guardati, sembri una cagna in calore’se volessi potrei farti scopare dal primo che passa, lo sai?’ Quando iniziò ad ansimare tolsi la mano e la colpii con le verghe sul seno: non se l’aspettava, emise un grido. ‘Sta zitta, puttana, stanotte sei roba mia’ e continuai a frustarla, mentre le sue tette si riempivano di lividi e piccole escoriazioni. Procurarle dolore mi dava un piacere inebriante, avrei continuato per ore ma non volevo rovinare quel capolavoro di corpo: al primo rivolo di sangue posai la frusta e le leccai il seno a lungo, giocando coi denti sui capezzoli martoriati. Lei ora era silenziosa, la mano sempre stretta a proteggere il bracciale perché non emettesse il minimo scampanellio. Le liberai i polsi e la sorressi sotto le spalle finchè non riprese l’equilibrio, poi le ordinai di inginocchiarsi davanti a me. Era ancora bendata, perciò dovetti appoggiarle il cazzo sulle labbra e intimarle di succhiarlo: lo fece con maestria e non protestò nemmeno quando le afferrai la testa con le mani e glielo spinsi tutto in gola. Lo estrassi un poco per lasciarla respirare, ma poi ripresi a scoparle la bocca con forza, incurante dei rumori strozzati che produceva. ‘Si, brava la mia cagnetta, prendilo tutto’Dai troia, succhialo per bene che il tuo Padrone ti dà da bere’Così, si’Hhhh’Ti sborro in gola puttana’Si, vengo, vengo’!’ Le riempii la bocca con fiotti di sperma caldo e le ordinai di ingoiare tutto; poi le feci ripulire il mio cazzo che non accennava a sgonfiarsi. Sporgendomi vidi che l’interno delle sue cosce era lucido di umori, perciò decisi che era ora di soddisfarla, ma a modo mio. Con uno strattone violento la sollevai dal pavimento e la sbattei contro il muro, poi la imprigionai col mio corpo e con la bocca che quasi toccava la sua la incalzai.
‘Cosa vorresti che ti facessi adesso, eh, puttanella? Dimmelo che non vedi l’ora di farti sfondare dal cazzo del tuo Padrone, dillo!’ ‘Si Padrone, ti prego fottimi, sbattimi forte.’ Come non accontentarla? La sollevai, leggera com’era, e introdussi il cazzo nella sua figa fradicia che lo avvolse come una calda coperta. Il gemito che emise quando la penetrai fu la cosa più meravigliosa del mondo, me lo fece venire ancora più duro di quanto non fosse già. Così la trapanai a lungo, la sua schiena che sbatteva contro il muro e le gambe strette intorno al mio bacino, mentre le mordevo il collo e la insultavo con le peggiori oscenità che mi venivano in mente. Lei, bendata, ansimava forte e si mordeva le labbra dal godimento: solo guardarla era uno spettacolo, scoparla in quel modo era semplicemente troppo. Prima di venire mi staccai da lei, che emise un mugolio di disappunto, e la costrinsi a girarsi.
‘Sta buona troietta, adesso il tuo Padrone ti dà quello che ti meriti.’
Forse pensava che volessi prenderla da dietro, fatto sta che quando appoggiai la cappella gonfia contro il suo buchino fece uno scarto come una cavalla imbizzarrita.
‘Ma guarda guarda, la puttanella succhiacazzi è vergine dietro! Nessuno dei frocetti con cui esci ti ha mai fatto il culo? Nemmeno il paparino, il nonno alle feste di famiglia, possibile? Eppure una troia come te non si fa problemi a farsi sfondare il culetto, giusto?’
Mentre la canzonavo, con una mano avevo afferrato il lubrificante e me ne ero cosparso le dita. La stavo penetrando lievemente quando le sentii dire ‘L’ho conservato per te, Padrone’. Se non fossi stato allupato come un pazzo probabilmente mi sarei commosso; invece accelerai la pratica di slabbramento e riposizionai il cazzo all’ingresso, spingendo contro lo sfintere. Lei urlò dal dolore quando la sfondai, vidi persino alcune lacrime farsi strada oltre la benda, ma dopo qualche secondo non resistetti più a stare fermo e iniziai a pomparla forte, tenendola per i fianchi.
‘Dai cagna che te lo rompo questo culo’ho il cazzo dentro fino ai coglioni, lo senti?’
Intanto le avevo afferrato la mano libera, quella senza braccialetto, e gliel’avevo posata sulla figa: volevo che si masturbasse per distrarsi dal dolore. Lei capì e prese a strusciarsi la punta delle dita sul clitoride gonfio, mentre io continuavo a scoparle il culo con colpi sempre più violenti e profondi. Ogni tanto lo estraevo completamente, glielo sbattevo sulle chiappe e poi lo rinfilavo dentro di botto, senza badare ai suoi sussulti. ‘Così troietta, dai’si, toccati, fammi vedere come godi con il cazzo del tuo Padrone piantato nel culo, dai’Adesso ti riempio, ti faccio un clistere di sborra, puttana’Si”
Venimmo praticamente insieme, lei qualche secondo prima, con un lungo verso animalesco e la pelle percorsa da brividi e rivoletti di sudore; io scaricandole un’ingente quantità di sperma nell’intestino e un’ultima sculacciata sul sedere. Quando uscii da lei, si accasciò sul pavimento come una bambola di pezza, stremata. Allora mi chinai su di lei, le tolsi la benda e a viva forza le aprii le dita della mano che ancora stringevano il braccialetto. Le erano rimasti i segni del metallo sulla pelle. La presi in braccio e la portai in bagno, riempii la vasca di acqua tiepida con tanta schiuma e la aiutai a lavarsi. Dopo averla asciugata, le passai una crema lenitiva sulle zone più maltrattate, godendo di quel contatto intimo come della scopata precedente. Lei se ne stava buona a farsi massaggiare, poi all’improvviso piazzò quei grandi occhi scuri nei miei e disse ‘Grazie’. Senza ‘Padrone’, solo grazie. Le sorrisi e la baciai sulla fronte, poi andammo a stenderci sul letto e fumammo una sigaretta. ‘Ti senti a disagio ora?’ le chiesi. ‘No.’ Pausa. Un silenzio carico di presagi. Poi: ‘A dire il vero per la prima volta mi sento davvero nel posto in cui dovrei essere’.

Ed eccolo lì il miracolo, finalmente aver trovato una persona che la sottomissione ce l’ha scritta nel sangue, niente finzioni né forzature. Lei è così, di natura, e io ho lei perché sono stato il solo a capirlo, a vedere le braci sotto la cenere. Stiamo insieme da una vita ormai, il legame dei nostri corpi sempre rinnovato, la sintonia dei nostri desideri sempre perfetta. A volte non riesco a credere a tanta fortuna, ma c’è sempre lei, testimone muta e incantevole, a ricordarmene. Ti amo G. Tuo F.

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