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Racconti di DominazioneRacconti Erotici

Il bagnino mi tratta come una puttanella

By 12 Giugno 2021No Comments

Mi diressi al casotto di rimessaggio della spiaggia, dove si custodivano ombrelloni e sdraio per i clienti dello stabilimento, con mosconi e canotti che non venivano messi in acqua.
Intendevo cercare Ferruccio, il giovane bagnino di cui ero amica da anni, che mi veniva in soccorso quando, nei mesi di permanenza marittima, i morsi della carne divenivano improrogabili. Con lui ogni tanto scopavo senza complicazioni, era l’unica figura maschile che potessi avvicinare lì al Forte, perché i miei mi marcavano stretta e vigilando che non avessi mosconi a ronzarmi intorno, attentando alla mia illibatezza. Lui, noto alla mia famiglia fin da quando era ragazzino, risultava da sempre una figura di fiducia, esente da sospetti.
Era in effetti un ottimo ragazzo, cortese, pieno di buona volontà e lavoratore instancabile. Per me la sua qualità più grande restava, comunque, quella di salvarmi dalla castità forzata durante i mesi di vacanza. Per altro ci scopavo anche con gusto, perché oltre a essere un bel giovane, aveva, a dispetto della giovane età, un’ottima predisposizione per le cose di sesso e a letto se la cavava niente male.

In verità non ero l’unica al Forte a cui lui offriva conforto. Le sue qualità erano rinomate in tutta la zona alle signore della buona borghesia, le quali, poverette, sovente sole durante la settimana, con i consorti impegnati dal lavoro che le raggiungevano solo durante il weekend, dovevano ricorrere ai servigi del fido Ferruccio per le urgenze più impellenti.
Era l’unico, oltre al titolare dello stabilimento, ad avere accesso all’armadio con le chiavi delle cabine che venivano consegnate al mattino e ritirate a fine giornata. Quel giorno, non essendo ancora scesa in spiaggia ne ero priva e i miei sarebbero giunti solo a metà pomeriggio, perciò la chiave delle nostra cabina non era stata ancora ritirata.
A quell’ora, ovviamente, non c’era servizio, contavo però di trovare il mio amico, che era solito ritirarsi all’interno del casotto per un riposino post pranzo, confidando mi facesse la cortesia di lasciarmela prendere ugualmente. Speranzosa, bussai alla porta ma non ottenni risposta, riprovai diverse volte pensando che il giovane dormisse duro, ma invano purtroppo, nessun segno di vita proveniva dall’interno.
Cazzo! Questa era una pessima notizia, Ferruccio si era evidentemente assentato per un qualche impegno imprevisto, questo significava che ero chiusa fuori dalla mia cabina e dalla possibilità di recuperare un paio di mutandine per rivestire topa e chiappe.
Avevo inoltre urgenza di una doccia e di un accurato bidet, perché puzzavo di sesso e sudore come la baldracca di un reggimento di Alpini e non potevo, certo, mettermi sotto una doccia dello stabilimento col sedere e il resto all’aria.

Impensabile anche un mio rientro a casa conciata così, non avrei saputo come giustificare il mio stato impresentabile. Stavo davvero in un bel casino.
Era la goccia di sfiga che faceva tracimare il vaso: esasperata per l’eccesso di malasorte, tirai giù una colorita serie di improperi e in uno scazzo finale, piazzai un di rabbioso calcio alla porta. La porta era solida, accusò il colpo solo con un leggero tremito, ma forse l’uscio era stato chiuso male o non era chiuso affatto, in ogni si spalancò verso l’interno del capanno con lieve cigolio di cardini.
Restai interdetta, non sapendo bene che fare a quel punto. La targa sull’entrata era piuttosto categorica: “Riservato al personale di servizio – Assoluto divieto d’accesso”
“Vabbè!” pensai “Che cazzo ci sarà mai di tanto prezioso lì dentro per renderlo inaccessibile? La solita mania italiana di mettere cartelli di divieto anche davanti ai cessi pubblici”.
Ormai ero li con la porta aperta: buttai una rapida occhiata all’intorno e non vidi anima viva, sapevo di non fare nulla di male, in fondo avrei recuperato la mia chiave e sarei uscita in un batter d’occhio.
Decisi quindi d’entrare ugualmente a cercarla, fregandomene del cartello.
L’interno del grande capanno era un vero casino: c’era una enorme catasta di sdraio che sfiorava il soffitto, piccoli natanti in disarmo dalla vernice scrostata, vecchi salvagenti, remi da canotto, ombrelloni, un gommone semi sgonfio, bandierine marinare e una boa segnaletica.
Lo spazio era in penombra, faceva caldo e si avvertiva il classico sentore degli ambienti di mare poco aerati. Ci volle qualche momento per abituare gli occhi alla scarsa luce e avere una visione dettagliata di quella caotica paraphernalia.
L’arredo interno era scarno: una parete attrezzata con scaffali e cassettiere contenenti minutaglia di ferramenta, un grande pannello con appesi utensili da lavoro, un armadietto di pronto soccorso e un massiccio tavolaccio in legno grezzo. Su un’altra parete era sistemato l’armadio con le chiavi delle cabine, mi ci diressi facendo attenzione a non inciampare negli ingombri al pavimento.

Peccato che Ferruccio non ci fosse, perché quell’ambiente immerso in quella penombra così intima, con quella fragranza salmastra, mi suscitava certi languori caldi e mi faceva nascere pensieri pruriginosi. Sarebbe stato un luogo ideale, in quel momento, per farmi leccare la topina ancora umida e saporosa dal buon Ferruccio.
Fortunatamente l’armadio era aperto: sul fondo, con dei ganci, stavano appese le chiavi non distribuite delle cabine. Ce n’erano una ventina, sembravano tutte uguali.
Veniva difficile capire quale fosse quella giusta, perché avevano tutte una targhetta con anello metallico su cui, forse per una questione di sicurezza in caso di smarrimento, era impresso un codice alfanumerico anziché il numero della cabina d’appartenenza.
“Bel problema del cazzo!” pensai, non avevo mai prestato attenzione a quel codice, tanto meno a memorizzarlo, quindi non potevo riconoscere la mia chiave tra le altre. Mi rigirai per qualche minuto quelle chiavi tra le mani cercando un qualche segno illuminante, ma all’apparenza erano tutte dannatamente identiche: impossibile indovinare quella giusta.
Allora mi venne un’idea balzana, ma pratica: le avrei prese tutte e per provarle sulla serratura della mia cabina, fino a trovare quella giusta. La cosa non era regolare e costituiva una complicazione al mio piano di una semplicità esemplare, ma non erano molte: sarei poi tornata a rimettere a posto le altre in meno di cinque minuti. Avrei risolto il mio problema e nessuno si sarebbe accorto di nulla. Ero felice per aver ideato questa geniale soluzione.
Per portar via le chiavi risvoltai sul davanti il mio vestitino, creai una specie di sacchetta e ce le raccolsi dentro. Il mio prendisole privo di tasche, non era molto lungo e mi arrivava appena sotto l’inguine, ora sorgeva il problema che quel risvolto nel tessuto lo accorciava ulteriormente, al punto che sul davanti mi restava scoperta la topina.

Volli essere ottimista, in fondo la mia cabina non era lontana e stando curva in avanti, avrei potuto raggiungerla col mio cespuglietto coperto alla meglio, sperando di non incontrare nessun rompicoglioni in giro a quell’ora, mi apprestai ad avviarmi.
Ma una voce cavernosa, potente e irata, risuonò alle mie spalle: ebbi un sobbalzo e il cuore mi saltò in gola.
– Cosa stai facendo qui? Chi ti ha fatta entrare? Non hai letto il cartello fuori? –
Non lo avevo sentito arrivare, mi girai di scatto, la mole dell’uomo oscurava la cornice della porta. Nel voltarmi allarmata, arretrai alla cieca: i miei piedi trovarono un ostacolo sul pavimento e scivolai rovinosamente all’indietro.
Le chiavi che tenevo in grembo si sparsero, rovinosamente, all’intorno.
Rimasi stesa sull’assito: gomiti e natiche dolenti per la botta, le gambe divaricate in una posa scomposta, la corta gonna sollevata al bacino, il cespuglietto della mia intimità tutto scoperto. La voce mi si era rotta in gola, versavo nel panico, ero talmente confusa da non pensare neppure di serrare le gambe per distogliere il suo sguardo inferocito dalla mia cosina oscenamente esposta.
Il signor Ranieri, proprietario dello stabilimento, un sessantenne dalla possanza fisica di un orso bruno, giganteggiava minaccioso davanti a me.
Era un ex bagnino, noto in tutto il Forte per il carattere brusco e sanguigno, aveva il viso largo e quadrato, un collo corto e taurino, la pelle, conciata dal sole e dalla salsedine marina, ricordava il cuoio brunito di certe bisacce marocchine. In quella faccia scura, avvolta dalla penombra del casotto, brillavano due occhi chiari come diamanti di ghiaccio con uno sguardo inquisitore, assai prossimo alla ferocia.

Se ne stava a gambe larghe e pugni stretti sui fianchi a sovrastarmi, un tic, causato dall’ira, gli rendeva mobile il labbro superiore, tutto il corpo mostrava una tensione nervosa sul punto di esplodere. Cercai di ricompormi alla meglio sollevandomi da terra e tirando giù, per quanto potevo, l’orlo del vestito, ma il prendisole era assai succinto: cercando di coprire in basso, inevitabilmente, finivo con lo scoprire in alto. Mio malgrado, così facendo, offrivo lo spettacolo del mio rigoglioso davanzale al suo sguardo incattivito.
Realizzai immediatamente che situazione era complicata. In sostanza mi trovavo in un vero casino: essere li, con quelle chiavi sparse intorno, poteva suggerire interpretazioni molto equivoche e nessuna positiva per me.
A complicare la cosa c’era che col Ranieri non ci si conosceva di persona. Aveva rilevato lo stabilimento solo all’inizio della stagione, non ci eravamo mai parlati prima d’ora e al contrario del precedente gestore, che mi aveva vista scorrazzare su quella spiaggia, fin da bambina, per lui ero un’emerita sconosciuta. Sentivo che chiarire la mia posizione non sarebbe stata un’impresa né facile né rapida.
Facendo appello a tutta la mia forza d’animo, provai a schiarire la voce e iniziai a giustificarmi.
– Ehm…buon giorno signor Ranieri. Lo so, lei non mi conosce, ma creda io non sono quella che sembro: in realtà sono una vecchia cliente di questo stabilimento, vengo qui in vacanza tutti gli anni fin da quando ero bambina. Se non ci crede dovrebbe chiedere al vecchio gestore dello stabilimento, ora se permette le spiego la situazione. –
Lo sguardo non appariva affatto conciliante, né disposto a sentire la mia storia, per assicurarsi che non tentassi la fuga, chiuse la porta del capanno a doppia mandata e intascò la chiave.

La cosa era comprensibile, mostravo un’aspetto poco rassicurante, avevo un’aria disastrata: cappelli arruffati, faccia sbattuta, sudata e impolverata dopo la caduta al pavimento. Potevo sembrare una vagabonda e pure una ladruncola. Sicuramente una poco di buono che andava in giro a rubare le chiavi delle cabine, per giunta senza mutande.
Mi osservava con un cipiglio arcigno e diffidente. Cercai di argomentare la mia difesa in maniera convincente.
– Vede, capisco che la cosa sembri strana, ma davvero, non facevo nulla di male, glielo giuro. Sono entrata solo a cercare la chiave della mia cabina. Cioè, non è solo la mia, è la cabina che da anni la mia famiglia prenota per le vacanze, Capisce? –
Restò glaciale, immobile, l’espressione granitica, io continuai.
– Cioè, le spiego, i miei oggi non sono ancora scesi in spiaggia, io, questa mattina, dato che non avevo voglia di mare, mi ero messa a sentire musica seduta sul vialone. Poi è arrivata una banda di motociclisti, sa di quelli con le moto americane tipo Easy Rider e i giubbotti di pelle neri con le borchie. Ha presente gli Hell’s Angels americani? Ci sono bande così anche qui da noi sa. Allora, dicevo: sono entrati tutti nel bar sul viale per fare una sosta, a quel punto sono andata a farmi un ghiacciolo in quel bar, perché avevo caldo e sete. Le è chiaro? –
A occhio pareva che la cosa non gli fosse chiara per nulla.
– Ecco si, insomma, loro erano tutti ai tavolini del bar a bere, mangiare e far casino. Poi sono arrivata io col mio ghiacciolo e hanno fatto tutti silenzio. Poi il capobanda, uno con una cicatrice di coltello sulla guancia, è entrato nella toilette delle donne mentre stavo facendo pipì. Ecco, poi li sono successe delle cose brutte con lui… Ma mi creda io non volevo. Ma lui è uno violento e mi ha costretta…sapesse le brutte cose che mi ha fatto fare. Alla fine, qual delinquente, si è anche portato via le mie mutandine da bagno. Così per cercare delle mutandine sono venuta qui, ma mi serviva la chiave della cabina, solo che non conoscevo il codice, erano tutte uguali e allora le ho prese tutte. –

Forse non ero stata molto chiara nell’esposizione degli eventi. L’espressione nei suoi occhi non si era addolcita, anzi secondo me pensava che lo stessi prendendo per il culo e la cosa lo stava facendo incazzare di brutto.
– Mi creda signor Ranieri, ero disperata! Volevo solo la chiave della mia cabina per potermi mettere le mutandine. –
Il suo respiro era una specie di brontolio sordo, ricordava l’ebollizione di una pentola a pressione, o peggio, quello della lava di un vulcano prossimo all’eruzione.
Non potendo fare diverso, io proseguivo nel narrare le ragioni della mia innocenza.
– Ho bussato più volte, ma non rispondeva nessuno. La porta sicuramente era aperta. infatti le ho dato solo un calcetto leggero e si è spalancata. Allora ho preso tutte le chiavi dall’armadio, ma per trovare quella giusta dovevo provarle nella serratura della cabina, una per una. Poi è arrivato lei e mi ha spaventata da morire. –
La mia voce risultava fiocca, esausta e tremante, io stessa, nell’udirmi, ero incredula che quelle giustificazioni potessero risultare credibili.
– Ora ha capito come è andata. Converrà con me che è stata solo una serie di eventi sfortunati. Certo, ho commesso una leggerezza nel cercarmi la chiave da sola, ma provi lei a trovarsi senza mutandine. Si metta nei miei panni è un enorme disagio, glielo assicuro. –
Non pareva minimamente intenzionato a calarsi nei miei panni.
Le grosse vene sul collo pulsavano visibilmente, dalla base del collo ai capelli, che portava rasi come un marine, era divenuto di un allarmante rosso carminio. Doveva essere un carattere bilioso, sicuramente soffriva di ipertensione, non mi sarei sorpresa se fosse caduto vittima di un fatale colpo apoplettico. Infatti, come il tappo di una bottiglia di spumante, agitata, finisce col saltare, anche lui esplose con una voce tonante di collera.

– Senti troietta, mi hai preso per idiota? Sulla mia fronte, alle volte, ci leggi: affetto da demenza senile? O per caso ci vedi scritto anche coglione? –
No signor Ranieri, ma si immagini, non mi permetterei mai di leggere una cosa simile sulla sua fronte. Glielo posso giurare! –
– Ma bene! Fai anche la spiritosa adesso? Credi davvero di potermi prendere per il sedere? La verità è che sei una puttanella che gira seminuda, una spudorata simulatrice e ladra che cerca di introdursi nelle cabine dei bagnanti per rubare qualcosa di valore. Ma a me non la dai a bere. –
– Noo! E’ la verità! Cercavo solo la chiave della mia cabina. Perché non vuole credermi? –
– Zitta! Piccola bagascia ladruncola. I fatti dicono che te la stavi filando con le chiavi delle cabine. E’ evidente quale fosse il tuo intento, prima che ti cogliessi con le mani nel sacco.
– No! Lo giuro! Chieda a Ferruccio che mi conosce e saprà dirle chi io sia. –
– Basta! Che c’entra Ferruccio adesso? Ti proibisco di mettere in mezzo quell’onesto ragazzo, nei tuoi loschi maneggi. Per altro, oggi non è neppure nello stabilimento, ha preso un giorno di permesso. –
Poi con un tono che esprimeva tutto il suo profondo disprezzo, disse:
– Ora chiamerò la polizia e questa ridicola storiella la racconterai a loro, vedremo cosa ne pensano delle tue balle fantasiose. Finirai in galera, come è giusto che finiscano le puttanelle ladre, come te. –
L’idea dell’intervento delle forze dell’ordine mi gettò nel panico più totale.
Spiegare agli agenti tutta la storia, sarebbe stato complicato e imbarazzate: sarebbe venuto fuori l’episodio del bar e la ragione per cui mi trovavo senza mutandine.
Essere poi entrata nel casotto, nonostante il cartello di divieto, configurava una violazione di domicilio, senza parlare dell’aggravante dell’effrazione a causa della porta aperta con un calcio. Infine la flagranza delle chiavi sottratte, avallava l’ipotesi che intendessi introdurmi nelle cabine incustodite, per compiere qualche furto.

Già mi vedevo destinata alla sezione femminile di un riformatorio, dove magari sarei caduta preda di un branco di lesbiche assatanate e perverse, che mi avrebbero violentata a oltranza. Avrei subito ogni sorta di pratiche sessuali, tra le più infime e degradanti.
Oltre alla mortificazione di un arresto e gli aspetti penali correlati, c’era da mettere in conto che in quel puttanaio sarebbero stati coinvolti i mie. Se anche per ipotesi, alla fine si fosse provata la mia innocenza, sarebbe comunque venuta alla luce in dettaglio, l’episodio nel cesso col biker e la causa della malaugurata perdita delle mie mutandine.
L’insieme di quel guazzabuglio, anche nell’esito più favorevole, avrebbe certamente avuto una risultanza catastrofica: avrei certo subito una punizione esemplare, mi avrebbero segregato in casa fino alla maggiore età, non avrei più potuto vedere Marco quando stavo a casa del collegio.
Niente amici, niente cinema, niente discoteca, niente scopare, per anni, forse solo la messa alla domenica mattina. Sarei diventata una specie di monaca di clausura. Mio Dio che orrore! Già sentivo le urla di mia madre, i panegirici di mio padre, il loro rinfacciarsi la pessima piega che aveva preso la mia educazione: ” Altro che collegio svizzero”, avrebbe detto mio padre ” Per questa debosciata ci vuole l’istituto correzionale!” Insomma, cazzi acidi e rotture di palle a non finire.
Dopo questa tragica riflessione decisi di giocarmi il tutto per tutto: nessun uomo è indifferente alle lacrime di una giovane ragazza, questo era un fatto certo. Avrei fatto leva sui suoi sentimenti, avrei mosso alla commozione il ruvido cuore del signor Ranieri.
Così, profondamente contrita, mi gettai ai suoi piedi e iniziai a invocare la sua clemenza tra i singhiozzi.
– La scongiuro signor Ranieri, non chiami la Polizia, mi risparmi la punizione del carcere e il castigo dei miei genitori. La prego sia buono, non mi rovini. Piuttosto mi punisca lei, mi dia modo di riparare il danno, di espiare il mio errore. Scelga lei una pena giusta e adeguata. Mi aiuti! So di aver sbagliato, ma abbia pietà di me. –

Restò in un silenzio pensoso per un lungo momento, le mascelle nervosamente serrate, le vene gonfie e pulsanti sul collo.
Col volto rigato di lacrime anch’io tacevo guardandolo implorante, sperando ardentemente di far breccia nella ruvida scorza del suo animo.
– E sia! – disse – Può essere che per una sudicia troietta come te, sia più utile una salutare punizione che affidarti alla Legge. –
Ebbi un motto interiore di esultanza: – Grazieee! Grazie di cuore signor Ranieri, non se ne pentirà. Per sdebitarmi farò ciò che desidera, sarò servizievole: chiuderò ombrelloni e sdraio a fine giornata, al mattino passerò il rastrello per pulire l’arenile, spazzerò la sabbia dalle assi dei camminamenti e le renderò lustro questo casotto disadorno. –
Aveva un’aria divertita. Ma di un buon umore tenebroso e poco rassicurante.
Con un sarcasmo maligno nella voce, disse: – Non credo che abbiamo la stessa idea del come espiare la tua colpa. – Seguì una risata cattiva.
Venne in avanti: con un gesto brusco, fece scivolare le bretelle del vestito, agguantò la stoffa e la tirò verso il basso scoprendomi le tette, il tessuto si afflosciò ai miei piedi. Guardò compiaciuto il volume e la plasticità del seno, increspò le labbra soddisfatto.
Con due schiaffi secchi all’interno delle cosce, mi fece divaricare le gambe, fece due passi indietro e restò in silenzio a osservarmi: si prendeva il tempo senza fretta, restai con gli occhi bassi, il corpo nudo esposto alla scansione del suo sguardo.
Iniziavo a comprendere quale fosse la sua idea di una “salutare punizione”, mi predisposi mentalmente a quanto sarebbe seguito.
L’aria del primo pomeriggio, nella penombra del casotto, si faceva più ardente e l’odore che la impregnava più forte. Per l’emozione iniziavo ad avvertire in maniera più intensa il calore, la pelle accentuava la traspirazione e piccoli brillantini di umidità creavano una velatura opalescente sull’epidermide.
Con calma, si diresse alla scaffalatura a parete, aveva ripiani colmi dei materiali più disparati. Si mise a rimestare in un contenitore di plastica, ne trasse qualcosa e tornò ad occuparsi di me.

– Alza le braccia e incrocia le mani dietro alla nuca. –
Eseguì prontamente l’ordine secco: le gambe divaricate, le mani giunte alla nuca e il busto eretto. I miei seni, animati della cadenza rapida del respiro, oscillavano nell’aria statica.
Nelle mani teneva due piccole mollette: delle clips di metallo nere, quelle usate in ufficio per tenere insieme documenti o bollette. Le dischiuse e me le applicò ai capezzoli. Sulla bocca aveva un sorriso crudele, il morso del metallo fu repentino e doloroso: emisi un gemito mordendomi le labbra.
– Non ti azzardare ad urlare troietta. Bada bene che se ti scappa un solo grido, chiamo i caramba e finisci in guardina. Hai compreso bene? –
Feci un cenno d’assenso con la testa, mentre gli occhi si appannavano di lacrime.
Il bruciore ai capezzoli si espanse rapido nella carne, spilli incandescenti mi aggredivano il seno e si irradiavano alle ascelle, strinsi i denti.
Raccolse da un angolo ingombro di cianfrusaglie, una valigetta stretta e lunga rivestita di una pelle consunta e bruna, simile a quelle per trasportare strumenti musicali, come un flauto o un clarinetto e la depose sul tavolo.
L’aprì e ne vidi il contenuto: in appositi scomparti stavano i pezzi smontati di una vecchia canna da pesca: l’impugnatura oblunga, rivestita in sughero, un vecchio mulinello, le esche e gli ami. Lateralmente stava il corpo della canna diviso in tre pezzi, i tre fusti, lunghi circa settanta centimetri, erano nudi e privi degli anelli scorrifilo.
Impugnò il fusto terminale della canna, il più sottile dei tre, lo fece vibrare nell’aria con lo schiocco di un frustino: era duro e flessibile con un’estremità assai sottile. Per testarne robustezza ed elasticità lo battè più volte sul palmo della mano.
Un sorriso compiaciuto gli animò lo sguardo: le caratteristiche del materiale dovettero soddisfare l’idea di impiego che aveva in mente.
– Ora metti le mani dietro alla schiena puttanella! –
L’ordine era imperioso: obbedì ancora senza fiatare.
Iniziò con piccoli colpi ripetuti e veloci sui lati delle tette e sui capezzoli stretti nelle morse delle clips, non erano violenti, ma procuravano un calore crescente. Il porco era bravo nel maneggiare la canna come uno staffile, non doveva essere la prima volta che fustigava le tette di una donna.
Il seno, sotto quella sollecitazione, sobbalzava a ogni vergata, ansimavo per il bruciore e la tensione. Sudavo e piccole gocce scivolavano nel solco tra le tette. Passò alle mie spalle, un momento d’attesa poi sentì la canna strinarmi le natiche.

Inarcai la schiena e gemetti per il dolore: colpiva di dritto e rovescio, avrei portato segni incrociati sulle natiche per molti giorni. Scese a fendere l’interno della cosce in prossimità del pube: menava la canna con velocità: ero costretta ad allargare le gambe.
Lui, con perfidia, ne assestava alcuni dal basso verso l’alto: centrava con precisione la fessura palpitante della vagina. Resistere immobile a quei colpi era arduo e tendevo a muovermi: lui, inflessibile, mi ammoniva severo, affinché riprendessi la giusta posizione.
Gemiti spezzati mi sfuggivano dalle labbra, il calore doloroso si faceva intenso, come un onda cocente su tutto il basso ventre.
Uno dei colpì investì con maggior forza le grandi labbra, il dolore divenne un’esplosione accecante, sobbalzai e lanciai un urlo acuto: angosciata, pensai subito che si sarebbe incollerito e mi avrebbe punito con maggior durezza. Già mi preparavo a subire vergate più violente e crudeli. Ma non accadde nulla, trascorsero in silenzio lunghi minuti: si era fermato. Mi lasciò il tempo di ritrovare il controllo delle emozioni, rimase a osservare soddisfatto il lavoro appena compiuto.
Da fuori giungeva ovattata l’eco di una radiolina da spiaggia e i richiami di bimbi che giocavano sulla riva, le voci parevano provenire da una finestra temporale aperta su una dimensione lontana anni luce, in una realtà remota ed estranea a quell’antro caldo e polveroso.
Ranieri aveva il respiro pesante, pativa l’afa, l’esercizio fisico lo faceva sudare copiosamente: sfilò la camicia fradicia e la gettò su una pila di vecchi salvagenti. Aveva un corpo grosso e animalesco, una specie di plantigrado dalle ossa massicce, oltre un quintale di grasso e solido muscolo.

Era ruvido, imponente e massiccio, una peluria argentata copriva la pelle cotta dal sole, il sentore di sudore che emanava mi aggrediva le narici. Nonostante la situazione in cui mi trovavo, la mente reagiva in maniera imprevedibile: allarmata scoprì che non riuscivo a provare repulsione per l’odore del suo corpo.
L’afrore, saturo di feromoni, che impregnava l’aria e quel luogo squallido con i suoi olezzi di sentina, creavano nel mio cervello una sorta di nebbia torbida e ambigua. Vi era qualcosa di perverso, di malato, in me, che induceva i miei sensi a provare un sottile piacere per la situazione degradante del luogo e di ciò che stavo subendo.
Mentre mi adagiavo in quell’insano trasporto, lui riprese a maneggiare la canna: si dilettò a giocare, con tocchi leggeri, sul mio sesso dischiuso, impresse ai colpi un ritmo rapido e continuo. La cosa non risultava dolorosa, infatti, non era diversa da quanto mi faceva Marco, il mio ragazzo, durante i nostri giochi bollenti, ma creava una sensazione fisica e mentale di attesa, una sorta di ansia bramosa.
Nel colpire si produceva il rumore sconcio di un panno fradicio battuto, per via degli umori che mi inzuppavano il sesso. Il clitoride, era turgido e incandescente, il tutto divenne una sensazione anestetica che si sciolse in un languore morbido: mi stavo eccitando.
Fremiti incontrollati impastavano le mucose della mia vagina, come se una lingua rapida e insinuante me le stesse leccando: mi stavo sciogliendo, iniziai a bagnarmi. Sentivo i miei umori colare lungo l’interno delle cosce, la canna a contatto col sesso madido, si intingeva di succo.
Una dolorosa voluttà, unita a quella delle mollette sulle punte dei capezzoli, mi stava avvolgendo: nel fondo della mente desideravo che me li torcesse con lenta brutalità. Chiusi gli occhi, scintille esplodevano nel campo visivo, la realtà era evaporata: disciolta nel calore soffocante della stanza, nel mio desiderio insano, nel rumore dal mio respiro ansante.
Scivolavo nella tentazione di lasciarmi inghiottire da quel vortice oscuro, denso e carnale come la mia voglia. Le gambe mi tremavo, tenevo gli occhi alle tavole del pavimento, non volevo che leggesse nel mio sguardo la luce lasciva che non sarei riuscita a dissimulare.

Quando si fermò la sua mano prese a palpare in maniera invasiva e volgare il mio sesso, lo penetrò affondando interamente le dita: emisi un gemito profondo. Mi dilatò, frugandomi il sesso senza delicatezza, ritirò le dita intrise di secrezioni. Sfregò i polpastrelli e me li mostrò lucidi come li avesse immersi nella vasellina calda, poi li portò alle mie labbra: leccai golosa il mio sapore salmastro.
– Sei bagnata come una cagna in calore. Ti piace essere punita, vero troietta? –
Abbassai lo sguardo, come una ragazzina scoperta a masturbarsi dal proprio tutore.
Un bozzo, di considerevole dimensione gli si era formato nei pantaloni, il suo sesso, in evidente erezione, premeva contro la patta delineando il rilievo nel tessuto. Quel grosso maiale sadico si stava infoiando come un cinghiale in estro.
Alle mie spalle stava il tavolo rustico in pesante massello, il piano era segnato da nervature e nodi, mostrava i segni del tempo come ferite cicatrizzate.
– Avanti, appoggia le mani a quel tavolo puttanella viziosa. –
Volle che mantenessi le gambe discoste e che porgessi all’infuori le natiche, lo feci, ma non era rassegnazione: lo eseguì con un movimento provocante, con studiata malizia. Appoggiai le mani al bordo del tavolo, inarcai mollemente le reni e presi a oscillare col bacino: un movimento che evocava un invito sessuale. Muovevo le natiche sinuosamente, come per un’offerta silenziosa: non era obbedienza e sottomissione, era una provocazione esplicita e concupiscente…ma piena di piacere immenso…………

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