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Racconti di Dominazione

Il piacere di punire

By 7 Novembre 2012Dicembre 16th, 2019No Comments

Quale piacere punire la propria slave, quando in modo goffo e inadeguato, esegue degli ordini elementari, come versarmi da bere o semplicemente camminare con elegante civetteria.
Come riuscire a portarla ad essere così imbranata è presto detto.
L’ho sperimentato con una tipa conosciuta durante il mio peregrinare di luogo in luogo, per via del mio lavoro.
Il segreto è farla stancare quel tanto che basta per portarla ad uno stato confusionale psicofisico, in modo tale che non riesca a ragionare, né abbia un controllo sul suo fisico. Se fossi stato a casa mia, con un po’ di tempo a disposizione, l’avrei costretta a rimanere senza dormire per ventiquattro ore. Per esempio avrei legato le sue tette ad un gancio che pende dal soffitto, in modo tale da impedirle di appisolarsi. O meglio, l’avrei agganciata per gli anelli fissati nei capezzoli, o al piercing della lingua.
Ma tant’è, mi sono proprio divertito.
Evidentemente la mia frequentazione nei gruppi di discussione bdsm è servita a darmi una fama insperata e farmi riconoscere come master esperto.
Fu così che la incontrai, mentre mi esibivo in una piazza; parlammo cinque minuti e le fissai appuntamento alla fine dello spettacolo alla pizzeria più vicina: io, come ogni attore, mangio dopo la mia performance.
In questo periodo, purtroppo, non lavoro tutti i giorni, perciò ho potuto rivederla la mattina dopo. Nel pieno della stagione, invece, non posso permettermi distrazioni.
Mentre mangiavo, saggiavo la sua disponibilità e il suo carattere. Lei prese solo una bibita: era l’una di notte.
La mattina dopo andai a prenderla sotto casa sua. Un po’ in ritardo rispetto all’orario stabilito: mi piace far aspettare, soprattutto una slave nell’attesa del suo padrone. Era vestita con una t-short e una gonna corta, senza calze, aveva delle scarpe col tacco, non alto, i capelli raccolti a coda di cavallo. Appena salita in macchina, mi feci indicare una stradina di campagna, poco frequentata, dove poter fare una passeggiata.
Appena fummo sul posto, arrestai l’auto e la feci scendere. Presi uno zaino e la incaricai di trovarmi dei ciottoli abbastanza grossi, con i quali lo riempimmo. Glie lo caricai sulle spalle e risalii in macchina. Lei doveva camminare a fianco dell’auto, mentre io, seduto comodamente, procedevo ad andatura lenta, tenendole una mano. All’inizio spinsi l’acceleratore per costringerla ad una piccola corsa. Mi piaceva vederla ansimare accanto a me: il sudore le rigava il suo bel faccino.
Ogni tanto, con gli occhi, cercava di farmi capire d’essere stanca: le sue calzature non erano certo le migliori per una sessione di footing. Dopo trecento metri circa, cadde: mi fermai subito. Ansimante, farfugliava un: ‘Basta”basta’. Io la rimisi in piedi e senza dirle una parola, rimontai in macchina e la costrinsi a continuare. Si sa che le slave sono abituate a mentire, anche a se stesse, riguardo ai propri limiti di sopportazione.
Così feci altre due volte e altrettante volte si rimise a correre, magari un po’ più scompostamente che all’inizio, ma continuando nella prova. Terminai la sevizia solo quando vidi che non riusciva più a mantenere una posizione eretta, le membra erano sconvolte da tremore e il suo cuore impazzito nei battiti.
Le imposi di stare dritta, immobile e presi dal mio pulmino-camper un tavolino e una seggiola. Nell’abitacolo predisposi una bottiglia d’acqua ed un bicchiere e un vassoio. Le chiesi di versarmi da bere, assicurandole la mano destra, legata dietro la schiena.
Fu veramente divertente vedere come fosse assolutamente incapace d’eseguire un’operazione tanto semplice. Dapprima non riusciva ad afferrare la bottiglia, resa scivolosa dalla sua mano sudata: la fece cadere, versando parte del contenuto per terra. Confusa e intimidita dal mio atteggiamento beffardo e canzonatorio, ricominciò a tremare e a rendere ancora più difficile il compito assegnatole.
Incitata a riempire bene il bicchiere, lo colmò fino all’orlo, costringendosi ad un esercizio di puro equilibrismo, per potermi servire il tutto sul vassoio.
Non ce la fece.
Il contenuto si versò e presa dallo sconforto, rovesciò anche il bicchiere. Così fu costretta a ripetere l’operazione, mentre io continuavo a sbeffeggiarla ed a prometterle severe punizioni. Dopo altri due tentativi, riuscì finalmente nell’intento.
Le ingiunsi di stare in piedi davanti a me, mentre sorseggiavo lentamente la bibita. Sapevo che moriva di sete, dopo la corsa sfrenata e mi piaceva vederla soffrire: si umettava con la lingua le sue labbra screpolate e inghiottiva quel poco di saliva che aveva in bocca:
‘Ne vuoi anche tu?’ Le chiesi, dopo aver finito il bicchiere.
‘Si’.grazie” Rispose titubante, quasi incredula di tanta gentilezza improvvisa.
‘Ne avrai quanta ne vuoi, ma dopo essere stata punita per il tuo comportamento increscioso! Forza, entra e inginocchiati accanto al letto!’
Lei eseguì, senza dire una parola. Se lo aspettava, lo desiderava.
La sistemai con delicatezza sull’orlo, in modo che il tronco fosse sdraiato e le ginocchia posassero per terra:
‘Alzati la gonna!’ Le ordinai. Scoprì un bel culetto candido che saggiai, pizzicandolo leggermente:
‘Aspetta qui, mentre vado a prendere un attrezzo adatto.’ Le dissi e la lasciai in quella posizione d’attesa.
Mi diressi verso un cespuglio, ai margini d’un bosco e cercai un rametto fresco e flessibile. Lo provai nell’aria, facendolo fischiare vicino al portellone aperto del pulmino. Osservai il suo corpo: fremette appena sentì il fruscio della verga. Indugiai ancora un po’. Era bello contemplare quel mappamondo intonso e voglioso. Mi piace procrastinare l’atto della punizione quasi quanto accanirmi nei colpi.
Poi accarezzai la parte con la punta del ramo, glie lo appoggiai e ella si irrigidì. Ripetei l’operazione, finché si rilassò e a quel punto iniziai a colpirla con intensità crescente. Lei strinse le mani sulla stoffa del letto e dapprima non emise lamenti. Con la testa reclinata, guardava calare l’arnese sulle sue terga, chiudendo gli occhi nel momento dell’impatto. In seguito, quando cominciai a rallentare i colpi per prendere bene la mira e raggiungere la fessura fra le natiche o parti già visibilmente provate dalla punizione, stampò la bocca sul materasso ed iniziò ad emettere grida soffocate. Ad un certo punto la sentii urlare ed ansimare fuori controllo, non in corrispondenza dei colpi.
Mi accostai a quel culetto martoriato: si muoveva in modo irresistibile. Estrassi il mio pene turgido e glie lo affondai, afferrando con la mia mano la sua vagina fradicia. Me lo igoiò e mi munse, stringendo e rilasciando i muscoli sfinterei, finché non venni copiosamente e inondai di sperma le sue viscere.
Stemmo uno sull’altra per un po’ di tempo. Cercai la sua bocca e ci baciammo. Poi lentamente ci sdraiammo sul letto e riposammo abbracciati.
Nel viaggio di ritorno stemmo in silenzio. Sapevamo tutt’e due che non ci saremmo più rivisti. Quando scese le diedi un bacio sulla guancia e la salutai:
‘Arrivederci’ Dissi.
‘Buona fortuna’ Rispose.

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