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Racconti di Dominazione

In ginocchio per terra

By 13 Febbraio 2012Dicembre 16th, 2019No Comments

Mi sono svegliata di colpo, come quando si fa un brutto sogno, un incubo, però, questa volta, ho avuto la sensazione di essere ancora dentro al sogno.
Mi guardo intorno, non sono a casa, nella mia camera da letto.
Cerco di capire dove mi trovo, è un posto sconosciuto, un grande stanzone in penombra, un bagno pubblico, a giudicare dalla fila di orinatoi sulla parete alla mia sinistra, ed anche molto sporco, direi abbandonato da parecchio tempo.
Ho freddo e mi accorgo che il mio busto è completamente nudo, i capelli lunghi e mossi mi ricoprono in parte le spalle ed i seni.
Sotto indosso la gonna pesante, di lana marrone, con cui oggi (ma è ancora oggi? Quanto tempo è passato?) sono andata in ufficio.
Anche il collant marrone è lo stesso, mentre le scarpe sono sparite.
Lo sguardo si sofferma sui miei piedi fasciati dalle calze e solo ora mi rendo conto di avere i piedi legati.
Una catenella, sottile ma robusta, è stata arrotolata più volte intorno alle mie caviglie e poi, alla fine, chiusa con un lucchetto che pende tra i miei piedi.
Sono confusa, non capisco perché mi trovi seminuda ed incatenata in un cesso lurido ed abbandonato, poi lo vedo.
Matteo è in piedi di fronte a me, a qualche metro di distanza e mi guarda.
Istintivamente le mie mani si staccano dal pavimento e serro le braccia intorno ai miei seni nudi.
Matteo mi fa un sorriso ed inizia a parlare.
‘Per quelle come te, stronze e viziate, ogni tanto ci vorrebbe un po’ di sano lavoro manuale, tipo pulire i cessi, in ginocchio per terra.’
Matteo è un collega d’ufficio, di qualche anno più grande di me ed è sempre stato gentile ed educato. Si è vero, a volte sono capricciosa ed antipatica, veramente insopportabile, come sa esserlo una donna bella, consapevole del suo fascino ed un po’ viziata.
Che ci posso fare, se sono nata in una famiglia ricca?
‘E’ la tua occasione, fammi vedere come te la cavi, vado a farmi un giro e quando torno voglio vedere questo pavimento lindo e profumato.’
Davanti ai suoi piedi c’è un secchio di plastica giallo con uno straccio grigiastro piegato a cavallo del bordo e, vicino, una bottiglia di varechina.
Capisco le sue intenzioni e torna a galla la mia indole di donna, altera, sicura di sé ed anche un po’ arrogante, assolutamente non disposta a piegarsi al volere degli altri.
‘Non ci penso nemmeno, Matteo, adesso levami la catena e finiamola con queste pagliacciate.’
Dal suo sguardo serio capisco subito di aver detto la frase sbagliata e comincio ad aver paura sul serio.
Si avvicina a me e mi tira su, prendendomi sotto le ascelle. è più forte di quanto mi aspettassi, o forse dipende dal fatto che io sono magra, e quindi parecchio leggera.
Mi ritrovo in piedi, con lui che mi sostiene. Sento le dita che mi stringono la schiena, mentre i pollici mi toccano i seni, poi inizia ad indietreggiare, facendo strusciare in terra i miei piedi nudi, tenuti uniti dalla catena.
In fondo allo stanzone, di lato alla porta, c’è un grande tavolo di metallo, sporco e scorticato.
Mi ci sdraia sopra, a pancia in giù, il contatto dei seni e del ventre con il metallo freddo aumenta la mia sensazione di freddo e finisce di svegliarmi.
Mi solleva la gonna di lana, poi sento le sue dita che iniziano ad abbassarmi il collant e allora mi agito, inizio a gridare, ho perso di colpo tutta la sicurezza in me.
Le sue mani scendono, le dita agganciano il bordo dello slip, continuano a scendere.
Cerco di rimettermi in piedi ma una mano mi spinge bruscamente giù, facendo aderire di nuovo il mio corpo al tavolo.
Mi ha completamente denudato il sedere, sento il freddo sulla pelle delle natiche e lui continua a tirare giù.
Si ferma solo quando collant e mutandine, arrotolati, sono arrivati all’altezza delle ginocchia.
‘Sono sicuro che, dopo questo trattamento, farai un ottimo lavoro con lo straccio.’
E’ di fronte a me, si è tolto la cinghia dei pantaloni e me la mostra sorridendo.
Sono completamente terrorizzata, vorrei fuggire ma la catena alle caviglie mi impedisce di camminare e poi, non credo che Matteo mi lascerebbe andare via.
Ho paura del dolore fisico, nessuno mi ha mai fatto una cosa del genere, da bambina al massimo qualche sculacciata leggera, ora invece sto per essere frustata.
Mi aspetto da un un momento all’altro che inizi a colpirmi con la cinghia, invece sento qualcosa di duro che si introduce tra le mie natiche: mi ha infilato la cinta, di taglio, in mezzo al sedere, ed ora la fa scorrere in su e in giù.
La pelle della cinta mi struscia sull’orifizio dell’ano, è una sensazione fastidiosa, poi la inclina e sento quella specie di lama di cuoio insinuarsi nel mio sesso chiuso e secco.
Il movimento si fa più dolce e allora la mia vagina inizia ad aprirsi lentamente.
Mi sta masturbando che la sua cintura dei pantaloni, vuole farmi godere prima di frustarmi.
Comincio ad essere bagnata, cerco di rimanere immobile, ma non ci riesco, ora il movimento si fa più veloce, sento di essere tutta aperta e mi prende un senso di vergogna, ma non posso restare impassibile come vorrei. Ma veramente lo vorrei?
Comincio a gemere, a sospirare, mi chiedo se è solo per quello che mi sta facendo o mi eccita l’idea che dopo mi frusterà.
Cerco di scacciare dalla mia mente questo pensiero, mentre il piacere mi prende. Mi sto muovendo, in miei fianchi ondeggiano leggermente, cercando di andare a tempo con il movimento che lui imprime alla cinta.
Si è fermato, ha tolto la cinta ed io ho continuato a muovermi per qualche secondo, prima di rendermi conto che era finita.
Grido forte quando mi colpisce e la mia voce mi sembra stranamente acuta, innaturale, come se non mi appartenesse.
Non mi ha colpito con la cinta, ha usato la mano, una sculacciata sul mio sedere nudo, forte e secca.
Rimango immobile mentre lui continua, colpendomi sempre più forte, mi ha detto che se mi muovevo mi avrebbe frustato sulle tette, non so se avrebbe veramente il coraggio di farlo, ma preferisco non rischiare.
I colpi si susseguono ed il bruciore si fa sempre più insopportabile, ma lui continua implacabile, incurante delle mie grida.
Ecco, si è fermato, mi tira su e poi mi lascia andare di nuovo.
Mi ritrovo in ginocchio, con i capelli bagnati dalle lacrime, appiccicati al viso.
Il rumore di acqua che scorre mi scuote.
Matteo sta riempiendo il secchio da un rubinetto arrugginito che esce dalla parete.
‘Ecco’, mi dice porgendomi il secchio pieno d’acqua, ‘ora ci metti dentro un po’ di varechina e cominci a strofinare, quando torno lo voglio splendente, questo pavimento.’

La porta si è chiusa alle sue spalle, il rumore di una serratura che girava e poi solo silenzio.
Mi guardo intorno, è un ambiente grande, con le pareti ricoperte di piastrelle una volta bianche, ma ora sporche, macchiate e decorate con scritte e disegni osceni. Ci sono due finestre sbarrate da pesanti serrande di legno completamente abbassate. Le cinghie sono state asportate e quindi non potrei aprirle in nessun caso.
Un po’ di luce filtra tra le stecche perché, quando sono venute giù, si sono messe di traverso.
Ora i miei occhi si sono abituati e posso studiare bene la mia prigione.
Nella prima parte, vicino alla porta, ci sono due lavandini scheggiati, nell’angolo, il rubinetto da cui Matteo ha riempito il secchio e, a terra, in corrispondenza, una griglia per far defluire l’acqua.
Continuando, vedo uno stretto corridoio con a sinistra quattro orinatoi a muro e a destra quattro porte, per i cessi, suppongo.
Il freddo ed il bruciore forte dietro, mi rammentano cosa Matteo mi ha appena fatto.
Mi sporgo per guardarmi dietro: il mio sedere è rosso da far paura, quasi violaceo, ed è pure gonfio, sensazioni forti e contrastanti attraversano la mia mente: dolore, paura, rabbia, umiliazione, ma anche un’eccitazione che non riesco a frenare.
Piano piano, con cautela tiro su le mutandine e le rimetto a posto, poi srotolo le calze e le faccio risalire.
Il bruciore non passa, anzi, per rivestirmi ho sfregato le stoffa nel punto in cui lui mi ha colpito, però almeno sento meno freddo.
Guardo il secchio con lo straccio, la bottiglia di varechina, e penso a quello che mi aspetta.
E se mi rifiutassi?
L’immagine di Matteo che prende a cinghiate le mie povere tette, mi fa decidere.
Mi rendo conto subito che, con le caviglie legate insieme, non posso assolutamente camminare.
L’unica maniera per spostarmi è avanzare carponi usando braccia e ginocchia.
Mi muovo lentamente, sul pavimento sudicio, spostando le ginocchia insieme, mi sembra di essere uno di quei lombrichi che avanzano contraendo e stendendo il corpo.
L’acqua del secchio è giallastra e piena di roba nera che galleggia.
Mi chiedo come sia possibile lavare qualcosa con dell’acqua così sudicia, ma mi rendo conto di non essere nella condizione di poter fare obiezioni.
L’odore della varechina mi punge il naso.
Non l’ho mai sopportata, mi da il voltastomaco, ma non c’è un supermercato a portata di mano, dove comprare un detergente profumato, così, io che in casa non faccio mai nulla, perché ho la donna che viene a pulire tutti i giorni, immergo lo straccio nel secchio, lo tiro fuori, lo strizzo e poi lo butto sul pavimento.
Inizio a strofinare, mi spezzo subito un paio di unghie ma so che devo continuare.
L’acqua è gelida, lo straccio è ruvido e l’odore della varechina è orribile, ma vado avanti.
Il pavimento è fatto con delle marmette quadrate di graniglia grigia, ruvide e per niente facili da pulirsi, ma sono talmente sporche che, anche dopo una passata superficiale, la differenza è abissale.
Guardo il pezzo già fatto e sono presa da un senso di orgoglio: sono contenta, sono gratificata dal lavoro fatto. Possibile?
Sto diventando esperta, le mie mani si muovono più rapidamente e la parte di pavimento pulito aumenta.
Decido di cambiare l’acqua, che è diventata completamente nera e così spingo il secchio verso i lavandini.
Una volta arrivata mi rendo conto che non riesco ad alzarmi in piedi tenendo contemporaneamente il secchio.
Il secchio è senza manico e dovrei tenerlo tra le braccia, ma le braccia mi servono per tirarmi su, poggiandomi al muro e aggrappandomi al bordo del lavandino, perché, con i piedi tenuti uniti dalla catena, non ho abbastanza equilibrio.
Provo inutilmente, due o tre volte, poi alla fine mi rendo conto che. l’unica possibilità di svuotare il secchio, è servirmi della griglietta sul pavimento vicino al rubinetto, così mi sposto di nuovo, strisciando sul pavimento, con il secchio davanti a me.
Devo far piano, perché la griglia è piccola, così inclino un po’ il secchio ed inizio a versarne il contenuto.
Ad un certo punto devo aumentare l’inclinazione e succede il guaio: rovescio troppa acqua e questa non viene raccolta subito dalla griglia.
Cerco di indietreggiare, ma non faccio in tempo e mi bagno.
Una piccola onda grigiastra ha travolto le mie gambe e sono completamente fradicia dalle ginocchia in giù.
Mi metto a piangere.
Ho le mani rosse e gonfie, le unghie spezzate, le ginocchia scorticate, a forza di trascinarmi sul pavimento, le calze rotte e inzuppate di acqua sporca mista a quello schifo di varechina che detesto, a tra un po’ tornerà Matteo, che magari mi prenderà a cinghiate perché non rimarrà contento di come ho pulito.
Poi guardo il pavimento, non manca molto, sta venendo bene, mi dico per farmi coraggio, così, riempio di nuovo il secchio, ci aggiungo un po’ di varechina e riprendo il mio lavoro.

La porta si è aperta proprio un attimo dopo che avevo finito con il pavimento.
Chissà, magari stava guardando dal buco della serratura ed aspettava il momento propizio per entrare.
Matteo mi fa i complimenti, dice che sto imparando, che ho un avvenire come lavandaia, poi mi solleva come la volta precedente.
Sono ridotta uno schifo: la gonna bagnata e macchiata, le calze completamente rotte sulle ginocchia.
Mi stringe a sé, sento la lana del suo maglione che mi sfrega sui capezzoli, mentre lui mi trascina di nuovo verso il tavolo di metallo.
Non ho pulito bene? Non è soddisfatto? Mi sculaccerà ancora, oppure userà la cinghia sul mio povero sedere rosso e gonfio?
Mi sdraia sul tavolo di schiena.
Oddio, penso, mi frusterà le tette, come aveva minacciato prima.
‘Matteo ‘ ti prego, pulirò meglio, fammi provare ancora ‘ sarò brava …’
Mi infila le mani sotto la gonna, sento le sue dita abbrancare l’elastico del collant e tirare.
Mi spoglia di nuovo, come l’altra volta, poi mi solleva le gambe e le spinge indietro.
Ho capito cosa vuol fare, ha i pantaloni aperti e tiene in mano il pene eretto.
‘No Matteo, per favore, questo no!’
Mi preme forte sui polpacci spingendomi le gambe, unite e dritte, quasi contro il mio petto.
Poi sento la sua bocca posarsi sul mio sesso, chiuso, completamente serrato, la sua lingua inizia a carezzarlo ed io lentamente cedo e mi apro.
Non c’è più nulla: è sparito il freddo, l’umido del secchio che mi sono versata addosso, persino il bruciore dietro non sento più.
Quando toglie le labbra e mi penetra di colpo, io sono completamente soggiogata.
Mi tiene una mano sul ventre, proprio in corrispondenza del ciuffetto di peli, ben rasato, che ho sempre lasciato, esercita una discreta pressione e questo aumenta la mia sensibilità.
Viene quasi subito e mi sorprendo a pensare che avrei voluto durasse di più.
Dopo che è uscito, mi fa una carezza, le sue dita mi stuzzicano un attimo il clitoride, ed io emetto un gemito.
‘Bene, vedo che ti manca poco. Ora però ho da fare, puoi finire da te, credo che sai come fare, ma ricordati che c’è il resto del pavimento da pulire ed anche i cessi e gli orinatoi, li voglio splendenti per quando sarò di ritorno.’

La porta si è chiusa di nuovo e sono sola.
Faccio quello che mi ha consigliato: le mie dita si muovono veloci, come ho fatto tante volte, di notte nel letto, quando ero sola.
Lascio crescere lentamente l’orgasmo dentro di me, mentre lo sperma continua a defluire colandomi sulle cosce, finché il piacere non esplode improvviso.
Devo sbrigarmi: ho da finire il mio lavoro, non posso deludere Matteo, così mi lascio scivolare giù dal tavolo.
Mi rendo conto che devo andare in bagno, ma io sono già in bagno, che stupida.
Mi dirigo verso i cessi, ormai sono abituata alla mia camminata-strisciata e riesco a muovermi abbastanza velocemente.
Entro nel primo, la porta, mezza rotta, è rimasta in bilico, tenuta dall’unico cardine sano.
Il cesso fa veramente schifo, incrostato di escrementi e senza tavoletta ma non ho scelta.
Vorrei non poggiarmi, ma con le caviglie legate non posso fare altrimenti, così, dopo essermi piegata, scivolo indietro e le mie cosce si appoggiano sulla superficie lurida della tazza.
Mi libero mentre cerco di non pensare che non ho mai fatto pipì in un posto così sudicio.
Penso ché mi verranno mille malattie, mi prenderò chissà che infezioni, poi mi ricordo che questo cesso dovrò anche pulirlo, a mani nude e con lo straccio.
è bastato il pensiero per moltiplicare nel mio naso l’odore orribile che emana la tazza, un conato di vomito si affaccia ed esco velocemente, per quanto mi è consentito dalle caviglie incatenate, e torno nel corridoio.
Inizio con il pavimento, che è la cosa più facile, ormai sono diventata esperta.
Non c’è pericolo che mi spezzi le unghie, perché non ne è rimasta neanche una sana.
Mi guardo le mani, rosse e screpolate, mi servirebbero dei guanti di gomma.
La pulizia degli orinatoi, tutto sommato, è meno peggio di quel che mi aspettavo.
Alcune incrostazioni vengono via subito e la puzza quasi non la sento, evidentemente mi sto abituando.
Mi fermo un attimo a guardare: il pavimento del corridoio sembra pulito e gli orinatoi si potrebbero quasi definire bianchi.
Entro nell’ultimo cesso e la puzza orribile mi prende alla gola.
Non ci riuscirò mai, penso, poi si materializza davanti a me l’immagine di Matteo che prende a cinghiate i miei seni e decido di provarci.
Ci butto subito mezzo secchio di acqua sporca, sperando che ammorbidisca tutte le porcherie appiccicate e aspetto.
Dopo qualche minuto mi faccio coraggio e, dopo essermi foderata la mano con lo straccio, inizio a strofinare.
Ci metto un’infinità di tempo, anche perché ogni tanto mi devo fermare, presa da forti conati di vomito.
Vado a prendere altra acqua pulita e faccio una seconda passata, ora, a parte una striscia color ruggine, dovuta all’acqua che goccia dalla cassetta e che è impossibile da togliere, sembra perfettamente pulito, almeno con la scarsa luce che filtra dalle serrande abbassate.
Una breve passata al pavimento ed ho finito, mi fermo un attimo a rimirare il mio lavoro, poi mi ricordo che ci sono altri tre cessi da pulire e mi prende lo sconforto.
Non ce la farò, Matteo tornerà prima che io abbia finito e ‘
Le mani sporche e bagnate, afferrano istintivamente i miei seni, come a volerli proteggere, ma è solo un attimo, ce la posso fare, mi dico, e mi dirigo verso il secondo cesso.
Cerco di sbrigarmi, ho capito che quello che conta è che io lo faccia, mi vuole umiliare, non gli interessa che sia tutto pulito perfettamente, vuole solo essere certo che io ubbidisca fino in fondo.
Sto lavorando in maniera frenetica senza curarmi di nulla, ho le mani gelate dal lungo contatto con l’acqua fredda e la varechina mi brucia, oltretutto, nella foga ogni tanto mi arriva addosso qualche schizzo e la gonna è tutta inzuppata sulla pancia.
Mi fermo solo quando ho ripulito anche il quarto cesso e, immediatamente, si riapre la porta.
Lo supplico di riportarmi a casa, sono stanca morta e sto morendo di freddo, ma lui neanche risponde alle mie preghiere.
Mi guarda con aria schifata, mi dice che puzzo da far vomitare, poi mi tira su per la terza volta.
Mentre mi riporta lentamente verso il tavolo, stretta a lui, sento il suo pene eretto, dentro i pantaloni, che mi preme in mezzo alle gambe ed inizio ad eccitarmi.
Con il viso appoggiato sulla sua spalla lo supplico di scoparmi ancora, ma lui si scosta e mi dice di non stargli addosso, perché sono sporca di piscio e di merda.
Sento una nota disprezzo nella sua voce e mi accorgo che questo mi eccita ancora di più.
Di nuovo sdraiata sul tavolo di ferro, lo lascio fare, gemo di piacere mentre mi sfila nuovamente le calze e lo slip, pregustando quello che sta per accadere.
Quando capisco le sue intenzioni è troppo tardi: la punta del suo pene scivola dolcemente tra le labbra aperte del mio sesso eccitato e prosegue la corsa, per infilarsi invece nel mio ano serrato ed impreparato.
Grido di rabbia e di paura, poi di dolore, perché Matteo, me lo ha spinto dentro senza alcun riguardo.
Fa un male boia e ritorna, forte, prepotente, il dolore delle sculacciate che mi ha dato all’inizio, ma è questione di poco tempo, perché, mentre finisce di spingerlo dentro, infila una mano in mezzo alle cosce e prende a carezzarmi.
Il piacere si mischia al dolore e piano piano prende il sopravvento, mentre mi sorprendo a pensare che vorrei pulire i cessi per lui tutti i giorni e poi farmi scopare.
Devo essere impazzita, mi chiedo, ma non c’è tempo per pensare, Matteo mi parla nell’orecchio mentre continua, mi dice che sono una lurida cagna, che ha sempre desiderato farmi questo, che le stronze come me vanno inculate a sangue.
Nel dire queste parole spinge più forte ed ho come l’impressione che qualcosa si sia rotto dentro di me, mentre intanto le sue dita continuano ad esplorarmi.
Mi dice che mi sfonderà il culo, poi mi sento prendere il clitoride tra due dita e non resisto più.
Vengo, gridando, mentre anche lui raggiunge l’orgasmo e mi inonda di sperma.
Mi costringe ad alzarmi.
Sto in piedi a fatica, dietro mi brucia forte e perdo l’equilibrio finendo addosso a lui.
Mi trascina fino al muro, dove c’è il rubinetto e mi fa appoggiare.
‘Non ti muovere’, mi intima.
Si allontana da me per raccogliere il secchio dell’acqua con cui ho pulito i cessi.
Beh, per definirla acqua ci vuole un po’ di immaginazione, visto che si presenta come una orribile poltiglia marroncina.
Prima che io possa accennare una reazione, alza il secchio sopra di me ed inizia a versarne il contenuto sulla mia testa.
Faccio appena in tempo a chiudere occhi e bocca, che vengo investita da una fetida cascata.
Cerco di piegare le ginocchia, ma lui, con una mano mi blocca contro il muro, premendomi forte su una spalla, mentre con l’altra continua a versare.
La fa scorrere piano, in modo da inzupparmi bene e lentamente.
L’acqua passa per i miei lunghi capelli scuri, scivola sulla mia schiena e sui miei piccoli seni nudi, prosegue verso il basso inzuppando la gonna e mi scorre sulle gambe, terminando in una pozza intorno ai miei piedi, che viene lentamente assorbita dalla griglietta.
Mi lascia andare solo quando il secchio è completamente vuoto.
Lentamente mi affloscio a terra, scivolando lungo il muro.
L’aria fredda della notte mi si gela addosso, sono completamente fradicia e l’odore orribile dell’acqua sudicia mi avvolge e mi attanaglia, mentre Matteo, bruscamente, mi fa cenno di alzarmi.
Tiene in mano una vecchia coperta di lana e, appena mi tiro su, me la mette sulle spalle.
Il suo sembra un gesto premuroso, curioso, perché per ore mi ha trattata uno schifo e, ora che sono completamente annientata, cerca di apparire come una specie di settecentesco cavalier servente.

è finita. Mi ha tolto la catena dalle caviglie e mi ha accompagnato all’aperto.
Il sole sta sorgendo e siamo fuori da quel maledetto cesso.
Siamo in piena campagna e la sua auto è parcheggiata sotto un lampione.
Credo che mi abbia messo addosso la coperta, un po’ perché sono quasi nuda, ma soprattutto perché non vuole sporcare la tappezzeria della sua macchina nuova.
Cammino a fatica, sul vialetto sterrato e pieno di sassi, i miei piedi nudi, bagnati ed infreddoliti, inciampano sulle asperità del terreno, mentre ci avviciniamo alla sua auto.
Una volta seduta, al calduccio ed avvolta nella coperta, provo a rilassarmi, ma non ci riesco, perché sono piena di dolori e, soprattutto di strani pensieri, su quanto accaduto e, soprattutto, su cosa ho provato.
Arriviamo davanti a casa mia che non è ancora giorno e Matteo infila la rampa che porta ai box condominiali.
Mi lascia davanti alla porta che conduce all’ascensore e, prima di andarsene, mi mette in mano una grande busta di carta.
Dentro c’è il resto dei miei vestiti: la giacca, la camicetta, il reggiseno e, naturalmente le scarpe e la borsetta.
Mi dice soltanto ‘alla prossima’, mentre ingrana la prima e va via veloce.

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