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Racconti di Dominazione

La doppia punizione

By 27 Gennaio 2008Dicembre 16th, 2019No Comments

LA DOPPIA PUNIZIONE

1. L’ OSPITALITA’ DEL PADRONE

Dormivo credo. Steso sul divano, la giornata era stata lunga e carica di nuvole sino al rientro dal lavoro.
E quando ho aperto gli occhi c’era Albertazzi sullo schermo, vecchio, così credibile nella sua toga bianca da spiegarmi cosa sognavo. E sono quasi sicuro che nel mio sonno lui avesse parlato proprio di Plotino.

Nel sonno io attendevo il giovane Roganziano, in visita, e mentre mi perdevo guardando via dell’Accademia e ricordando un Roma onirica e solo mia, pensavo al dono che il giovane allievo prima ancora di arrivare mi aveva chiesto, quasi non osando. Lei.
Castrizio Firmo in arrivo dal Senato e Eustochio di Alessandria, mi avevano chiesto cosa avrei fatto di fronte alla richiesta così sfrontata, di cedere al giovanissimo discepolo del Maestro greco trasferitosi a Roma, in arrivo da lontano, la donna che amavo, la più giovane tra le giovani della vita mia di impenitente cliente dei baccanali e delle feste pagane.
Quella di cui Gemina, e Amficlea, moglie di Aristone, figlio di Giamblico erano state madrine, conducendola, ancor vergine a me, ragazza.
Castrizio firmo e Eustochio di Alessandria mi avevano fermato chiedendomi cosa avrei fatto e come avri potuto, e come avrei sofferto e patito, ben conoscendo il legame fortissimo che mi unisce a lei. Ben sapendo quando io tenga a quelle cosce tornite, che all’andare di calzari stretti e alti sembrano quasi colonne in crollo di un piccolo tempio, e muovono l’onda dei suoi fianchi come quella, guardandola arrivare, del mio sesso e del mio cuore.
Sapevo che l’avrei ceduta, per amicizia, ospitalità, devozione al Maestro per cui sia il giovane spudorato che io in realtà abbiamo sincera venerazione e della cui lungimirante saggezza un poco anche temiamo.
Sapevo che ne avrei sofferto.
Attendendo l’ora del ritorno di lei con le vesti ancora stazzonate, l’odore delle spezie e dell’orgasmo sulla pelle, e la sfrontata allegria che il giovane discepolo, non per offendere, ma per impudicizia della sua età, propria, il giorno dopo avrebbe ostentato.
Così mi recai lungo la via dell’Accademia, nella mia Roma della mente. oltre il mercato degli schiavi, a ordinare a una serva che le portasse l’incarico di prepararsi, lavandola e acconciandole i capelli nella foggia che io stesso preferivo, e che usasse, a profumarla dell’odore che io stesso amavo, le spezie per il corpo e i sali di Galilea che io avevo fatto giungere da Metaponto per lei con quei mercanti.
Che, vestita e poi nuda e coperta solo dai miei odori, si preparasse a rendere a me onore.
Dando accoglienza al giovane Roganziano. E piacere.
Che più di lei, cosa preziosa non avevo da offrire.

Non so come sia andata a finire in televisione, nè in realtà nemmeno so di cosa parlasse l’uomo anziano con la toga, sullo schermo col volume azzerato.
Mi sono volto al letto.
Sapendo che avrei poco dormito e che domani, poco prima di svegliarmi e scendere per via dell’Accademia, nella mia Roma, avrei cercato sul suo corpo e sul lino gettato a terra, quegli odori, i miei e il suo. Mischiati.
E che la mia ospitalità, pur nei commenti sarcastici sul mio dolore, sarebbe stata nelle chiacchiere in Senato, domani ancora decantata.

2. LA DOPPIA PUNIZIONE

Ed è tornando a casa dal Senato che ho modo di vederle lì.
Lei ancora nuda come l’avevo lasciata uscendone presto il mattino. Era rientrata a un’ora in cui credo la luce del giorno nuovo aveva fatto già comparsa, non mi ero destato completamente al suo arrivo.
E si era infilata, incurante dell’odore della sua notte lontana, al mio fianco, impudica come una statua, ma così calda che non avevo potuto nel sonno fare a meno, in modo naturale di stringerla a me.
Lungo la strada del rientro avevo comperato agrumi di Baetica, e posai l’acquisto a colmare di fragranza la stanza. Per coprire l’odore di sesso che vi aleggiava in modo quasi sfrontato e forte.
Nuda sul letto lei giaceva col capo posato sul grembo di Aminah la schiava cirenaica, la sua favorita, quella che la sera prima su mia richiesta si era presa cura di lei e l’aveva apparecchiata per essere ceduta in dono. Stava narrandole la notte appena trascorsa e nel narrare giocava con due dita, indice e medio sulle labbra del sesso di Aminah, così vicino al suo volto che sono stato certo potesse sentirne l’afrore eccitato, gonfio, lucido, che ne potevo scorgere persino io, da lontano.
Schiudeva il taglio, come se fosse un gioco di bambina, intingeva il dito sino a farlo avvolgere e svanire, lo ritraeva lucido, poi ancora, raccontandole lo ricuciva, labbra di una ferita aperta, sotto il tocco delle dita.
E il racconto doveva, oltre al gioco malizioso e un po’ infantile di scrivere sul corpo di Aminah così del suo piacere, avere densi e cospicui contenuti perché Aminah emetteva a rantoli ravvicinati all’approssimarsi rapido del suo piacere.
Provai all’istante una fitta al costato, carezzai gli agrumi, colmandomi del loro aroma le dita, che portai al viso alla ricerca dell’odore di lontani agrumeti, e, facendo notare solo allora il mio ingresso nella stanza, ordinai ad Aminah di alzarsi in piedi.
Non avrei mai potuto battere lei, segnarne il corpo, lasciare righe dolenti a sanare il mio compiacimento per l’obbedienza e al tempo stesso il mio dolore. E fu Aminah a offrirmi di che saziare la mia sete.
Legai i polsi di Aminah con la striscia di cuoio che uso per cingermi la toga e appesi il capo alla colonna di legno chiaro che regge a un lato il velo sopra il letto.
Ne ammirai la forma nuda, il seno che passò dalla prossimità del piacere alla convulsione del respiro ben sapendo ciò che avrei inflitto alle sue reni. Poi avvitai le due viti siracusane, applicazione della vite di Archimede, senza fine, serrandoli i capezzoli che si offrivano, le braccia alte sopra il capo, lei appesa, eretti, congestionati dall’eccitazione e tesi. Strinsi finchè non la sentii gemere e piegare sulle gambe, come una gomena di nave in porto, quando entra l’eco della burrasca oltre il frontemare. E l’ormeggio sembra cedere. E cantano i legni e le gomene
Lei sul letto era sdraiata, le gambe larghe e il sesso glabro luccicante e nudo ora ospitava su se stessa il gioco delle dita.
Presi il cuoio intrecciato a nido stretto, terminante a punta, rigido, cattivo nella concia, dello staffile corto che usavo nelle uscite col tiro a due.
E incominciai a colpire.
Leggendo i numeri del mio infliggere righe, le natiche prima e poi la schiena ,sulle labbra di lei sdraiata, oscena, che non potevo e avevo cuore di punire. Sul letto, ad ogni colpo sulle carni di Aminah, ad ogni suo grido soffocato, sembrava fosse lei a sentirne il morso caldo sulle reni.
Colpii dieci volte, il polso diventato quasi pregno di vita sua, e Aminah ora nemmeno quasi si reggeva più in piedi, già dopo la settima aveva affidato solo al cuoio legato ai polsi la sua stazione, cedendo sui polpacci.
Lei nel letto era sconvolta e sconvolgente, nuda, le ginocchia alzate, la mano, prima una poi due affondata nel suo sesso continuava a godere. Sapevo quanto avrebbe desiderato pagare così, lei e non la schiava preferita, di avere avuto col giovane Roganziano, la notte prima tanto piacere.
Sapevo quanto la eccitava la rabbia crudele con cui stavo facendo affiorare il sangue sulla schiena di Aminah.
Che era misura del mio amore, e del mio patire.
Aminah ad ogni colpo aveva avuto un grido, e ad ogni colpo, mescolato in gola fiele e miele, lei ad ogni colpo aveva affondato, guardandomi con quel suo volto di bambina, le dita a darsi, spingendo con violenza i polsi al pube, piacere.
Lasciai la stanza, ero turbato almeno quanto lei. Aminah era appesa, senza energie, per quello che sapevo di lei, aveva mescolato certamente orgasmo e dolore, come era solita riuscire. Dei colpi le restava nele gambe molli ora solo un interminabile, continuo tremore.
La schiena e le reni erano gonfie di righe dall’anima vermiglia. Cedute le caviglie sembrava sollevata quasi dal suolo, agitata da un piccolo vento, e senza energia per risalire.
Lei scese nuda dal letto. Spettinata.
I seni alti con le punte accese e tese.
Portò Aminah a giacere, carezzò in punta di dita i segni che avrebbero dovuto essere suoi.
Passò la lingua a cercarne il sale del sudore e il dolce vischio del sangue dove la pelle era ceduta al dolore.
Poi prese creme e unguenti di Cilicia, e con mano dolce, carezzandola la cominciò a pulire e accudire.
In strada incontrai Sabinillo e Aristone e cominciammo a discutere del principio vitale da cui prendono forma le piante, gli animali, e gli esseri umani.
Alla ricerca di un perché alla vita, che continuava.

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(aggiornato al 12 febbraio 2010)

Della giustizia e dell’ingiustizia

E torna, per la seconda volta la febbre, in pochi mesi, a violarmi. Corpo e sogni.
E con la febbre scivolo di nuovo, per mano al sudore gelido del corpo troppo caldo nella notte, in quella casa.
La vita era proseguita, senza scossoni apparenti. I pochi tumulti popolari dovuti alla nuova tassa su grano e macinato introdotta per finanziare, su nostra decisione in Senato, le spedizioni dell’imperatore Gallieno contro i barbari che spingevano da nord e da est sui confini dell’Impero erano stati repressi nel sangue. Per dieci giorni e dieci notti non era stato salubre e sicuro uscire dalle vie del centro e avventurarsi soli nelle zone di mercato e di opificio.
Poi, come era salita, l’onda della protesta disperata, era scemata, aveva ragione Aristone dire che il popolo non ha memoria, quando ha solo fame.
In quei dieci giorni, forse succube di una ritorno di febbri di palude, che mi porto dietro da un viaggio in Apulia fatto quando ero proconsole da giovane, e forse influenzato dalla decisione cinica che anch’io avevo votato, in nome di un bene superiore, presi una seconda decisione. Che misi in atto in forma che dimenticherò presto, spero di riuscirci, pur non essendo uomo del popolo, né quanto meno affamato.
Una decisione vile.
Il ricordo di lei dopo l’incontro con il giovane Roganziano mi tormentava.
Non mi dava pace.
Non avrei mai potuto accusarla di quel suo svergognato piacere, di cui io solo ero stato artefice e ruffiano. Né tanto meno di quell’odore di sperma e sudore che avevo trovato sul suo corpo, nel suo letto, sul suo sesso così appagato. Nemmeno la punizione inflitta ad Aminah davanti a lei, la prima così violenta da me mai inflitta ad una schiava, aveva dato pace al ribollire dentro di me di una forma per me finora sconosciuta di furore. Così decisi.
Con la complicità che da sempre io stesso volevo con lei, lasciai sulle mense e nella nostra stanza del vino. Nuovo, rosso di sangue vivo, e odoroso di botte resinosa.
Sapendo che lei non avrebbe resistito, al chiuso delle mura, sentendosi protetta dal mio amore. A farne uso e abuso.

E lei non tardò a commettere l’errore.
Tornai a casa dal Senato, stanco e anche avvilito, dalle notizie che i messaggeri riportavano dal confine. Scontri saltuari con i Goti, si erano risolti in modo non sempre favorevole alle nostre corti. A fronte dei nostri attacchi tribù di Sciti, Peucini, Greuthungi, Ostrogoti, Tervingi, Visi e Gepidi, nonché Celti ed Eruli, con brama di vendetta irruppero in territorio romano saccheggiando molti distretti
Parecchi nostri soldati, reclutati da tempo troppo recente tra le genti galliche avevano anche disertato e, forti delle loro conoscenze delle cose romane, e ella nostra arte militare, avevano aiutato i nostri nemici a superare il limes in più punti.
Ero avvilito, dell’inutilità apparente della legge crudele e impopolare fatta votare e votata e rincasai alle prime ombre della sera.
Trovai Aminah, entrando nelle stanze della notte. Mi venne incontro e lo fece con aria così maliziosa che capii che il mio stratagemma aveva funzionato e che lei stava adoperandosi per proteggere la sua padrona. Seducendomi.
Aminah mi porse un telo umido di vapore perché detergessi il viso rilassandolo, e nel farlo mostrò la curva impudica del seno nella veste aperta sul avanti. Il seno e capezzoli così scuri, sempre contratti, come se avesse brividi incancellabili, di natura.
Fui tentato di prenderla.
La piccola schiava era ben padrona delle sue arti di seduzione, ma avevo il mio piano da realizzare.
Scostai la giovane donna e trovai nel letto lei, nuda. L’orcio del vino di Illiria quasi vuoto ai piedi del letto.
Ordinai ad Aminah di andare, rivestendosi velocemente, a chiamare Castrizio Firmo. O Sabinillo o se li trovava a casa entrambi. Lei obbedì, credo di malavoglia, intuendo cosa volessi fare.
Quando giunsero a casa feci loro vedere lo scempio di quel corpo così amato, nudo, il respiro pesante e odoroso di vino, osceno, della donna per cui loro sapevano io ero letteralmente impazzito. Mi furono bravi testimoni.
Avrei avuto diritto di vita su di lei, volendolo, perché le leggi da sempre vietano l’uso del vino alle donne accasate o vergini di famiglia, concedendolo solo alle meretrici o alla donne pubbliche nel postribolo e nelle orge. Tolsi così la mano dal suo capo, quella che allo sponsale si pone in segno di protezione, sostituendosi al padre e la cacciai.
Non dopo aver pagato lauto compenso al padre di lei, di nascosto da tutti, per essere certo che l’avrebbe accolta nuovamente in casa non facendole mancare nulla. La scelta era darle morte o renderla a chi me l’aveva ceduta in sposa, coi diritti di padre su di lei. Mi assicurai con una quantità inusitata di sesterzi in oro che lui la riprendesse allora.
Parti per Capua due giorni dopo, portandosi con sé Aminah, che le avevo donato io stesso a suo tempo come schiava.
In quei due giorni le chiesi di non uscire mai dalle sue stanze, e tenni io Aminah con me nelle mie. E feci solo con lei l’amore. Mi affezionai ad Aminah, più in quei due giorni che in precedenza quando era solo la schiava della donna che amavo.
Provai emozioni nuove davanti al corpo quasi acerbo, alla sua capacità di esprimere libidine animale e perdizione selvaggia con lo sguardo ancora di bambina.
La presi in ogni modo la rabbia e la successiva passione mi suggerirono di fare. La frustai più volte, senza ragionevole motivo, solo per sfogare qualcosa di indefinito che mi ribolliva dentro, e infissi aghi nel suo seno, usai i fermagli delle sua veste a tale scopo, solo per vedere lacrime di sangue imperlarsi sulla sua pelle, oltre a quelle di sale agli occhi, che leccai goloso.
Lei non ebbe un solo attimo in cui cercò riparo.
O cercò di sottrarsi a nulla in modo reale.
Quasi sfidandomi. Si lamentò, sì lo fece. Pianse e implorò.
Ma quando poi salivo su di lei a prenderla, sazio del crescente suo dolore incassato, aveva quello sguardo privo di sconfitta, quasi di sfida, di chi aveva vinto per davvero. Ed è in quello sguardo che trovò strada il mio sentire.
Che ogni volta che le diedi dolore, e fu un crescendo, nell’amore che dopo mi serviva a ridare pace al cuore, io ero un passo oltre, suo. Ancora. La vidi bella come mai l’avevo forse vista prima.
Coi segni delle mani, della frusta, delle candele portate dal tempio, quelle di cera orientale, profumate di spezie, le più preziose. Sul corpo.
E fu quando il padre venne a prendere la donna che avevo ripudiato, e incassare la ricompensa per la generosità comprata, e con lei anche Aminah che mi resi conto di aver fatto qualcosa che mi avrebbe poi nel tempo tormentato. Lei non si voltò salita sul carro, sopra le casse dei suoi abiti e monili che tutti, senza eccezione acuna le avevo permesso i portarsi via.
Aminah sì. Seduta a cassetta, col padre della sua padrona a fianco, si voltò una volta sola.
Io riconobbi all’istante quel sorriso di sfida e di paradossale e incongruente protezione che solo nell’amore aveva.
Visto tutte le volte, nei due giorni precedenti, in cui lei accoglieva serrandomi le cosce alle reni, il mio morire e spegnermi in lei, esausto, soddisfatto ed appagato. Squassato dall’ultima violenta spinta delle reni mie, stretto nella sua fica nuda.
Comprai il giorno dopo, dopo faticosa ricerca, perché gli insuccessi militari alla frontiera non rifornivano la capitale di nuovi schiavi come un tempo succedeva, una schiava nuova, che si prendesse cura della mia stanza e del mio piacere e alleviasse le mie ire e i miei pensieri.
La scelsi tra le giovani di un villaggio razziato respingendo gli alemanni a nord oltre il limes che avevano varcato pochi giorni prima. Odorava di animale selvatico, quasi di fiera, nel sudore del viaggio in catene. La pelle era chiarissima.
L’odore era acre come quello del sesso delle vergini vestali nel trionfo della loro primavera.
La pelle chiarissima, cosparsa di piccole macchie scure, come spesso è quella delle donne delle tribù del nord del nostro impero.
Come quella di Aminah.
Le diedi un nome, perché il suo era impronunciabile, nella lingua cacofonica e sgraziata del suo paese, e poi a me nemmeno piaceva. Mandai un messaggio il primo al padre della donna che avevo cacciato da casa mia, con un servo a cavallo. Ci mise due giorni ad andare e due a tornare.
Lo punii della lentezza e della mia troppo lunga attesa, senza ascoltarne la ragione.
Portò le notizie che avevo chiesto. Lei stava bene, il padre ne aveva cura.
Sul vendermi Aminah al momento non ne voleva però parlare.
Chiamai Rebecca, il nome l’avevo scelto dalla libro sacro dei cristiani, in spregio a loro. Chiamai Rebecca, la nuova schiava e per la prima volta, letto, accartocciato con stizza, e bruciato il messaggio di risposta nel braciere, la frustai.
Per cercare nei suoi occhi nuova sfida.

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(aggiornato al 26 febbraio 2008)

Le giornate continuavano a correre lente nella disfatta incipiente di un impero.
Le notizie dai mille fronti aperti lungo i confini di un mondo, che dimostrava tutta la sua folle e ingovernabile estensione quasi all’improvviso, rimbalzavano nei capannelli che intorno ai Fori e al Senato andavano aggregandosi e disaggregandosi nel corso apparentemente sempre uguale delle settimane.
Furono programmate, per decisione del Senato, corse di bighe e giochi di atleti, per celebrare i fasti di qualcosa che cominciava a gemere vistosamente sotto le pressioni interne ed esterne, quasi che il governo della città volesse esorcizzare, agli occhi ancora increduli del popolo, presagi neri. Il senatore votò a favore dei giochi, come quasi tutti, tranne due tribuni che avevano riscoperto furori quasi da pre-impero nella loro oratoria allarmata e moralizzatrice.
Non furono ovviamente ascoltati e, nell’occasione dei giochi, fu indetto, a maggior lustro e onore dell’Impero, anche un grande mercato, della durata di quasi una settimana, da tenersi fuori le mura. Con merci, cibi, lane e tessuti. Giocolieri, acrobati e saltimbanchi giunti da ogni città del Lazio e dalle regioni vicine.
Rebecca in quelle settimane che intercorsero tra il suo acquisto e i giorni dei giochi di primavera, cominciò ad avere e scoprire nuove cure, prima a lei sconosciute, del suo corpo e del suo vestire. L’anziana schiava che si era presa cura a suo tempo della crescita di Aminah, rinnovò le sue arti, una volta ancora, su richiesta del senatore. Insegnandole a colorare il viso, e camminare con una grazia di danza leggera e felina che presto, per le sue forme e la sua predisposizione, le divenne persino naturale.
Le insegnò come comportarsi in presenza del padrone, che lei sola, schiava da sempre lì, poteva, unica nella casa, in virtù dei servigi fedeli e della debolezza di cuore del senatore di fronte alle sue ormai vaste rughe, chiamare semplicemente il senatore e non il padrone.
Insegnò a Rebecca la cura del suo corpo, l’igiene che a lei mancava nella vita precedente. L’arte di sedurre abbassando occhi, sguardo e viso.
Si divertì vedendo la giovane schiava giocare con i suoi saponi odorosi al miele di artemisia. Le insegnò a camminare calzando calzari, avendo cura dei suoi piedi che liberò in breve, con pietra pomice, bagni caldi e erbe sapientemente mescolate, delle callosità che l’uso del camminare sempre scalza le avevano causato sin da bambina.
Le insegnò a non coprirsi se l’abito la scopriva, seno o cosce o ambo le cose, davanti al padrone o ai suoi ospiti, se non dietro sua richiesta, di un breve e secco gesto della mano. Fece poca, pochissima fatica, perché la ragazza selvaggia non aveva pressoché senso del pudore o del celare il suo corpo. Anzi sembrava scegliere ogni movimento per restare esposta e nuda, senza dare però a vedere la malizia sottile con cui li sceglieva, quei gesti che facevano scivolare la tunica dalle spalle. O aprirsi, così realisticamente accidentalmente, il laccio che la cingeva in vita..
Poi le insegnò a colorare di terre rosse i capezzoli, per renderli più evidenti, sanguigni, scuri e offerti allo sguardo e ai desideri. Si prese cura del pelo del suo sesso che era incolto e gli dette forma aggraziata, radendolo al punto che non perdesse morbidezza, non fosse di attrito e fastidio sul sesso del padrone, ma fosse rado e corto a sufficienza da piacere. Non fu difficile perché il pelo di lei era così chiaro e, sebbene incolto, rado e morbido di suo, che dopo pochissimi tentativi di forbici e rasoio ebbe felicemente ragione del vello chiaro. La vecchia Armida insegnò poi a Rebecca l’arte e i modi del servire.
Quando il padrone aveva ospiti, da chi cominciare a mescere il vino, quanto e come. Come tenere gli occhi bassi. Cosa che alla ragazza veniva poco naturale e che suscitò più volte le ire del senatore, che quando erano in pubblico avrebbe desiderato un comportamento più dimesso, sottomesso e rispettoso. E non quel suo modo quasi sfrontato di guardare, curiosa come una bambina a cui tutto il mondo fosse nuovo, uomini, donne e cose.
Armida, su richiesta del senatore chiamò il fabbro che si prendeva cura dei cavalli e del carro quando zoccoli o ruote erano da ferrare.
Dette al fabbro, che era maniscalco pure, e dentista, quattro sesterzi d’oro vecchio. Da fondere e forgiare.
Ridurre a filo tondo, piegare su se stesso come un piccolo serpente d’oro, avvolto su due spire.
Poi, mentre Armida teneva le braccia di Rebecca bloccate, i piedi della giovane schiava ancorati e legati alle gambe del sedile, con un ferro sterile rovente, il fabbro forò un labbro del sesso della schiava. Avevano fatto bere vino a Rebecca, per la prima volta, di modo che l’ebbrezza certa l’avrebbe aiutata a contenere il dolore. In bocca aveva un ramo di salice scorticato, un piccolo bastone chiaro in cui poter affondare i denti senza spezzarli se li serrava troppo per il dolore.
L’odore della carne e del fuoco morse le narici del fabbro e di Armida con violenza. Il ferro caldo passò veloce, con la punta rossa sottile nelle carni di Rebecca sigillandole, al suo stesso affondarci veloce, all’istante col calore. Poi, dopo aver messo crema di propoli e olio di lino sulla ferita cullandone il dolore con le dita, Armida asciugò il sudore copioso che imperlava la fronte della ragazza, colandone misto a lacrime sul viso, gocciolandole sui seni. Il maniscalco fece scivolare il piccolo serpente d’oro, le sue due spirali nel piccolo foro viola, gonfio al punto di sembrare carne chiusa ancora. Poi ne serrò con le pinze piatte le due spirali chiudendole in modo definitivo.
Solo dopo tre giorni il senatore potè giocare con l’anello e stuzzicare il labbro infibulato con legittimo piacere. Le cure della vecchia schiava avevano accelerato la cicatrizzazione dell’ottimo lavoro del fabbro e l’anello luccicava, splendido, docile a ruotare sotto le dita del padrone, lucidato a dovere sulla carne ritornata rosa chiara che lo tratteneva a vita.
Il senatore colse con piacere lo sguardo basso di Rebecca quando la mandò a chiamare. Le sollevò il viso dopo aver constatato la bellezza del sesso curato e del monile che trattenne tra le dita tirandola a sé. In modo di avere gli occhi della schiava di fronte ai suoi.
E furono lo sguardo di orgoglio e di fierezza, e il coraggio che vi lesse a dare fuoco all’istante al suo sesso e al suo cuore. Fu la prima notte che la tenne nel suo letto, dopo i giochi d’amore, anche a dormire.
Uscì che lei ancora nuda, avvolta malamente nella pelle che usava lui come copertura, dormiva. La guardò a lungo, vestendosi, prima di uscire. Il culo nudo, lo spacco di mela che amava così tanto violare, le reni sottili che salivano come anse di anfora alla schiena. La pelle coperta di microscopiche macchie scure, pioggia di efelidi di chi reagisce arrossendo a piccoli punti e non facendosi ambra e velluto ai baci del sole.
Uscito sorridendo, andò a vedere come procedevano i preparativi dei giochi e del gran mercato.
E a mandare un messo, dal padre della sua sposa ripudiata. Per invitare lui, lei, e la schiava che si era portata via da Roma.
Per i giochi, il mercato e una cena che aveva chiesto a Terzio Sabino di organizzare nella sua casa di campagna, fuori le mura. Con cibi, danze e musiche.
Poi comprò dei tessuti assai belli, trapuntati in filo d’oro puro, giunti dalla Grecia. Perché Armida ordinasse alla sarta di via Salaria, per Rebecca una tunica nuova.
Porpora, da indossare in quella occasione.
Toccò il tessuto, la greca in oro che ne percorreva l’orlo tutto a lato, e immaginò il gioco di quell’oro con l’oro dell’anello celato sotto la tunica, quando avrebbe ordinato a Rebecca di scostarla, aprendola sul sesso, davanti agli ospiti di Terzio Sabino.
Per essere dentro di sé orgogliosa e lasciarsi ammirare.

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(aggiornato al 6 giugno 2008)

I giochi tanto attesi si svolsero in un tripudio di folla.
Giunsero in città migliaia di persone, dimentiche per qualche giorno almeno di ansie e preoccupazioni. Quasi volessero tutti non pensare alla crescente mancanza di grano e di olio nei loro magazzini, la città si riempì già giorni prima di genti vestite in fogge strane, curiose e perennemente in movimento, tra piazze, mercati, templi.
Venditori di mille mercanzie, ladri, borseggiatori e prostitute affluirono in città, esaltati dalla possibilità di facili vendite, e affari di dubbia onestà, favoriti dalla confusione generale. Che nell’ebbrezza di quelle giornate sarebbero certo avvenute, facili e veloci, le loro acrobazie di commerci leciti o meno, quando divertirsi era quasi un obbligo inebriante per un popolo che stava vivendo fin troppo dure prove.
Al terzo giorno, dopo gli scontri con le fiere, e gli spettacoli di lottatori, finalmente le corse con le bighe, che erano da sempre lo spettacolo preferito da buona parte del pubblico, animarono scommesse, risse e tensioni. Ovunque si improvvisavano capannelli, intorno a uomini che offrivano attirando i viandanti con aria di proporre loro il migliore affare della loro vita, di puntare sui propri favoriti. Con quote prefissate, che non puntare era quasi dare un calcio alla fortuna, in caso di vincita di Flavio il Tracio, o del Cisalpino. Che tutti davano nella corsa coi tiri a tre cavalli come i favoriti.
I giochi avevano una durata prevista di sette giorni e si sarebbero conclusi a breve, con una grande cerimonia al tempio di Giove. Mi recai con Rebecca, che mai aveva visto i ludi, ad assistere alle gare, proprio nella giornata delle corse.
Cominciavano al mattino, un’ora dopo l’alba, e lei, bella come il sole nella giornata dalle ombre così stagliate al suolo, tra i mormorii di chi mi conosceva – e vistosamente non credo apprezzasse il mio accompagnarmi in occasioni così mondane in compagnia della mia schiava – prese posto a me vicina.
La disapprovazione che sentii circondarci nelle persone che credevo e consideravo almeno vicine, se non anche amiche, mi domandai se avesse origine nell’inopportunità sociale di questa mia ostentazione o nell’invidia che si manifestava negli sguardi nemmeno così dissimulati. Potei cogliere gli occhi di Aristone e di Leandro, e di Mario il tebano, perdersi sulla morbidezza del tessuto che malamente poco la copriva, poi scivolare sulle curve orgogliose dei suoi seni, tesi a colmare e appuntire il tessuto. E sul gioco delle cosce, che, al suo sedersi rimanevano oscenamente nude, almeno un attimo solo.
Rebecca si emozionò come una bambina, rise alle esibizioni goffe e volutamente catastrofiche degli attori e cascatori che si simularono atleti, per burla, e nella conca di pietra e marmo, riecheggiò più e più volte, oltre alla sua, la più corale delle risate.
I ludi funzionavano, pensai, erano una buona cura e un buon vaccino, e l’idea di aver offerto svago alla città era stata un’idea vincente, una volta tanto, dopo tanti provvedimenti impopolari. Fu alla corsa dei tiri a tre, la più spettacolare che si ruppe improvviso, in un solo grido, l’incanto.
Come per caso. Le bighe in gara erano più strette, e i tre cavalli, appaiati quasi, che ne trainavano ciascuna, rendevano così incredibile il sorpassarsi dei cocchi. Quasi un’idra di teste e code infuriata, e schiuma alle bocche e alle nari, un demone di polvere e sudore, ad ogni lor stringersi forzando il passo al momento di curvare, stretti.
Sei i corridori.
Tutto il pubblico era in piedi e Rebecca era agitatissima, lei per prima. Mi confidò di avere visto corse di cavalli al suo villaggio, tra i migliori guerrieri, e che il migliore era quello cui era stata promessa in sposa dal padre sino da bambina. E che i nostri soldati avevano ucciso lui e tutti i più validi guerrieri quando lei fu presa prigioniera. Nel dirlo si scostò da me. D’istinto.
Presi il suo polso e con l’altra mano le serrai il fianco con forza, riportandola al posto suo.
La sua resistenza fu breve e solo un attimo dopo aderiva ancora così forte col suo corpo al mio, da colmarmi del profumo del suo corpo, delle spezie con cui era stata lavata e dalla fragranza di giovane femmina del suo sudore, le narici. Ancora.
Alla seconda curva, in piena velocità, stringendosi tra loro i cocchi, avvenne l’urto. L’impatto che si trasformò all’istante in urlo della folla. Ferita.
Sentii Rebecca contrarsi e quasi urlare coi fianchi allo spettacolo improvviso.
Forse si incastrarono le ruote dei carri troppo vicini in curva. O uno dei cavalli del Tracio perse la presa al suolo, e scivolò, trascinando nella sua caduta gli altri e quelli del carro troppo accostato a loro. Fatto sta che fu polvere e groviglio e rumore di legnami spezzati, urla e nitriti come se tutti i cavalli venissero sgozzati in un colpo solo. In un sacrificio collettivo.
Gli altri carri continuarono la corsa, scansando l’ostacolo che si dibatteva e agitava senza capo, corpo o coda, ridotto solo groviglio frenetico e indistinto, nella nuvola di terra sollevata.
Corsero inservienti dalle stalle e dai loro ostelli, alcuni dietro il luogo dell’incidente, per far arrestare al ritorno dopo il giro le altre bighe, altri a soccorrere uomini e cavalli in quella catasta che sussultava. E pulsava.
Finirono sgozzandoli sul luogo tre cavalli che erano azzoppati, per abbreviare le loro sofferenze. Ruppero a colpi di ascia frenetici ciò che restava delle bighe, per liberare i guidatori. Trascinarono via i rottami, coi corpi dei tre cavalli uccisi, e quello del cavallo morto nell’impatto da solo.
Una scia di sangue si allargò a lato del fiore di legna e carne.
Poi estrassero e dapprima trascinarono per i piedi, di gran fretta e furia, poi sollevarono quasi con devozione, i corpi del Tracio e di un altro corridore. La folla ammutolì, un attimo solo, poi trasformò il grido dell’impatto in crescente e ribollente brusio.
Vidi due donne piangere. Vicine a noi. E molti occhi farsi lucidi e arrossare.
Il Tracio era un eroe.
Amato e benvoluto, quasi un simbolo dei giochi cittadini.
Gli tributarono onori e mezza città andò a vederne il corpo ripulito, ornato, profumato, esposto fuori dal Senato, già dalla sera stessa, per tre giorni, prima della cremazione. I giochi cessarono, per editto straordinario senatoriale.
In tutta la città per giorni interi si sentì solo parlare della corsa, dell’incidente, di quel groviglio blasfemo di corpi equini e umani e schegge di calesse. Qualcuno disse che il Tracio nel tentativo di frenare ed evitare l’impatto si fosse erto come un gigante, puntando i piedi, gonfiando fino a farli scoppiare i muscoli delle sue braccia e avesse spezzato con la sua forza le due briglie di duro cuoio che teneva in mano.
Fu quella notte.
Che Rebecca stringendosi a me pianse. Mi confessò di odiare me e il nostro popolo.
Di non riuscire a dimenticare il suo villaggio, le genti morte nell’assalto delle nostre legioni. Il fiume, e i giorni passati al ritmo rassicurante delle sue stagioni, da bambina.
Che non avrebbe mai potuto essere come le altre schiave, e dimenticare. Dapprima mi colpì il petto coi pugni serrati, senza farmi alcun male né causarmi alcun dolore.
Sdraiata a fianco a me nel letto. Poi cominciò il suo pianto infinito, quasi avesse un fiume da lasciare uscire troppo a lungo trattenuto. Sussultava nei singhiozzi, nuda, contro i miei vestiti. Le ginocchia strette alte verso il seno, come un feto.
Bagnò di lacrime la mia tonaca facendo diventare, dove la bagnava, il lino bianco, scuro.
E più diceva che ci odiava, più si stringeva. Le mani strette a pugno afferrava e teneva il mio abito, quasi aggrappandosi per non cadere, precipitare nelle sue paure.
Mi spogliai, pur faticando per liberarmi in modo dolce dalla sua presa. Non osai io proferire parola alcuna. La carezzai. Fino a che le si calmò il sussultare dei fianchi, del ventre e del seno.
Poi la baciai. A lungo, finchè fu lei a schiudersi, scorrendo con le gambe sul lenzuolo, e in silenzio a chiedermi di entrare. A darle pace.
Senza parola alcuna, gli occhi suoi così rossi per le lacrime e così dolci da averne io paura.
Entrai nel suo ventre come se fosse stata la prima volta che lo prendevo e lo possedevo e io fossi dentro di lei il primo. Sfiorai il piccolo anello d’oro con il glande, lo sentii freddo e mi eccitò oltre misura, poi proseguii.
Mi mossi piano, con sicurezza e calma, per non perdere un attimo solo del suo calore che si scioglieva. E mi avvolgeva il sesso.
Quando lei cominciò ad ansimare, ma solo allora, ascoltandole il respiro con rinnovato e nuovo stupore, quando la bambina cominciò a diventare femmina e poi animale caldo, cominciai ad accelerare io.
Non mi importò in quel momento dei suoi pugni battuti con rabbia disperata contro il mio petto mentre mi odiava con le parole.
Ero felice del suo ventre che mi amava. Strinse le cosce ai mie fianchi mentre godeva, e io ne fui felice.
Il giorno dopo, per chiudere con onore anticipatamente i giochi e dare pace al dolore popolare, stanziammo in senato una donazione alle vedove e agli orfani delle guerre di frontiera contro i barbari degli ultimi mesi. E ordinammo che Fidone, le cui sculture tutti amavano in città, scolpisse una grande statua equestre, almeno una volta e mezza le sue misure quando era vivo, del Tracio. Da mettere, con grande festa e profusione di musiche e fiori, sulla piazza del mercato in occasione delle Idi.
Uscii di casa, per recarmi in Senato e partecipare alla delibera e alla discussione, che Rebecca dormiva ancora.
Un servo mi avvisò mentre uscivo e assaporavo l’aria fresca e pulita del mattino, che alla cena di Terzio Sabino sarebbero venuti la mia sposa ripudiata con suo padre e che avrebbero portato con loro come desideravo fortissimo in cuor mio anche Aminah.
Sorrisi, inarcando le reni stanche per la lunga notte d’amore. Rebecca, nella notte, aveva avuto ragione delle mie reni e del mio corpo che cominciava a sentirsi antico coi suoi appetiti di ragazza. Risi, passando dal sorriso al riso. Perché si preannunciava proprio una bellissima giornata.
E non mi davo cura o preoccupazione che alcuna nube mai avrebbe potuto guastarmi la giornata.
In tutta Roma io, forse io solo, almeno, ero felice.

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(aggiornato al 6 luglio 2008)

Mancavano ormai solo tre giorni alla grande festa per la cena a casa di Terzio Sabino. A cui tutta la nobiltà e i maggiori notabili, contribuenti e uomini di legge e di cultura e di città avrebbero partecipato con grande spolvero di ricchezze e lussi.
Si erano già celebrate, due giorni prima, con una partecipazione di folle assai superiore anche alle attese le esequie del Tracio. Per una notte intera, a funerali avvenuti e commemorazione affettuata, sciami di cittadini avevano percorso la città con grida e canti di osteria, ebbri per le libagioni eccessive che avevano accompagnato l’intera giornata della sepoltura.
Il Tracio si era convertito alla religione dei cristiani solo qualche anno prima di morire nell’arena e aveva preferito la sepoltura alla cremazione dei suoi avi. Ma del silenzio e del rispetto che tali esequie avrebbero richiesto anche nel lutto successivo il popolo non aveva avuto alcun riguardo.
Il popolo ha un lutto tutto suo particolare, quasi un esorcismo a volte, per coprire di oscenità e trivio il suo dolore, azzerarlo quasi gridando alla vita in ogni sua forma, anche le più invereconde, e la morte dell’eroe così popolare non si era sottratta nelle sue conseguenze a questo uso pagano.
Il terzo giorno prima della cena, lei, quella che mi fu sposa e fedele e che io avevo ripudiato solo pochi mesi prima, in un modo che cercavo ancora di non ricordare, giunse in città, accompagnata dal padre e, ovviamente, non fosse altro che in spregio e sottile vendetta su di me, da Aminah.
Erano stati invitati da Sabino, per l’importanza dei commerci del padre di lei, Militone.
Trovarono ospitalità nella casa romana di Paolo Latino, intimo amico di Militone sin dall’epoca in cui avevano avviato entrambi i loro primi commerci coloniali, sostenendosi a vicenda nell’affittanza delle navi e nel trasporto delle merci e degli schiavi. Paolo Latino ora era uno dei mercanti più apprezzati e riveriti, e in parte anche temuti, della capitale. Era fuori città da oltre un mese, e di lui si sospettava stesse facendo affari con le tribù ribelli a nord dell’Impero, ma nessuno aveva mai né esibito, né tanto meno cercato le prove che lo potessero fare accusare davanti alla legge ed al Senato.
Mezza città aveva avuto favori, o commerci spesso illeciti con lui, e nessuno mai aveva osato mettersi in contrasto con il suo potere, vuoi per gratitudine, vuoi nella speranza di favori promessi e ancora da mantenere, vuoi per la paura che, trascinato nel fango, potesse trascinare a sua volta i suoi detrattori e delatori, di cui magari custodiva illeciti segreti.
Andai in visita al padre della mia non più sposa nel pomeriggio, lasciando loro il tempo di prendere possesso della casa, riassettarsi dopo il viaggio in carro sulle strade sconnesse e polverose e avere modo di presentarsi a me in modo acconcio e appropriato tenuto conto del mio rango e del mio ruolo nel Senato.
Mi introdusse nella casa un servo che non conoscevo.
Trovai nell’ampia sala, seduti come se fossero nella loro propria casa e non solamente ospiti, quella che fu mia moglie e suo padre. Aminah era seduta al suolo, ai piedi della sua signora.
Sia Gaia, la mia sposa rinnegata che suo padre, Militone colsero, perché se lo attendevano credo, il mio correre con lo sguardo subito sul corpo della loro schiava. Mentre mi ritrovavo a fissarla, accorgendomi che loro avevano subito colto la fuga verso di lei dei miei occhi, mi detti dello stolto, dello scemo, dell’idiota.
Era evidente che loro si aspettavano questa mia istantanea reazione alla vista di lei, e non a caso li scorsi fissarmi attenti, quasi divertiti, rubandomi lo sguardo che debbo aver avuto quasi commosso e perso nel vederla lì accosciata seminuda nella corta veste.
Ed era evidente che ora il prezzo dell’eventuale riscatto di Aminah che mi sarei dovuto trovare a sostenere sarebbe enormemente lievitato, dopo questa mia conferma nemmeno minimamente mal mascherata di interesse, l’unico interesse in realtà che mi avesse spinto in visita a loro.
I convenevoli furono assai veloci, domande sulla vita loro al paese, a lei se avesse bisogno di nulla di ciò che aveva lasciato magari eventualmente nella mia casa, lasciandola. A lui, sui suoi commerci di cui in tutta sincerità avevo quasi ribrezzo. Si accompagnava spesso a due ricchi giudei, noti per la pratica dell’usura, che mai la legge era riuscita a far andare sotto giudizio. Loro lo finanziavano occasionalmente nelle spedizioni a volte, coi soldi estorti per il prestito a cittadini, in difficoltà o indigenza a causa delle vicissitudini non positive che attraversano molte famiglie romane nei giorni che vivevamo tutti.
Espedite che furono queste convenienze e formalità di buona educazione e dopo averli resi edotti assai velocemente circa le ultime sedute del senato e la fine tragica dei giochi, argomento di pettegolezzo che sembrò interessare loro assai più della crisi dello stato, non senza imbarazzo azzardai la richiesta che avevo a pulsarmi in petto e che stavano aspettando di udire certamente, dopo aver rimosso il velo dei convenevoli di rito.
‘Mio caro Militone, ancora non so come ringraziarti dell’ospitalità con cui hai riaccolto nella tua casa Gaia’ esordii, ruffiano e falso, ben conscio dell’enormità del prezzo a lui pagato, e da lui estortomi, perché io non fossi obbligato a metterla a morte o abbandonarla in una strada dopo la sua ubriacatura. Cosa che pur nella mia volontà di liberarmene mai avrei saputo affrontare serenamente.
Poi non so nemmeno ridire qui adesso quali furono le mie parole.
Come affrontai e formulai la richiesta che avevo in cuore, né quanto ci mise la mia voce a tradire quanto la volessi e quanto mi desse dolore il solo pensare alla possibilità di un loro rifiuto.
Non so più come affrontai e introdussi la questione. E so d’altro canto che ogni mia argomentazione, benché pensata, ripensata, quasi sezionata nella mente e a volte anche ad alta voce, girando da solo nervoso nelle mie stanze nell’attesa di quell’incontro anche il giorno prima, debba essere loro sembrata patetica, quasi ridicola e pretestuosa. Lo so per l’ironia che colsi nei loro sguardi e che nemmeno si premurarono di celare, il gusto laido di una vendetta che offrivo, senza prezzo da pagare per incassarla, a loro, quasi su un vassoio cesellato in oro.
Ma so che poco mi importò sentirmi quasi nudo e indifeso, aperto a qualsiasi ferita avessero voluto la sorte o i numi infliggere ai miei desideri. Maledii in cuor mio la mia stupidità quando avevo lasciato a lei Aminah in dote e in dono. E maledii Aminah stessa, per il ridicolo in cui mi sentivo quasi affogare, durante il loro umiliante silenzio che seguì alla mia richiesta.
Che Militone, bastardo da par suo, si concesse anche il lusso dell’attesa prima di parlare, sapendo che così sarei impazzito di tensione.
Chiesero un giorno di tempo, per decidere se da Aminah Gaia avrebbe potuto separarsi. E per comunicarmi l’eventuale prezzo del riscatto che però, in ogni caso, avrebbe avuto una clausola precisa e irrinunciabile per loro, se me l’avessero mai rivenduta.
Che io mi impegnassi sui miei Lari a non affrancarla mai, nemmeno in punto di morte, mia o sua, dalla schiavitù. Che mai potesse diventare donna libera e che il suo ruolo nella mia casa, implicitamente era su questo che mi volevano obbligare, mai sarebbe stato quello della concubina o, ancor più, della sposa. Che fosse a vita, davanti alla città e ai cittadini liberi, schiava tra le mie schiave.
‘..che poi mi è giunta voce di una tua nuova schiava assai bella, che hai battezzato Rebecca, dicono, perché non ce la proponi in baratto in aggiunta al prezzo se ti dovessimo richiedere accontentandoti il riscatto” soggiunse quasi ridendomi in faccia Militone, sfoderando l’occhio più lubrico e viscido che mai gli avessi conosciuto. Poi davvero scoppiò, e senza alcun riguardo per la mia veste di senatore, rise.
Mentre chiedevo Aminah, arrampicandomi su fili e argomentazioni di ragioni sempre più fragili e sottili perché mai avrei ammesso davanti a loro la vera ragione, ben chiara del mio chiedere, insistere e accettare l’umiliazione di quella situazione, Gaia, in evidente spregio, o forse solo per vizio e libidine acquisita in modo ancora maggiore in quegli ultimi mesi, non smise un attimo solo di giocare coi capelli di lei lì accosciata ai suoi piedi. Di stuzzicarla muovendoli nudi lungo la coscia, carezzandola lubrica, scostandone la veste. Nè di arricciare i capelli della schiava sulle sue dita facendone anelli castani a cingersi l’indice o il medio o l’anulare.
Al moto dei suoi piedi la veste di Aminah risaliva a volte.
Lasciandole mude le cosce fino al sesso.
E scoprii in Aminah, che in quei momenti con gli occhi abbandonava i miei, e i suoi li abbassava con rossore, e si riconduceva la veste a posto sulle cosce nude, dopo che il piede di Gaia aveva giocato a stuzzicare, qualcosa di nuovo. Una strana e inedita in lei sorta di pudore.
Che mi afferrò il respiro. Azzerandolo.
Provai rabbia per Gaia che la esibiva e celebrava il suo possesso quasi umiliando me ed Aminah in un gesto solo.
E provai un moto di tenerezza infinita per lei invece. E il suo nuovo fragile pudore.
Pudore di me, di come i gesti di Gaia, sulle cosce, o sui capelli o con mano che a volte le poneva aperta, più in segno di possesso che di affetto sulla gola e poi a scivolarle sul seno sotto la veste, potessero ferirmi, nel vederla umiliata. Ora, in quello che dall’inizio era stato senza problema alcuno il suo ruolo di schiava nella nostra vita.
Decisi che in qualsiasi modo l’avrei riportata a casa.
Lasciata la casa di Paolo Latino, congedatomi da loro quasi in fretta e furia, che un secondo solo ancora non sarei resistito oltre trattenendomi, ero abbastanza agitato E ripensavo a ciò che avevo detto, o dimenticato nell’agitazione di dire.
E tutto mi sembrava di averlo davvero gestito nel modo peggiore.
Fu dopo un centinaio di passi veloci e lunghi, che il rumore di passi affrettati dalla corsa alle mie spalle sul selciato sconnesso mi obbligò a voltarmi.
Sudata, spettinata, la veste scossa dalla corsa così veloce, ebbi di fronte lei, Aminah.
Nemmeno ebbi tempo di chiedermi o chiederle come avesse fatto ad uscire indisturbata e non vista dalla casa, che senz’altro non era né col consenso di Gaia né con quello di Militone che era giunta fino a me adesso. Si lasciò stringere e ne ritrovai all’istante l’odore, le pelle, il sudore, l’alito caldo a riscaldarmi la veste dove aveva affondato il viso. Perle di lacrime bagnarono la mia tunica bianca.
Si lasciò stringere affondando nell’abbraccio, e la sentii tremare.
La strinsi, e nello stringerla, nel misto di tenerezza e desiderio violento che mi colse e si mescolò senza ragione, sentii il mio sesso reclamarla, chiuso tra me e lei abbracciati, ventre a ventre.
Il ventre suo a quel mio risveglio spudorato, spingere, ingordo come lo conoscevo in lei.
Fu lì, in quel momento, certo che a costo di assoldare sicari io l’avrei riavuta, che lei e Rebecca per la prima volta si videro.
Rebecca che rientrava dal mercato coi fiori per adornare la mia casa stretti in grosso fascio tra le braccia, ebbe un attimo di rabbia nello sguardo.
Prima che al mio fissarle gli occhi lei stessa li abbassasse e quasi spegnesse la luce nei suoi. La chiamai. Venne vicina.
Le dissi che Aminah, lei la percorse con lo sguardo nascondendo ogni emozione, sarebbe ritornata nella mia casa. Le dissi che di lì a massimo due giorni Aminah sarebbe ritornata, anche se, dicendolo, io per primo non sapevo come sarei riuscito e se mai sarei riuscito, e la informai che da quel giorno avrebbe diviso stanza e incombenze con lei.
Le vidi guardarsi, apparentemente senza espressione alcuna che tradisse ora la benché minima emozione in nessuna delle due.
Poi sciolsi dalle mie braccia Aminah, che corse verso casa per non fare scoprire la sua fuga. La seguii con lo sguardo finche scomparve in fondo alla stretta via. Svoltando dietro un muro.
Quando girai lo sguardo indietro, anche Rebecca ormai era andata. Con i suoi acquisti profumati verso casa.
Mi ritrovai da solo nella strada.
Pensai a quanto sarebbe stata lunga la mia giornata, in attesa della risposta di quei due alla mia richiesta. Pregai che la loro avidità incontenibile mi fosse questa volta almeno buona alleata.
E immaginai la cena da Terzio Sabino, ridendo dei pettegolezzi che quella sera, se tutto fosse andato come desideravo io, avrei ingenerato nei commensali.
La Roma più ricca, potente, oscena lasciva e dissoluta e, nella sua decadenza, più volgare.
Riunita a celebrare usanze e fasti che io sentivo con malinconia d’animo destinati a scomparire e declinare, anche se ormai ridotti solo a pantomima.
Senza nemmeno dover chiudere gli occhi per immaginare sentii.
Il mormorio di voci.
Il volgere degli sguardi di tutti, al nostro ingresso, a cercare conferma visiva e inconfutabile ai pettegolezzi da serva degli uomini più potenti della capitale.
Quando, seguito da Rebecca e da Aminah, vestite non da schiave ma con l’eleganza, la ricchezza di tessuti e ori, e lo stile che mai avrebbero avuto le loro ricche e viziose dame, o le loro puttane arabe prezzolate e odorose di resine orientali, io avrei fatto, sorridente, il mio ingresso nella sala.

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(aggiornato al 12 febbraio 2009)

Tornato a casa, mi rifugiai velocemente nelle mie stanze.
Non avevo nessuna voglia di incontrare i servi e fui davvero lieto che nessuno di loro mi si parasse davanti nel percorso dall’atrio alle stanze. Li avrei cacciati in malo modo se solo li avessi incontrati o avessero chiesto la più banale delle domande.
Per prima cosa lavai il viso.
Avevo camminato velocemente e in modo nervoso, e nella calura dell’estate che si avvicinava feroce, dando ai marmi dei palazzi luce di ghiaccio, ero sudato. Fradicio.
Gettai la tunica per terra e versai acqua nella bacinella di rame che uso per le abluzioni.
Di solito era Armida a prendersi cura di questa incombenza. La vecchia schiava usava tessuti di lino e spugne dei mari d’Ellade per detergere stanchezza e sudore dal mio corpo e dal mio viso. Ma non avevo voglia di vedere nemmeno lei, la più fidata, lei che da sempre era ospite nella mia casa, al mio servizio.
Così presi cura da solo, cosa a cui non ero più avvezzo da tempo, di me stesso.
E mi versai da solo acqua, con un mestolo, lungo la schiena, sul petto. E godetti del refrigerio dell’acqua fresca spillata dall’orcio di terracotta che ne teneva la temperatura sempre gradevole anche nelle giornata più calde dell’estate.
Poi immersi nuovamente più volte le mani e portai quanta più acqua fui capace, nella loro conca tracimante, al viso. Mi asciugai con un telo di lino e indossai una tunica vecchia, quella che più di tutte mi era cara e che amavo, carica di ricordi di giornate e di battaglie interminabili al Senato, ormai troppo lisa, purtroppo, per essere portata senza essere additato per indigente nella vita pubblica.
Ma che io amavo per la sua vita e le sue ferite in trama e ordito, inflitte da un’esistenza lunga e consumata.
Ero non più accaldato, dopo il beneficio dell’acqua sulle carni, ma ancora dentro di me ancora bollivo.
Per la risposta di Militone, il vile.
Nemmeno atteso che terminasse l’intera giornata successiva al nostro incontro per dare risposta alle mie richieste. L’aveva fatto nel modo più vigliacco, mandando un ambasciatore, un servo di Paolo Latino che gli era stato lasciato, per le incombenze della casa, insieme alla casa stessa nel suo soggiorno romano.
Conoscevo bene il servo e, vedendolo arrivare, mi aspettai che mi portasse una missiva, con prezzo del riscatto e condizioni, o quanto meno a voce mi portasse la risposta che attendevo, magari rinviando ad un successivo incontro con Militone e Gaia la definizione finale della transazione.
Invece no.
L’unica comunicazione che doveva portarmi era stata una nuova convocazione a casa dei due. Senza alcun accenno a ciò che attendevo di sapere, con indiscutibile e trasparente ansia.
Per questo arrivai alla casa di Paolo Latino assai agitato. Camminai veloce e teso nei pensieri, e all’entrata mi accorsi che le mie vesti erano zuppe di sudore, sulla schiena e ai fianchi, incollate alla pelle, sotto le braccia. Avevo i muscoli delle braccia così tesi, seppure inconsciamente, da provarne dolore.
Il servo latore della convocazione mi aveva seguito quasi a fatica. Era anziano, dal passo malfermo sulle strade della città, sempre meno curate e ormai sconnesse dal transito dei carri, per la crisi economica dello stato. Mi superò solo alla soglia, accelerando con affanno, per introdurmi nella casa, con un ultimo guizzo di rispetto per la mia età, la mia persona, e il mio incarico in Senato. Poi andò a cercare i suoi temporanei padroni.
Mi fecero attendere.
Un tempo indefinibile che a me parve quasi due terzi di una intera ora.
Poi entrarono, loro due, senza Aminah. E quell’assenza della schiava oggetto della transazione mi inquietò all’istante. E fece contrarre oltre ai muscoli delle mie braccia anche il mio costato.
Mi salutarono con un sorriso che a me, per diffidenza e premonizione, parve subito strano e sottile. Mi fecero accomodare nella stanza in cui il giorno prima avevamo avuto la nostra discussione.
‘Mio caro amico’ esordì Militone, dopo una pausa che a me parve eterna e interminabile.
‘Mio caro amico’ ripetè con voce ancora più sottile.
‘Gaia ha pensato a lungo, e io pure.’ Un’altra pausa e io avevo sempre più dolore nei muscoli di ambo le braccia, tese per tenerle ferme trattenendole, ai fianchi.
‘Alla fine abbiamo convenuto che non esiste prezzo per i servigi che Aminah rende a Gaia e a me’ e dicendolo si trattenne a stento dal ridere. Quell’ ‘a me’ aveva un tono così viscido e infame che mi dovetti forzare, a stento, per non levarmi dalla panca, ove mi ero seduto per celare la tensione che avevo dentro, e non saltare al collo dell’ uomo che giocava con me e i miei pensieri e desideri.
‘Abbiamo anche pensato se chiederti davvero la tua nuova schiava, si chiama Rebecca se ricordo bene’,finse di ricordare a mala pena,’ da aggiungere al prezzo del riscatto, ma poi abbiamo deciso che questo commercio in alcun modo è possibile da realizzare’
‘ Tu che hai conosciuto Aminah bene, scegliendo di farne dono a Gaia proprio per le sue grazie e il suo piacere, converrai con noi che separarcene sarebbe un imperdonabile peccato e che non esiste prezzo per le sue arti amorose, le sue carni fresche, la sua dedizione’.’ E rise.
Fu in quel momento che realizzai che la fuga a me di Aminah lungo la strada il giorno prima, avvenuta in modo sin troppo facile, era stata in realtà da loro favorita e agevolata, per prendersi maggiormente gioco e vendetta su di me. E fu in quell’istante che decisi.
Che non sarebbero tornati, né padre né figlia, a Gaeta vivi.
E che avrei avuto Aminah in qualsiasi modo. Anche abusando della mia carica e del mio potere. In fin dei conti non sarei stato certo il primo nobile o senatore a vedere ignorati e passati sotto silenzio per rispetto del titolo, paura dell’influenza e della vendetta i suoi crimini o reati. Né il primo né probabilmente l’ultimo.
Avrei inventato,escogitato, realizzato il modo.
Ero uscito dalla casa senza replicare, con lo stomaco contratto dall’umiliazione e dalla rabbia. Sotto gli sguardi loro che sapevo, senza vedere, maligni e soddisfatti e compiaciuti del risultato del loro agire. Avevo quasi corso, verso la mia casa, sudando e rendendo fradicia la tunica mia migliore.
E ora, seduto, i piedi nell’acqua che avevo versato, lavandomi, al suolo, mi sentii quasi perso e inerme di fronte all’ira e alla sconfitta patita.
Rebecca mi raggiunse mentre sedevo, con la testa tenuta tra le mani, e lacrime di rabbia all’angolo degli occhi che nemmeno loro, rifiutandosi di uscire, si utilizzavano almeno a darmi sfogo.
Trattai male Rebecca, entrata senza che io nemmeno la chiamassi.
La respinsi in malo modo.
Lei non si dette per vinta, e senza una parola slacciò la fibula d’argento scura che teneva chiusa la sua veste, lasciandola cadere al suolo.
In piedi, davanti a me, nuda, era bellissima. Coi capelli sciolti perché non si era premurata di legarli come desideravo fossero in mia presenza sempre.
La pelle coperta delle mille macchie piccole, il suo arcipelago di nei. Su cui avevo perso occhi e dita nell’amore, percorrendo rotte invisibili, e cercando, unendoli con la pressione delle dita, facendo schiarire la sua pelle al loro passaggio, di scrivere, come i bambini sulla sabbia, il mio nome. L’anello d’oro alle labbra del suo sesso era lucido e spiccava, sul candore della sua pelle così chiara, lì, dove mai, dal suo arrivo a Roma almeno, era stata baciata da alcun sole.
Mi scivolò vicina, i piedi nudi nell’acqua che avevo sparsa dappertutto e copiosa la suolo. L’anello era vicino alle mie labbra, lei in piedi e io seduto.
Avevo liberato il capo dalle mani e rialzato il viso.
Lei allora sporse il pube, inarcò la schiena e offerse il ricciolo d’oro, l’unico ricciolo di un pube rasato da Armida con gran cura, alla mie labbra e al loro bacio.
Affondai il viso lì. Inebriando le narici del suo odore.
Morsi l’anello, lo tirai tra i denti. Cercai di penetrarne l’asola con la punta della lingua, accorgendomi che, nel farlo, lei si bagnava tra le labbra, densa e copiosa, e un rantolo le usciva dalla gola.
Succhiai l’anello, cercando di trascinarmelo fino in fondo alla gola. Il labbro del suo sesso si tese, seguì la forza della mia suzione, mi scivolò docile tra le labbra e i denti. Lo strinsi.
Lei spinse il pube.
Mi ubriacai così.
Della sua fica, del suo anello, del suo sapore e del suo odore.
Persi la cognizione di dove finisse il piccolo anello d’oro e dove cominciasse la sua carne. Labbra, denti e lingua si profusero in mille capriole.
Poi allargò le gambe, scostò le cosce, appena si fu liberata dal giogo della mia bocca, si mise a cavallo delle mie cosce e su di me, seduto, si sedette. Facendomi scomparire, con una carezza umida e stretta, caldissima, nel suo ventre. Fino a posare le sue cosce fresche e nervose a cavallo delle mie, di fronte.
Salì e scese sui muscoli dei polpacci fino a farmi godere.
Poi attese che io l’allontanassi da me, dopo aver avuto da lei il mio piacere.
Non dimostrò però stupore, né, d ‘altro canto, gratitudine alcuna. Quando, invece di rimandarla alle sue stanze, io, ancora dentro di lei, perdendo di tensione e raccogliendo sul mio pube il perdersi caldo del mio stesso seme, che cominciava a scendere e colare, la strinsi a me.
Aderì al mio corpo. Ne imitò il ritmo del respiro, adeguandosi ad alternarsi al prendere vigore e svuotarsi dei miei polmoni. Si lasciò stringere e mi strinse lei.
Mi leccò gli occhi.
Come un felino, rimosse con la lingua dai miei occhi quelle lacrime di rabbia che non erano riuscite prima ad uscire.
Quelle che lei aveva trasformato in piccole gocce salate e calde di piacere, libere di lavarmi, come nessuna acqua di orcio o catino mai avrebbe potuto fare, finalmente davvero, cuore e viso.
Poi si lasciò baciare sulle labbra, cosa che non ero uso fare, e mi lasciò sentire, rubandolo alla sua lingua, il sapore liberato del mio sale.

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(aggiornato al 12 febbraio 2010)

Quando comperai Rebecca, ricordo ancora il giorno della scelta, anche perché, benché ci fosse un’offerta assai scarna quel giorno, e si sarebbe fatto in fretta a valutare ogni schiava in vendita, non valutai né soppesai nemmeno altre scelte.
Mi colpì subito.
Non solo per la bellezza.
L’aria selvatica, l’odore del suo corpo sudato che superava la distanza tra l’assito su cui era tenuta dalla catena e me, lì sotto, a terra.
Il corpo nudo, sporco di terra e polvere, lo sguardo di animale prigioniero con cui sembrava quasi voler sfidare lei la piccola folla volgare e vociante, che davanti alla pedana di legno su cui era esibita la merce, si accalcava. Sembrò ai miei occhi una nobile guerriera, non una serva.
Decisi subito l’acquisto. E feci avvicinare Armida al mercante per evitare di dovermi piegare al gioco dei rilanci e delle trattative, coi suoi complici mescolati tra la piccola folla al solo scopo di fare lievitare il prezzo a dismisura.
Non che ve ne fosse bisogno, di artificiosi e laidi inganni al rialzo: il mercante ben mi conosceva e, considerandomi un cliente poco disposto a dare mostra dei suoi acquisti o farsi vedere troppo a lungo in quella situazione, sovrastimando oltretutto evidentemente, come fa chi vive di invidia, le mie ricchezze, mi chiese un prezzo che in altre situazioni avrei addirittura reputato offensivo.
Ma tale era la rabbia per la lontananza di Aminah, e tale e tanto il desiderio di azzerare in qualche modo la mia stolta generosità con Gaia e il padre di lei, che al ritorno di Armida a me con lo smisurato prezzo, incurante della riprovazione nascosta in modo inefficace dalla vecchia e saggia serva, feci un cenno del capo al mercante.
Accettando senza mercanteggiare un prezzo a cui avrei comprato tre schiave meno belle o un valente gladiatore, da mettere in campo per dare lustro alla mia nomea in tutta la città per mesi e mesi. O anni.
Mi allontanai, lasciando ad Armida la piccola sacca di monete d’oro che avevo portato sotto la tunica per lo scopo, e delegando a lei le incombenze dello scambio dell’oro con la schiava.
Mi accompagnarono, fin dove riuscii ad udirle, le proteste e il brontolio degli altri acquirenti che si erano visti sfilare, senza avere nemmeno avuto modo di fare offerta alcuna, la carta più bella dal già misero mazzo esibito sull’assito. Risi.
Pensando a come la mia popolarità, dopo gli ultimi discorsi miei in Senato e le mie ultimissime prese di posizione in materia di pene e tasse, certo non avrebbe avuto bisogno di questo ulteriore aiuto per sprofondare ancora un poco verso l’abisso. Armida poi, come ho già avuto modo di dire, si prese cura subito, a casa, di Rebecca, a cui il nome da me fu donato, e la rese presentabile, pulita, profumata.
Ebbe ragione dei capelli che si rivelarono splendidi, una volta tagliati in modo regolare, lavati, liberati da grumi di terra e fango, e profumati e resi morbidi da resine e olii dall’aroma caldo e mielato. Ne limò le unghie, che aveva belle e forti ma rotte e troppo lunghe per vivere tra i civili.
Ne sbiancò con una radice di liquirizia e argilla i denti.
Passò pomice di mare sui suoi piedi, sui calli delle mani, sui gomiti, ne levigò ogni ansa o promontorio in cui il lavoro e la vita selvatica, da lei condotta tra i barbari suoi famigli, avessero dimenticato come debba essere morbido e atto al piacere dello sguardo e delle mani il corpo di una donna, soprattutto di una schiava.
Quando Armida condusse a me Rebecca ero intento a scrivere una missiva da inviare al proconsole in Sicilia. Vicino a me stava in piedi Alfio Decano, il servo.
Il più abile a montare un cavallo tra quelli che vivono nella mia casa, quello che spesso per questa sua perizia, e la fiducia meritata col suo passato di legionario, cura da anni le incombenze di fiducia e tempestività che riguardano i miei scambi epistolari.
Rebecca guardò stupita i segni strani che tracciavo, e fu la prima volta che colsi nel suo sguardo qualcosa che non fosse sfida e odio.
Era evidente che la sua gente non conosceva la scrittura, così mi venne idea e voglia di fare un gioco.
Chiamai Armida vicina e le dissi di chiedere a Rebecca il nome di suo padre, e del suo fratello maggiore, se mai ne avesse uno. Di farseli dire sottovoce di modo che fosse chiaro alla giovane che io non potessi sentire alcun suono e conoscerli in alcun modo. Armida ci mise qualche minuto a farsi capire dalla schiava.
Poi la ragazza chinò il capo verso l’orecchio della vecchia donna di casa e sussurrò – e numi, era bellissima, e sembrava una bambina in quel suo stare immediatamente al piccolo gioco che non capiva ma aveva intuito essere tale ‘ all’orecchio di Armida qualche cosa.
Chiamai Armida, che aveva le rughe del viso rinforzate e accentuate dal sorriso, gli occhi intelligenti che le ridevano, quasi fino ad azzerarne l’età e farla ritornare giovane e bella, alla tavola e le porsi di che scrivere. Le chiesi di scrivere i due nomi o quanto meno le lettere corrispondenti al loro suono.
Armida, con scrittura un poco incerta, tracciò due nomi, scrivendoli come si sarebbero scritti se fossero stati latini, erano un miscuglio di lettere che nella nostra scrittura non avevano significato, ma permettevano di essere riprodotti come suono.
Le feci cenno di portare assai vicina Rebecca, che non aveva allentato un attimo solo lo sguardo da ciò che la mia vecchia schiava aveva compiuto sul foglio spianato. Lo sguardo di Rebecca valeva tutto il gioco.
Ma fu quando presi in mano il foglio scritto da Armida e dopo una pausa esagerata e assai teatrale, le lessi i nomi del padre e del fratello, senza nemmeno io sapere io però, in verità, cosa leggevo, che gli occhi di Rebecca si aprirono come fiori. Grandissimi e di una bellezza infantile e sconvolgente.
Indimenticabile lo stupore che vi colsi, non li avevo abbandonati un attimo solo coi miei.
Stupore e poi quasi paura. O quanto meno reverenza.
Io risi e risero Armida e Alfio Decano.
Rebecca ci guardò in modo interrogativo, con un misto di emozioni che trasparivano impudiche, indifese e nude dal suo bel viso.
Fu così che Rebecca conobbe la magia. Della scrittura.
La sua intelligenza, e le pazienti e difficili spiegazioni in una lingua che lei padroneggiava assai poco, le fecero capire che quell’esclamazione, che tradotta in latino avrebbe significato ‘Dio’, con cui mi aveva chiamato, quando aveva sentito dalla mia voce i nomi dei suoi parenti che mai mi aveva detto, era quanto meno esagerata.
Il giorno dopo Armida, con pazienza che le conosco da una vita, su richiesta mia, anticipata da Rebecca stessa, aveva cominciato le sue piccole lezioni di scrittura.
Ed è per questo che non posso non stringere e baciare, divertito ed emozionato, Rebecca ora.
Ha sfilato la veste, è nuda.
E bellissima, una statua di carne temperata da una vita sana e senza vizio o ozio alcuno. Ha i capelli acconciati e legati in una piccola palla scura, due bacchette di avorio tengono salda l’acconciatura e offrono nudi collo e nuca.
Sul seno ha dei segni, incerti. Sulle coppe, sopra i capezzoli scuri e grinzosi che così tanto amano possedere le mie labbra, le mie mani, le mie dita e i miei denti.
Su ambo i seni, nel loro gonfiarsi di donna, asimmetrico, imperfetto eppure riconoscibile senza dubbio alcuno spicca il mio nome.
Scritto da lei, davanti allo specchio, alla rovescia, con mano resa ancor meno sicura dal capovolgersi dell’immagine. Riflessa, dal foglietto scritto da Armida e che lei serba appallottolato nella mano, stretta lungo il fianco dalla tensione. Si lascia guardare, gli occhi le si abbassano, la mano che regge il modello da cui ha copiato lettera per lettera è bianca dalla forza e agitazione con cui lo serra. Quasi avesse paura che la scritta di Armida avesse potuto tradirla se l’avesse lasciata libera di respirarle dentro il palmo.
Mi sono voltato. A lato.
Dopo aver sorriso.
Perché non è bello e dignitoso che una schiava veda una lacrima lucida. Tentennare incerta se evaporare negandosi, o liberarsi del tutto e scivolare.
Negli occhi del padrone, di un uomo della mia età e del mio ruolo.
Un Senatore dell’Impero.
Mi resta il dubbio, nel suo leccarmi gli occhi mentre la prendo, e la sovrasto, il sesso piantato nel suo accogliente ventre. Fermo, attendendo che lei cominci ad agitarsi, sinuosa e ansimante, per svuotarmi e goderne, facendomi godere del suo stringermi ritmato dalle onde sue, lì dentro.
Mi ha leccato gli occhi.
Avrà trovato il sale della lacrima che ho negato ai suoi, girandomi.
La scritta sul suo seno si è stinta contro il mio petto, sfregandolo. Lo vedo adesso, resta una macchia appena più scura della sua stessa carne, non più che il calco di lettere imperfette.
Lo vedo sollevandomi da lei, inarcato sulle reni, affondando in lei fin dove riesco, mentre inizio a riempirle di seme caldo il ventre.

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(aggiornato al 12 febbraio 2010)

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