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Racconti di Dominazione

La mia istruzione

By 28 Marzo 2013Dicembre 16th, 2019No Comments

L’offerta di lavoro sembrava fatta su misura per me. Cercavano una donna tra i trenta ed i quaranta, di bell’aspetto, con istruzione a livello universitario, buona conoscenza delle lingue ed esperienza riguardante la gestione e l’organizzazione del personale nel settore alberghiero o nella ristorazione di lusso.
Ero stanca del mio lavoro di direttrice di albergo, inoltre, me l’aveva detto l’amministratore, l’hotel non navigava in buone acque e, se non arrivavano nuovi finanziamenti, avrebbe chiuso entro l’anno.
Così avevo inviato tutta la documentazione richiesta, ma senza neanche crederci troppo.
Avevo spedito, tramite internet, curriculum dettagliato con tutte le esperienze di lavoro, laurea, attestazioni dei miei corsi di lingue, oltre a due foto, un primo piano ed una immagine a figura intera.
Si trattava di dirigere una struttura prestigiosa, una centro termale allestito in una villa antica e lussuosa, che avrebbe aperto tra pochi mesi.
La risposta, positiva, era arrivata nel giro di pochi giorni, con un invito a presentarmi proprio presso la villa dove avrei lavorato, per un colloquio conclusivo.
La persona con cui avevo parlato al telefono era stata gentile e convincente, mi aveva detto che si trattava quasi di una formalità, e che se il mio curriculum corrispondeva con la situazione reale, il posto era mio, anzi, aveva aggiunto, se ha un po’ di tempo, può restare qualche giorno per prendere confidenza con la struttura, e magari, data la sua esperienza, potrà darci una mano sull’organizzazione.

Mi sono presa il fine settimana libero, ho messo un paio di vestiti nella valigia e mi sono messa in viaggio.
Il posto è grande e sembra veramente prestigioso: un parco enorme, pieno di alberi secolari e, nel mezzo, una costruzione di tre piani, antica e imponente.
Ha l’aria di essere stata chiusa per parecchio tempo, ma non abbandonata.
Parcheggio l’auto vicino all’ingresso principale, prendo il trolley e mi incammino.
Le ruote affondano nella ghiaia ed un sassolino si conficca tra la suola sottile dei miei sandali con il tacco alto, e l’alluce.
Mi fermo, appoggiandomi al manico del trolley, alzo il piede e con un dito faccio saltar via il sassolino.
Suono il campanello ed aspetto, davanti al massiccio portone di legno scuro.
L’uomo che mi apre, indossa un vestito blu, elegante e dal taglio impeccabile, ma c’è in lui qualcosa che non va.
Dai, sei troppo diffidente, come al solito.
è alto, grosso e robusto, il fisico da buttafuori di un locale notturno, ed ha anche una brutta faccia, che stona con l’abito indossato.
‘Mi segua, signora’, mi dice con una voce rauca e poco cortese.
Mi fa cenno di lasciare il trolley nell’ampio vestibolo e mi fa entrare in un salottino, arredato elegantemente.
Io varco la soglia, lui mi segue e subito mi afferra e mi solleva da terra, bloccandomi le braccia e tappandomi la bocca con una mano.
Dentro c’è un altro, stesso vestito, stessa corporatura e, più o meno, stessa faccia.
Il secondo tizio mi mette le mani sul culo, poi lo sento afferrare il gancio della lampo dei pantaloni, posta sul fianco.
Ho paura, questi due ora mi spogliano e mi violentano. Mi chiedo perché fare tutta questa messinscena del posto di lavoro.
La lampo si apre e mi abbassa i pantaloni, poi mi tira giù anche le mutandine, mentre l’altro aumenta la forza della presa.
Quello che mi ha spogliata tiene in mano qualcosa.
Si tratta di un clistere, di quelli che si vendono in farmacia e che una volta ho usato anch’io per fare degli esami clinici.
Con una mano mi allarga la carne in mezzo alle chiappe e mi infila dentro il beccuccio di plastica del clistere.
Cerco di oppormi, ma non posso far nulla.
Sento il liquido freddo che entra nel mio corpo e risale nell’intestino.
Continua a spingere e si ferma solo quando il contenitore è vuoto.
Come è cominciata, finisce: il primo mi mette giù ed il secondo posa il clistere vuoto su un tavolinetto.
Faccio l’unica cosa che posso fare: mi metto a posto le mutandine, tiro su i pantaloni e richiudo la lampo.
‘Mi segua, signora, è attesa.’
il primo tizio mi fa strada in un lungo corridoio, mentre l’altro sparisce.
‘Per favore, dovrei andare in bagno.’
Sento l’intestino già in subbuglio, ricordo bene l’effetto di un clistere, l’unica volta che l’ho provato.
‘Dopo, signora, dopo il colloquio.’
Il tono è di quelli che non ammettono replica e lo seguo mentre sento i borbottii nel mio ventre che si fanno più forti.
Apre una porta, mi fa entrare e poi la richiude, rimanendo fuori.
‘Venga avanti, buongiorno e ben arrivata.’
Non è giovanissimo ma ha un’aria affascinante. Lui sì che può permettersi di indossare un vestito elegante.
Riconosco la voce, deve essere lo stesso con cui ho parlato per telefono.
Provo ancora, perché comincio a sentire degli strizzoni micidiali all’intestino.
‘Per favore, dovrei prima andare un attimo in bagno.’
‘Mi spiace, signora, ma ora non è possibile, ci potrà andare dopo, non sarà un colloquio lungo, dieci minuti, massimo un quarto d’ora.’
Non ho dieci minuti di autonomia, forse neanche cinque, e comincio a pensare che sia tutto predisposto e voluto.
Lui è seduto dietro una scrivania imponente ed io sono in piedi, di fronte a lui. Non ho la possibilità di sedermi ma, anche se ci fosse una sedia, non potrei, data la mia situazione intestinale.
Tiene in mano il fascicolo con la documentazione che gli ho inviato e comincia a farmi domande. Vuole accertarsi che quanto scritto corrisponda a verità.
Rispondo a fatica, sono in tensione, impegnata a trattenere lo stimolo che si fa sempre più forte.
La prima scarica arriva improvvisa e non riesco ad impedirla.
è accompagnata da un rumore forte ed inequivocabile, ma lui si comporta come se non avesse sentito.
‘Prego, continui, signora.’
Avevo smesso di parlare, riprendo a fatica, mentre il tanfo della mia merda mi arriva alle narici.
Un’altra scarica, più forte e più rumorosa, poi una terza. Me la sto facendo addosso come una bambina piccola.
Guardo i miei pantaloni beige, attillati sui fianchi e larghi sul resto delle gambe, dove sono comparse delle macchie marroni, che si estendono rapidamente.
Mi contorco, mentre cerco di continuare a parlare e le scariche si susseguono.
Ormai sento la merda scorrere lungo le mie gambe, troppo liquida per essere trattenuta dalle mutandine, ma continuo a rispondere alle sue domande.
Quando, alla fine, mi congeda, sono depressa come non mi capitava da un mucchio di anni.
Il buttafuori dall’abito blu mi aspetta nel corridoio.
‘Seguimi’, mi dice. Ora è passato al tu.
Ripassiamo davanti all’ingresso e recupero il trolley.
Continuo a seguirlo lungo un corridoio lunghissimo. Ho le gambe appiccicate di merda e scopro con orrore che è arrivata fino ai piedi, imbrattando i miei sandali.
Quando mi volto indietro mi accorgo che sto lasciando delle evidenti orme marroni sul pavimento di marmo lucido.
Mi viene da piangere e da vomitare, non mi sono mai vergognata così tanto in vita mia.
Lui mi precede di parecchi passi, forse per non sentire l’odore terribile che emano.
Alla fine si ferma davanti ad una porta, la apre e mi dice semplicemente ‘questa è la tua stanza.’
La camera è grande ed arredata lussuosamente ma l’unica cosa che mi interessa, in questo momento, è il bagno.
Mollo il trolley in mezzo alla stanza e mi precipito.
Un bagno bellissimo, antico e grande, rivestito di marmi e maioliche bianche, con i rubinetti di ottone lucidissimo.
Butto mutandine e pantaloni nella vasca da bagno e mi ficco nel grande box doccia, che mi aspetta, con le antine di vetro fumè già aperte, il tappetino davanti all’apertura e di lato, piegato sopra il panchetto, un morbido accappatoio.
Sembra che tutto sia stato previsto per il mio arrivo.
Faccio una doccia lunghissima e piacevole, cercando di dimenticare la brutta avventura, ma il pensiero di cosa mi accadrà dopo, mi martella il cervello.
Ho l’impressione che ogni più piccolo particolare faccia parte di un unico disegno e che io possa soltanto andare avanti, lungo un cammino che qualcuno ha già organizzato.
Mi asciugo, l’accappatoio è morbidissimo e leggero.
Esco nuda e scalza dal bagno, dopo aver appeso l’accappatoio ad un gancio dietro la porta e ‘
‘ il mio trolley è sparito. Realizzo che senza la mia valigia sono senza vestiti. In questo momento dispongo solo di un paio di mutandine, i pantaloni ed i sandali, completamente sporchi di merda.
Quindi non ho vestiti e se nessuno me li porta, sarò costretta a rimanere chiusa nella stanza, oppure uscire nuda.
In alternativa potrei indossare l’accappatoio.
Un pensiero mi passa per la testa, forse, prima di affidarmi il lavoro, vogliono portarmi al limite, per vedere se sono una persona forte, che non si lascia abbattere dalle situazioni difficili, ma mi sembra molto azzardata, come ipotesi.
Sento bussare.
Mi avvicino alla porta e chiedo chi è.
La mia voce mi suona stranamente debole ed incerta.
‘La tua cena.’
Deve essere uno dei due buttafuori.
Non voglio aprirgli nuda.
‘La lasci lì, la prenderò dopo, grazie.’
Metto l’orecchio sulla porta e sento i passi che si allontanano.
Aspetto un po’, prima di aprire.
Davanti alla porta c’è un carrello con ogni ben di Dio. Se non altro non mi faranno morire di fame.
Stranamente, nonostante i guai passati, ho molta fame e divoro tutto, poi mi calano addosso lo stress e la tensione della giornata e mi ficco nel letto.
Ho avuto una notte difficile e travagliata, mi sono svegliata più volte in preda a dei veri e propri incubi, per cadere in un sonno profondo, solo poco prima dell’alba.
Quando mi sono svegliata il sole era già alto.
Mi alzo dal letto, cercando con i piedi le mie pantofole.
Già, erano nel trolley, che ha preso il volo, con tutte le mie cose.
Mi sento senza forze, ho la bocca impastata e le gambe non mi tengono, come se avessi bevuto, ma ieri sera non ho toccato alcolici.
Drogata?
Nella cena doveva esserci qualcosa, perché non mi sono mai sentita così debilitata.
Mentre penso che farei bene a non toccare cibo, in futuro, sento aprirsi la porta.
Già, io non ho la chiave, sono bloccata qua dentro e loro possono entrare quando vogliono.
Sono i due buttafuori, questa mattina non indossano il vestito di ieri, ma delle tute da meccanico, sempre blu, decisamente più adatte al loro stile.
Impiego qualche secondo a realizzare che sono completamente nuda, ma loro non sembrano interessati a me, comunque, in qualche maniera, cerco di coprire con le mani le tette e la fica.
Uno dei due spinge avanti a sé un carrello, ma non è come quello con cui mi avevano portato la cena, è uno di quelli di ferro verniciato usati nelle officine meccaniche e sopra c’è una cassetta di metallo con dei fili che escono fuori.
è una saldatrice, di quelle che ho visto a volte usare dai fabbri.
L’altro invece porta dei pezzi di ferro, neri e massicci, di cui non capisco l’uso.
Mi fanno mettere a sedere, su una sedia di legno, in mezzo alla camera da letto e mi fanno staccare la mano a protezione del seno.
Neanche uno sguardo, ho due gran belle tette, grandi, rotonde e sode, eppure sembrano quasi non notarle. Forse è meglio così.
Mi avvolgono l’avambraccio e la mano con uno straccio bagnato, poi capisco cosa siano quei pezzi di ferro, quando mi viene sistemato un grosso anello al polso.
‘Tieni gli occhi chiusi e stai ferma, sennò ti fai male’.
Buttafuori uno sistema la saldatrice, si mette la protezione davanti agli occhi, ed inizia a saldare l’anello, mentre l’altro mi tiene ferma.
Il calore è forte, ma lo straccio bagnato mi salva dalle ustioni.
Mi fa mettere la mano in un secchio pieno d’acqua e sento il metallo rovente sfrigolare.
Ripete la stessa cosa con l’altro polso, poi, buttafuori due mi alza la gamba destra e me la fascia con lo straccio, dal piede fino al polpaccio.
Nel giro di dieci minuti mi trovo quattro bracciali robusti e pesanti, intorno a polsi e caviglie, spessi mezzo centimetro e profondi quattro dita buone.
I due, soddisfatti del lavoro fatto, se ne vanno con il carrello.
Osservo stupita uno degli anelli che cingono i miei polsi.
è spesso e molto pesante, al punto che fatico a tenere il braccio sollevato.
è composto da due parti, incernierate da un lato e saldate dall’altro.
Non potrei mai togliermeli da sola.
Ci passo sopra le dita, è freddo e rugoso, rabbrividisco al pensiero di quali potrebbero essere gli usi di questi attrezzi, poi faccio scorrere l’indice sulla saldatura appena fatta, lì il metallo è ancora tiepido, infine il dito si sposta sulla parte più esterna ed incontra un anello ,sempre di metallo, saldato al bracciale.
I bracciali che mi hanno messo ai piedi, ma a questo punto dovrei chiamarli cavigliere, sono identici, tranne che hanno un diametro maggiore.
Mi alzo in piedi e mi avvio lentamente in bagno, i ferri inferiori mi sfregano ad ogni passo sul collo del piede, penso con terrore che forse sono diventata una schiava.
Ho freddo, così decido di rimettermi l’accappatoio, ma scopro che qualcuno, mentre dormivo, lo ha portato via.
Anche i pantaloni e le mutandine, non ci sono più nella vasca da bagno. Beh, per quelli poco male, visto come erano ridotti, non li avrei comunque indossati.
Alla fine mi metto addosso il lenzuolo e provo a vedere se la porta della stanza è aperta.
Naturalmente l’hanno chiusa quando sono usciti.
Mi siedo sul letto e comincio a piangere, sono nuda, prigioniera in una stanza, con mani e piedi incatenati, come una schiava dell’antichità e non ho la minima idea di cosa mi accadrà.
Si apre la porta ed entra uno dei due buttafuori con un vassoio, posa in terra una tazza piena di latte ed un pezzo di pane, poi rimane fermo in piedi, tenendo il vassoio ormai vuoto con una mano, in verticale, lungo il fianco.
‘Mangia.’
E’ un ordine, secco e brutale ed io mi avvicino, dopo aver lasciato cadere il lenzuolo.
Non ho neanche la forza di coprire le mie nudità, arrivata davanti alla tazza, mi abbasso, la prendo in mano e faccio per rialzarmi.
‘Lì, per terra.’
Mi siedo sul pavimento, a gambe incrociate e prendo la tazza con entrambe le mani.
Il latte è freddo e mi sembra abbia un sapore strano, forse è drogato come la cena.
Inzuppo un po’ di pane nella tazza, è duro come una pietra, ma non credo che possa sperare di avere qualcosa di meglio.
Il buttafuori, o sarebbe meglio definirlo il mio carceriere, aspetta che io finisca la mia colazione, sento i suoi passi che si allontanano e poi la porta che viene chiusa da fuori.
Il tempo passa e non succede nulla, mi rendo conto che, il non sapere che ora è, mi sta facendo uscire di cervello, ma nella stanza non ci sono orologi ed il mio è sparito, devono averlo portato via insieme ai pantaloni ed all’accappatoio.
Quando la porta si apre di nuovo ed entra il carceriere con il carrello del pranzo faccio una cosa stupida, senza senso: provo a fuggire.
Sono sempre stata una donna assennata e riflessiva, se ho avuto successo nel mio lavoro è stato perché non agisco mai di impulso.
Dove mai potrei andare nuda, indifesa, con i ferri ai polsi ed alle caviglie?
Ho cercato di prenderlo in contropiede, provando a guadagnare l’uscita mentre entrava spingendo il carrello. Ho tentato quello che voleva essere un scatto improvviso, ma la roba che devono aver messo nel mio cibo mi ha allentato i riflessi, così lui mi acchiappa al volo mentre gli passo vicino.
La sua manona afferra i miei lunghi capelli biondi, io continuo in avanti per inerzia, sento un dolore forte al cuoio capelluto, poi torno indietro, come se la mia chioma fosse un elastico, e gli finisco addosso.
Adesso mi tiene stretta, i miei seni nudi schiacciati contro il suo petto. Si vede che è contrariato, ma non mi picchia, perché probabilmente non ne ha il permesso.
Tira fuori dalla tasca una ricetrasmittente e parla un po’, probabilmente con il suo collega.
Poco dopo si apre la porta ed entra l’altro con una pezzo di catena ed una grande pinza.
Capisco ora a cosa servono gli anelli sui bracciali che porto.
La catena è corta, una ventina di centimetri e le maglie estreme sono aperte, in modo da poterle infilare negli anelli dei bracciali che ho ai piedi.
Con la pinza schiacciano e chiudono le maglie, poi mi ordinano di alzarmi.
Ora ho i piedi incatenati, posso solo fare dei passettini minuscoli, diciamo che mi ci vuole già un bel po’ per arrivare in bagno, quindi, se lasciassero la porta aperta, non potrei scappare. Mi stanno lentamente demolendo, ecco qual’è il loro piano.
Pochi giorni fa è entrata in questo posto una donna giovane, bella e sicura di sé, ora mi sento una povera schiava derelitta.
Con il passare del tempo mi stanno togliendo ogni cosa, la notte, mentre dormo, debilitata dalle droghe che mettono nel mio cibo, entrano nella mia stanza e fanno in modo che il giorno successivo le mie condizioni di vita siano peggiori.
Due giorni fa, quando sono andata in bagno, mi sono accorta che erano spariti gli asciugamani, il bagno schiuma, lo shampoo e tutti gli altri prodotti, sostituiti da un pezzo di sapone da bucato.
Ieri ho scoperto che dal rubinetto dell’acqua calda non usciva più neanche una goccia.
E, come se non bastasse, mentre mi lavavo con l’acqua gelata, ho sentito dei rumori nella stanza. Naturalmente ho preferito aspettare che se ne andassero, prima di uscire dal bagno.
Quando ho aperto la porta il letto non c’era più. Avevano portato via anche i tappeti, così questa notte ho dovuto dormire nuda sul pavimento.
Ma la sorpresa più grande l’ho avuta questa mattina. Mentre provavo a lavarmi con il sapone da bucato, pensavo ‘cos’altro mi porteranno via ora?’
Quando sono uscita dal bagno, lui era lì.
Lui è la persona che mi ha attirato in questo posto, ora comincio a capire chi tira le fila di questo gioco terribile. I due buttafuori carcerieri sono solo due servi, puri esecutori del volere del padrone, lui ha organizzato tutto e, alla fine del gioco è con lui che dovrò fare i conti.
Mi aspetta seduto tranquillamente su una poltroncina di velluto rosso. Sorride ironico dietro gli occhiali con la montatura d’oro.
Mi rendo conto che l’altra volta, pressata dai miei problemi intestinali, quasi non l’avevo guardato in faccia. Ora invece ho tutto il tempo per osservarlo.
Tra i cinquanta ed i sessanta, alto, magro, un viso espressivo ma, sotto la sua pelle rasata e ben curata, traspare una durezza che mi fa pensare che non sarà facile avere a che fare con lui.
Mi fa cenno di avvicinarmi ed io mi incammino verso di lui con il mio passo da prigioniera.
La catena che mi lega le caviglie è veramente corta, quindi posso avanzare solo a passettini ridicoli, ormai ci sono abituata, ma mi chiedo se lui si renda conto di questo e non pretenda da me una velocità maggiore.
Mi osserva bene mentre avanzo, finora i due carcerieri non mi hanno mai degnata di uno sguardo, nonostante la mia nudità.
Lui invece è il padrone e può guardarmi quanto vuole, sembra dirmi il suo sguardo, mentre si sofferma sui particolari del mio corpo. è come se mi stesse toccando, mi sembra di sentire le sue mani passare sulla mia pelle, per assicurarsi che la merce che deve acquistare sia di buona qualità. Che stupidi pensieri mi passano per la testa, non è il mercante arabo di schiavi che sta trattando l’acquisto di una giovane cristiana rapita dai pirati.
Sorride, sembra soddisfatto dei miei seni che, nonostante abbia trentasette anni, grazie alla palestra, sono fermi e sodi come quando ne avevo venti. Si sofferma sul mio ventre rotondo, sui fianchi morbidi e forse appena troppo larghi, ma che indicano anche un discreto culo.
Mi devo girare per mostrarglielo? Decido di non muovermi, questi primi giorni di prigionia mi hanno insegnato a non fare nulla, se non mi viene richiesto.
Lo sguardo scende sui miei peli pubici, che stanno crescendo un po’ troppo, ma non ho nulla per depilarmi, poi si abbassa ancora e provo una sensazione strana.
Lo desidero? Mi piacerebbe scopare con quest’uomo?
Beh, il problema non si pone proprio in questi termini, visto che sono sua schiava, sua prigioniera e può prendermi quando vuole e farmi quello che gli pare.
Eppure, l’idea che io, schiava e sottomessa, possa essere scopata da lui, mi eccita.
Non mi ero mai vista in questa maniera.
Il suo sguardo è sceso, sta osservando le mie gambe, sì, lo so, sono sempre state il mio pezzo forte, lunghe ma non secche, ben modellate e, con il passare degli anni, le cosce hanno acquisito quella corposità che le rende più seducenti agli occhi degli uomini.
Mi accorgo che, mentre fantasticavo, lui si è sbottonato i pantaloni.
Mi indica il pene eretto, fuori dalle mutande, e mi fa cenno di abbassarmi.
No! non prenderò in bocca il tuo cazzo, non ti succhierò l’uccello.
Se vorrai violentarmi puoi farlo, ma io non prenderò alcuna iniziativa.
Naturalmente non apro bocca, perché sono troppo debilitata psichicamente, ma la mia espressione è eloquente, poi faccio un balzo indietro, cioè un saltino, dato l’impedimento della catena.
Si alza, si riveste e mi sorride: ‘non importa, c’è tempo, la tua istruzione è appena agli inizi.’
La sua frase mi ha spaventata più che se avesse minacciato di torturarmi. Ho capito che la mia brutta avventura è appena cominciata e il non sapere come continuerà, mi angoscia più di ogni altra cosa.
Nel pomeriggio si sono fatti vivi i due carcerieri. Mi hanno detto semplicemente che dovevo scendere, per continuare l’istruzione.
Così dopo molti giorni mi sono riaffacciata sul corridoio.
I due hanno discusso se non era il caso di togliermi la catena, perché cammino molto piano, ma poi, visto che non avevano fretta, mi hanno lasciata così.
Il corridoio, con la mia nuova andatura, mi è sembrato ancora più lungo.
Ho capito il significato di scendere, quando, aperta una porticina in ferro, mi hanno fatto imboccare una stretta scala a chiocciola, di pietra grigia e ruvida.
Mano mano che scendevamo, i gradini si facevamo sempre più umidi e scivolosi ed io, scalza e impacciata dalla catena, sarei caduta diverse volte se i due carcerieri non si fossero piazzati uno avanti e l’altro dietro di me.
Ora, dopo essere discesa, mi trovo nella mia nuova camera. Veramente è un po’ difficile definirla così, visto che si tratta di una cantina enorme, lunga una cinquantina di metri, larga dieci, con un alto soffitto a volta.
L’unica fonte di illuminazione è una lampadina appesa al centro della volta, accesa giorno e notte.
Il letto, se si può chiamare così, è realizzato con quattro tavole di legno inchiodate, che di fatto servono a contenere il materasso. quest’ultimo è semplicemente uno strato di paglia umida e sporca.
Mi verrebbe quasi voglia di dormire in terra, ma il pavimento è fatto semplicemente di terra e sassi, anzi, siccome la cantina è umidissima, in alcuni punti si può quasi parlare di fango.
All’inizio penso di starmene a letto, perché la paglia, nonostante sia ruvida e puzzolente, è meglio del pavimento. Dopo un po’ scopro di non essere sola: la paglia è infestata di parassiti, non so se si tratti di pulci, cimici o altro, non ho la minima esperienza di questi animali, so solo che dopo qualche ora sono piena di pruriti e di fastidiose bollicine.
Decido di lavarmi.
Il bagno della mia nuova stanza, è dalla parte opposta al letto, quindi devo percorrere tutta la cantina, con le caviglie incatenate e ci metto un bel po’, ma tanto il tempo e l’unica cosa che non mi manca.
Il bagno sarebbe un piccolo lavandino con in dotazione il solito sapone da bucato ed un cesso alla turca che non deve essere stato pulito da un secolo.
Alla fine decido, durante il giorno, di stare seduta per terra al centro della stanza, dove arriva più forte la luce della lampadina, in modo di trovarmi a metà strada tra bagno e letto.
Per la notte non c’è niente da fare, la paglia è la cosa più accettabile, anche perché un po’ mi tiene caldo, e la cantina è molto fredda, vorrà dire che la mattina mi laverò cercando di eliminare i parassiti.
I pasti sono peggiorati, perché mentre di sopra mi davano da mangiare anche della carne, ora, oltre la colazione solita, latte e pane duro, a pranzo ed a cena sono solo patate lesse, fredde e, per di più non le mettono neanche in un piatto, ma le buttano direttamente in terra.
All’inizio, schifata, le ho lasciate lì, poi, quando i morsi della fame si sono fatti sentire, le ho raccolte e le ho lavate sotto il getto d’acqua del rubinetto.
Ora non le lavo più, tolgo con le mani un po’ di terra e le mangio così come sono.
Sto andando giù. La mia discesa, a parte essere stata rinchiusa in un sotterraneo, è anche fisica e psichica.
Dopo giorni e giorni di questo trattamento, ho smesso di lavarmi, attraverso la cantina solo per bere, ormai faccio i miei bisogni in terra dove capita, magari non troppo vicino al letto.
I parassiti non mi danno più fastidio, anche se a volte li sento camminare sulla mia pelle sempre più sporca, perché ho anche smesso di lavarmi.
Mi lasceranno a marcire qua dentro oppure succederà qualcos’altro?
Ripenso alle parole di lui, parlava della mia istruzione agli inizi.
Sicuramente lo rivedrò, magari quando riterrà che mi sono abbastanza ammorbidita.
Lo sono già?
Mi sento uno schifo e penso che un tipo simile non vorrebbe farsi succhiare il cazzo da una ridotta così.
Mi raggomitolo nel letto di paglia e mi addormento mentre sento il solletico di una di quelle bestie che mi cammina sulla coscia. Oggi è iniziata una nuova fase della cosiddetta mia istruzione.
Per la prima volta i miei carcerieri sono entrati insieme.
Io ero ancora mezza addormentata e loro mi hanno ordinato bruscamente di alzarmi.
Hanno guardato schifati il mio corpo sporco e pieno di bolle e punture provocate dai miei piccoli compagni di letto, mentre mi alzavo a fatica e scavalcavo la tavola di legno che trattiene la paglia.
In un angolo della cantina c’è una grande colonna di pietra, che termina ad un paio di metri dalla volta di copertura. Mi sono spesso chiesta cosa ci faccia lì una colonna, magari in passato, prima che costruissero il palazzo, c’era una cattedrale o addirittura un tempio romano, ma date le condizioni in cui mi trovo, non ci ho ragionato più di tanto.
Mi hanno portata proprio lì e mi hanno detto di inginocchiarmi davanti alla colonna, poi mi hanno fatto stendere le braccia.
Uno dei due, da dietro, mi spingeva in avanti, mentre l’altro mi tirava le mani.
Quando mi sono trovata ad abbracciare completamente la colonna, mi ha legato insieme i polsi.
Ora ho il viso appiccicato alla pietra fredda della colonna e sono completamente immobilizzata, mi chiedo cosa mi faranno, mi immagino atroci torture medievali, per finire di spezzare la mia resistenza.
Mi rendo conto che devo fare pipì, ero a letto e loro non me ne hanno dato il tempo.
Una volta mi sarei vergognata a farla davanti a degli uomini, ma ormai sono una specie di bestia e così come sento lo stimolo, mi libero.
Sento l’orina calda che mi bagna le gambe e vedo la macchia scura, sulla terra che si allarga intorno al mio corpo.
‘Aspetta, falla finire di pisciare’, dico uno dei due ridendo, mentre l’altro tiene in mano uno strano oggetto.
Piego il collo all’indietro, cercando di capire di cosa si tratti, perché sono sicura che mi riguarda.
‘Sai cos’è questo?’, mi dice avvicinandomi l’oggetto al viso.
è un affare di metallo lucido, più o meno dalla forma e dalle dimensioni di una pera e, all’estremità più piccola, ha un anello da cui fuoriesce una sottile catenella.
‘Oggi inizia la preparazione del tuo culetto.’
Comincio a piangere, a supplicarli, pur sapendo che i miei lamenti non serviranno a nulla.
Sento le loro mani sul mio culo e mi irrigidisco, mi allargano le chiappe e uno di loro mi ficca dentro un dito.
Lo muove intorno come per saggiare la mia resistenza, poi arriva il freddo del metallo poggiato sulla mia carne.
Spinge e gira contemporaneamente e mi fa un male cane, grido, per la prima volta, dopo tanti giorni, poi sento l’oggetto che entra in profondità ed il mio ano si richiude in parte.
‘Bene, passiamo dopo a levartelo.’
Mi hanno lasciata sola, legata al palo con questa maledetta pera di metallo piantata nel culo.
Piango disperatamente e, d’istinto, mi dimeno come per cercare di liberare le braccia, ma ottengo solo il risultato di farmi male, perché muovendomi, la pera mi provoca delle fitte dolorose.
Devo stare ferma, poi loro torneranno e me la toglieranno.
Passano le ore, ho sete, ho fame e risento il prurito dei parassiti che ormai popolano stabilmente il mio corpo, ma non posso grattarmi.
Quando finalmente tornano, sono sfinita.
Uno di loro afferra la catenella che spunta tra le mie cosce e tira, senza farsi tanti problemi.
Io grido di nuovo, perché il percorso all’indietro è doloroso come quello dell’andata.
Mi slegano e se ne vanno.
Sul pavimento c’è sia il latte della colazione, nella tazza, che le patate del pranzo, buttate in mezzo alla terra.
Mi alzo a fatica, dietro mi fa un male cane, ci passo una mano e me la trovo sporca di sangue, così decido, dopo tanti giorni, di lavarmi.
Quella che loro chiamano preparazione, prosegue ormai da giorni. Tutte le mattine vengono di buonora, mi legano alla colonna e mi ficcano nel culo la pera di metallo.
Ogni giorno che passa me la lasciano dentro per più tempo.
Ormai fa meno male, si vede che mi sto abituando, ma dopo cinque giorni ho praticamente ricominciato da capo perché ne hanno portata una identica, ma più grande, che è entrata dentro a fatica, come la prima il primo giorno.
Se continuano così mi ammazzeranno.
Ora tornano anche il pomeriggio, non ne posso più di stare tutte quelle ore legata alla colonna con quell’affare piantato nel culo.
Penso che vorrei tanto succhiare il cazzo a lui. Che significa, che sto impazzendo oppure che la mia educazione è completa, che mi hanno domata e sono pronta?
La prossima volta che vengono i carcerieri glie lo dico: ‘per favore non mi mettete la pera, sono pronta, portatemi dal vostro padrone e gli succhierò il cazzo, lo giuro, questa volta lo farò.’
Poi loro tornano ed io non riesco a trovare il coraggio per parlare.
Quando si presentano con la terza pera penso che è finita, questa mi spaccherà l’intestino e morirò dissanguata.
Invece entra, a fatica, dolorosamente, ma entra, come le due precedenti.
Ormai è più il tempo che passo legata alla colonna che quello in cui mi lasciano libera.
Decidono di mettermi la pera anche di notte e mi legano insieme i polsi con la corda, dopo averla fatta passare attraverso gli anelli, in modo che io non me la possa togliere da sola.
è difficile dormire con una cosa simile piantata dentro, ma ormai sono abituata a sopportare tutto e così, dopo aver trovato la posizione giusta mi addormento.
Quando una mattina mi svegliano e dopo avermi liberato i polsi, mi dicono che ho finito questa fase e che mi riporteranno di sopra, sono felice.
Gli accadimenti della vita sono soggettivi, penso, venti giorni fa se qualcuno mi avesse detto che sarei stata felice di stare nuda, incatenata e segregata in una stanza, non ci avrei creduto, ma rispetto all’inferno della cantina, in cui sono stata negli ultimi giorni, mi sembra una notizia bellissima.
Mi aspetto che mi sfilino la pera, ma mi dicono che me la toglierò di sopra.
Mi permettono solo di fare pipì, prima di abbandonare la cantina, perché non vogliono che gli sporchi i pavimenti del palazzo, così allargo le gambe e mi libero davanti a loro, poi usciamo.
Finora non avevo mai provato a camminare con la pera inserita, e mi accorgo che non è facile.
Nonostante sia costretta a fare passi molto piccoli e sia ormai discretamente abituata, ogni piccolo movimento mi causa dolore ed ho paura che, muovendomi, mi finisca più in profondità, rendendone impossibile l’estrazione, ma la catenella che ora mi sbatte sulle cosce, dovrebbe scongiurare questo periodo.
La brutta copia di quella donna che si era presentata venti giorni fa, all’ingresso del palazzo, sta ora faticosamente risalendo dagli umidi sotterranei. La scala a chiocciola è un calvario, ad ogni gradino la pera sembra volermi spaccare in due, ma stringo i denti, perché so che alla fine c’è la salvezza, o almeno una situazione meno brutta.
Alla fine del mio percorso, ci sarà lui, il mio padrone, ora sono istruita, almeno lo spero, e pronta a succhiare il suo cazzo. Mi sto eccitando, non mi accadeva da tempo, e non capisco se dipende dalla stimolazione dolorosa della pera o dall’idea che io, completamente sottomessa, farò un pompino al mio padrone.
Prima di venire qui non ragionavo in questa maniera, ero una donna sicura di sé che non avrebbe mai lontanamente immaginato l’ipotesi di essere brutalmente sottomessa, ora invece scopro che forse provo piacere per situazioni di cui prima non avrei mai neanche supposto l’esistenza. Passiamo di lato ad un grande specchio ed io mi fermo un attimo, per guardarmi, loro mi lasciano fare.
Sono irriconoscibile: i capelli spettinati ed annodati, il viso senza trucco e le occhiaie profonde mi fanno sembrare molto più vecchia. Lo sguardo scende sul mio corpo nudo, sporco, incrostato e pieno di punture di insetti, tra le gambe mi spunta la parte terminale della catenella attaccata alla pera.
Riprendiamo il cammino e mi accorgo che mi stanno portando da un’altra parte, non nella stanza dove è iniziata la mia avventura.
La stanza è piccola, ma arredata con molta cura.
Lui è lì, mi aspetta, come la prima volta, seduto su una poltroncina foderata di velluto e ripenso il mio iniziale rifiuto, se avessi saputo a cosa sarei andata incontro …
Cado in ginocchio ai suoi piedi e lui sorride, sembra quasi un padre benevolo che accoglie il figliol prodigo, non è così ma non mi importa.
Non oso muovermi, ma se si apre i pantaloni lo faccio subito.
‘Bene, vedo che ora sei pronta, però lo faremo questa sera, dopo che ti sarai data una ripulita.’
Lui si alza e se ne va, mentre i due carcerieri mi accompagnano in bagno. Ho passato un mucchio di tempo a lavarmi ed a sistemarmi, perché temo che se non lo soddisfo, mi faccia riportare in cantina, ma per prima cosa mi sono sfilata la pera.
è stato difficile, ma la presenza della catenella mi ha salvata, perché era andata parecchio in profondità.
Sono rimasta senza fiato quando, alla fine, dopo molti sforzi dolorosi, sono riuscita ad estrarla.
Quell’affare infernale, che ho portato per molti giorni, temo mi abbia irrimediabilmente dilatato l’ano.
Sono come una vecchia mignotta dal culo sfondato? Non so, non ho mai frequentato prostitute, né giovani né vecchie.
Perché mi hanno fatto questo?
Per istruirmi, cioè umiliarmi e sottomettermi, oppure perché lui possa incularmi più agevolmente?
Oppure tutte e due le cose?
Comunque, sono pronta a servire in tutto il mio padrone, qualsiasi cosa lui voglia.
Immagino il suo cazzo che mi penetra dietro e comincio a trovare la cosa eccitante.
Per fortuna i carcerieri, prima di mandarmi in bagno, hanno segato la catena che mi legava le caviglie, si vede che non temono più una mia fuga.
Sono stata un’ora a mollo nella vasca, poi ho lavato i capelli quattro volte, infine mi sono dedicata al trucco, visto che in bagno sono miracolosamente ricomparsi tutti gli oggetti presenti all’inizio della mia prigionia.
Quando esco dal bagno non dico che sono in ordine come prima di arrivare in questo posto, ma almeno sono tornata una donna di aspetto gradevole.
Lui non c’è, deve essere ancora presto.
La stanza ha tre porte, quella da cui sono entrata che affaccia sul corridoio, quella del bagno ed un’altra grande, a due ante, che probabilmente porta nella sua stanza.
Naturalmente, a parte quella del bagno, sono chiuse a chiave.
Trascorro l’attesa sdraiata sul letto.
Finalmente un letto morbido e pulito, assaporo con gioia il contatto della mia pelle pulita, con il morbido lino delle lenzuola.
Mi sento come una di quelle bambole di pezza che, una volta, si mettevano sul letto.
L’unica differenza è che sono viva e nuda.
In corrispondenza dei bracciali ai polsi ed alle caviglie, dopo tanti giorni, le iniziali escoriazioni, si sono trasformate in callo.
Quelli non me li toglieranno, sono stati bloccati in maniera indelebile con la saldatrice, non riesco ad immaginare un modo per aprire quegli anelli senza amputarmi mani e piedi.
Se dovessi uscire da qui, sarebbe sconveniente mostrarli ma io, lo so, non uscirò più da questa casa.
Mi hanno anche portato la cena, finalmente un pasto vero, con piatti e posate, che divoro avidamente, dopo giorni e giorni di patate lesse sporche di terra.
Ecco, si pare la porta.
è lui.
Mi sembra ancora più elegante.
Entra camminando velocemente, con passo atletico, prende la poltroncina foderata di velluto rosso, la sistema al centro della stanza e si siede.
‘Ecco, l’altra volta eravamo rimasti a questo punto’, dice mentre si apre i pantaloni.
Io mi precipito sul suo cazzo e, per prima cosa, lo bacio.
Mi sorride benevolo, mentre ci passo la lingua sopra per farlo drizzare.
Non posso sbagliare, non oso immaginare cose potrebbe accadermi se lo deludessi, ma poi mi tranquillizzo, perché lo sento farsi sempre più duro, mentre anche a me sta piacendo.
Sì, certo, non è la prima volta che faccio un pompino ad un uomo, anche se non era proprio la mia specialità, ma ora mi piace in maniera diversa.
Una volta era finalizzato al piacere reciproco mio e del mio partner, ora invece l’unica cosa che conta è soddisfare lui, e lui, il mio padrone, è contento.
La mia lingua lo accarezza in tutta la sua lunghezza, soffermandosi sulla vena sporgente che corre di lato, girando delicatamente intorno alla cappella grande e gonfia, finendo poi per solleticarne la punta, proprio in corrispondenza del buco da cui alla fine zampillerà lo sperma.
Mi ordina di succhiarlo ed io obbedisco senza protestare.
Lo porto all’orgasmo lentamente, stringendolo con le labbra e muovendo la testa in su ed in giù, poi mi fermo e succhio, poi riprendo a muovermi.
Quando alla fine mi inonda la bocca di sperma, penso che è andata così bene perché lui mi aspettava da un mucchio di tempo, mentre io, di sotto, nella cantina, completavo la mia istruzione.
Magari non è vero e lui ha altre cinque schiave come me, però mi piace pensare questa cosa.
Ripulisco amorevolmente ogni traccia di sperma dal sue pene, dalla sua pancia e dalle sue gambe, con la lingua. Mi piace.
‘Brava, bel lavoro, ora vai sul letto e aspettami.’
Io raggiungo il letto mentre mi pulisco la bocca con il dorso della mano.
Si è spogliato completamente, ha un bel fisico, atletico ed asciutto, con il torace sviluppato ed i peli che iniziano appena ad ingrigire.
Mi fa mettere a pancia in giù, con le gambe piegate, come una ranocchia. So cosa vuol farmi, d’altra parte tutto quel lavoro con le pere di metallo ‘
Un po’ di paura ce l’ho: mi farà male, si sarà troppo allargato?
è dietro di me e lo tiene saldamente in mano.
Mi preparo alla sensazione di freddo, no, non è di ferro come la pera.
Entra liscio e facile, come non mi era mai capitato, ecco ora si arrabbia perché sono troppo sfondata. Accidenti a voi, mi avete allargato troppo, ormai il danno è fatto, non mi potete restringere.
Invece non dice nulla e lo spinge più in fondo.
Arriva il dolore, probabilmente tutto quello che ho subito in questi giorni qualche danno lo ha fatto.
Io non dico nulla, non protesto, lui è soddisfatto, comincia a muoversi sempre più velocemente ed io seguo il suo movimento, sento le sue mani serrate sulle mie chiappe mentre insegue l’orgasmo che si fa sempre più vicino, finché, al culmine, mi pianta le unghie nella carne.
è fuori di me, sdraiato sul letto, ansimante, mentre il mio culo sfondato continua ad eruttare sperma.
‘Dagli solo una pulitina e poi, per questa sera, può bastare.’
Non mi è mai piaciuto succhiarlo dopo averlo preso di dietro, non è solo il pensiero di dove era infilato prima, ma è proprio il sapore che mi ha sempre fatto schifo. Ora però è tutto diverso, e comincio a leccarlo.
Azzardo anche un’iniziativa che non so se mi sia permessa: lo scappello delicatamente con la mano ed infilo la lingua tra la pelle e la base del glande. Lui grugnisce soddisfatto, poi però, dopo un po’ si scosta.
Stava tornando duro e credo voglia andare a dormire.
La porta si chiude dietro le sue spalle ed io comincio a pensare un po’ anche a me stessa.
La mano si infila lentamente in mezzo alle mie cosce ed inizio a masturbarmi delicatamente, pensando a lui.
Mi addormento pensando a domani, quando quella porta si riaprirà di nuovo. Ora la mia vita è diventata facile e confortevole.
Ho una stanza graziosa dotata di ogni comfort, un padrone di bell’aspetto che mi tratta bene, pasti caldi ed abbondanti e, sorpresa, anche dei bei vestiti.
L’armadio ne è pieno e non ho che da scegliere.
L’unica cosa che manca è la libertà, ma una schiava, per definizione, non può essere libera.
Nelle lunghe ore che trascorro da sola provo i miei nuovi abiti. Veramente dovrei parlare di costumi, perché sono dei vestiti tipo quelli delle dame di una volta, variopinti e pieni di merletti. Lasciano sempre le spalle scoperte e dalla scollatura, sporge gran parte del mio seno abbondante.
Nell’armadio è totalmente assente la biancheria intima, così quando cammino per la stanza, le mie tette si muovono liberamente, appena trattenute dalla stoffa sottile del vestito.
Gli piace sollevarmi queste lunghe sottane che indosso, scoprirmi le chiappe e ficcarmelo dentro, quindi anche un paio di mutande sarebbe di troppo.
Non viene da me tutti i giorni, è un uomo importante, sicuramente ha molti impegni, ma io lo aspetto sempre con trepidazione.
Anche se non mi ha mai sgridata, ho sempre paura di fare qualcosa di sbagliato e di finire di nuovo nella cantina umida. Mi sembra di essere tornata bambina, quando mio padre mi minacciava di rinchiudermi nello stanzino buio.
Facciamo sempre le stesse cose, cioè in bocca e dietro.
Una volta, ho provato a cambiare, mi sono sdraiata sul letto di schiena, ho allargato le gambe, dopo aver sollevato la gonna fino alla vita ed ho iniziato a carezzarmi la pancia, proprio vicino ai peli pubici.
Avevo passato parecchio tempo a depilarmi e li avevo un po’ sfoltiti per dargli un aspetto grazioso. Mi ero guardata a lungo allo specchio ed avevo trovato la mia fichetta piacevole, invitante. Vorrei tanto essere scopata dal mio padrone.
Quando ha capito le mie intenzioni, il suo viso si è rabbuiato, mi ha fatto rotolare sul letto per girarmi e, dopo avermi alzato la gonna di dietro, me lo ha ficcato nel solito posto.
Mentre mi inculava mi ha spiegato chiaramente come stavano le cose.
‘Non è previsto che le schiave si facciano scopare da me, per due motivi.
Primo, questo privilegio è riservato a mia moglie.
Secondo, in questa maniera la schiava potrebbe rimanere incinta e non sono interessato a mettere al mondo figli con loro.’
Quella volta è stato brusco e frettoloso, non ha neanche voluto farselo ripulire e se ne è andato nella sua stanza, sbattendo la porta dietro di sé.
Comunque ho appreso due cose: è sposato e non sono l’unica schiava.
Da quel giorno ho destinato la mia fica esclusivamente alle mie lunghe masturbazioni solitarie.
Gli piacciono molto le mie tette, mentre io gli succhio il cazzo, inginocchiata davanti a lui, ci gioca spesso.
Infila le mani nella scollatura del vestito e le fa saltare fuori, poi si mette a maneggiarle, finché i capezzoli non diventano duri.
Penso a cosa succederà quando i miei seni cominceranno ad ammosciarsi, mi sto avvicinando alla quarantina e prima o poi succederà.
Smetterà semplicemente di toccarmeli, oppure sarò scartata come schiava, sostituita da una più giovane e dalle tette più sode?
Che fine fa una schiava troppo vecchia? Venduta a qualcun altro, oppure rispedita in cantina?
Quest’ultima possibilità mi terrorizza e così, grazie alla gran quantità di tempo libero, ho deciso di rimettermi a fare ginnastica per mantenere il seno in buone condizioni.
Nella mia vita precedente, ormai posso dire così, frequentavo una palestra, quindi mi è bastato riprendere i vecchi esercizi, eliminando solo la parte con gli attrezzi, che ora non ho a disposizione.
Così, tutti i giorni, mattina e pomeriggio, faccio due ore di ginnastica, poi, prima che lui arrivi, mi faccio la doccia, mi trucco, mi vesto e aspetto, sperando che la porta si apra.
Mi ha fatto un regalo, due anellini d’oro.
L’unico problema è stato che non me li ha infilati nelle dita e non si trattava neanche di orecchini.
Ora ho un bel piercing ad entrambi i seni.
Non ho mai amato queste cose e poi ho sempre avuto paura del dolore fisico e quando ho capito le sue intenzioni, ho avuto veramente paura.
Io ero già sdraiata sul letto, a pancia in giù, pensavo che sarebbe andata come al solito, invece, usando gli anelli di ferro che porto ai polsi ed alle caviglie, mi ha legata.
Ho capito che sarebbe accaduto qualcosa di nuovo quando mi ha rimessa di schiena e mi ha fatto scendere il vestito.
Io stavo immobile, sdraiata sul letto, con piedi e mani legati, queste ultime dietro la schiena, e lui mi solleticava i capezzoli.
Ha aspettato che fossero duri e sensibilizzati per forarli da parte a parte con un grosso ago.
è stato molto doloroso ed è uscito parecchio sangue, ma il peggio è stato quando ci ha infilato dentro gli anellini d’oro.
Mi ha lasciata sola dopo avermi slegata e si è raccomandato di fare bene la medicazione, più volte al giorno, con i prodotti che mi ha lasciato.
‘Mi raccomando, sarebbe un vero peccato se le tue belle tette si infettassero.’
Ora sono passati diversi giorni, il dolore è diminuito, la ferita sembra quasi guarita e trovo anche eccitante quando lui prende gli anellini tra le dita e li muove, doloroso, un po’, ma anche eccitante, o forse eccitante perché un po’ doloroso?
I giorni passano lentamente e, nella mia stanza, ho anche un orologio, appeso al muro, quindi posso sapere l’ora, ma ho perso il conto dei giorni, più ho meno dovrebbe essere ottobre, ma non ne sono tanto sicura.
Lo sto aspettando, sono diversi giorni che non viene, ma oggi sento che la porta della sua stanza si aprirà.
Mi son messa un vestito rosso, molto aderente, che lascia intravedere gli anellini d’oro sui capezzoli. Sono truccata perfettamente, pulita e profumata. Ho messo anche delle scarpe morbide e leggere e mentre cammino agilmente per la stanza, sento l’aria fresca che mi passa attraverso le gambe.
Mi soffermo a pensare all’inverno, che si sta avvicinando, gli anelli alle caviglie mi impediranno di mettere delle calze, forse sentirò freddo. Ma no, la stanza ha i termosifoni, starò al caldo.
Sento il rumore della porta che si apre. E lui, finalmente!
No, si è aperta l’altra porta e sono entrati i due carcerieri.
Non è ora di cena, e poi non hanno portato il carrello con le vivande.
‘Togliti il vestito.’
L’ordine è secco, perentorio e mi stupisce, perché da quando sono in questa stanza, mi hanno sempre trattato gentilmente.
Sono rimasta ferma e l’uomo ripete la stessa frase con tono minaccioso.
Apro il vestito e lo lascio scendere ai miei piedi, avevo perso l’abitudine a mostrarmi nuda davanti a loro, ma sembrano quasi non notare il mio corpo nudo, mentre scavalco il vestito ammucchiato sul pavimento.
‘Anche quelle’, mi dice indicando le scarpe.
Ora sono come all’inizio: completamente nuda, con gli anelli ai polsi ed alle caviglie.
Uno dei due fissa lo sguardo sui miei capezzoli trapassati dagli anellini d’oro e scorgo, per un attimo, un ghigno, passare sul suo viso.
Mi prende quasi un colpo quando vedo il secondo carceriere avvicinarsi a me con la catena e la pinza.
No! questo no, per favore.
Esco dalla stanza scortata dai carcerieri, piena di angoscia: non voglio tornare giù, nella cantina.
Perché? Cosa ho fatto ? In cosa ho sbagliato?
Mille domande si affacciano nella mia mente, mentre percorro il corridoio, ma so già che da loro non otterrò alcuna risposta. Fino all’ultimo spero che la mia destinazione non sia la cantina.
Magari mi cambiano di stanza, ma perché farmi spogliare e mettermi di nuovo la catena? Non potrei certo sfuggire a loro.
Ogni mia residua speranza si spegne quando li vedo aprire la porticina di ferro.
La zaffata di aria umida e fetida, che proviene dall’apertura, mi aggredisce le narici e mi blocco, ma non serve a nulla, perché mi spingono brutalmente giù per la scala a chiocciola.
I gradini di pietra mi sembrano più umidi rispetto alla prima volta, ma forse dipende dall’essermi abituata agli agi della mia prigionia dorata.
Ecco, ora sono di nuovo nella cantina, la porta si è chiusa rumorosamente alle mie spalle ed il rumore del chiavistello che scorre cigolando, sancisce la mia orribile condizione di sepolta viva.
Non uscirò più da qui. Ho sbagliato, ho deluso lui, il mio padrone, forse non sono stata abbastanza brava, forse le mie tette non sono più all’altezza, comunque sono convinta che non avrò altre possibilità.
Prima che mi portassero qui, avevo fame, ora guardo le patate lesse sparse in terra e non ho più voglia, mi si è chiuso lo stomaco. Non mangerò, forse mi lascerò morire.
Intanto ho freddo e so già che l’unica possibilità di riscaldarmi minimamente è il letto, se è possibile chiamarlo così, pieno di paglia.
E lì, al suo posto che mi aspetta.
Va bene, proverò a dormire. Prima faccio pipì, per non dovermi alzare durante la notte ed allargo le gambe, per quanto mi è permesso dalla catena, che, questa volta, mi sembra ancora più corta.
Loro sono ancora tutti lì, mi hanno aspettato.
Li sento camminare sulla mia pelle nuda, mi pizzicano, sono decine, forse di più. Se provo a fissare lo sguardo su un punto del mio corpo, nonostante l’oscurità, li vedo camminare, oltre che sentirli, sono sicura che in queste condizioni mi sarà impossibile dormire, invece cado quasi subito in un sonno profondo.
Al mattino vengo svegliata dal rumore del chiavistello, faccio appena in tempo a vedere la porta che si richiude.
In terra c’è la tazza di latte ed il pane raffermo e decido che voglio vivere: mangerò.
Percorro a fatica i metri che mi separano dalla colazione.
Il pane è finito in una pozzanghera e non è possibile ripulirlo completamente, perché il fango lo ha ammollato ed è penetrato nelle sue fibre.
Quando lo intingo nel latte, vedo grumi di terra staccarsi ed andare a fondo.
Mi viene da vomitare ma cerco di sforzarmi e provo a pensare di avere a che fare con il solito cornetto caldo alla crema, che ho mangiato ultimamente tutte le mattine.
Quando sento la porta aprirsi di nuovo, mi viene in mente che forse riprenderanno a sfondarmi il culo, dopo avermi legata alla colonna. Cerco di vedere se uno di loro tiene in mano un pera di ferro, magari ancora più grande dell’ultima che hanno usato.
‘Non hai mangiato la cena’, mi dice uno dei due indicando le patate in terra.
‘Non si spreca il cibo’, aggiunge.
Ho capito, mi inchino e raccolgo una patata.
Loro mi guardano ed io non posso fare altro che mettermela in bocca.
Sento i grumi di terra tra i denti, mentre mastico, due lacrime mi scendono lungo le guance, ma loro continuano a guardarmi.
Mangio la seconda patata, poi la terza, smettono di fissarmi solo quando ho finito.
‘Vieni qui’, mi fa uno dei due.
‘Guarda che carini’, mi dice toccando gli anellini dei capezzoli.
Un brivido mi scuote, paura o eccitazione?
Inizia a smuoverli, dapprima delicatamente, poi con più energia.
I capezzoli si stanno indurendo e, quando gli anelli si muovono nella carne fanno male.
Continua, mi accorgo di essere bagnata in mezzo alle gambe e deve essersi accorto anche lui che mi sto eccitando.
Ora i capezzoli stanno sanguinando, perché le ferite erano ancora fresche, non del tutto rimarginate, ma lui continua, mentre io mi muovo.
Quando finalmente si ferma, io respiro a bocca aperta.
‘Un giochino davvero simpatico, quando il padrone si sarà stufato di te, ci divertiremo.’
Si congedano con quest’ultima frase, dopo avermi dato una spinta che mi fa cadere bocconi in terra.
Una nota positiva: lui non si è ancora stufato di me, quindi una possibilità di tornare su, esiste.
Realizzo che sono sporca di fango, perché mi hanno fatto cadere in una profonda pozzanghera. Ho la faccia ed i capelli impiastrati ma la cosa peggiore e che anche le mie tette ferite sono venute a contatto con tutta quella sporcizia.
Vengo assalita da un terrore folle: mi immagino un’infezione terribile che devasta il mio seno, lui che mi guarda schifato, dopo aver osservato le piaghe purulente, e mi rispedisce in cantina per sempre.
Devo assolutamente lavarmi, così corro al lavandino in fondo alla cantina.
Corro, si fa per dire, avanzo lentamente, con la catena che mi strattona, rischiando di scivolare nel fango ad ogni passo.
Non devo cadere, non devo cadere. Accidenti al fango, ma quanto fango c’è? Non era così l’altra volta, forse dipende dalla stagione.
Raggiungo il lavandino dopo un tempo che mi sembra infinito.
Prima mi lavo bene le mani, poi mi abbasso ed infilo un seno sotto il getto d’acqua gelata.
Strofino piano, tiro l’anellino per far allargare il buco e far uscire la terra che è entrata.
Certo, l’acqua non è un disinfettante, ma meglio di niente.
Proseguo con l’altro seno, l’acqua è veramente gelida.
Quando ho finito riverso le mie attenzioni al viso, mentre per i capelli provvederò se e quando avrò di nuovo a disposizione tutte le comodità.
Sento aprirsi di nuovo la porta.
‘Ehi! Vieni qui, c’è il tuo pranzo.’
Hanno versato le patate nella pozzanghera dove prima mi avevano fatta cadere, ed ora galleggiano in una fanghiglia liquida e scura.
Mi sforzo di pensare che siano patate al Goulash, ma quando metto in bocca il primo pezzo, il sapore non è proprio quello.
Anche questa volta rimangono a sorvegliarmi finché non ho mangiato tutto.
Sono stanca di stare in piedi, ma non voglio sedermi per terra, così decido di rimettermi a letto.
Gli abitanti della paglia non dormono mai e riprendono a mordere appena mi sdraio.
Ad un certo punto sento un pizzico più forte degli altri in mezzo ai peli del pube.
Riesco a schiacciare l’animale e mi rimane tra le dita una goccia di sangue.
Oddio! Mi entreranno nella fica.
Mi alzo di colpo e mi allontano dal letto.
Quando sento aprire di nuovo la porta, mi viene in mente che non è ancora ora di cena.
‘Su, sbrigati, che ti riportiamo di sopra.’
E’ finita, almeno per ora, sono al settimo cielo, potrò riprendere la mia normale vita di schiava.
Mentre percorriamo la strada che mi separa dalla mia stanza, cerco di capire il perché di questa punizione, ma quello che importa è che potrò riavere le mie comodità.
Lui mi aspetta in piedi nella mia stanza e mi fa subito un gran sorriso.
Devo aver un aspetto terribile ma il mio viso esprime contentezza e riconoscenza verso il padrone che mi ha tirata fuori dalla cantina.
I due carcerieri mi aprono la catena e si congedano, ora siamo soli.
‘Ti sarai chiesta del perché di questo breve passaggio nella cantina. Ebbene, ho pensato, che ogni tanto, ricordare cosa ti succederebbe se non ti comportassi bene, possa eliminare ogni rischio di ribellione, e spingerti a lavorare con maggiore dedizione.
Ho deciso che ogni trenta giorni ne trascorrerai uno nella cantina, sono sicuro che dopo apprezzerai di più questa stanza e la vita che fai.
Ora vai a darti una sistemata, perché non sei per niente attraente.’

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