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Racconti di Dominazione

L’aquilone

By 28 Ottobre 2007Dicembre 16th, 2019No Comments

Pensò.
A che corda usare. Quale scegliere tra le sue o quale appositamente per lei comprare.
Pensò che una corda non nuova, già usata, che avesse magari già stretto un palo o un respiro sarebbe stata forse più morbida. Quasi addolcita dall’uso.
Un tempo, quando le scarpe erano un lusso da signori, i ricchi le facevano calzare ai loro servi, così li chiamavano senza alcun pudore, perché il cuoio diventasse morbido e calzasse come un guanto, dopo ai loro piedi.
Ecco, una corda già sgualcita, già tesa e ripresa, già serrata e sciolta più volte sarebbe stata più dolce forse, a salire e stringere sopra i piedi. Sopra i polsi. Sulla carne dolce e chiara.
Però decise che la corda sarebbe stata nuova.
Forse più dura, quasi inamidata dalla tessitura, vergine alle mani e ai nodi. Però solo sua.
Pensò a come avrebbe girato su se stessa trovando la forma esatta delle caviglie, dei polsi di lei, tolta in silenzio dallo zainetto che aveva, a ciondolargli dalla mano, entrando lì nella sua casa. La prima volta.
Pensò a come e quanto avrebbe stretto.
A lei che lo ora lo implorava e che, oltre quel chiedere esplicito e crudo di essere legata, invece non detto, non pronunciato ad alta voce, nemmeno osato, gli stava dicendo anche quanto e come. Stretta, per assaporare tra le cosce solo al contatto della canapa ruvida e nuda, le prime gocce, nascoste alla sua vista ma così presenti e vive, stillarle dalla fica.
Perché lui girandole intorno, crocefissa sul suo letto, le vedesse luccicare.
Lacrime di desiderio, affiorare di umore da un taglio nella carne viva.
Come le gocce che sul ventre nuda ora lui scopriva essersi fatte riga vermiglia scura. Gonfia ai lembi del progredire della spina, delle spine. Il graffio e i suoi microscopici lembi di ferita nuda.
Pensò a lei che si era spogliata e si era stesa e che sembrava così temibilmente indifesa da fargli paradossalmente quasi paura.
Alla voce con cui si offriva e gli chiedeva, che era leggera, e che nemmeno capivi se e quanto in realtà le tremava.
All’allargarsi delle cosce e delle braccia per accogliere la tensione che avrebbe fatto baricentro, perno del suo corpo intorno al respiro, al ventre, al seno e al cuore.
Alla carezza che lui, su lei così allargata, al tempo stesso oscena e dolce, le avrebbe fatto scorrere proprio lì.
Non tra le cosce, ingorda del suo miele viscoso. Non sul seno gonfio di respiro e scompostamente irrequieto.
Non sulle cosce a produrre un’onda a salire, troppo facile strumento per farla iniziare a torcere e rantolare.
Sul viso.
Leggera. Impercettibile quasi. Commossa quanto le parole che lui sa, in quel momento, di non poterle dire.
La guancia allora volgerebbe a lato e cercherebbe il cuscino della mano, mischiando tenerezza con l’attesa. A posarsi sul palmo, e lui sentirebbe il calore della pelle, guscio di viso, perché lei quasi scotta ora. Lei ha la febbre.
Lui è la febbre.
E lui la cura.
Pensò al primo nodo e alla prima tensione.
A lei così sconvolgente apertasi a raggio da sola, a lei che si è per lui fatta fiore di braccia, gambe, corpo, sotto il sole.
A lei trasformata su quel letto adesso in aquilone. A lei che avrebbe volato, che gli chiedeva di volare.
Di trovare vento per salire, poi turbine per mille e mille volte precipitare.
E risalire.
L’avrebbe presa, aperta, riempita di sé già al primo nodo.
Senza nemmeno aspettare.
Ma no, si aspetta, si attende, si fa crescere. Si la lascia la goccia tra le cosce farsi lago.
E il fiato chiudersi nella morsa delle dita, quando, legata, su ogni estremità e tesa a ogni lato, lui le serrerà con forza il seno. Senza nemmeno dirle una parola.
Si aspetta.
Che il pane lieviti nel ventre che le sale e scende al ritmo del respiro ora.
Si lascia tempo al cuore di accelerare come a voler fuggire dalla gabbia prigioniera, sfondandola, rumore di ariete batterle alle tempie, nel silenzio quasi innaturale. Si lascia tempo al tempo del piacere.
Perché attenderlo arrivi alla soglia, dove l’attesa si fa quasi necessità e si veste di dolore.
Perché lei glielo le aveva chiesto.
Lei lo voleva quel regalo.
L’aveva sussurrato dapprima, poi urlato anche se nessuno la poteva sentire allora.
Guardandolo, una notte, mentre, da sola, dentro di se tra le sue dita umide lo cercava.
E lo trovava.
‘Legami!’
L’uomo spense il computer, chiuse l’ufficio.
Uscì in strada.
Nel negozio chiese al commesso col grembiule bianco un poco liso da anni di lavaggi, alcuni metri.
Di corda. Sottile e ruvide.
Marrone.
Guardando il cielo, uscito dal negozio di cordami, si ricordò, senza un nesso logico apparente, di un tetto. Una terrazza.
In pieno sole, dopo la pioggia. Il monsone.
Sopra l’albergo, piccolo, senza stelle, lui beveva una birra e parlava con un uomo giunto da Calcutta, di pietre preziose e contrabbando, seduti al sole. Era quasi il tramonto di una giornata calda e umida di un’altra estate.
Nel cielo, quasi si fossero dati appuntamento a un’ora convenuta, dai tetti della città, iniziavano a danzare gli aquiloni.
Colori, fogge, capricci di un vento spettinato ed irrequieto.
Sopra New Delhi. Come ogni sera di ogni estate, il cielo si faceva multicolore.
Senza chiedersene il perché, l’uomo ne scelse uno e ne seguì con gli occhi ogni tremito e ogni evoluzione.

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(aggiornato al 26 ottobre 2007)

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