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Racconti di Dominazione

L’importanza di chiamarsi Ernesto

By 5 Novembre 2013Dicembre 16th, 2019No Comments

Sono davanti al cassettone degli slip, e sto pensando a quali eventi mi hanno portata a questo punto, a pensare a quale di questi indossare per andare a farsi sculacciare dalla una delle persone che detesto di più al mondo.

Per farlo devo rimandare i pensieri ad qualche giorno prima, no anzi, a qualche anno prino.

Estate del 2011, l’estate dei miei 30’anni, l’estate in cui conobbi Ernesto. Quando mi disse “piacere Ernesto”, gia pensai… che nome da sfigato. Era il cugino di una mia amica e presto non fece fatica ad entrare nella mia top ten delle persone che non sopportavo.

Oltre al patetico nome aveva una faccia rotonda, bucata da due ochietti ravvicinati fra loro. Se gli occhi erano piccoli non lo era il naso, anzi, ero lungo e appuntuto. Il tutto ero incorniciato da capelli corti, castani confinati da un’attaccatura bassa. Tutta questa bellezza sormontava un corpo, semplicemente “a pera”.

Vabb&egrave, solitamente l’antipatia per qualcuno, non si può giustificare solo dall’aspetto. E infatti Enesto in pochi giorni sfoggiò anche altre doti. Era infatti un presuntuoso olimpico, uno di quelli che in ogni discorso pretendeva di dare la sua opinione, opinione che doveva essere accolta come giudio finale, commento tombale che non ametteva repliche. E se le repliche arrivavano, cosa che succedeva spesso, e spesso da parte mia, ti tratta come un idiota, e nel caso mio come una donnetta sciocca.

Evidentemente non ci amavamo molto, e sopratutto non lo amavo, ma nemmeno sopportavo, io.

A concludere e coronare l’immagine del personaggio, và detto che lo stesso ama vantarsi di conoscenze e capacità di vario genere, spaziando dalla nautica alla storia moderna senza trascurare capacità da paracadutista ed avventure in luoghi estremi.

Dai battibecco frequnti passammo ben presto alle litigate, fin anche agli insulti, sosa a cui io non sono decisamente abituata. Ma l’apice, il conflitto finale e la genesi della mia disgrazia &egrave stata semplicemente una nozione storica.

Pochi giorni fa, attendendo degli amici comuni, io e francesca, mia fraterna amica, ci trovamma sedute con Ernesto a sopportare il suo sfoggio di balle. Non lo ascoltavo nemmeno, sentivo solamente un bla.. bla… ed ad un certo punto una frase completa “si bh&egrave… Napoleone, che come &egrave noto &egrave nato il 15 agosto 1769…”. Avevo afferrato solo questa frase e facendogli il verso gliela ripetei aggiungendo un “sicuramente &egrave una cazzata, una data che hai buttato lì…come sempre del resto”.

Francesca, seppur abituata a queste miei agressioni nei suo confronti, e viceversa, questa volt ammutolì, probabilmente per l’espressione di spregio con cui l’avevo detta o il tono, entrambi sopra gli stardard medi dei nostri conflitti. Dopo alcuni secondi di silenzio che trascorsi fissando Ernesto con un espressione che sembrava dire “cretino, arrogante e imbecille”. Lui, stranamente con voce flebile rispose semplicemente “ma no, &egrave vero”.

Nella’ frase che dissi immediatamente dopo riusci in pochi secondi a rovinarmi. “E’ la solita cazzata, scommettiamo?”, quest’ultima parola “scomettiamo”, potevo tenermela per me.

Ernesto si prese pochi secondi di riflessione e replico. “Cosa?”. Io, ormai avviata al peggio risposi “Quello che vuoi. Facciama la tua bella Smart, nuova novina, regalata dal tuo papino?”. Ovviamente non ero minimamente preoccupata poiché aspettavo, pregustando nell’attesa, quale scusa avrebbe tirato fuori per sotrarsi alla scommessa. Ma come si suol dire, la presi nei denti, perch&egrave non batt&egrave in ritirata ma anzi, mi chiese cosa avevo da proporre io, visto che non avevo nemmeno una bici. A questo punto avrei potuto dire qualcosa di sprezzante e finirla li. Ma no, quando &egrave destino che qualcuno si rovini &egrave destino, sopratutto se accecata dalla rabbia e dalla convinzione che se uno racconta cazzate le racconta sempre. Così continuai “decidi tu, tanto la tua macchinina &egrave già mia”.

A questo punto Francesca entra in scena e timidamente cerca di placare gli animi, sopratutto il mio. Ma i suoi blandi tentati verteva sul fatto che “non era il caso”, mentre per me ogni “caso” era buono per attaccare lo scemo. Inoltre io e la mia amica abbiamo in comune molte cose, fra le quali quella di essere totalmente ignoranti in storia… peccato, diversamente ora la mia situazione sarebbe stata diversa.

Anche Ernesto comunque ignorò il tentativo moderativo di francesca e rispose prontanente alla mia domanda. “Faccio che se perdi ti prendi cinquanta cinghiate sul culo… facciamo a culo nudo?”.

Francesca non trattenne un “ma Ernesto!… dai…”, mentre io rimasi in silenzio, sorpresa dalla sua uscita e con un leggero sentore di offesa per la sua proposta… oscena. In silenzio poi, perché semplicemente non sapevo cosa rispondere. Io, reputata dal gruppetto di amici, quella più vicina ad una ragazzaccia, non potevo tardare a dare una risposta pronta e veloce, e non potevo certo rispondere “ma cosa dici!? Vergognati!”. Quindi la risposta fu la più ovvia “và bene! Prepara il paggaggio di proprietà che cos’ tagliamo i tempi”. Francesca, involontaria testimone della scommessa, con poca fantasia disse “ma Roby!… dai…”.

Facendola breve, scrivemmo entrambi le rispettive condizioni in caso di perdita su un tovaglionino da bar e una volta sottoscritte le consegnammo a Francesca. Inutile dire che quando il mio palmare mi confermò la data dinascita di Napoleone e contemporaneamente la mia sconfitta, sentì immediatamente salire la pressione al cervello e subito dopo la sentì scendere allo stomaco… annodandolo.

naturalmente avrei voluto fare due cose, riavvolgere il nastro delle idiozie che mi hanno portato a questo e sfaciare la baccia del cretino che rideva sguaiatamente, ribadendo “adesso sono cazzi tuoi!”. idiota di merda.

Il giorno per pagare la scommessa fu stabilito da li a due giorni, cio&egrave oggi, il luogo, la case del cretino, il quale pretese, ma era scritto nei patti, che vi partecipasse anche la testimone, alias Francesca. Da un lato l’idea di stare sola con Ernestono mi mi avrebbe rassicurata molto, dall’altro l’idea che un amica, una grande amica come lo era lei, assistesse alla mia umiliazione, mi vedesse in quella veste, aumentava il mio imbarazzo.

nelle ore precedenti non ho dormito, ho pianto molto, ma solo quando non mi vedeva nessuno, ho cercato di cedere ai tentativi della mia amica-testimone, di non pagare la scommessa, con la sua complicita… e ho bevuto mille camomille e litri di valium.

Ora manca poco, ho deciso che per pagare la scommessa indosserò dei semplici slip bianchi e mi presenterò in tuta, così, come se non me ne fregasse nulla… disinvolta. Falso, mi vergogno, ho paura, vorrei fuggire, vorrei rimangiarmi la parola data.

Preferisco andarci a piedi, preferisco andarci da sola. Francesca mi aspetta a pochi metri da casa del coglione. Quanla incontro ci salutiamo sommessamente, mi sento un “sei sicura?” di rito, annuisco, e dopo aver suonato al citofono saliamo su. Naturalmente al citofono non rispondende nessuno e non passa un socondo da quando suono a clanck della porta che si apre, come se qualcuno fosse li ad aspettarci, come se non aspettasse altro.

Dopo i convenevoli “ciao”, io mi metto la faccia da dura e prendo la situazione in mano chiedendo “bh&egrave, e adesso come procediamo?”. “Semplice carina, ti togli pantaloni e mutande, ti piaghi su quel tavolo e le prendi”. Istintivamente quardo verso il tavolo mentre lo indica e comincio a sentire le ginocchia molli nel vedere che sopra ha già poggiato una cintura. Sto per abdicare alla mia aria da dura ma resisto. “Non mi tolgo nulla, mi scopro il sedere perch&egrave sono di parola e nulla di più. E tu voltati, lo striptease non &egrave compreso nel pegno”. Lui non abietta, sorride e si volta. Mentre mi dirigo verso il tavolo guardo francesca che mi sorride con aria imbarazzata e poi distoglie lo sguardo.

Non ho molte altre cose da fare o dire, ho un senso di calore in faccia e formicolio alle mani e sopratutto non so se ho più paura o vergogna, ma mi abbasso tuta e slip, preoccupandomi di posizionarli nemmeno ad un millimetro sotto le natiche, nemmeno uno.

Il pensieri che mi pervadono sono molti, am quello predominante non &egrave il dolore che proverò, ma che sto esponendo il mio sedere, completamente nudo ad Ernesto, il cretino con il corpo a pera. Che vergogna.

Tengo gli acchi fissi al piano del tevolo e cerco di non pensare a nulla, illudendomi di riuscirci. Sento che Ernesto prende la cinghia dal tavolo, e lo sento armeggiare con quella, sento il tintinnio della fibia che si muove e il cigolio del cuoio. Improvvisamente sento silenzio e un sospiro allarmato della mia amica. Sta per cominciare, o almeno lo credo. Istintivamente stringo i glutei e innarco leggermente la schiena nel patetico tentativo di sottrami dal colpo. Silenzio. Non succede nulla e passa quel tanto di tempo che mi basta per sentirmi sciocca nel rimanere li con i muscoli contratti, gli occhi chiusi e mascella serrata. Silenzio, non succede nulla.

Improvvisamente sento un rumore sordo, un “paff…”, una forte pressione sulle natiche, quasi un morso, e un improvviso calore, che istantaneamente si trasforma in dolore, da sordo ad acuto. Mi ritrovo con la bocca aperta e il fiaco che non esce. E non esce nemmeno al sucessivo colpo, intenso e bruciante. Quello sucessivo, rapido e ravvicinato a primi due, rompe gli arigini ed emetto un urlo. La voce e la mia, ma mi pare emessa da un’altra, un urlo incontrollato, involontario, ma forte. Tanto forte che mi pare di aver preso il controllo sulla mia voce, su quello che voglio emettere e quello che non voglio.

Ma in realtà ho solo perso ogni pensiero e razzionalità, voglio solo che quel dolore cessi, che il rumore di quei colpi smetta… ora. L’effetto del quarto colpo &egrave quello di farmi cadere ogni maschera di dignità che mi ero incollata e ripromessa di mantenere in quella circostanza.

Questo unico pensiero mi fa dire “basta!” e sopratutto mi fa aggiundere “…ti prego…basta…”. Sento chiaramente la mia voce che pronuncia quelle parole, e sento anche quelle, molto flebili della mia amica… “Ernesto… dai basta, ora”. Parole solidali alle mie, arrivate in soccorso a perorare la mia richiesta, dette quasi a sottolineare l’assurdità della situazione e della sua estremità.

E non me ne frega niente se sto supplicando una persona che disprezzo a rinunciare a sculacciarmi, e non me ne frega niente se lo sto facendo a culo scoperto. Voglio che smetta, non voglio più sentire quel dolore.

“Smetterla!? E perché dovrei, io ho messo in gioco la mia macchina, ho vinto e ora mi devi ancora quarantasei cinghiate, o meglio le devo io a te… e le prenderai garantito”.

Sento la faccia rigata dalle lacrime, non ho pensieri coordinati… “nooo… ti prego… bastaaaa…”. Sento anche i lamenti e i vari “basta”, “non a senso”, di Francesca e qualche risposta di ernesto, di cui non distinguo bene le parole.

Poi solo i miei singhiozzi che intervallono il mantra “basta…per favore…basta…mi fa male”.

“Vuoi che smetta!? Vuoi che te le dia più piano!?”… ” Si, si, basta, basta, per favore”. “E non te ne frega niente di farti ridicolizzare?… da me?”. Non peso le sue parole ma solo il tono di proposta, quasi conciliante, il dolore &egrave comunque ancora presente, a motivarmi nella mia incondizionata resa.

“No non m’importa”. “Bene, vuoi che la tua amica rimanga o preferisci che non assista”. Quest’ultima frase mi colpisce allo stomaco. A cosa non verrei che assistesse? Capisco il peso di quello che sto per accettare, dello scambio che sto per contrarre, uno scambio comunque in perdita… ma obbligata. Non voglio soffrire più così, non voglio provare più quel dolore.

Sono ancora ferma nella posizione di prima, e forse perché, in qualche modo, seppur esponendo il sedere, mi ricorda da lontano la posizione rannicchiata, vi rimango, quasi che, quella posizione che ho adottato per essere colpita, sia diventata, visto sotto un’altro aspetto… di protezione. Volgo solo la testa verso Francesca e le chiedo, con aria fintamente rassicurata, rassicurante, che può andarsene, che và bene così.

“Sei cura? Dai vieni via con me”.”No, non ti preoccupare, vai via per favore, non voglio che vedi…per favore dai…”. “Vedere cosa?”.”Non lo sò, ma per favore…dai”. E così, frettolosamente lascia la casa, quasi a voler dire che lei non vuole saperne, quasi che, se non vedesse più me in quella situazione, niente &egrave successo.

Quando Enesto mi dice di sollevarmi da quella posizione, goffamente cerco di risollevarmi gli indumentie tenendomi una mano a coprire il pube. Armeggio un po’ ma alla fine riesco a ricompormi. Il contatto degli slip &egrave ruvido e doloroso con la pelle escoriata del sedere, ma non importa, &egrave finita e sono coperta. Ai brandelli della mia dignità ci penserò un altra volta.

“Ti sei rivestita? …non penserai che sia finita qui? …le scommesse si pagano”.

Io resto freddata, non riesco a replicare se non con dei balbetii “…ma… tu… avevi detto…”. “Evidentemente non ci siamo capiti o non hai voluto capire tu. Non hai forse detto che non t’importa di essere ridicolizzata? Non hai chiesto a Francesca di andarsene per non farla assistere? Assistere a cosa? Cosa pensavi?”

Io rimango in silenzio e il dolore alle natiche, che oramai mi sembrava attenuata dalla speranza, torna a farsi sentire. E lui incalza.

“Ascoltami bene. O farai immediatamente quello che ti dico, fino diciamo… alle diciotto spaccate di questa sera, o ti rimetti giù, culo in aria, e si riprende con quelle che ti mancano…a te la scelta”.

Sono un groviglio di umiliazione, rabbia e frustrazione enorme, così pesante che non riesco nemmeno a pensare “bastardo di merda”. “Si và bene”. “Si cosa?”. “Si farò come dici tu”. “E intendiamoci, al solo minimo tentennamento o rifiuto ti rimetti giù…”. Trovo la forza d’interromperlo e risco a dirgli “si, ho capito, va bene”.

“Ok, allora vediamo…giù le mutande fino alle ginocchia e poi solleva maglia e reggiseno fino all’altezza delle spalle… fuori le tette, insomma. E naturalmente rimani così”. Ormai sono un robot, le sensazioni sono molte, diffuse e appannate, solo un gran senso di vergogna mi tiene ancorata alla realtà in questa assurda situazione. Quindi eseguo. Nella speranza che finisca tutto il prima possibile, mi abbasso pantaloni e slip, che finiscono in un sol groppo di tessuto avvinghiato alle ginocchia, lasciando scoperto, esposto il pube. Stessa sorte capita al seno, che viene scoperto in un solo goffogesto. Con le mani sollevo reggiseno e maglia, esponendolo alla vista e al ludibrio di Ernesto, in pochi secondi. Tutto, puché mi sia evitato il dolore e possibilmente finisca presto.

Il mio aguzzino non riesco a guardarlo in faccia, così distogliendo lo sguardo incrocio la mia figura riflessa sullo specchio posto, quasi frontalmente. E per la prima volta in vita mia mi trovo ridicola e patetica, veramente ridicola e veramente patetica. Vedo la sagoma di una donna, io, con pantaloni e slip abbassati, l’attenzione mi cade subito sul bacino. Bianco, segnato dal costume, che traccia un triangolo bianco delimitato da due gambe e un ventre di colore leggermente più scuro, quel tanto che basta a segnare la parte intima da quella pubblica. Una rada e bionda peluria non riesce ha nascondere il pube, Ricordo quando un giorno, in spiaggia, guardando Ernesto, pensai che che un viscido del genere avrei dovuto indossare un costume intero, per coprire il più possibile. Ed ora invece, mi trovo ad esporgli le mie nudità in cambio del mio dolore.

Poi vedo le mie mani che tengono sollevati gli indumenti sopra il seno, un seno di cui non sono mai andata fiera, un seno piccolo, che riempie appena una prima misura, anch’esso evidenziato dal segno del costume, due triangoli bianchi. Sento le lacrime che mi rigano il volto e la mia voce “t..ti prego,..lasciami andare via”.

“Vuoi andartene!?”

“Si, si”.

“Allora devi dire per venti volte che hai delle tette ridicole”

Non me e importa nulla ormai, e comincio. “Ho delle tette ridicole…ho delle tette ridicole…ho delle tette ridicole”. E così avanti, contando mentalmente fino a venti. Per ogni volta che ripeto quella frase, la lingua mi sembra sempre più spinova e pesante, ma continuo a ripeterla, sempre più in fretta, fino alla fine.

E di botto tutto finisce.

“Bene, rivestiti e vattene”.

La tensione mi cala all’improvviso e la vergogna divampa al pensiero di cosa ho fatto, vorrei urlargli tutti gli insulti del mondo, vorrei fargli male. Ma l’unica cosa che voglio fare e rivestirmi e andarmene. Dimenticare.

Mi rivesto, me ne vado, ma dimenticare non mi sarà possibile.

Questo racconto &egrave una bozza di qualcosa di più esteso, approfondito. Per migliorare i miei racconti avrei bisogno di conoscere sensazioni, impressioni ed esperienze reali. Quindi sono grato a chiunque voglia proporsi per rilasciarmi un’intervista…naturalmente in perfetto anonimato. La mia mail &egrave lorenzo.dominusl@gmail.com

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