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Racconti di Dominazione

Lo schiavo

By 8 Ottobre 2017Dicembre 16th, 2019No Comments

Mentre le ombre della sera prendono ad allungarsi sul pavimento del dungeon, l’uomo inizia a mostrare i primi segni di cedimento. Il suo collo e le sue braccia sono bloccati dalla morsa del giogo, mentre il suo volto &egrave coperto dalla maschera di cuoio che faccio indossare agli slave che non mi va di guardare in faccia. I segni della fruste bruciano ancora, sulla sua pelle. Vedo le strisciate violacee che gli rigano la schiena e i marchi dei tacchi a spillo sul costato. Oggi &egrave stata meno dura del previsto. Conosco questo tizio; l’ho già avuto in sessione almeno un’altra mezza dozzina di volte. Con il tempo ho imparato a conoscere la sua soglia di sopportazione al dolore e i suoi gusti in fatto di pratiche BDSM. Nel mio lavoro &egrave importante capire fin dove potersi spingere. Uno schiavo soddisfatto &egrave un cliente che senz’ombra di dubbio tornerà a supplicare di poter leccare le suole dei miei stivali. In fin dei conti &egrave su questo che si basa la mia professione di mistress; sul soddisfare le aspettative di colui che desidera essere dominato.
&egrave il caso del verme che ho imprigionato nella gogna qualche minuto fa. So praticamente tutto quel che c’&egrave da sapere, su di lui. Tutto meno il nome. Quello non m’interessa. L’ultima volta che ci siamo incontrati mi ha raccontato di essere stato sposato due volte. L’attuale moglie fa la mantenuta e si limita a badare a casa, figli e cani. Nessuna passione, in quel che rimane della loro vita coniugale. La noia della routine e l’assuefazione alle mollezze di una vita agiata hanno soffocato il desiderio reciproco come una brezza che sferza la fiamma di una candela. Lui &egrave un architetto piuttosto conosciuto, in città. Ha due appartamenti in centro e una villa in collina. Gli piace essere calpestato e adora la frusta. Non so come faccia a nascondere le ecchimosi delle scudisciate davanti a sua moglie. Non gliel’ho mai chiesto e, a dire il vero, non me ne importa neppure granch&egrave. A me basta che i nostri incontri siano ben remunerati e che non vadano al di là del tempo concordato.
Mi avvicino alla gogna e sollevo il perno di metallo che tiene uniti i due blocchi di legno. L’uomo scivola indietro come un burattino, inciampa nei suoi stessi passi e precipita con il sedere sul pavimento. &egrave nudo, e il suo gingillo sbatacchia senza forza fra le sue cosce. L’impatto delle natiche con le mattonelle fredde lo fa grugnire di dolore.
Che schifo di visione, mi dico. Che essere repellente.
Mi soffermo a pensare che un simile individuo, nel mondo che si cela oltre la porta del mio dungeon, &egrave considerato da tutti un professionista affermato. Molti lo stimano, altri lo invidiano. Ciò nonostante, io posso vederlo senza le maschere di falsità e perbenismo che la società gli ha concesso di indossare. Lo vedo per quello che è una larva umana.
– Tirati su, bastardo – gli ordino.
Lui geme qualcosa di incomprensibile, si prostra in ginocchio e mugola come un cane rimproverato dal padrone.
– Stavi per dire qualcosa?
– No’
– No cosa?
– No, lady Vanessa.
– Ricordati che puoi parlare solamente quando io te lo concedo. Mi sono spiegato?
Lui annuisce con un movimento contratto della testa. Gli fa male il collo. &egrave comprensibile. Benché l’abbia tenuto ai ceppi per non più di dieci minuti, il suo fisico &egrave quello di un cinquantaquattrenne che ha trascorso la sua intera esistenza dietro a una scrivania. I suoi muscoli sono indolenziti, le sue ossa doloranti.
Questa &egrave la fase della sessione che più adoro. La bestia &egrave arrivata al suo limite. Io devo spingerla un po’ più in là, fargli valicare il limite che essa si &egrave imposto nel momento stesso in cui &egrave entrata nel mio regno. Perché qui sono io a comandare. Fra le mura del dungeon, non ha importanza se la persona prostrata ai miei piedi &egrave un imprenditore, uno stimato professionista, uno scienziato o un giudice della Corte Suprema. Quando si &egrave al mio cospetto, l’unica verità che conta &egrave la sofferenza che posso impartire agli altri. Nient’altro.
Lo afferro per i capelli e gli sollevo il collo senza alcuna clemenza. Lui trattiene un gridolino di dolore e mi fissa attraverso i sottili fori a mandorla ricavati nella maschera che indossa.
– Sei stanco? – gli chiedo.
– No, lady Vanessa.
– Sei stato bravo, cane. Meriti una ricompensa.
– La ringrazio, mia signora.
– Questa mattina sono andata a correre con indosso le scarpe da tennis. Sono calzature comode ma un po’ soffocanti. Coi calzini, poi, che sudate! – esclamo. – Dai, comincia con il togliermi gli stivali. Vediamo quanto vali.
Lui obbedisce senza discutere. Lascia che mi accomodi sullo scranno rosso posto al centro della sala e si prostra come se si trovasse di fronte a una vera regina. Non aspettava altro, lo capisco dal suo modo di guardare le mie caviglie.
Sollevo un piede davanti al suo volto e gli sfioro la fronte con l’unghia dell’alluce.
– Avanti, solleva l’orlo della maschera e leccami i piedi.
– Sì, lady Vanessa.
– Aspetta. Così sei troppo comodo – gli dico. – Prendi il vassoio dei ceci e mettilo qui, davanti al mio trono. Devi soffrire anche mentre mi lecchi i piedi.
Lui esita.
– Hai qualche problema, animale? Per quale motivo non ti vedo scattare come ti ho ordinato?
– Mi perdoni, padrona.
La sua voce trema come quella di chi sa di non avere scelta. Raccoglie il vassoio di metallo che ho riposto su uno degli scaffali del dungeon e lo adagia sul pavimento.
– Inginocchiati e leccami i piedi, verme – ripeto.
Lo vedo flettersi verso le mie estremità e iniziare la sua umiliante opera di pulizia. Segue le curve del plantare, umettando la pelle un po’ sudata con la punta della lingua. Alterna le leccate con qualche bacetto appena accennato. Sembra quasi che si vergogni di ciò che sta facendo. Dopo un poco arriva alle dita. &egrave lì che lo sento gemere. Non se la sente di continuare, e da una parte quasi lo capisco; &egrave lì, infatti, che ristagna la maggior parte della sporcizia.
Gli do un colpetto sulla guancia e lo richiamo all’ordine.
– Muoviti, lecca per bene.
Lo schiavo annuisce, china il capo e riprende a darsi da fare. &egrave come se contraendo i muscoli del volto riuscisse ad annullare il senso di disgusto causato dal cattivo sapore. La lingua esce allora dalla bocca in tutta la sua interezza, iniziando a dare una serie di grandi e lente lappate lungo tutta la pianta. Passa attorno all’alluce e sfiora ogni singola unghia, ogni singolo dito.
– Lecca così, da bravo.
Passa al dorso. Quello &egrave pulito, non avevo intenzione di farglielo leccare. Tuttavia, per arrivarci senza sollevare le ginocchia dal vassoio dei ceci, &egrave costretto a torcere dolorosamente il collo, e questo mi piace.
– Sì, anche lì, cane bastardo – gli dico. – Fino alle caviglie.
La bestia traballa un po’, sta per cadere, si riprende e continua a leccarmi. Le rifilo un calcio in faccia a piedi uniti e la sbatto schiena a terra.
– Che cosa fai, razza di animale che non sei altro? – grido. – Chi ti ha detto di scendere dal vassoio?
– Ma’
– Ma un cazzo, feccia! Rimettiti subito in ginocchio – ordino.
Mentre lo schiavo obbedisce ai miei voleri, intravedo le sue ginocchia livide e arrossate. Mi piace quel mosaico di puntini scarlatti e neri che si aggrovigliano fra loro. &egrave la prova materiale della sua sottomissione nei miei confronti.
Questo cane ha bisogno di soffrire, e non c’&egrave dubbio che con me avrà quello che merita.
Mi avvicino a lui, lascio che si inginocchi nuovamente al mio cospetto e mi siedo di schianto sulla sua schiena. La pressione sui ceci raddoppia di colpo, strappandogli un gemito strozzato.
-Che hai? Non dirmi che fa male – rido. – Questo trattamento &egrave terapeutico, per gli schiavi. Gli aiuta a fortificare lo spirito.
– ‘
– Continua, bestia.
Appoggio l’incavo delle ginocchia ai lati della sua testa e sollevo il mio peso dal pavimento. Adesso gravo completamente sulla schiena dello schiavo. Dondolo le gambe attorno alla sua faccia e gli assesto qualche colpetto del ginocchio sul mento. Adoro metterlo più in difficoltà di quanto già non sia.
Per aiutarlo a mantenere la concentrazione raccolgo i miei stivali e glieli sbatto sotto la faccia. Poi, con un balzo, mi siedo nuovamente sopra la sua schiena.
– Inala.
– Uhm’ nnoo’
– No? Ah ah ah! Allora smetti di respirare! Se ti premo la faccia in questo stivale non puoi certo spostarti, servo!
La vedo respirare l’odore dei miei piedi e trattenere un conato di vomito. Cerca di deglutire il sapore acre che gli si &egrave fermato in gola e barcolla in avanti come un fantoccio privo d’ossa.
I suoi occhi sono quelli di un soggetto epilettico nel pieno di una crisi.
– Guai a te se mi lasci cadere! – esclamo.
Raccolgo le calze che ho riposto nel fondo degli stivali, le appallottolo e gliele caccio in bocca, dopodiché gli rimetto gli stivali davanti al viso.
– Continua a respirare. Non perderne neppure una sniffatina. &egrave buona, eh? Ti piace. Roba di prima qualità, animale. Puro piedino di dominatrice in stivali di cuoio lavorati a mano. E quando ti ricapita un privilegio come questo? Ah, naturalmente mi aspetto che tu non danneggi le mie calze con i tuoi denti schifosi. Devi limitarti a fare il prelavaggio e assorbire tutto il mio sapore.
La punizione prosegue per una decina di minuti. Non molto, dopotutto. La bestia era già talmente provata dalle precedenti punizioni, che insistere ulteriormente avrebbe voluto dire rischiare di spezzarla definitivamente. E io non voglio che accada questo. Al contrario. Lo schiavo deve tornare a casa soddisfatto e consapevole di aver provato un’esperienza unica. Deve andarsene provando il desiderio di rivedermi il prima possibile.
Mi avvicino alla scarpiera e inizio a valutare minuziosamente le calzature ordinatamente disposte sugli scaffali. Ci sono scarpe col tacco altissimo e affilato, sandali che lasciano scoperto il piede e stivali di ogni marca e altezza. E poi ci sono le fruste; immancabili, dolorosissime fruste. Lui mi osserva angosciato e si domanda cosa stia facendo. Dall’espressione supplicante che hanno i suoi occhi suppongo che abbia intuito vagamente i miei pensieri.
Afferro un frustino da equitazione e lo faccio schioccare in aria. &egrave sottile e leggero; l’attrezzo giusto per colpire senza stancare il polso.
Compio un paio di giri attorno alla vittima, e con studiata lentezza sfioro ogni centimetro della sua schiena con la punta dello strumento.
Torno indietro e prendo anche un dildo. Uno di quelli belli grossi, da culo allenato.
Il suo non lo &egrave.
Senza tanti complimenti glielo sbatto immediatamente fra le chiappe. Lo schiavo non se lo aspetta. Urla, si dimena e precipita in avanti. Nel farlo, un lembo delle mie calze si sfila dalla sua bocca.
Gli blocco la nuca sotto al piede e salgo sopra la sua schiena.
– Smettila di muoverti, miserabile! – grido. – Tanto lo sai che qui comando io! Brutto schifoso, allarga! Allarga il buco! Fallo entrare! E smettila di grugnire come un porco. Mi stai dando fastidio.
Gli rifilo due schiaffi così forti da spettinarlo e finisco di penetrarlo come merita.
– E ora rimettiti sui ceci, infame! Guarda! Li hai sparsi per tutta la stanza. Ma ora li riprendi dal primo all’ultimo e li rimette sul vassoio. Anzi, guarda, ti do una mano io stessa.
Torno alla rastrelliera, prendo collare e guinzaglio e glieli appongo alla gola. Stringo il collare più forte che posso, dopodiché gli assesto uno strattone e lo costringo ad avanzare.
– E via! A spasso per tutta la stanza a raccattare i ceci con la bocca.
Come si muove male! Sembra un cane zoppo che arranca in un campo fangoso.
Io gli cammino accanto a piedi nudi. Il pavimento &egrave abbastanza pulito, tuttavia &egrave rimasta un po’ di polvere negli angoli e nei punti in ombra vicino agli scaffali.
Gli faccio compiere molti giri lunghi e inutili al solo scopo di umiliarlo; infine, quando i ceci sono tutti nel vassoio, mi risiedo sulla poltrona.
Gli sfilo le calze dalla bocca e appoggio le caviglie sul panchetto.
– Guarda, animale, ho i piedi sporchi. Leccali.
In effetti non mi sono risparmiata; andando a insistere nei punti più sporchi del pavimento, sono riuscita a ricoprire le mie piante con un sottile velo di polvere.
Lo schiavo esita. Sollevo il braccio e lo colpisco sul viso.
– Muoviti! – esclamo.
Lo strattono col guinzaglio per costringerlo a venire verso di me. Da principio oppone resistenza, poi lo sento cedere. Dalle sue guance vedo scendere qualche lacrimuccia. Non &egrave il dolore per la frustata. Piange davvero; probabilmente si aspetta che finisca per impietosirmi e commuovermi. Povero illuso. La sua disperazione mi fa fremere dentro, mi eccita.
Mi fa sentire viva.
Perché questo &egrave ciò che io sono. Una mistress. Una sadica dominatrice di quegli esseri inferiori che si fregiano del nome di schiavi.
Il sono lady Vanessa.

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