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Racconti di Dominazione

L’omm e’ merd

By 7 Febbraio 2011Dicembre 16th, 2019No Comments

Ho fatto la puttana a lungo.
Quando non puoi mangiare qualcosa la devi pur fare, no?
Diciamo che gli affari non andavano male, avevo un paio di clienti al giorno, mettevo da parte abbastanza per potermi pagare un appartamentino e col passare del tempo anche un’auto e dei vestiti.
Scopavo con loro, li accontentavo come potevo, facevo un po’ di tutto e non mi dispiaceva.
Alcuni poi erano diventati clienti abituali.
Solo una cosa aborrivo: la violenza.
Niente frustate inflitte o subite. Nulla di eccessivamente forte.
Sculacciate e piccole cose ok ma non violenza.
Un giorno un mio cliente mi porta un suo amico, un certo Bruno, un imprenditore, uno abbastanza in soldi. Chiede di poter far assistere il suo amico, per vedere come sono, cosa faccio, come lo faccio insomma.
Naturalmente gli sarebbe costato un extra.
Lui annuisce e si siede sulla seggiola vicino alla porta.
Ci osserva muto, ogni tanto mi volto a fissarlo’ neanche se lo tocca il pacco ma non mi stupisco più di tanto’ ce n’è in giro di gente bizzarra e lui sarà uno di questi mi dico.
Il cliente se ne va e Bruno si trattiene un po’ con me.
Mi offre un mucchio di soldi per una prestazione.
Di che tipo gli chiedo’ troppi soldi, mi sembra pericolosa’ ma mi rassicura, non mi farò del male.
Dopo un po’ di mie insistenze si scuce’ vuole che lo maltratti’ vuole che io lo violenti e lo maltratti.
Dio mio’ ne rimasi sconvolta’ con tutte le puttane che fanno anche da mistress proprio me doveva cercare?
Gli dico di andare altrove ma non molla’ vuole me. Le altre lo fanno senza rimorso, fredde e meccaniche, lui vuole me invece e rincara la dose.
Altri soldi.
Io non navigavo di certo nell’oro e mi dico si, per una volta non succede nulla.
Due giorni dopo si presenta a casa mia con una valigia.
Lo accolgo col sorriso ma lui non reagisce molto.
Ha fretta di vedersi esaudito e si dirige in camera con in mano questa sua borsa.
Entriamo e la poggia a terra.
La apre. Dentro una frusta, delle sigarette ed un accendino, un cazzo di lattice grosso, svariati oggetti.
Inizio a spogliarmi ma mi ferma.
Mi vuole vestita e mi chiede di dargli uno schiaffo, un ceffone forte.
Gliene mollo uno arrossandogli la guancia ma non è soddisfatto’ non riesco gli dico.
Inizia a strattonarmi e ad offendermi, tenta di buttarmi a terra, mi spinge da un angolo all’altro della stanza finchè non gli tiro un pugno nello stomaco e una ginocchiata al basso ventre.
Si accascia a terra dolorante trovando il fiato di ringraziarmi.
Allunga la mano verso la borsa e mi chiede di prendere il frustino.
Lo prendo e mi avvicino a lui.
Sfila la camicia a fatica rimanendo disteso a terra e mi chiede di frustarlo.
Non ho cuore di farlo e lo colpisco debolmente, solo pochi schiocchi.
Urla di nuovo’ mi chiede se li voglio o no quei maledetti soldi’ che se non lo frusto a dovere mi picchierà senza pensarci due volte.
Ha il fuoco negli occhi e la paura mi porta a colpirlo.
Se tra i due uno deve prenderle quella non sono di certo io.
Sbatto la frusta malamente sulle sue spalle lasciandogli il primo segno e continuo mentre lui si contorce di dolore.
Gli chiedo se basta più e più volte facendolo innervosire.
Mi grida di continuare tra i lamenti ed infierisco più che posso sulla schiena rossa striata dai colpi.
Mi chiede di accendere la sigaretta e di fumarla e lo faccio.
Tra un colpo e l’altro mi faccio due tiri diffondendo il fumo in stanza.
Vuole che io gli bruci la pelle delle braccia, mi ordina di farlo e alla mia mancata reazione inizia a strattonarmi per la gamba finendo per bruciarsi da solo incontrando per caso la sigaretta nella mia mano.
La spengo e inizio a schiacciarla bollente sugli avambracci. Si agita per l’improvviso dolore ma non cede e vuole lo frusti e lo bruci a mio piacimento.
Ancora sconvolta decido di continuare e inizio a violentarlo verbalmente secondo le parole che lui mi suggerisce’ uomo di merda, vigliacco, cane schifoso’ ne gode, tra dolore e sofferenza chiude gli occhi’ implora una donna di perdonarlo’ chiede perdono e piange’ non piange dei miei colpi ma piange di sofferenza interiore.
Come fosse in trance invoca il suo nome’ Giulia’ Giulia’ perdonami’ ti prego’ le lacrime cadono a fiotti, i lamenti gli scoppiano in gola, singhiozza come un bambino. In quel momento frustarlo e fargli male mi sembra un atto di pietà, un dolore fisico per distoglierlo da quello dell’anima che comunque è più forte di ciò che gli faccio nonostante l’impegno con cui lo ferisco.
Quando riapre gli occhi è ancora disteso sul mio pavimento con una coperta addosso a tenerlo al caldo.
E’ crollato nel sonno più profondo all’improvviso, nel momento stesso in cui ha smesso di sentire ogni dolore.
Si sveglia quasi come fosse rinato e incurante delle ferite infila a forza la camicia, prende le sue cose e varca la porta pagandomi e ringraziandomi.
Chiede di potermi chiamare ancora e per la pena che mi fa accetto.
Si presenta alla mia porta ogni settimana con la cospicua cifra e chiedendomi sempre di più, più dolore, più sofferenza.
Poi per un po’ non lo vedo venire più.
Dopo un anno dal giorno in cui l’ho conosciuto leggo la notizia sul giornale del suo suicidio e la sua storia, la storia di un onesto lavoratore che tornato a casa coglie i ladri che stanno malmenando sua moglie’ la picchiano e la violentano fino ad ucciderla davanti ai suoi occhi.
Lui osserva tutto mentre viene massacrato a sua volta.
Non riesce a difendersi e tanto meno a salvare lei. I ladri scappano col bottino della piccola cassaforte che avevano in casa. Pochi soldi oltre tutto.
La moglie si chiamava Giulia.
In quel momento l’ho capito.
Al dolore non ha resistito.
Dopo essersi punito si è ucciso credendo che nessuna sofferenza fosse per lui abbastanza.

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