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Racconti di Dominazione

Nelle Mani degli Apache

By 31 Marzo 2007Dicembre 16th, 2019No Comments

Il giorno in cui decidemmo di partire per la California faceva un caldo terribile. Da quando si era sparsa la voce che c’era l’oro, la gente di Boston e dintorni era impazzita.
Centinaia di nostri amici e conoscenti avevano stipato su carri coperti tutto quello che erano riusciti a metterci e si erano uniti ad altri in lunghi viaggi verso ovest.
Mio marito all’inizio non era entusiasta come gli altri, ma poi la febbre dell’oro aveva preso anche lui e alla fine aveva cominciato a parlare di andare all’ovest in cerca di fortuna. Io allora avevo da poco compiuto venticinque anni e mi sentivo giovane e in grado di affrontare un viaggio estenuante e pericoloso, pronta ad iniziare una nuova vita nell’allettante terra della California.
Era metà agosto, una splendida mattina di domenica, quando fummo pronti a partire. Ci eravamo radunati con altre dieci famiglie, i nostri amici più cari. Sapevamo che il viaggio sarebbe stato lungo e faticoso, e volevamo essere con gente che ci piaceva e di cui ci fidavamo.
Andammo in chiesa quella mattina, lo ricordo, e pregammo per un viaggio sicuro.
I carri erano già carichi, e ci mettemmo in viaggio verso le sette, con ancora addosso gli abiti della festa. Ricordo che ero di ottimo umore pensando che il viaggio, bench&egrave lungo, sarebbe stato bellissimo ed eccitante.
C’era gente che era già andata in California e in altre località dell’ovest, e ne era tornata. Quei primi viaggiatori avevano disegnato delle carte, e con esse non prevedevamo problemi.
Le carte erano ben fatte, circonstanziate, e indicavano persino vari luoghi da evitare, come le zone prive d’acqua e quelle dove c’era possibilità di incontrare degli indiani.
Per me a quel tempo gli indiani erano un popolo di cui avevo sentito raccontare storie brutali, ma non mi parevano una realtà.
Tante volte avevo ascoltato uomini, raccolti in circolo al sabato sera, davanti a grandi boccali di birra, raccontare varie avventure vissute in prima persona sulle piste dell’ovest. E quando raccontavano degli attacchi indiani, degli scalpi, delle torture fatte soprattutto alle donne, io non potevo fare a meno di sorridere. Non potevo credere che esistesse gente capace di fare le cose orribili che quelli raccontavano, non mi pareva possibile.
Eravamo partiti quella domenica mattina, dunque, e il viaggio per il primo mese andò tranquillo. Ogni sabato sera facevamo di tutto per accamparci in un bel posto, di preferenza su un’altura che dominava la prateria, oppure vicino a un bel lago, o a un fiume. Ci mettevamo in circolo con i nostri carri e ci radunavamo attorno a un grande falò; cantavamo, danzavamo, e ci divertivamo molto. C’era fra di noi lo spirito di un’allegra scampagnata, più che di un viaggio lungo ed estenuante.
Quando fummo nel Colorado cominciarono i guai. Le carte in nostro possesso ci mostravano una pista precisa che attraversava un passo di montagna, chiamato Marble Peak.
Il guaio fu che quando arrivammo al passo lo trovammo bloccato. Evidentemente c’era stata una grossa frana dopo che avevano disegnato le carte. Era impossibile passare. Unica alternativa era attraversare il deserto che si estendeva attorno alla catena montuosa. Questo, però, non solo ci avrebbe portati fuori strada e in ritardo di almeno tre settimane sulla tabella di marcia, ma ci avrebbe anche portato in posti che la carta indicava come territori Apache, zone pericolose, da evitare a tutti i costi.
Ci radunammo tutti e decidemmo sulla cosa migliore da fare. Una o due famiglie volevano tornare indietro, e così decisero. Invece mio marito ed io, con sette famiglie, decidemmo che dopo aver percorso circa due terzi di distanza, tanto valeva continuare.
Dunque, non potendo attraversare il passo, decidemmo di affrontare il deserto e il rischio di un eventuale attacco degli Apache alla nostra carovana. Naturalmente mio marito e gli altri uomini avevano spirito combattivo e si sentivano capaci di fronteggiare qualsiasi attacco, da parte di chiunque, anche di un branco di selvaggi scatenati in cerca di scalpi e di razzie.
Sul terreno che noi percorrevamo, la carta mostrava tante piccole figure di indiani e molti segni di avvertimento. Noi facemmo del nostro meglio per allontanarci dai punti indicati come particolarmente pericolosi.
Era la seconda sera da che avevamo ripreso la marcia, quella notte era di una bellezza eccezionale. Ricordo che sedevamo attorno al falò, cantando canzoni, e dando fondo a qualche barilotto di birra che ancora tenevamo in serbo.
Mio marito ed io ci tenevamo abbracciati davanti al fuoco, e ci sentivamo sicuri ed eccitati. Eravamo pieni di entusiasmo pensando alla nuova vita che avremmo iniziato in California. A un certo punto, stanchi di far baldoria, ci ritirammo dentro il nostro carro per dormire. Lasciavamo ogni accampamento al levar del sole e ci occorrevano almeno sei ore di sonno ogni notte per affrontare le lunghe giornate di viaggio sotto il sole in quelle terre deserte e isolate.

Il mio ricordo parte da un grido. Qualcuno gridò e io balzai a sedere sul nostro giaciglio. Mio marito era già sceso dal carro e urlava a tutti di prendere i fucili. Misi la testa fuori e con mio raccapriccio vidi un branco di giovani guerrieri, pressoch&egrave nudi, che ci avevano circondati e lanciavano frecce contro i carri, accompagnando l’azione con acutissime grida.
Il quadro che mi si presentò era talmente irreale che sulle prime pensai di sognare. Ma quando vidi gli uomini stramazzare a terra, con urla di dolore e frecce conficcate nel petto o nella schiena, mi resi conto che non sognavo affatto.
Chiamai mio marito, lo supplicai di tornare sul carro. Temevo per la sua vita, ma lui fu sordo alle mie grida.
Si piazzò accanto a un barile e cominciò a sparare contro quel circolo di indiani, con lo stesso coraggio degli altri uomini. Purtroppo li vidi cadere uno a uno.
E quando vidi cadere anche mio marito e gridai terrorizzata perch&egrave il suo corpo giaceva immobile sul terreno, non potei trattenermi più e, senza pensare, corsi fuori per soccorrerlo.
Ma lo trovai già morto, con una freccia conficcata nell’addome e due nella schiena. Non seppi più cosa fare. Singhiozzavo in preda ad un attaco isterico e, curva sul suo corpo inerte, gli sorreggevo la testa, bagnandola delle mie lacrime.
All’improvviso mi sentii cingere il collo da un braccio nudo e forte e fui trascinata brutalmente verso uno dei carri.
Mentre venivo trascinata, notai che nessuna donna era stata uccisa, ma soltanto gli uomini.
La cosa mi disorientò un poco, ma avevo tanta paura di morire che il pensiero delle altre passò in seconda linea. Strillavo, tiravo calci, mi dibattevo, ma non serviva a nulla, venivo trascinata a forza verso il carro più vicino.
Poi l’indiano mi strappò le vesti, mettendo a nudo il mio seno sotto il sole del mattino. Provai umiliazione e vergogna, ma non potevo ribellarmi.
Tentai, &egrave vero, di ostacolarlo, ma quello era forte come un toro e tutti i miei sforzi furono vani. Mi dominò completamente. Mi buttò sul carro, mi scaraventò sul pagliericcio, costringendomi a distendere. Sapevo che stava per violentarmi e per la paura me la facevo sotto; lo capii da come mi trattava, da come i suoi occhi guardavano le mie mammelle.
Il seno era sempre stata la mia maggiore attrattiva e il mio vanto, ma in quel momento avrei voluto essere brutta e deforme perch&egrave l’indiano non mi violentasse.
Dopo avermi gettata sul giaciglio, finì di strapparmi la veste, poi, mentre mi agitavo e scalciavo terrorizzata, mi stracciò e strappò anche la sottogonna di cotonina che portavo sotto, infine, come un lupo affamato, mi afferrò i mutandoni e tentò di abbassarmeli. Mi afferrai all’elastico con tutte e due le mani e con tutte le mie forze opposi una fiera resistenza urlando e tentando di impedirgli di denudarmi completamente. Ma l’indumento si squarciò sotto la doppia trazione e con un grido di trionfo quel pazzo scatenato me lo strappò via. E quando fui nuda come Dio mi aveva fatta, lui torreggiò a cavalcioni su di me, contemplando il mio rossore e la mia vergogna prima di assaltarmi la fica. Io affondai le unghie nella carne muscolosa del suo dorso, lo graffiai e tentai di colpirlo con dei calci nella schiena, sperando di scoraggiarlo, ma la mia violenta opposizione parve accrescergli la voglia di stuprarmi.
Violentare le donne doveva essere un vero piacere pe lui, mentre a me non erano mai piaciuti i trattamenti rudi degli uomini, prediligevo la dolcezza; così ogni sforzo disperato che facevo per allontanarlo, per respingerlo, otteneva il risultato opposto, e l’indiano si eccitava ancor di più.
L’apache era nudo, eccetto il piccolo perizoma di cuoio che gli stava largo in vita, e copriva appena i suoi genitali. Ora il membro gli si era ingrossato a dismisura e spingeva la piccola copertura in avanti, e a un certo punto saltò fuori con prepotenza.
Spalancai gli occhi, allibita: aveva un cazzo enorme, e ne fui spaventata subito. Perch&egrave, vedete, avevo sempre pensato che il mio povero marito ne avesse uno assai grosso, che mi aveva soddisfatta sessualmente nei cinque anni di matrimonio passati con lui. Ma quello dell’indiano era la cosa più grossa su cui avessi mai posato gli occhi in vita mia, e francamente anche più grosso di qualsiasi organo maschile sognato in qualche mia fantasticheria sessuale.
Sapevo che stava per infilarmelo dentro, perch&egrave mi stava spingendo contro il materasso e si stava mettendo in posizione in mezzo alle mie gambe, ed ero terrorizzata al pensiero di prendermi dentro quell’affare da cavalli. Gridavo, graffiavo, e scalciavo come una mula tentando in tutti i modi di oppormi a quella violenza, ma cominciavo a provare una crescente debolezza, a causa di quanto era accaduto negli ultimi quindici minuti, e così a un certo punto mi mancarono anche le forze per resistergli.
Fra non molto, pensavo, mi avrebbe infilato dentro quella sua erezione enorme, e mi avrebbe sicuramente sfondata, ma forse se io smettevo di lottare e cercavo di rilassarmi, forse non avrei sentito troppo male, e potevo sperare che non mi uccidesse, dopo.
Decisi di starmene buona buona e di lasciarmi fare. Lui parve quasi seccato della mia arrendevolezza, quando mi rilassai, evidentemente le preferiva quando si ribellavano, e mi mollò due schiaffoni con rabbia. Mi sentii bruciare la faccia, le gote mi avvamparono e mi sembrò che mi avesse slogato la mascella, ma ero tanto istupidita dallo choc e dalla paura che non mi curai degli schiaffi. Rimasi inerte e aspettai di essere presa, mentre lo sentivo trafficare tra le mie gambe. Attorno a noi, nell’accampamento sentivo risuonare urla selvagge e urla di raccapriccio delle altre donne, ma in quel momento la mia mente non aveva tempo per occuparsi di loro, ero terrorizzata di ciò che stava per accadere a me.
Poi sentii il suo glande rigonfio appoggiarsi alle labbra della fessura, farsi largo, tentare l’apertura, invadere lentamente la mia vagina asciutta e infine spingersi, con una stoccata violenta, all’interno. Il dolore fu atroce, disumano, mi sentii spaccare e gridai con tutto il fiato che avevo.
Quando udì le mie grida, che parvero riaccendergli l’eccitazione, cominciò a chiavarmi a più non posso, con forza eccezionale, spingendo come un forsennato e tentando di introdurmelo sempre più a fondo. Il suo membro andava avanti e indietro senza respiro, tendendomi le pareti della vagina in maniera straziante, le sue botte mi arrivavano fin dentro lo stomaco e mi sentivo l’utero in fiamme: il dolore e il disagio divennero asfissianti. Gridavo sconvolta e spingevo contro il suo torace con tutte le mie forze cercando di scrollarmelo di dosso, tentando in tutte le maniere di impedire quello stupro selvaggio che stava facendo scempio della mia fica, che mi stava ammazzando di dolore, e intanto lui ghignava divertito e mi dava delle stoccate incredibili contro la bocca dell’utero.
D’un tratto mi sentii troppo debole per resistere oltre, e mentre lui cominciava a venirsene, mentre avvertivo gli spruzzi bollenti invadermi, mi mancarono le forze, mi abbandonai e svenni.
Quando ripresi conoscenza avevo le mani legate dietro la schiena con funi di cuoio, tanto strette che mi segavano la carne. Avevo la faccia gonfia per gli schiaffi ricevuti e dal basso ventre mi arrivavano ancora fitte lancinanti, sentivo la vagina pulsarmi dolorosamente e avvertivo dolori in tutto il corpo. Mi guardai attorno e vidi che ero chiusa in una specie di recinto con le altre donne della carovana, e osservando meglio mi resi conto che tutti gli uomini erano stati eliminati.
Vidi degli scalpi qua e là, e intuii che dovevano essere quelli dei nostri compagni. Mi misi a piangere, pensando che probabilmente uno di quei trofei grotteschi di capelli e di carne, ancora impregnati di sangue fresco, poteva essere di mio marito.
Anche le altre donne singhiozzavano, e si confortavano a vicenda. Una di noi, Peggy, era incinta di otto mesi, e il suo pancione sobbalzava vistosamente. Ero sicura che lo avrebbe partorito prima, per lo stress, ma la donna dimostrava di avere forza e spirito per resistere.
D’un tratto uno di quei giovani guerrieri si fece sotto e senza ragione alcuna cominciò a riempirci di botte. Compresi allora che gli indiani apache erano dei sadici, in ogni senso della parola, e che per noi si prospettavano momenti terribili.
Il giovane guerriero continuò a picchiarci, facendoci lanciare grida e urla di dolore e singhiozzare miseramente. In quel momento avrei desiderato che mio marito, o qualsiasi altro del nostro gruppo, fosse stato vivo per aiutarci, ma eravamo sole. Sole e in mano a dei selvaggi assetati di sesso e violenza. Cominciai a rendermi conto della terribile situazione in cui ci trovavamo. Capitate nel mezzo del territorio indiano, sole, indifese, senza prospettive di essere salvate da altri uomini o donne bianchi in un futuro vicino.
Poi fummo attorniate da indiani dagli occhi eccitati. Alzai lo sguardo e vidi che le loro enormi erezioni spingevano i perizomi lontano dai corpi. Ci facevano “vedere” così la loro smania di saltarci addosso. Probabilmente non avevano mai avuto tra le mani tante donne bianche con cui sollazzarsi.
Io non avevo scambiato ancora una parola con le alre donne, per paura di essere picchiata ancora se parlavo. Così non sapevo se anche loro erano state violentate come me, n&egrave se il dolore e la paura le avesse fatte svenire.
Guardando però più attentamente le mie compagne, vidi che alcune si premevano le vulve con le mani e che sanguinavano anche. Dunque non ero stata la sola a subire la violenza indiana, e sapevo che prima della fine di quell’avventura, saremmo state violentate molte altre volte.
Il guerriero che ci aveva picchiate e schiaffeggiate cominciò a legarci con una robusta fune. E lo fece in modo da renderci penoso qualsiasi spostamento dalla posizione che lui ci aveva assegnato. Una la legò al collo, poi con la stessa corda legò le mani di un’altra dietro la schiena, e ancora il collo della terza, una caviglia alla quarta e così di seguito, finch&egrave fummo tutte legate insieme.
Poi montò su un grosso cavallo pezzato e partì dal teatro del massacro, trascinandoci dietro come un ammasso di carne che viene portata al macello. Un altro giovane guerriero cavalcava dietro di noi. Ne contai in tutto dodici, ma forse erano di più, erano rimontati a cavallo e ci seguivano o ci attorniavano schernendoci e mostrandoci le loro vistose erezioni e guardando con ostinata cupidigia i nostri corpi polverosi e torturati.
Tutti ridevano e lanciavano ingiurie. Io non capivo perch&egrave ci trattavano così male, ma mi rendevo conto che noi rappresentavamo una festa per loro, abituati a stare lungo tempo soli nella prateria e senza una donna su cui sfogarsi. La gente bianca era ancora assai rara in quella zona del selvaggio West, e noi eravamo una novità, qualcosa cui non erano abituati. Per questo, forse, erano impazziti di desiderio quando ci avevano viste.
Camminammo sotto il sole ardente per un tempo che ci parve un’eternità, ma forse furono soltanto tre o quattro ore. Arrivammo in una piccola radura ricoperta di verde, dove c’erano alcune tende, l’accampamento di quei selvaggi. Non c’era anima viva in quel piccolo villaggio, n&egrave donne, ne altri uomini e pensai che quei sei guerrieri dovevano essere forse in giro da soli per una battuta di caccia o per fare razzie.
Saltarono giù da cavallo e legarono l’estremità della corda che ci univa tutte, attorno al tronco di un grosso albero.
Quello che sembrava il capo, che poi era quello che mi aveva violentata quella stessa mattina, scese da cavallo e si avvicinò a noi. Posò lo sguardo su una e le disse in uno stentatissimo inglese:
– Ora Cane Giallo chiavare te – e intanto si fregava il rigonfiamento sotto il perizoma, che aumentò di proporzioni.
– Oh, no pietà, no! – esclamò la ragazzina. Era la figlia della mia amica Mary, legata accanto a me, e non aveva ancora vent’anni.
– Lasciatela stare, porci selvaggi, &egrave ancora una bambina! – strillò Mary accanto a me. – Se volete una donna pigliatevela con me! – e il suo fu uno sbaglio.
Le arrivò un grosso pugno che la prese in pieno petto, e allora le grida di Mary furono di dolore, di spasimo acuto. Purtroppo non avevo avuto modo di avvertirla, di dirle che era meglio non fiatare, perch&egrave avevo capito che ogni resistenza, ogni lotta, non faceva che stimolarli di più, spingendoli a eccessi furiosi e pericolosi.
– Tu tenere il becco chiuso – disse un altro indiano, con pronuncia indecifrabile, ma abbastanza comprensibile.
Mary tremò e comprese che era inutile opporsi, e che la giovane, e sicuramente vergine, figlia avrebbe dovuto badare a se stessa, e cavarsela come meglio poteva con quei selvaggi sadici.
L’indiano che aveva detto di chiamarsi Cane Giallo non perse tempo nel cacciare la preda che aveva scelto. Afferrò la giovane, isterica e urlante e cominciò a morderle le tette. Bench&egrave avesse solo diciassette anni, aveva il seno molto sviluppato per la sua età, forse perch&egrave somigliava alla madre che vantava due seni enormi.
L’apache addentò senza pietà i capezzoli della giovane, che sottoposti agli attacchi della sua bocca divennero sempre più rossi. Nancy, questo era il nome della ragazza, strillava con quanto fiato aveva nei polmoni, ma più strillava e più si dibatteva, più insistente era la tortura. L’indiano cominciò a picchiarla, e siccome lei si divincolava, i legacci di cuoio che le serravano i polsi dietro la schiena le bruciavano la carne delicata. Le vidi formarsi grosse contusioni sui polsi, e avrei voluto correre in suo aiuto. Ma anche se avessi potuto, ero certa che una tale azione sarebbe stata la mia rovina.
Così, io e tutte le altre fummo costrette a starcene immobili, anche se dovemmo assistere all’assalto e alla violenza carnale sulla povera Nancy.
Tutti gli altri indiani si erano messi in circolo e osservavano compiaciuti il loro capo, bello e virile, che si preparava a stuprare la giovane.
La spinse contro un albero, le mani ancora legate, e cominciò a darle pugni allo stomaco. Lei ansimava, le mancava il fiato, cercava di piegarsi in due per alleviare lo spasimo e gridava, gridava folle di paura, mentre il membro dell’indiano tendeva sempre di più il minuscolo perizoma che gli sventolava davanti.
Più Nancy sobbalzava per i pugni ricevuti, più lui si eccitava e più colpiva.
D’un tratto, inaspettatamente, balzò avanti e bloccò la ragazza ferma contro l’albero, la immobilizzò con una mano stretta alla gola, mentre con l’altra le allargava brutalmente le cosce, si portò col corpo contro di lei e tentò di penetrarla, così, in piedi. Nancy cominciò a gridare folle di terrore e ad oscillare il corpo per impedirgli di penetrarla, ma più gridava e si dibatteva e più l’apache sembrava prenderci gusto, finch&egrave riuscì ad appuntarle il glande contro la fessura sotto il folto cespuglio di peli del pube. Vidi l’indiano spingere con foga incredibile, pazzo di foia; vidi colare il sangue dalla sua vulva quando le ruppe l’imene, vidi la ragazza gridare agonizzante e continuare a gridare mentre la penetrava. Vidi tutto questo e chiusi gli occhi, schifata, mentre le lacrime mi scendevano silenziose dagli occhi. Tenevo gli occhi chiusi, ma avevo le mani legate e non potevo tapparmi le orecchie, e continuavo a sentire le urla strazianti di Nancy che subiva l’affronto dello stupro davanti a tutti.
Riaprii gli occhi e la scena mi si ripresentò davanti in tutta la sua schifosa lussuria. L’indiano era al settimo cielo, lo si vedeva dall’espressione di acuto piacere, dall’eccitazione nei suoi occhi neri. La colpiva con forza, con tremendi colpi del bacino, incurante del sangue, godendo del dolore che le infliggeva. Le sue spinte divennero scatenate, brutali, rapidissime, e mentre glielo sbatteva dentro senza pietà, riprese a picchiarla. Sulla faccia, sulle tette, sullo stomaco, sulle cosce imbrattate di sangue. E mai che perdesse il ritmo delle stoccate in quel canale sanguinante.
La ragazza, a giudicare dalla sua faccia e dai suoi lamenti, doveva soffrire terribilmente. E io fui tentata più volte di urlarle di non gridare, perch&egrave più gridava e più quello la torturava.
E poi l’espressione di Nancy passò dalla sofferenza al puro piacere. Mary e io ci scambiammo un’occhiata, stupite.
La piccola vergine stava veramente godendo dell’attacco selvaggio alla sua finora inviolata femminilità.
– Mary, guarda la sua faccia – bisbigliai alla mia amica. – Non sorride? –
– Già, pare proprio di si – rispose Mary un po’ scioccata. – Non posso credere che la mia bambina provi piacere. Quello che le sta facendo &egrave degradante, &egrave ignobile. – piagnucolò Mary.
– Su, su, Mary – dissi tentando di confortarla. – Meglio che goda, piuttosto che soffrire come prima, non credi? –
Mary era disorientata; poi fece un leggero cenno del capo.
– Si, hai ragione. – disse infine, smettendo di singhiozzare. Intanto guardava la figlia che mostrava segni evidenti di piacere sotto le feroci stoccate dell’indiano.
– Mary, devo dirti qualcosa. – le sussurrai.
– Si? –
– Quell’indiano là, che ora si diverte con tua figlia, ha fatto la stessa cosa a me stamane, durante l’assalto ai carri, e proprio sul mio carro. –
– Stai scherzando? – esclamò Mary, che non credeva alle proprie orecchie.
– No, non scherzo, purtroppo. – risposi.
– E… come &egrave stato? – si informò curiosa.
– E’ stato orribile, una sofferenza atroce dal primo minuto fino all’ultimo e non capisco come possa piacerle ora a tua figlia. Quel selvaggio ha un membro di un cavallo, mi &egrave sembrato di essere squartata. Ma ho imparato una cosa: più gridi e strilli, quando ti prendono, e più se la godono. –
– Si – convenne Mary. – Ho notato che sono dei veri sadici, e godono nel torturarci e farci soffrire. Ma si può non gridare, se ci fanno male? –
– Se il dolore &egrave veramente forte non possiamo farne a meno – risposi. – Ma quando &egrave sopportabile meglio non gridare inutilmente. Non c’&egrave senso ad eccitarli, perch&egrave quelli ci tormentino di più. – conclusi mentre lei mi seguiva attentamente.
– Già, hai ragione – convenne alla fine. – Cercherò di ricordarmelo, ma francamente spero che non ci facciano altro male, che ne pensi? –
– Beh, io ho il presentimento che ci sottoporranno a ogni genere di torture e sto cercando di prepararmi all’idea, con la speranza che poi ne usciremo tutte vive e che questo orrore finirà presto. –
Tornammo a guardare Nancy che ora sembrava partecipare sempre più all’atto sessuale. Aveva cominciato a spingere i fianchi in alto, invitando così l’enorme cazzo dell’indiano a penetrarla più a fondo.
Tutte le altre donne guardavano attentamente, e forse si stavano chiedendo se le torture che avrebbero in seguito subito sarebbero sfociate poi in piacere come nel caso di Nancy.
Dopo che il capo di quei selvaggi ebbe finito con la ragazza, la gettò crudelmente a terra, Nancy aveva ancora le mani legate dietro la schiena e cadde malamente su una spalla, battendo anche il viso sul duro terreno. L’indiano la schiaffeggiò più volte con violenza e dopo si mise a ridere sarcasticamente.
Mary e io quasi piangevamo, la ragazza aveva uno strano sorriso contorto che le deformava la faccia insanguinata. Non c’era dubbio che aveva goduto prima a farsi chiavare, ma adesso il seguito sembrava non piacerle. Era quasi mezzoggiorno e il sole ci scottava la pelle. Eravamo tutte completamente nude, a parte le scarpe che due di noi portavano; io ero senza, e devo ammettere che era una situazione molto umiliante. Quasi tutte cercavamo di nascondere in un modo o nell’altro i cespugli più o meno pelosi del pube, o tenendo le gambe chiuse e rannicchiate o assumendo posizioni il meno sconce possibili. Ogni volta che ci guardavamo la vergogna della nostra situazione ci faceva arrossire.
Dopo fummo tutte legate a un cespuglio di cactus, e senza tanti complimenti. I cactus ci pungevano la schiena, ci graffiavano a ogni minimo movimento e ci facevano sanguinare la carne.
Per il dolore fisico e per il calore del sole la nostra situazione divenne ancor più difficile. Anzi per meglio dire: un inferno.
Nancy stava ancora stesa a terra sotto l’albero dove era caduta, teneva le gambe rannicchiate contro il ventre e adesso gemeva piano, forse cominciava a sentire gli effetti della sua violenta deflorazione. Evidentemente il capo non aveva finito con lei. Le si avvicinò, l’abbrancò con malagrazia e la tirò in piedi. Ricominciò a picchiarla in faccia, la rigettò a terra, e prese ad assaggiare la carne del suo corpo con baci lascivi e morsi feroci. Quando fu a contatto della bocca di lei, le ficcò la lingua fra i denti e poi le addentò un labbro facendolo sanguinare. Nancy si era resa conto che la sua situazione andava aggravandosi da un momento all’altro e adesso non sorrideva più. Gridava e tentava di scostarsi da quell’assalto crudele dell’apache.
Mary e io guardammo con timore l’indiano togliersi il perizoma e mettere in mostra il suo pene, il più grosso che abbia mai visto. Naturalmente io avevo già avuto, per così dire, il piacere di ricevere quel grosso randello nel mio corpo.
Mary singhiozzava senza ritegno, e un altro guerriero si avvicinò a noi.
– Tu tenere becco chiuso – disse a Mary e le mollò un pugno sul seno con tale forza che il suono si propagò nell’aria, mentre la poveretta andava a schiacciarsi contro il cactus che le trafisse le spalle con le sue spine aguzze.
Mary si mise a strillare, ma più strillava più il guerriero le picchiava le mammelle e la faccia con pugni vigorosi. Impiegò molto a capire che più strepitava, più riceveva botte e maltrattamenti. Ma alla fine, dopo cinque minuti di pestaggio che l’avevano portata quasi allo svenimento, Mary smise di gridare e si morse le labbra in silenzio.
Piagnucolava sommessa quando il guerriero si allontanò da lei. Il giovane indiano si era eccitato sessualmente nel picchiarla, e il perizoma gli sporgeva davanti in maniera vistosa.
– Mary, – le dissi piano, quando fummo sole. – Devi mantenere la calma, qualunque cosa ti facciano o facciano alle altre, altrimenti diventano più spietati e furiosi. –
– Si, l’ho scoperto a mie spese – rispose Mary singhiozzando, mentre le lacrime le rigavano la faccia. – Che razza di bastardi! – concluse, ansimando.
– Lo so, cara – convenni, – ma non siamo in condizione di poter discutere con loro. Dobbiamo accettare tutto quello che ci faranno, con la speranza di uscirne vive e non troppo malconce. –
– Oh, se ci fosse qui Jack – disse Mary, riferendosi al marito, trucidato insieme agli altri.
– Anch’io vorrei avere il mio Bob vicino, Mary, ma i nostri uomini sono morti e non possiamo farli rivivere. – dissi cercando di confortarla.
– Come fai tu a essere tanto calma? – mi domandò.
– Non lo sono cara, tento solo di apparire calma, ma me la sto facendo sotto. Non voglio che questi fetenti abbiano motivo di godere delle nostre disgrazie. –
– Vorrei essere come te – mi disse, dominando i singhiozzi.
– Lo sei, cara, lo sei. Sfrutta tutta la forza che &egrave in te. –
– Ci proverò – disse, cercando di riprendere il controllo.
Durante il nostro parlottare, intanto, la figlia di Mary, distesa a terra, stava ricevendo ancora botte dal capo guerriero che la colpiva selvaggiamente con pugni, schiaffi e calci.
Guardavamo la povera Nancy sopra la quale torreggiava la figura dell’indiano, completamente nudo e col cazzo proteso verso di lei. Poi le si inginocchiò sopra e l’afferrò per i lunghi capelli biondi. Tirò la testa di lei verso il proprio inguine e spinse il cazzo contro le sue labbra.
La ragazza, inorridita voltò di scatto la testa facendo l’errore di rifiutarsi. Ci rendemmo conto che sarebbe stata punita per quel gesto di ribellione, che pareva una deliberata provocazione; non avrebbe dovuto farlo. Sono certa che se avesse saputo quali orrori l’indiano eccitato aveva in mente, Nancy sarebbe stata molto disposta a lasciarsi scopare in bocca.
Il guerriero la picchiò ancora sulla faccia, una faccia non più graziosa a causa delle ecchimosi e delle molte contusioni, e tentò di ficcarle di nuovo il cazzo in bocca.
Questa volta la ragazza urlò e tentò di morsicarlo.
– E’ pazza! – dissi a Mary. – Dovrebbe smettere di tormentare quel guerriero, altrimenti la ucciderà. –
Mi accorsi troppo tardi che non avrei dovuto parlare a quel modo, perch&egrave Mary riprese a piangere.
– Scusami, cara, ma &egrave la verità. Non credo che tua figlia si renda conto della gravità della situazione. –
– Lo so – singhiozzò Mary. – Vorrei poterle dire di non comportarsi così. –
Avevo sperimentato personalmente la brutalità di quel selvaggio e sapevo che era malvagio, e che poteva farci qualsiasi cosa, anche la più crudele, senza battere ciglio.
Intanto Nancy stava sperimentando a sue spese quanto ragione avessi. L’apache adesso era veramente imbestialito, le mollò un tremendo manorovescio spaccandole le labbra che cominciarono a sanguinare, poi urlando come un pazzo la rivoltò bocconi facendole sbattere la faccia sul terreno. L’afferrò con malagrazia alle anche e le sollevò il culo in alto.
Sentii un gemito straziante provenire da Mary che accanto a me guardava allucinata sua figlia e intuiva le esecrande intenzioni di quel pazzo scatenato.
L’uomo si appostò dietro alla povera Nancy che era ancora intontita dal ceffone e le appuntò la sua enorme erezione tra le natiche, sorridendo lascivamente. La ragazza dovette intuire in quel momento il pericolo che correva, perch&egrave lanciò un urlo rauco e si buttò in avanti appiattendosi al suolo e tentando di strisciare per sfuggirgli. Altri due guerrieri si avvicinarono e la tennero ben ferma, rimettendola in posizione con il culo in alto e la faccia schiacciata sul terreno. Nancy urlò ancora, stavolta terrorizzata, divincolandosi e cercando di sfuggire a quest’altra brutale violenza.
Il capo alle sue spalle ridacchiò vedendola tesa, urlante e tremante di paura. Le aprì le natiche, mentre lei gettava un grido di orrore e si contorceva sconvolta, mettendole allo scoperto il solco ricoperto di polvere e di sudore. Era pronto per possederla, d’accordo, ma quando mi resi conto che glielo avrebbe infilato nel culo, ebbi un colpo.
Non dico di essere mai stata pudica, ma con mio marito non avevo mai avuto rapporti per quella via. Facevamo l’amore in varie posizioni, ma non aveva mai avanzato richieste verso il mio fondoschiena.
Non credo che quel genere di rapporti fosse usato a quel tempo tra le coppie normali, o se qualcuno lo faceva, ciò avveniva in segreto, e le altre coppie non venivano a saperlo.
Fra le grida terrorizzate di Nancy, l’indiano intanto aveva appoggiato il suo cazzo completamente scappellato sullo sfintere della disgraziata e aveva cominciato a spingere con ferocia. L’ano della ragazza resistette solo un paio di minuti alle spinte furibonde, poi fu costretto a cedere e vidi il pene penetrare all’interno. Il grido straziante di Nancy fu qualcosa di disumano.
Mary, accanto a me, scoppiò a singhiozzare vedendo la sofferenza di sua figlia.
– Bestia, animale – mormorò tra le lacrime. – Perch&egrave? Perch&egrave? Che motivo aveva di farle questo? Non l’aveva già avuta? –
Non seppi cosa rispondere, la ferocia e la brutalità dell’atto stavano sconvolgendo anche me e sentivo la strizza serrarmi lo sfintere, come se fossi io al posto della figlia della mia amica. Nancy urlò ancora mentre l’apache glielo infilava sadicamente dentro fino in fondo, dando alla fine una spinta conclusiva per assestare il suo cazzo ben dentro il retto.
– Muoio!… Sto morendo!… Aaaahhhhhhhhhhh!… – Strillò la ragazzina travolta dal dolore e dall’umiliazione, mentre il bruto, incoraggiato e applaudito dai suoi guerrieri cominciava a scoparla nell’intestino con violenza sadica.
Nancy non aveva più la forza di agitarsi, ogni tanto dava qualche isolato scrollone, in seguito a qualche affondo particolarmente violento, per cercare di disarcionare il suo assalitore. Ebbe dei conati di vomito che dovettero riempirla di ulteriore sofferenza e intanto piangeva come una bambina.
L’indiano ignorava le sue grida isteriche, le sue implorazioni di pietà e la scopava nello sfintere con forza metodica. Ogni colpo in avanti provocava brividi e nuove sofferenze nel corpo violentato della povera ragazza. Mani crudeli afferrarono una ciocca dei suoi capelli e la costrinsero ad alzare la faccia. Il viso stravolto di Nancy si trovò così a pochi centimetri da un altro cazzo che oscillava davanti la sua faccia: uno dei due guerrieri che la tenevano ferma si era inginocchiato di fronte a lei con una smorfia oscena stampata sul viso e glielo voleva infilare in bocca.
Nancy doveva avere già dei problemi a respirare e, disperata, ben sapendo che quel randello di carne avrebbe potuto strozzarla, serrò le labbra ostinata. Il giovane guerriero rise oscenamente, poi le bloccò il capo stringendole i capelli nel pugno e con l’altra mano le turò il naso. Dopo un minuto interminabile Nancy, con un singulto, fu costretta ad aprire la bocca inspirando aria e subito il cazzo dell’indiano le si infilò dentro.
Fu costretta ad allargare la bocca per non soffocare e dovette subire, nauseata, che il muso rosso la usasse nella bocca come in una fica. La scopava fino in gola con colpi profondi, facendola tossire, e cercando di andare a tempo col suo capo che la stantuffava instancabile nel culo.
Le guance della povera ragazza erano ormai paonazze e sarebbe in breve svenuta se non avesse potuto respirare al più presto.
Dopo un tempo che a me e a Mary sembrò sfiorare l’eternità, quando già la poveretta stava scivolando nell’incoscienza, il giovane apache venne, riversando nella sua gola il suo liquido seminale a fiotti densi e bollenti. Nancy tossì, sputò, cercò di trangugiarlo per non soffocare e contemporaneamente dovette sentire un’altra bollente ondata di sperma percorrerle l’intestino. Il capo infatti stava avendo il suo orgasmo, mugolando e picchiando coi pugni sulle reni della povera Nancy. Alla fine si tirò fuori da lei con un colpo secco, la ragazza annaspò per il dolore: sicuramente l’uscita del pene era stata altrettanto dolorosa dell’entrata, e sicuramente l’inculata le aveva messo sottosopra le viscere: la vedemmo infatti tremare come una foglia e, con un gemito, svenne. Non ci rimase molto svenuta, infatti il capo la picchiò sulla faccia e sulle tette finch&egrave non riprese conoscenza, tanto per non smentirsi. Le stava a cavalcioni sul petto e continuava a picchiarla finch&egrave a un certo punto la ragazza, forse esasperata, fece una cosa che probabilmente decretò la sua fine. Si sporse in avanti e gli morse il pene. Lui cacciò un urlo che lo avranno sentito fino in California. Fece un balzo indietro, corse via da lei, momentaneamente, premendosi il fallo e gridando di dolore.
Dopo circa cinque minuti, quando lo spasimo si calmò, tornò da lei e cominciò a tirarle calci col piede nudo. Le pestò il corpo, le mollò pedate nelle costole. E Nancy se la vide proprio brutta. Urlava, si lamentava, ma purtroppo noi non potevamo soccorrerla. Potevamo soltanto sperare che lui non l’ammazzasse.
Ma le nostre speranze andarono deluse. In un impeto di ira cieca, come mai ne avevo vista in un uomo, lui l’afferrò e la tirò violentemente in piedi. La trascinò nel mezzo di una piccola radura, la legò strettamente a un cactus che le lacerò la pelle delicata della schiena a ogni piccolo movimento che osava fare.
Poi si allontanò ed ebbe una consultazione con altri due indiani ai quali impartì ordini, poi tornò dalla ragazza.
Si piazzò davanti a lei, a braccia conserte, e sbottò in una fragorosa risata, mentre gli altri si sparpagliavano nel deserto. Pochi minuti dopo ricomparvero, portando un grosso sacco di pelle sulle spalle. Sciolsero Nancy dal cactus e la legarono sul terreno, ficcando due paletti di legno nella sabbia, ai quali fissarono le corde che le immobilizzavano le braccia. Le tirarono le gambe piegate in su, in modo che le ginocchia puntassero in alto e fuori e gliele legarono ad altri due paletti infissi nel suolo. Era una posizione scomoda, indifesa e oltremodo oscena.
Poi presero il grosso sacco, che conteneva una colonia di formiche rosse, e ne vuotarono il contenuto sotto e davanti al suo corpo, in modo che le formiche fossero attratte dalla sua fica.
Gli indiani si tirarono indietro e guardarono, come tutte noi, le formiche che cominciavano ad attaccare il corpo di Nancy. Una vista disgustosa, e gli strilli della ragazza facevano pena.
Mary cominciò a gridare in difesa della figlia, ma le diedi una gomitata per ricordarle che, se non stava calma, avremmo fatto tutte la stessa fine. E così assistemmo con orrore raccapricciante all’agonia di Nancy, attaccata da migliaia di formiche che brulicavano sulla sua carne e se ne pascevano con avidità.
Nancy urlò e si agitò per più di tre ore, urlò fino a che ebbe fiato e vita nei polmoni, poi giacque immobile. Era morta. Non ci fu bisogno che ce lo dicessero. Sapevamo che non era semplicemente svenuta, ma che aveva cessato di vivere.
I guerrieri, dopo aver assistito impassibili alla sua agonia, si allontanarono dal suo corpo, lasciandolo a imputridire al sole. Rimase in quella posizione per tutto il tempo che rimanemmo là e fummo costrette a vedere il progressivo disfacimento del suo giovane corpo.
Quando le formiche ebbero finito di pascersi della sua carne, calarono gli avvoltoi a completare il lavoro, lasciando alla fine un mucchietto di ossa. Un’esperienza terribile, una visione che non dimenticherò mai finch&egrave vivrò.
Mary, a quel punto cadde in stato di choc. Non gridò, non si agitò, anzi il contrario. Rimase accanto a me, legata da ore al torturante cactus, immobile, lo sguardo fisso nel vuoto, e una espressione strana sulla faccia.
Era comprensibile. Quanto avevamo visto ci aveva colpite tutte, e l’orrore ci sconvolgeva. Potevamo quindi immaginare che cosa provava lei, come madre, nel vedere morire la figlia, sotto i suoi occhi, in un modo così disumano. Non potevo più confortare Mary perch&egrave era assente, chiusa in un suo mondo. Fluttuava in un’altra dimensione, lontana dalla terra che le infliggeva una prova troppo dura.
Mi chiesi allora quali altri orrori tenevano in serbo quei guerrieri. Non sapevo immaginare cose peggiori di quelle viste.
Certamente, se gli indiani non avessero goduto tanto nel farle, forse ce la saremmo cavata meglio. Invece le cose diaboliche che ci imponevano, e il godimento che traevano nel torturarci, e le risate, gli sfoghi sessuali animaleschi, rendevano la situazione estremamente umiliante.

Il sole era ancora cocente, e gli apache si rifiutarono di darci dell’acqua. Però vennero davanti a noi e se la gettarono abbondantemente sui corpi nudi, mostrandoci il piacere che l’acqua fresca procurava loro, mentre noi avevamo la gola riarsa.
Non avevo mai provato la sete, credetemi &egrave un’esperienza che non vorrei ripetere per nulla al mondo. Le labbra mi diventarono come gomma, la lingua arida mi si attaccava al palato. Per un po’ cercai di richiamare la saliva in bocca, ma poi tutto fu inutile, ero troppo disidratata. La bocca asciutta anelava un sorso di liquido.
Una delle donne fece l’errore di gridare. Eppure l’esperienza ci aveva insegnato ormai che ogni protesta ci procurava guai peggiori, torture peggiori, e che quindi era meglio stare in zilenzio. Ma quella donna non ce la faceva più a resistere alla sete. Non perch&egrave fosse più debole di noi, ma era incinta di otto mesi. E francamente aveva resistito anche troppo nelle sue condizioni.
Si chiamava Peggy, era giovane e bella. Aveva lunghi e meravigliosi capelli castano rossiccio e la pelle bianca come il latte. Era già incinta quando si era messa in viaggio, e molte amiche l’avevano sconsigliata di venire. Ma Peggy era una donna dalla volontà forte, e aveva detto al marito, alle amiche e a noi, che preferiva far nascere il bambino in una nuova terra piuttosto che all’est, in quegli stati della costa atlantica già presi nel vortice delle grandi agitazioni politiche.
Il suo medico era stato contrario e si era opposto vivacemente alla sua partenza, ma la donna non aveva cambiato idea. Ora però ero certa che stava rimpiangendo di non aver dato ascolto ai consigli di chi, più saggio di lei, l’aveva sollecitata a rimanersene a casa.
Le nostre sventure erano già abbastanza dolorose, anche senza il problema di un nascituro, fra le tante cose degradanti che ci venivano imposte. Gli apache non avevano certo servizi igienici, n&egrave si curavano delle nostre necessità fisiologiche, e alcune di noi, costrette dal bisogno e altre dalla paura, si erano gà urinate e defecate addosso. Peggy era una di queste e si indeboliva lentamente. Io la osservavo spesso, perch&egrave il suo pancione era molto evidente e le si sollevava ritmicamente.
Ero sicura che soffrisse, e non solo nel fisico. Il pensiero stesso di compromettere la vita del nascituro, una vita innocente, e per di più il primo figlio, era talmente orribile che doveva gravarle nella mente più di ogni altra cosa.
Un indiano fra i più cattivi del gruppo, dopo essersi tolto come molti altri il perizoma, conscio della sua posizione di potenza di fronte a noi, andò davanti a Peggy e cominciò a schernirla.
Le fece vedere un grande mestolo di acqua fresca, poi ne bevve qualche sorso e versò il resto nella sabbia, facendo schizzare apposta delle gocce sui piedi legati di lei. Fu allora che la donna non ne pot&egrave più e si mise a strillare.
– Pietà, pietà, dammi un po’ d’acqua – urlò con quanta voce aveva. – Se non per me, almeno per il bambino! Non fare morire il mio bambino! Ti prego!! – e continuò a urlare le sue invocazioni.
Il giovane guerriero sbottò in una risata sguaiata, deridendo così la la donna che chiedeva di aver salva la vita, e che implorava pietà per il nascituro. L’indiano godeva della sua sofferenza, come tutti del resto, ma pareva più sadico degli altri.
Nessuna persona normale torturerebbe una donna incinta, e si farebbe beffe di lei, infischiandosene della sua condizione. Quella vista ci deprimeva, ma nessuna di noi poteva muovere un dito in suo favore.
Il guerriero si mise allora a dondolare il grosso fallo davanti alla sua faccia, e Peggy commise l’errore di racogliere un residuo di saliva e di sputarla sull’organo. L’atto lo rese furibondo e certamente scattò in lui un piano di vendetta contro Peggy. Se avesse saputo cosa le toccava, la donna non avrebbe provocato l’indiano, ma evidentemente non si era resa conto del male che poteva farle.
Gli occhi del guerriero mandavano saette. Ero sicura che avrebbe messo in atto cose orribili per farle scontare quel gesto di insolenza. Mi si stringeva il cuore al pensiero della sorte di Peggy, e sono sicura che le altre condividevano il mio sentimento; ma purtroppo, anche se non fossimo state legate, non avremmo potuto intervenire. Ci era già difficile tirare avanti in quelle condizioni, con i cactus spinosi che ci laceravano la schiena, prive di acqua e di cibo.
Scommetto che se ci avessero liberate per andare a soccorrere Peggy, la debolezza ci avrebbe sopraffatte, a parte il predominio degli indiani che avrebbero avuto facilmente ragione di noi.
L’incidente fra Peggy e l’indiano aveva richiamato l’attenzione degli altri guerrieri che avevano formato un cerchio attorno alla donna e osservavano il compagno che si apprestava a fargliela pagare. Ridevano tutti, e si massaggiavano i falli enormi, mentre incitavano il protagonista a offrire un bello spettacolo, uno spettacolo che li eccitasse, che li aiutasse a masturbarsi fino all’orgasmo.
Quando la minaccia di pericolo si addensò sulla testa di Peggy questa prese a gridare sempre più forte, e ciò portò inevitabilmente gli indiani a estremi di crudeltà e di brutalità.
Quello che aveva ricevuto lo sputo aveva ovviamente il diritto di dare una lezione alla donna che aveva osato tanto, e gli altri rispettarono tale priorità, e attesero pazientemente che il giovane cominciasse.
Prima di tutto le slegò le mani, ma gliele tenne ferme durante l’operazione. Peggy tentò di lottare, e ricevette un colpo sulla bocca che le spaccò le labbra aride e le provocò un rivolo di sangue. A quel punto i suoi lamenti divennero incontrollati e provai tanta pena nel vederla soffrire così. E non era che il principio delle cose orrende che le avrebbero inflitto. Prevedevo il peggio per lei.
L’indiano la trascinò nel centro della radura sabbiosa e la gettò a terra di malagrazia, la fece rovesciare come una frittata sulla padella, e le legò le braccia in fuori fissate a due paletti piantati nella sabbia. Il ventre doveva premerle sulla sabbia rovente perch&egrave lei gridò. Gli altri risero e si massaggiarono i cazzi pulsanti. Evidentemente avevano capito quale speciale tortura il compagno stava per mettere in atto, e a giudicare dalle espressioni e dal volume delle erezioni, dovevano essere ansiosi che il giovane stallone desse il via al rituale. Questi non ebbe bisogno di incitamenti e andò avanti. Le slegò le gambe e gliele divaricò al massimo. Poi legò giascuna caviglia ad altri paletti infissi nel suolo.
Così era distesa al sole, prona, nuda, braccia e gambe larghe, in una posizione infelice, oscena, degradante.
Il guerriero era già notevolmente ecitato e poche gocce di liquido preorgasmico gli si stavano formando sulla punta del fallo, si accoccolò alle sue spalle e le afferrò le chiappe fra le mani, guardando ridendo tra le natiche allargate della povera Peggy che gemeva disperata. A quel punto mi resi conto che l’atto infame, che il suo capo aveva perpetrato sulla povera Nancy, aveva fatto proseliti. Forse la soffernza atroce provata dalla giovane figlia di Mary aveva fatto capire loro che quell’atto sessuale poteva diventare una vera forma di tortura, oltre che una fonte di piacere. Tremai e rabbrividii per la povera Peggy: prenderlo nel culo, e per di più in quella posizione e nelle sue condizioni sarebbe stata una prova al di la di qualsiasi sopportazione umana. Nel caso di Peggy poi, l’atto sembrava particolarmente disgustoso, sia perch&egrave era incinta, sia perch&egrave era legata e impossibilitata a difendersi.
Il guerriero si inginocchiò sulla sabbia calda, affondando ginocchia e gambe nel soffice terreno, si mise in posizione e si preparò a penetrarla nel sedere. A quel punto Peggy comprese quello che stava per accadere, e così le sue grida si fecero più acute. Il guerriero apache e i suoi compagni risero, facendosi beffe della povera donna, pregustando il grande divertimento che di lì a poco si sarebbero concessi.
L’apache non poteva indugiare oltre, con l’eccitazione sessuale che aveva, e cominciò a spingere la sua grossa erezione tra le natiche allargate della donna. Ma Peggy dietro doveva essere molto stretta e quel grosso cazzo indiano non riusciva ad entrare. Le vidi contrarre le natiche, e compresi che doveva avere irrigidito i muscoli per rendere impossibile ogni penetrazione. La posizione completamente prona l’aiutava a stringersi e a negare l’accesso, ma, di contro, sarebbe stato terribilmente doloroso nel momento che lui fosse riuscito a penetrarle dentro il culo. L’apache la percosse violentemente sulle reni e su un lato della testa e pensai che l’avesse fatta svenire. Ma non fu così, perch&egrave la donna continuò a gridare e a strattonare sui legami che l’avvincevano.
L’indiano sputò la propria saliva calda sulla mano e poi cominciò a fregarsi furiosamente il cazzo pulsante, rendendolo lucido sotto il sole pomeridiano. Poi sputò altra saliva sul dito e lo ficcò nel buchetto di Peggy, facendola urlare di dolore.
Stava lubrificando il canale del retto per il suo organo, questo era chiaro. E non lo faceva per alleviare il dolore alla donna, ma per avere più facile accesso in quello stretto buco vergine. La picchiò ancora sulla faccia già contusa, senza un’apparente ragione, se non per confermare il suo dominio e il suo controllo della situazione. Credo che Peggy fosse talmente fuori di se dal dolore da non sentire quell’ultima botta, alla quale non reagì.
L’indiano si rimise in posizione, il suo cazzo lucido di saliva palpitava di desiderio, quando il glande fu a contatto dell’orifizio anale, bastò una spinta secca per scivolare dentro. Peggy ebbe una contrazione violenta, si tese come una molla e poi cominciò a scuotersi tutta come fosse stata sui carboni ardenti, urlando con tutto il fiato che aveva in corpo. L’apache si andava abbassando lentamente, le labbra stirate in un ghigno satanico di lussuria, e il cazzo andava scivolando dentro il culo della povera donna che sicuramente si stava sentendo impalare e stirare fino all’inverosimile. Le sue urla atroci ci risuonavano nei timpani, i suoi movimenti convulsi ci riempivano d’orrore, tirava forsennatamente sui legami che le serravano i polsi e batteva i piedi istericamente sulla sabbia, per quel poco concessole dalle funi che la trattenevano. Inoltre la sabbia rovente doveva sicuramente bruciarle la vulva e il pancione e questo si andava a sommare al dolore della violenta sua prima inculata.
Il guerriero mostrava di godere di quel contatto perch&egrave la sua faccia irradiava soddisfazione durante le ritmiche spinte nello stretto budello.
Gli altri indiani cominciarono a saltellare e a urlare, mentre si masturbavano. Un paio di loro si elettrizzarono tanto a quella vista che vennero immediatamente. Essi erano davanti al corpo legato di Peggy e il loro sperma bagnò la nuca, i bei capelli ramati, e le snelle spalle della donna. Quando vide gli altri venire, il guerriero che stava inculando Peggy si scatenò come un animale selvaggio. I colpi divennero frenetici, gli assalti impetuosi, il cazzo riuscì a guadagnarsi altro spazio dentro il retto, la sfondò completamente, e nuove urla assordanti scaturirono dalla gola della povera ragazza crocifissa al suolo. L’apache andava su e giù, lacerandole lo sfintere e affondando quel grosso pezzo di carne nel profondo delle bellissime natiche di Peggy.
La poverina giaceva ormai immobile, singhiozzante, impotente, n&egrave avrebbe potuto fare altrimenti così legata, e accettava l’asta pulsante che la invadeva con tanta violenza. Il guerriero non impiegò molto a venire. Gli vidi irrigidire i muscoli delle natiche che divennero come due gocce luccicanti, tanto erano dure. Gli altri guerrieri cominciarono a godere, a uno a uno. E poich&egrave attorniavano la coppia, schizzavano i loro fluidi sui corpi dei due.
Qualcuno bagnò il guerriero intento a inculare la donna, ma questi, anzich&egrave irritarsi, si stimolò di più. Ne raccolse un poco nella mano tesa, come acqua dalla fontana, e se la spalmò sul torace e sui capezzoli. Quel tocco in più di erotismo gli bastò per fargli raggiungere il culmine del piacere. Cominciò a gridare e il suo corpo fu scosso da fremiti pazzeschi. Gli era iniziato l’orgasmo.
Continuò a pompare con brutalità, infliggendo ancora dolore alla povera sventurata, e intanto spruzzava i caldi fluidi nell’intestino di lei. Doveva averla riempita perch&egrave parte di essi colò fuori e le bagnò le natiche. Peggy aveva smesso di gridare e accettava ormai l’atto passivamente. Quando ebbe riversato fino all’ultima goccia di sperma, tutto finì. L’indiano si ritirò dal retto della donna prona con un osceno rumore di risucchio, e mostrò il suo organo tutto imbrattato di sangue e ancora cosparso sulla punta di depositi di sperma.
Dalla sua espressione pareva che avesse fatta la migliore scopata della sua vita. Se una traccia di delusione c’era, essa era nei suoi occhi, forse perch&egrave l’atto era durato troppo poco, mentre un godimento così meraviglioso avrebbe dovuto durare tutto il giorno. Effettivamente, dopo aver visto che cosa fece in seguito a Peggy, sarebbe stato molto meglio se avesse continuato ad incularla per settimane.
Ma purtroppo, come il suo capo che aveva torturato Nancy e poi l’aveva data in pasto alle formiche e gli avvoltoi per finirla, questo giovane guerriero aveva i suoi progetti personali per Peggy. La slegò mani e piedi e la tirò su, in posizione eretta. Peggy piegava le ginocchia e compresi che doveva essere debolissima. La mancanza di acqua, il nascituro che le consumava il poco che il suo organismo poteva dargli, e ultima la brutale violenza anale, dovevano averla ridotta uno straccio. Non oppose alcuna resistenza, e si lasciò trascinare per i capelli verso un enorme cactus, proprio davanti a noi.
Era una pianta gigantesca, alta più di due metri e dall’aspetto minaccioso, cresciuta solitaria, staccata dalle altre. Aveva due grossi rami arcuati che partivano dai lati, e uno piò piccolo che a metà del tronco sporgeva in fuori nella parte anteriore. Così come era cresciuto, quel cactus costituiva un perfetto strumento di tortura che la natura aveva fornito inconsapevolmente agli apache per i loro disgustosi e perversi atti di malvagità.
Il guerriero spinse Peggy contro il cactus, la donna pareva sul punto di svenire per dolore e sete, ma i suoi occhi erano aperti, e credo che capisse che cosa l’apache le stava facendo. Poi l’uomo le allargò le gambe, e aiutato da un paio di compagni, la issò a cavalcioni del ramo centrale che sporgeva davanti, questo ramo le spinse il grosso ventre in su, in modo grottesco. L’indiano la spinse, facendole poggiare la schiena contro il cactus, le legò le braccia ai due rami laterali e poi le corde furono passate attorno al suo corpo, sulle tette gonfie, e ne risultò una linea deformata, sgradevole a vedersi. Le tirò le caviglie all’indietro e le legò insieme, strette dietro il tronco della pianta, in modo che il ventre fosse costretto a spingersi in avanti contro il cactus spinoso. Il sangue colava sulle cosce della sventurata e il dolore doveva essere insopportabile, ma Peggy aveva gli occhi fissi nel vuoto e uno sguardo spento.
Provavo una pena indicibile per lei e mio malgrado cominciai a piangere silenziosamente. Grosse lacrime mi rotolarono sulle guance, ma quello era tutto quanto potevo fare.
Il cactus era proprio davanti a noi, e per due giorni fummo costrette a guardare la lenta morte di Peggy.
Quando morì, la tolsero di lì e la portarono via. Non so dove, ma probabilmente la buttarono nel deserto, carcassa buona per i corvi e gli avvoltoi.
A quel punto noi sopravvissute eravamo terrorizzate. Pareva evidente che una alla volta avremmo fatto la stessa fine, magari con sistemi diversi da quelli adottati per le prime due vittime. E una tale prospettiva ci raggelava.
Per due giorni fummo lasciate, se così si può dire, tranquille. Ci lasciarono in pace a guardare l’agonia di Peggy, forse sazi di torture e atti sessuali, fino all’alba del quarto giorno. Avevamo tutte la pelle della schiena piagata per le punture dolorose dei cactus e molte a causa di ciò non riuscivano a chiudere occhio. L’odore dei nostri stessi escrementi ci ricordava continuamente lo stato di degradazione a cui eravamo giunte, e inoltre la sete e i morsi della fame non ci davano tregua e disperavamo di poter rivedere ancora un altro giorno in quelle condizioni.
Quella mattina, stranamente, ci diedero da mangiare. Si resero conto, evidentemente, che se non ci tenevano in vita, non saremmo state più utili ai loro scopi. Come si sarebbero divertiti con un branco di donne morte? Ci diedero acqua a volontà e un po’ di cibo. Ricordo quanto fu delizioso quel primo sorso di acqua fresca, e il guerriero che me la diede mi parve anche gentile.
Ma m’illudevo. Lui come gli altri covava pensieri di torture e di morte, e mi sfamava per poi divertirsi. Comunque, con la fame e la sete che avevo, accettai riconoscente quello che mi dava, e non volli analizzare le ragioni per cui lo faceva. Bevvi l’acqua con avidità, e me la sentii scendere giù a dissetare l’arida gola e le membrane riarse.
Ci fu data anche una specie di pappa di cereali, che in altre condizioni avrei trovata rivoltante ma che in quel momento accettai come una leccornia, e dei pezzetti di carne secca. Mi bastò quel poco per ridarmi forza, come se la linfa vitale mi avesse rinvigorito il corpo, ritemprato i nervi e la mente. Ringraziai persino l’indiano che mi aveva sfamata, anche se la quantità del cibo era da animale da gabbia. Stavo ormai perdendo il poco orgoglio che mi rimaneva. Credo che mi sarei curvata a baciargli i piedi, se quello fosse stato il prezzo da pagare per avere acqua e cibo. Dopo fummo slegate una ad una e potemmo camminare in un ampio cerchio. Probabilmente consideravano che, oltre al cibo, ci occorreva un po’ di esercizio fisico, per essere in buona forma per il loro uso e abuso.
Quella mattina scelsero anche una nuova vittima. Si chiamava Tina, ed era la bella vedova di Mark, che era stato il migliore amico di mio marito. Tina e Mark ci avevano fatto spesso compagnia, e durante il viaggio verso l’ovest la nostra amicizia si era rinforzata.
Era una bella donna di circa trent’anni, con bei capelli neri e un corpo molto attraente, anche se era un tipo esile e senza curve appariscenti. Fu presa quella mattina, e come nei casi precedenti, non potei reprimere l’ondata di disgusto che mi prendeva ogni volta che una di noi veniva usata come cavia.
La donna fu condotta nella piccola radura, davanti a noi. Gli indiani traevano il massimo piacere se sfogavano i loro istinti schifosi su una di noi mentre le altre erano costrette a guardare. Sapevano che questo ci infondeva paura, perch&egrave ci dibattevamo nel dubbio di conoscere a chi sarebbe toccato dopo.
Tina era una donna timidissima, gentile, tranquilla. Fino a quel momento non si era abbandonata a isterismi, come le altre. Sperai che si mantenesse calma, per modo di dire, e che si sottraesse a una brutta fine. Sempre meglio sopportare qualsiasi degradazione sessuale o di altro genere e uscirne vive, anzich&egrave morire nel deserto di morte atroce e farsi mangiare da corvi e avvoltoi. Immaginai che Tina avesse quei pensieri nella mente e che perciò si lasciasse trascinare nella radura senza protestare o perdere il controllo.
Le avevano legato le mani dietro la schiena e pensai che presto l’avrebbero violentata e scopata. Avevo ragione.
Furono scelti due giovani guerrieri, secondo una procedura segreta e misteriosa che non capii, e quelli dovevano lavorarsi la ragazza. Uno le andò davanti, l’altro dietro.
Non ero sicura all’inizio delle loro intenzioni, ma mi ci volle poco per capire che mentre uno le avrebbe infilato il suo lungo aernese nella fica, l’altro le avrebbe rotto il culo.
Ero comunque perplessa, non avevo mai pensato che una cosa del genere si potesse fare, essere prese cio&egrave contemporaneamente da due uomini, e viste le dimensioni dei due membri, sudai freddo per la povera Tina. L’avrebbero storpiata sicuramente. Già prenderne uno solo, davanti o dietro, era un’esperienza terrificante, due insieme poi, l’avrebbero ridotta molto male.
I due non si curarono affatto degli effetti devastanti che la doppia violenza avrebbe causato alla donna. Tina stava in piedi, calma, apparentemente ignara del pericolo incombente.
Il guerriero davanti a lei, dopo essersi tolto il perizoma, cominciò a baciarle e a morderle le grosse tette. Tina aveva il seno molto sviluppato e le sue due mammelle erano le più grosse che avessi mai visto. Non che io andassi in giro a fare paragoni tra il seno di una e quello di un altra, ma Tina lo aveva bello grosso e non si poteva fare a meno di notarlo a prima vista.
Più di una volta avevo sorpreso mio marito a guardarla con ammirazione, e non le guardava certo la bocca o i denti. Naturalmente non ci avevo badato perch&egrave eravamo amici e mio marito non avrebbe mai osato farle delle proposte, tanto più che Mark era un suo carissimo amico.
Per farla breve, le sue tette erano una magnificenza e questo fu appunto l’effetto che fecero al guerriero indiano che aveva avuto la fortuna di poter usare la parte anteriore del suo bel corpo. Lavorava con impegno, baciava, leccava e mordeva le rotondità con foga e bramosia.
Finora Tina aveva controllato le sue emozioni, era impossibile dire se temeva per la sua vita, o se godeva delle attenzioni erotiche che le stavano dedicando. La sua faccia non forniva indizi sul suo vero stato d’animo. Ero convinta che, anche se non provava piacere, era brava a non opporsi e a non offrire ai due stalloni ulteriori motivi per torturarla, come probabilmente progettavano.
Intanto l’apache davanti si dava da fare sempre più a succhiarle e maltrattarle le tette. Poi cominciò a morderle i capezzoli e questo finalmente produsse un sospiro sulle labbra di Tina e un fremito le percorse il corpo. Ma anche in questo caso era difficile dire se il sospiro era di piacere o di soffernza. Il fatto &egrave che in molte circostanze piacere e dolore sono strettamente uniti ed &egrave difficile distinguere le due sensazioni.
Poi il guerriero catturò i grossi seni nelle sue mani e prese a massaggiarli, impastarli, strizzarli, pizzicarli. L’altro dietro, anche lui nudo, si era finora limitato a guardare con interesse, mostrando una vistosa erezione che sfiorava appena, con la punta, le natiche di Tina. Lei, però, spingeva il corpo avanti, ogni volta ritraendosi, forse temendo la presenza di quel grosso arnese vicino al suo fondoschiena.
E così l’indiano non riuscendo più ad aspettare che il compagno davanti si decidesse, dopo essersi inumidito frettolosamente il membro con la saliva, glielo appuntò tra le natiche forzandola nell’ano. Tina si afferrò, con le mani adunche ad artigli, alle spalle di quello che le stava davanti e lanciò un urlo animalesco rivolta con la faccia verso il cielo, arcuandosi e spingendosi contro il guerriero che le strizzava le tette. Sapeva di non potersi opporre e si limitava ad urlare con quanto fiato aveva in corpo, mentre il guerriero alle sue spalle faticava ad introdurglielo tutto dentro. Afferrato alle sue anche, spingeva con ferma determinazione, dava colpi micidiali infischiandosene del dolore che infliggeva alla sua vittima, e lentamente si introduceva nel culo di Tina, boccheggiante, che piangeva come una fontana.
Mi resi conto che, anche per la mia amica, quella doveva essere la prima volta per lei a essere presa in quel modo, e mi venne da pensare che sarebbe toccato anche a me, prima o poi, subire quell’esperienza infame. Ebbi un attimo di paura, che mi fece presagire gli orrori che si addensavano sulle nostre teste, e lo sfintere mi si serrò in un moto involontario di autodifesa.
Tina intanto continuava a soffrire per il vergognoso atto sessuale che l’apache stava perpetrando su di lei. Il maschio alle sue spalle era riuscito, con caparbietà e spinte cattive a introdurglielo tutto dentro il retto e il dolore atroce che sentiva lo si poteva leggere chiaramente sul suo volto. Era una maschera agonizzante di sofferenza, e inoltre, la vergogna di subire quell’atto contronatura davanti a tutte noi, le doveva sicuramente bruciare ancor di più. Non gridava più, per non dare a quei due bastardi la soddisfazione delle sue urla, ma le si leggeva chiaro in faccia che avrebbe voluto farlo con tutte le sue forze.
Quello che stava davanti, visto ciò, decise di non indugiare oltre, perch&egrave voleva condurre l’azione all’unisono col compagno. Così lasciò perdere i giochi con le tette di Tina e affondò in lei con violenza, iniziando subito a darle stoccate selvagge.
A quel punto la donna non resse più allo strazio, e lasciato da parte ogni timore, cominciò a urlare a squarciagola, contorcendosi disperatamente per quel poco che le era concesso dalla stretta dei due.
I due apache diedero l’avvio al ritmo erotico, e fu evidente che dovevano avere una lunga esperienza, lavorando in coppia, perch&egrave erano ben collaudati. Quando il guerriero davanti affondava nella fica, l’altro si ritraeva dal culetto, e viceversa. E così di seguito, senza perdere tempo e senza sbagliare un colpo, e io fui certa che Tina stesse soffrendo le pene dell’inferno per quella copula bestiale, e che l’atto era per lei oltremodo degradante per le circostanze in cui veniva compiuto.
Credo che Tina, a quel punto, avesse deciso saggiamenete che era meglio adeguarsi alla situazione e non aizzarli maggiormente, sperando che poi non l’avrebbero ammazzata. Difatti, da quel momento in poi, si limitò a dondolare legggermente le anche, cercando di ammorbidire i colpi più rudi, accettando in silenzio qulla violenza degradante e piangendo in silenzio.
Quando i due non riuscirono più a contenere la passione erotica, con la stessa precisione delle stoccate, cominciarono a venire insieme. Gemiti di piacere uscirono dalle loro labbra, e subito dopo liberarono i loro succhi dentro il corpo della mia amica che rabbrividì di disgusto.
I due guerrieri, scaricatisi in lei, ritirarono i membri ancora eretti e pulsanti, procurandole sicuramente altro dolore, e lasciarono la donna. Ma libertà e sollievo furono brevi per Tina. Dopo averla usata come desideravano, i guerrieri vollero darle una lezione. Ovviamente essi non volevano farci illudere che fossimo per loro solo oggetti di piacere, e se qualcuna di noi lo aveva pensato, dovette ricredersi.
Trascinarono Tina sopra il falò al centro dell’accampamento, che a quell’ora era uno strato di carboni ardenti. La costrinsero ad inginocchiarsi e la legarono a due pali bassi che servivano per girarci sopra lo spiedo con la cacciagione, con le mani ancora legate dietro la schiena e le ginocchia aperte, fissate alla base dei pali. Le fissarono poi delle corde ai gomiti e le tirarono, distendendole le braccia dolorosamente e fissando le funi all’estremità alta dei pali. Poi il guerriero che l’aveva presa davanti, quello che si era trastullato con le sue grosse tette, strinse in un cappio ogni capezzolo e poi tirò le funicelle alla base dei pali e le bloccò. Tina urlò per il forte dolore stavolta, perch&egrave le funi le tiravano in fuori i capezzoli, quasi glieli volessero staccare dalle carnose rotondità dei seni. Mi sentii rabbrividire a quella vista, conscia della sua sofferenza.
Tina era costretta in una posizione che non le permetteva alcun movimento, poi gli indiani ravvivarono il fuoco in modo che le fiamme andassero direttamente sotto la vagina e le tette. Tina lanciò grida strazianti. Il calore del fuoco le bruciava la carne. Non c’&egrave nulla di peggio dell’odore di carne bruciata, e quella esperienza me lo dimostrò.
Tina fu sottoposta a quella atroce tortura per diverse ore, finch&egrave il dolore e gli spasimi terribili non la fecero svenire.
Alla fine la tolsero dalla orribile posizione e la ributtarono tra noi, che eravamo legate saldamente, con le corde, da quattro giorni. In un certo senso fui contenta per lei. Dopotutto non l’avevano uccisa, come le altre due, e questo mi fece sperare che forse avevano rinunziato a fare una strage inutile. Spravvivere alla tortura era già molto meglio che finire dilaniata nel deserto.
Ero sicura che gli Apache avevano in serbo mille modi per ucciderci, ma speravo di non vederli mai attuati.
Tina rimase priva di sensi molto a lungo, e solo dopo il tramonto rinvenne. Era abbastanza vicina a me e così potei parlarle.
– Come ti senti? – le chiesi, pensando che la mia domanda era stupida dopo tutto quello che aveva passato.
– Male. – mi rispose, guardandosi il corpo pieno di ustioni, soprattutto sul seno e all’inguine.
– Sei davvero coraggiosa, Tina – disse Mary singhiozzando, più per la gioia di vedere Tina in se che per altro.
– E comunque sono viva – aggiunse Tina con una smorfia di dolore. – Mi fa male dappertutto, soprattutto dietro, dove quel bastardo me l’ha infilato. Spero che crepi! –
– Sei stata in gamba, cara – le dissi per rincuorarla.
– Ecco, li ho studiati in questi giorni, e so che le altre sono morte perch&egrave hanno opposto resistenza – disse Tina con aria esperta.
– Si, cara, l’ho notato anch’io – le dissi per farle capire che ero d’accordo.
– Spero che le altre si comportino allo stesso modo – concluse. – Sarei addolorata se ci fossero altre morti. –
– Lo so, Tina, ma tutto quello che abbiamo visto in questi quattro giorni dovrebbe insegnarci molte cose sul loro modo di agire. Quindi non ci resta che sperare. – le dissi.
Impiegai molto quella notte per addormentarmi. Mi tormentava un pensiero: quando sarebbe venuto il mio turno? Ero già stata violentata dal capo, e questo probabilmente mi metteva in fondo alla lista delle donne da aggredire.
Ero quasi contenta di avere fatto la prima esperienza con quei selvaggi nel mio carro, durante l’assalto alla carovana, e speravo che non si sarebbero più curati di me

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