Skip to main content
Racconti di Dominazione

Prison Break

By 27 Marzo 2011Dicembre 16th, 2019No Comments

I

‘I’ che bello cule’.
Mentre qualcuno le alitava queste parole fra i capelli sporchi, quattro dita e un pollice opponibile – non troppo evoluto a dire il vero- le avevano artigliato la parte alta della coscia sinistra. Il pollice schiacciato sull’anca e 4 unghie a scavarle pericolosamente il solco fra le natiche. Con quel culo sodo ma spigoloso che si ritrovava, Debora ebbe come l’impressione che le falangi dello sconosciuto le stessero per erodere il femore. Placche teutoniche. Che cozzavano fra di loro con tale pressione, che la tuta, la carne, il poco grasso, Debora li sentiva ridotti come carta pluriball nelle mani di un bambino che gioca con l’imballaggio di un gioco appena scartato.
Fu il dolore più che l’imbarazzo. Un colpo di fucile a forma di schiaffo sibilò nell’aria umida del parlatorio seguito da un perentorio e secco:
‘Ma come ti permetti! Le mani tienile a posto, brutto maiale’.
Senza aggiungere altro, Debora andò verso il tavolino assegnatole e si sedette incrociando le gambe nella tuta verde fango. Nonostante quella situazione, Debora rimaneva sempre Debora. La dirigenza non gliela avevano data a caso.
Dall’altro lato del vetro, negli occhi di Roberto l’amore e l’affetto non sembravano molto diversi da quelli di dieci anni fa, quando il loro matrimonio era ancora solo una cotta.
Quello sguardo avrebbe dovuto infondere calma e sicurezza, ma a lei quelle due pozzanghere verdi parevano solo spaventate, incredule e tanto arrabbiate.
‘Agente!’ Roberto si alzò in piedi e tirò un cazzotto al pannello divisorio. La lastra di plastica non batté ciglio. Il plexiglas antiproiettile costa, ma non tradisce quasi mai le promesse sulla brochure.
‘Agente! Ha visto quel tipo cosa ha fatto a mia moglie?’
Un ciccione con l’uniforme da pigro servitore dello stato e il ghigno da zelante servo del potere alzò la testa dal Corriere dello Sport. L’Ascoli aveva vinto tre a zero. La retrocessione era un filo più lontana.
‘Dottò e che ci dobbiamo fà? Lo vogliamo mettere in galera?’
AL battuta non divertì nessuno. Sospirò. Con il piglio di chi allunga 50 centesimi a un tossico troppo insistente .
‘Gegè fammi la cortesia. Vai a controllare di là se i tuoi ragazzi hanno furnute i pulezzà i’ cessi!’
‘Ma non lo può mica lasciare andare così!’
‘Roby, ti prego lascia stare! Qua non funziona come fuori…’
‘Iamme buon che se ne iut! Num mi fate passà nu guaie con o’ diretture! Gegè è un brav omm! Sta a ca’ da 5 anni e sta a capo dei detenuti adetti alle pulizie’
‘E pure nel braccio femminile vengono a pulire?’
‘Dottò ma quale braccio femminile! Qua non stiamo mica a Poggio Reale! Il parlatorio chiste è, e adda bastà per ommini e femmene!’
Don Gerace Rafellillo, detto Gegè o’ Raffiolo, per la somiglianza del suo ventre con il tipico dolce napoletano, annuì, chiuse la porta e lanciò un ultimo sguardo alla donna. I che cule ca tene sta pichiacca. Ma a chi cazz è che arrassumiglià?.
SQuella donna gli ricordava qualcuno questo era poco ma sicuro. Non riusciva però acnora ad associare quella sensazione ad un volto preciso.
Una bambolina. Sui 35. Gli zigomi alti e lentigginosi. Il caschetto rosso castagna che le incorniciava quel musetto impertinente. Vagamente da giraffa. Quel corpo sinuoso e pieno di spigoli che nemmeno arrivava ad un metro e sessanta. Una prima di tette. E quelle gambe. Chissà se c’aveva le lentiggini anche sulle cosce. Mutande alle caviglie. E’ così che avrebbe dovuto andare in giro chillo piezz i femmena! Ad inciampa’ tutto o santo iuorno!’.
Mentre Don Gegè si arrovellava le gonadi per capire chi gli ricordasse quella donna, Debora cercò di ignorare l’ultimo sguardo dell’uomo, che cercava di guadagnare platealmente il cavallo dei suoi pantaloni.
‘Ma io a quello gli sfascio….’
‘Roby basta. Abbiamo 45 minuti. Li vuoi sprecare a parlare di quel coglione? Piuttosto come è andato il viaggio?’
‘Un peggio dell’altra volta. Dieci ore in cuccetta con un tramezzino all’uovo sullo stomaco e due marmocchi nelle orecchie. Hanno urlato tutta la notte una canzone su un pollo. Si chiamava Gino.’
‘Ma chi il pollo?’ cercò di sdrammatizzare lei.
‘Penso fosse la sigla di un cartone. E tu? Come stai? Ti è arrivato il mio pacco?’
‘Sì! E’ stato il momento più bello della settimana. Forse l’unico. Qua non c’è mai niente da fare. Penso a te tutto il giorno, sai?’
‘Mi manchi’
‘Lo so, ma non puoi venire tutti sabati. Non puoi mica andare avanti così per un anno e mezzo!’
‘Forse dovrei prendermi un appartamento e iniziare a cercarmi lavoro qui’
‘Sì! Certo! Campobasso è famosa per gli Studi Grafici!’
‘Potrei fare qualcos’altro. Non è detto…’
‘Ne abbiamo già discusso. Sono solo 14 mesi, Roberto. E con la buona condotta magari esco già il prossimo inverno’
‘Cioè fra quasi un anno. Non è nemmeno due mesi che sei chiusa qua!’
E io quasi non riesco più stare senza di te. Ma questo non l’aggiunse. Non voleva che magari lei si scoppiasse in lacrime.. Ma Debora pensava ad altro. Tutti i discorsi arrivavano sempre a quella solita, inutile petulante recriminazione. Lo stava per dire. Di nuovo. Debora sperò che la realtà la smentisse. Che la facesse sentire meschina e prevenuta. Ma non fu così nemmeno quella volta.
‘Certo se gli avessi detto qualcosa, magari ti avrebbero lasciato a Torino. E non in questo posto di merda!’
‘Perche alle Molinette si sta tanto meglio di qua? Sai in quante ci stanno dentro in un cella? Bene o male qui siamo solo io quelle due. Non è la fine del mondo. E poi lo sai: se gli avessi detto qualcosa non sarei nemmeno finita in carcere!’
‘E ci starebbero quei tre stronzi dei tuoi capi!’
‘Roby basta. Ho deciso così. E’ solo un anno. E lo sai benissimo come stanno le cose’
‘E’ quel cazzo di posto di cui nemmeno c’abbiamo bisogno. Lo sai che alle volte mi chiedo a cosa saresti disposta ad abbassarti pur di fare carriera?’ sbottò Roberto pentendosene tre microsecondi dopo.
‘Abbassa la voce. Se il sostituto procuratore lo scopre, si ricomincia tutto d’accapo!’.
Come stavano le cose era molto semplice. Si era presa tutta la colpa. Era stata lei pagare il quadrilocale in centro del figlio dell’assessore. Era stata solo lei sottrarre 250 mila euro dai conti dell’azienda per vincere quell’appalto, che per inciso, valeva dieci volte tanto. In gioco c’era l’informatizzazione di tutte le municipalizzate di Busto Arsizio. Fra acqua, igiene elettricità e municipio non c’era mica da scherzare troppo. Erano bei soldi, ma i suoi capi non c’entravano proprio nulla. Il top management non ne sapeva proprio nulla. Era stata tutta una sua iniziativa. L’azienda aveva dei valori. Un codice etico addirittura. Stampato e plastificato a colori in A4. Aveva fatto tutto da sola. Lo aveva ripetuto centinaia di volte. Il codice penale parlava chiaro. L’art. 321 le aveva regalato 5 anni, ridotti poi 14 mesi grazie all’avvocato pagato sottobanco dall’azienda salvata dalla donna con la sua testimonianza. Scontata la pena l’avrebbero mandata per un paio di anni a Bratislava con lo stipendio raddoppiato. La nuova direttrice per l’est Europa. Un mercato emergente che prometteva davvero bene. Il miglior trampolino per una giovane dirigente alla scalata della società. Pensava di meritarlo, in fondo aveva salvato culo e poltrona a tutti. Di quel piccolo dettaglio chiamato Bratislava non ne aveva ancora parlato a Roberto. Non sapeva davvero come dirglielo.
A cosa saresti disposta ad abbassarti. Sapeva cosa intendeva con quelle ma parole.. Non l’aveva mai tradito. Con Franco e Edoardo, il dott. Morini e l’ing. Scacchi come li chiamava Roberto, non ci era mai andata a letto. Questo no. Ma un bottone dimenticato slacciato. Durante un colloquio. O una riunione. Un sorriso di circostanza, quando un mano ti si posa sulle calze. O quando un bozzo duro ti si appoggia sulla spallina del tailleur mentre sei seduta. Questo…beh questo sì. E non c’era molto altro da aggiungere. Non ne era contenta. Ma era un prezzo che bisognava pagare. Come fare le due di notte quattro sere a settimana. O rinunciare ad un weekend in una Spa se l’esigenze di progetto lo richiedevano. Roberto quell’ossessione di emergere non ce l’aveva. Non poteva capirla. Allo stesso modo di una donna che non capisce cosa ci trovi un uomo in un porno. A lui andava bene così. Stare tutto il giorno davanti a Photoshop gli piaceva. E lo pagavano pure. La sua famiglia stava più che bene. Non doveva dimostrare nulla a nessuno. Per una figlia di operai, ambiziosa e intelligente, purtroppo non funzionava così. Roberto, figlio unico e pazzamente innamorato, non le avrebbe mai fatto mancare nulla. Ma il problema non era mai stato questo.
‘Scusami. Non avrei dovuto dirlo’
‘Lo so che è difficile, Roby. Ma pensa a quando esco. Sono solo una manciata di mesi’
‘Che non però passano mai!’
Era incazzata. Era inammissibile che fosse lei a consolare lui. Non era lui che dormiva con due sconosciute. Che non aveva più il controllo sulla sua intimità. Che non poteva più decidere, quando mangiare, cosa indossare, quante volte lavarsi a settimana. Passare la giornata ad ascoltare le sue coinquiline blaterare in continuazione. Una della figlia in casa di accoglienza, e l’altra di quanto le mancasse la maria, che non era la figlia ma quello che si fumava. Non ebbe cuore di sbattergli in faccia quello che stava pensando. Le faceva una tenerezza infinita. All’improvviso l’ira stava sbollendo. Sostituita dal fardello che si portava dietro da mesi. Ogni giorno un po’ più grosso. Si alimentava dei suoi infinti ‘Lo farò la prossima volta’ o dai molto opportuni ‘Non è il momento giusto’. Questa volta non avrebbe rimandato ancora.
‘Roby. Senti ti devo dire una cosa. Ma promettimi che non ti arrabbi!’
L’espressione del marito si congelò in una smorfia atonale. Era convinto che la moglie gli stesse per confessare quello che lo spaventava di più. Le sue sinapsi gli stavano dipingendo sulle pareti interne del cranio la pancia piatta della moglie schiacciata sulla formica fredda di una scrivania. La gonna alzata e i collant scesi sulle ballerine. Quelle comode per quando non aveva riunioni. E la faccia deformata dell’ingegner Scacchi che la pompava stringendo nei pugni serrati la camicetta bianca, appena gonfiata dai seni della moglie che ‘ si vedeva – stavano iniziando sudare. Qualche goccia già scivolava sulle dita contratte dell’uomo, mentre sua moglie ansimava senza sorridere.
Capì solo ‘nuovo lavoro’ e ‘Bratislava’. La notte insonne, lo stress infinito e le poche calorie che aveva ingurgitato nelle ultime 48 si aggiunsero al sangue che tornava caldo dopo aver raggiunto per qualche istante lo zero termico. Certi sbalzi di temperatura il corpo umano non li regge mica.
Cadde in avanti verso le braccia della moglie che tentavano invano di afferrarlo. Invece di finire con la faccia sul petto della moglie, si prese lo sberleffo del vetro dritto dritto sul naso.
Ritornò cosciente cinque giorni dopo. Altro che sbalzi termici. Il Clostridium botulinum un perdona. Specialmente quando si annida in un tramezzino andato a male. Gli era andata di lusso. Tre giorni ed era di nuovo in piedi. In media una persona in salute ci mette un settimana. Quando sopravvive. E se non ci lasci il calzino, il botulino te lo trascini dietro per qualche mese. Nonostante si sentisse le gambe più molli delle tettine di un adolescente obeso, se l’era cavata. Alla clinica universitaria dell’università del Molise avevano l’antitossina e non l’avevano dovuta ordinare da Roma. Ma c’era un bel problema. Debora non lo voleva più vedere. Le guardie carcerarie gli avevano detto che stava bene. E gli avevano consegnato un lettera in cui la donna gli spiegava chiaramente che per un po’era meglio prendersi la pausa. La scrittura era senza dubbio quella di Deb. Ma lo stile, la scelta delle parole, l’approssimazione con cui erano espressi concetti e sentimenti, parevano appartenere ad un altra persona. Debora non voleva vedere più nessuno. I genitori ancora più preoccupati furono rimbalzati per tre giorni di fila. Vostra figlia non desidera conferire con voi. Questa era stata la risposta ottenuta tutte le volte. Alla fine avevano preteso che intervenisse il legale che aveva seguito il processo. Bene o male qualcuno doveva pur accertarsi che la donna stesse bene. L’avvocato Parelli riuscì ad ottenere un colloquio con la sua assistita una decina di giorni dopo. All’uscita lo aspettavano i coniugi Benni, genitori di Debora, e Roberto.
Non è che l’avvocato avesse molto da dir loro. Le sembrava un filo più emaciata come se il carcere la stessa sciupando. Aveva una forte influenza. Sternutiva in continuazione. Le lacrimavano gli occhi. Aveva un mal di gola fortissimo perciò aveva parlato poco. Non aveva aggiunto molto di più. Influenza a parte la donna insisteva che di stare benissimo. Altro da dire non ne aveva proprio.

II

 

Il punto esatto l’avevano  individuato dopo un safari di quasi  sei ore fra cortili e corridoi. A Don Gegè era quasi scesa l’ernia dal camminare. Il disinfettante per piscine era arrivato in un paio di giorni. Pensava ci volesse più. Come responsabile della squadra di pulizie l’aveva distrattamente inserito nell’ordine mensile, fra una candeggina e un Mastrolindo. Il grossista che riforniva il carcere trattava anche quel tipo di prodotti. La cosa era loffia al punto giusto da non essere notata . A contattare l’avvocato di quelle due stronze ci aveva messo ancora meno. Non era più un capocosca ma fuori contava ancora qualcosa.

Tutto quello che rimaneva da fare era far ragionare lo stronzone. La tuta verde gliel’avevano messa a furia di calci e sberle. Peccato solo che sulla faccia non lo si poteva colpire. La tuta se l’erano inculata dalla lavanderia del carcere dove boxer e collant venivano lavanti insieme. Ogni tanto un maniaco segaiolo si imboscava una mutanda o un reggipetto. Una tuta era una faccenda diversa. I secondini le contavano. Fregarli non era stato questo gran problema. Distrussero un paio di pantaloni verdi e li fecero passare per una tuta del braccio femminile rovinata durante il lavaggio. Tutta quella fatica, e quello stronzo non la voleva neanche provare!  C’erano volute due ore. Del resto da uno che si chiamava Fragolone  cosa cazzo ti potevi aspettare.

Fragolone, al secolo Franco Papetti, fuori dal gabbio aveva sempre avuto tante amiche. Amiche che lo apprezzavano per l’indiscutibile capacità di saper abbinare con gusto una sottana e paio di scarpette. Amiche che gli invidiavano il ventre  garantito a vita contro ogni rotolino di grasso dal metabolismo a prova di torta. Amiche grasse. Amiche che mangiavano mezza brioche e mettevano su cinque chili. Amiche che quando si avvicinava giugno davano dar fuori di testa davanti al bikini nuovo. Iniziare a spacciare Ritalin e anfetamine gli  sembrò la cosa più naturale del mondo.  Prima di finire dentro per spaccio  se gliel’avevano schiaffato in culo era stato solo per metafora. La prima  volta fu chiaramente la peggiore. In tre lo ammazzarono di botte.  Molti di più furono quelli che lo presero da dietro. Successe al suo secondo mese a Campobasso, quando ormai si era convinto che tutte quelle storie che giravano sul carcere erano in realtà tante chiacchiere propagandate dai film.  Un ragazzo carino e aggraziato è merce troppo preziosa per rimanere per troppo  tempo con il culo appoggiato sullo scannatoio della teppa. Una servetta. Un servetta è  una  specie di fatina buona del carcere che esaudisce i desideri. Desideri che possono spaziare su una modulazione di frequenza molto ampia che va dal pulire la cella, fino allo sdraiarsi sulla branda con il culo verso le stelle. In cambio dei suoi servizi, il suo proprietario gli garantisce di  prenderlo su per il culo un paio di volte a settimana da una sola persona, anziché dieci volte al giorno dal carcere riunito in seduta plenaria nelle docce. Qualche volta, questi mezzi uomini vengono usati come merce di scambio dai loro protettori che non sono quasi mai degli zanza qualunque. In sei anni di galera Fragolone ne aveva cambiati sei. Uno che fuori ha solo amiche donne in carcere se lo mangiano. Effeminato come era, di alternative ne aveva avute proprio poche. Così era stato  costretto a farsi crescere i capelli. A caschetto. A depilarsi le gambe un giorno sì e l’altro pure. Ad usare rossetto e ombretto regolarmente. Ad indossare biancheria da donna sotto la tuta. E quando era fuori dagli occhi dei secondini anche gonne e vestitini. Era stato obbligato perfino ad infilarsi un assorbente nel tanga che si doveva comprare di tasca sua  al mercato nero. Se  lo trovavano senza, durante il ciclo stabilito  per lui, erano cazzi Fernet. Cazzi amari. Anche senza tutti questi orpelli Fragolone come donna era decisamente appetitosa Un fisichino minuto e ossuto. Un paio di occhietti da cerbiatto. Un bocca carnosa e sempre umida. Tutti questi doni di madre natura l’avevano alla fine portato dritto fritto nella cella di Don Gegè. Era un anno che era la sua servetta. L’avevo vinto all’asta organizzata dopo che il suo precedente padrone ricevette la grazia. Un brigatista, un professore della rivoluzione con cui Fragolone aveva addirittura abbozzato un relazione che si poteva definire pure seria. Purtroppo per lui la sinistra era andata al governo e questi erano stati i risultati. Con Don Gegè la musica era decisamente cambiata. Un vero masculo di Scafati, un purosangue campano, un  culo se lo mette sul piatto solo se in mensa la fica non la servono più. A Don Gegè erano sempre piaciute le femmine e non si poteva rassegnare a vivere senza, tanto che due volte a settimana  infilava un ago nel petto del suo protetto e lo riempiva  di estrogeni. Gli ormoni costavano una mezza fortuna ma almeno gli consentivano  stringere fra le mani una seconda di reggiseno e leccare un visetto da adolescente,  con gli occhi giganteschi e gli zigomi sporgenti. Ma neppure così pareva molto soddisfatto. Don Gegè voleva una donna vera!

U’ maronna santissima! Ma vi rendete conto?” urlava il camorrista furibondo.

“So vienti anni che nun vedo na piacchiacca e st’omme e nient mi volè arruvinà a festa”

“Don Gegè su! Non dite così! Adesso Fragolone si alza e ci fa contenti a tutti! E’ vero Fragolone!” intervenne Mimì o’ Pazz, da tanti anni fedele galoppino di Don Gegè.

Frafrà, mo’ m’hai sfranticato o cazzo! Se nun t’alz e te ne vaje  a fancul into carcere i femmine, ti faccio  felià o cazzo con nu curtiello  arrozzuto”

Frafrà, come lo chiamava affettuosamente Don Gegè, ne aveva avuto davvero abbastanza di calci e pugni. In fondo gli stavano offrendo una vacanza pagata. Al suo detergano un paio di settimane tranquille certo male non avrebbero fatto . Si sarebbe preso forse sei mesi in più, ma era sempre meglio che vedersi staccare il cazzo. A Don Gegè non piaceva proprio vederlo spuntare fra le gambe quando se lo inculava. A tagliarglielo sul serio non avrebbe fatto troppi complimenti se ci fosse stato costretto. Confortato da  tali pensieri Fragolone si alzò facendo chiaramente capire di non aver più altre obiezioni al piano in cui era stato coinvolto

Poi si avviò con gli altri tre verso la lavanderia.

“Brave! Brave!” esplose Don Gegè “O vedi che quanno vuò chella capa tosta che tieni sape aragiunnà!”

A Don Gegè non pareva vero. Erano quindici anni che non vedeva na picchiacca. Un po’ meno di un terzo della sua vita. Un tempo infinito per rimanere sintonizzati su Rai Due. Era arrivato il momento di tornare alla rete ammiraglia. Fra qualche ora quella gruossissima buchinare sarebbe trasuta inta a cammera soia!

“Mimì, iamme! Si so fatte  quasi e sei!”

Buttò l’occhio buono su Fragolone per assicurarsi che non facesse altre storie.

Sì  pare a sora  soja! Bell’ i papa, sì tale e quale a chillu grossissimo zuccolone!”

Non si poteva dargli torto. Fragolone sembrava davvero la gemella della  puttana del parlatorio. Debora si chiamava, aveva scoperto. Acca non acca non c’erano dubbi: era una grande puttana.  Una puttana che somigliava tantissimo alla sua servetta. E che culo che teneva. Non vedeva l’ora di gustarselo nell’intimità della sua cella. Appena aveva realizzato quale incredibile fortuna gli era capitata aveva subito messo in moto sinapsi e meningi.  Non era stato come organizzare un attentato, ma nemmeno così facile.  Si era aspettato che ci volessero un ventina di giorni, invece dopo neanche una settimana era tutto pronto. Era compiaciuto e un po’ impressionato. Gli ordini di Don Gegè erano ancora legge!  Trovare il punto esatto dove fare lo scambio di persona gli aveva fatto fare una camminata epica.  Aveva dovuto pasticciare un po’ con gli ordini di acquisito.  Per fortuna i secondini lasciavano sempre  a lui quelle noiose scartoffie. Avevano scoperto che   tutto l’occorrente per sintetizzare un buon sonnifero era già pronto in magazzino. Lui e i suoi avevano passato un paio di ore su google. Era semplice. Bastava riempire una damigiana di piccole dimensioni con quaranta grammi di calce spenta e un quarto di litro di acqua. Scaldi su fiamma viva. Fai cuocere un venti minuti e shakeri il tutto con molta energia.  Infine aggiungi altri dieci grammi di alcol etilico. La schiumetta che si  condensa sulla pareti è cloroformio. Cazzo fosse sto cloruro di calce non lo sapeva nessuno. Però se non lo impastavi con la calce spenta prima di riempire la damigiana il gioco non riusciva. Un  altra mezzora su Internet e uscì fuori che sto cloruro di calce non era altro che il disinfettante usato per le piscine. Mimì o Pazz tirò un sospirò di sollievo. C’aveva già in mente la zoccola cantata da Don Gegè, accovacciata   con le tette bagnate di lacrime e le mani davanti alla fica. Qualche tentativo sul fornelletto di Don Gegè e la reazione riuscì. Fragolone dormì per sei ore buone.  Per stare tranquilli intinsero un fazzoletto in un bicchiere che conteneva il doppio del preparato originale e l’avvolsero dentro un sasso. Adesso il sasso ce l’aveva in tasca Ciruzzo o’ Capitone, un grassone  puzzolente che doveva il suo soprannome al fatto di essere sfuggito a sei retate di fila nonostante la sua impressionante mole.

Quando arrivarono in lavanderia mancavano venti minuti alle sei. C’era tempo. Lo scambio sarebbe avvenuto nel retro, l’unico punto giudicato idoneo per quel piano così insolito.

La sezione femminile e quella maschile erano divisi da un alto muro divisorio che concludeva la sua corsa proprio contro la lavanderia. Il locale era gestito  dai soli detenuti uomini, ma c’era una porta che dava sulla sessione femminile per permettere al loro bucato di entrare e uscire. Purtroppo veniva aperta solo in quelle occasioni e dall’altro lato era quasi sempre sorvegliata. Da lì non c’era proprio verso di entrare. Dietro la lavanderia, però, i due bracci erano sostituiti da un cancello che permetteva alle due sezioni di comunicare. Dal lato femminile il cancello dava sul cortile che in quel punto era liberamente accessibile alle detenute. Sull’altro versante si apriva invece su un cortiletto ceco accessibile dalla sessione maschile solo grazie ad un altro cancello automatico.  Tuttavia sul retro della lavanderia c’era una finestra che dava proprio su quel cortiletto. Alla grata di quelle finestra, vecchia di una cinquantina d’anni,  avevano già fatto il servizietto.

“Totonne, spiacciamuce che nun tenimme tiempo da perdère!”

Totonne o Pavesino, chiamato così perché quando andava a fare un agguato si portava sempre un pacchetto di biscotti nella giacca,  si affacciò fuori e visto che non c’era nessuno in vista smontò rapidamente le inferriate arrugginite che bloccavano l’accesso al cortile, passandole senza far rumore a Mimì.

“Iamme, guaglio! Trasimme!”

Una volta scesi nel cortiletto si era fatto già buio. Tutto secondo i piani: avevano ancora cinque minuti di margine.

“Strunze! A vulisse ittà sta preta?”

Ciruzzo o’ Capitone, che era molto più bravo a far mulinare le gambe che il cervello, si ricordò solo in quel momento della pietra, troppo a occupato figurarsi con il naso che scava fra le cosce di una donna vera.

“Dottò! M’avite scusà, m’ero distratto un attimo!”

“E che aspiette, notte? Muovimmece!”

Ciruzzo guardò la pietra e poi la tirò oltre al cancello. Adesso era il turno di Fragolone.

Omme i niente! Scravaccà o canciello!

“Ma Don Gegè, come faccio? E’ così alto”” protestò con voce chioccia  la sua servetta.

Nun tiene tuorto sto sfacimme! Guagliò iettatelo a là!”

A quelle parole Ciruzzo e Mimì si lanciarono un cenno di intesa. Poi fecero scaletta a Totonno che s’arrampicò sulle loro spalle con Fragolone in braccio. Non pesava nemmeno cinquanta chili. Una volta atterrato dall’altro lato lanciò un grido, ma non tanto forte da far presumere che si fosse rotto qualche costola.

State zitte, mappina! E  vattà a’ nnascònnere!”

Da dietro il muro si alzò un lontano cicaleggio che sembrava avvicinarsi sempre più.

Ammarate a’ bocca! Arriva a buchinara!”

I tre uomini interruppero subito le chiacchiere e incollarono le orecchie al muro. Le voci erano ormai arrivate a pochi passi da loro. Una voce, la più impettita fra le tre, stava chiedendo con insistenza cosa ci fossero venute a fare lì. Un altra,  più nasale, tentava di rassicurarla provando a cazzeggiare. Un altra ancora, che sembrava una forchetta che graffia un cucchiaio, pareva invece allontanarsi di qualche metro da loro. Dopo qualche minuto la voce impettita sembrò salire di qualche ottava. Ma l’urlo le morì in bocca ancora prima di nascere. Come  un feto soffocato da un fazzoletto.

“Don Gegè, si è addormentata! Potete lanciare le corde. Il vostro amico sta bene e mo’ ce lo portiamo in cella” disse la voce nasale.

“I che femmine che site! Brave! Guagliò, iamme! Ittate i funi!”

Don Gegè non vi scordate di noi, mi raccomando!” disse Gigliola, quella con la voce a forchetta.

Pochi gironi prima le due donne erano state contattate dai legali della famiglia Raffiolo, una delle più potenti dell’Agro Nocerino. Cinquemila euro a cranio erano anche troppi per tradire una mezza sconosciuta che passava la giornata ad ammorbare la cella di lamentele.  Quei soldi significavano  hashish a volontà per Gioglola e la retta di due anni  dell’istituto privato dove Viola sognava di iscrivere la figlia. Decidere non era stato difficile. Tutti quei soldi contro qualche mese di isolamento se lo scambio andava in vacca.

“Non v’ apprennetite, patanelle! I denari ve li site abbuscati sani sani!” rispose Don Gegè mentre tirava con forza le due corde di canapa a cui le due donne avevano legato la compagna svenuta. Quando gli cadde in braccio ancora addormentata era come se piovesse dal cielo! Le morse subito  una tetta attraverso la tuta. Come un cane a digiuno. Ma non c’era tempo. Avevano meno di quindici minuti per tornare in cella.  Erano sufficienti ma si dovevano sbrigare. Mentre affrettava il passo con il culo di quella donna fra le mani Don Gegè pronunciò il suo verdetto.

“Guagliò, prima o poje o direttore s’acapezzerà di chisto  imbroglie ma nel fratiempo a facimmo nuova nuova a sta pichiacca!””

III

Il primo impulso era stato quello di farsela subito. Ancora addormentata. Appallottolare tuta’ e slip sulle ginocchia della donna e prenderla da dietro, sul materasso dove la ragazza continuava a dormire.’ Non aveva’ ancora avuto cuore di spogliarla. Ma non era riuscito a vincere la curiosità e aveva dato uno sbirciata sotto la tuta. Portava un paio di mutande nere, abbastanza sgambate perché dai bordi trasbordasse un po’ di pelo. Ci aveva visto giusto. Le cosce affusolate, ora ripiegate in posizione fetale, erano ricoperte da lentiggini che aggiungevano all’insieme un aspetto felino. Si erano fatte quasi le due di notte ma non era andato oltre. Ogni tanto si cavava il cazzo dai pantaloni , si accovacciava su di lei a glielo strusciava con C on qualche rapida passata sulle labbra. Con l’altra mano giocava con i suoi capelli godendo dell’intensa fragranza di sciampo alla vaniglia. Verso mezzanotte il suo bel visetto era completamente impregnato dell’odore del cazzo dell’uomo. Era andato tutto bene.’ Alla conta delle nove, l’avevano tenuta in piedi’ in due, tipo remake di ‘Weekend con il morto’. Il secondino si era fermato davanti al’ collo della donna, mollemente reclinato sulla spalla. A Don Gegè era gelato il sangue pure nel basso ventre, che di solito era sempre ben caldo. Per fortuna l’agente di custodia aveva ghignato e aveva fatto solo’ un apprezzamento su quanto avesse infierito su Fragolone quel giorno. Il ragazzo sembrava esausto, ma se ci fossero stati problemi seri, Don Gerace O’ Raffiolo l’avrebbe mandato in infermeria per non perdere il capitale investito. Giunto a questa conclusione,’ la guardia continuò con l’ispezione delle alte’ celle, dimenticandosi di Don Gegè. Alle nove e trenta Don Gegè era finalmente solo con il suo nuovo animaletto. Vista da vicino era ‘davvero la versione deluxe di Fragolone, che già era un’ ragazzo molto carino e una donna ancora più sexy. Ma da quelle distanza non c’erano proprio confronti. Gli zigomi alti, gli occhi giganteschi, la bocca piccola ma dal taglio raffinato. Quel piglio un po’ impertinente che aggiungeva a quel volto così dolce un che di puttaneggiante che non guastava. E i dettagli. Le aveva tolto una scarpa e velato da un collant aveva’ scoperto un piede piccolo e curato. Niente a che vedere con il quaranta di Fragolone. Il collo era liscio e completamente glabro. Quando lo sfiorò noto con piacere l’assenza di quel fastidioso bitorzolo che continuava a finirgli in mano da ormai un quindicina d’anni. Le ossa del polso era minute tanto che le poteva stringere fra l’indice e il pollice della sua mano. Peccato per le tette che erano addirittura più piccole di quelle del suo protetto, che ora probabilmente dormiva in cella con quelle due. L’idea di farsela subito l’aveva scartata verso le dieci. Era un giocattolo che non voleva rompere subito. Un regalo che voleva scartare con calma. Magari al ritmo di un fiocchetto al giorno. La sua prima scopata dopo quindici anni se la voleva gustare fino in fondo. Certo se avesse subodorato che qualcuno stava mangiando la foglia, se la sarebbe fatta seduta stante senza aspettare che qualcuno intervenisse a rubargli il suo tesoro. Ma fino a quel momento avrebbe proceduto con calma. L’avrebbe protetta dagli altri e con calma l’avrebbe costretta con ad accettare quella nuova condizione. L’avrebbe prima torturata nella testa e poi nel corpo. Poi quando meno se l’aspettava l’avrebbe lasciata alla mercé dell’intero carcere, godendosi lo spettacolo delle iene affamate che si gettano sugli avanzi ancora caldi. Non era certo di saper resistere ma ci avrebbe provato con tutta la sua forza di volontà. Diede un occhiata al Rolex di acciaio, così’ pesante che le poche volte che scriveva ‘lo doveva sfilare dal polso. Si erano fatte le due e mezza. Altre cinque ore ‘e si sarebbe svegliata. Se Fragolone c’aveva messo sei ore, con il doppio della dose ci sarebbe voluto doppio. Non era un ragionamento da Nobel della chimica, ma era quanto meglio potevano produrre quattro ergastolani con il cazzo in tiro. Nobel o no non poteva permettere che la donna si svegliasse e iniziasse a urlare mentre lui dormiva. L’avrebbe vegliata tutta la notte. Quel compito l’avrebbe sicuramente lasciato a qualcun altro se non fosse stato sicuro che dopo dieci minuti l’avrebbe violentata nel sonno. Il primo doveva essere lui. Certo però stare sveglio tutta la notte era una faticaccia. Si sentì un coglione a non averci pensato prima. Non bisognava certo essere un premio Nobel per arrivarci.’ Sollevò di peso la donna e la mise sul pavimento, mentre sfilava dal suo letto il lenzuolo e la fodera del cuscino.’ Con il primo’ incaprettò le gambe con i polsi .La ‘fodera, ripiegata un paio di volte, si rivelò un meraviglioso bavaglio. Così conciata la ributtò sul letto sistemandole il cuscino, ruvido, lercio e senza federa, e gettandole la coperta addosso. Girata sul fianco sembrava’ stesse dormendo. Soddisfatto del lavoro Don Gegè se ne andò a letto e si addormentò’ satollo come non gli capitava ormai da tanto tempo, con ancora nelle mani il ricordo dell’ultimo schiaffone che aveva tirato al culo della donna prima di coricarsi.

IV

Quando Debora si svegliò rimase in uno stato semi-comatoso una mezz’oretta buona.
Un disgustoso odore di piscio e lana marcia stava progressivamente consumando il sottile velo chimico che ancora la teneva prigioniera. Più la puzza acquistava consistenza più le capacità della ragazza di avvicinavano alla normalità, finché la prima si fece insopportabile e la donna ritornò pienamente vigile. La ritrovata lucidità non la aiutò a decifrare il buio pesto in cui era immersa. Nè l’origine di quel tanfo da cesso che in parte le sembrava provenisse proprio da lei. Le mani erano legate con i piedi, pochi centimetri davanti il petto. Intorno alla bocca si era raccolta e seccata la saliva condensata intorno al fazzoletto che le infossava le guance dentro la bocca. Paradossalmente il disagio maggiore era dato dalla totale impossibilità di pulirsi il mento completamente impiastricciato di saliva. Sembrava una tortura inventata da un ciambellano cinese. Ma dove era finita? Della notte prima non si ricordava più nulla. Anche il ricordo di essere in carcere era ancora abbastanza appannato e per il momento faceva solo capolino alla sua coscienza.
All’improvviso una doccia accecante di luce gialla le fece ritornare alla mente tutti gli avvenimenti di quell’ultimo mese in una carrellata che non avrebbe sfigurato come trailer di Nightmare 7. Doveva essere caduta in un trappola tesa dalle sue compagne di cella. Ma cosa mai aveva fatto loro per meritare quel trattamento? Era una punizione? Un avvertimento? E perché l’avevano legata come una forma di provolone da stagionare? Un paio di mani la girarono su un fianco. Fu allora che capì come aveva sottovalutato le possibili risposte che potevano essere date alle domande che si erano affollate nella sua testa. Era finita nella cella di uomo! Un paio di sopracciglia increspate, sormontate da una pelata feroce. Un doppio mento che avrebbe fatto invidia ad Aldo Fabrizi.Ogni parte del corpo dell’uomo sembrava avere fame. Come in un documentario sui bambini denutriti del corno d’Africa. Lo sguardo dello sconosciuto sembrava proprio quello di un piccolo somalo davanti ad un pacco umanitario ONU. Con la differenza che quel tipo doveva pesare quasi un quintale e aveva i denti gialli da far vomitare. Altro che avorio.
‘Picirilla, ti sì scitata?’
Debora provò a scalciare ma il lenzuolo non si allentò di un millimetro. Ad urlare non ci provò neanche. Era imbavagliata così stretta che la mascella aveva iniziato a farle davvero male.
‘I quante sì bellilla !O sai che mo te faccime a festa?’
Debora lo guardò con la stessa paura di mamma Bambi un attimo primo di essere uccisa. Non sembrava però aver afferrato il pesante dialetto dell’uomo.
‘O capisce quanno parle? Va buò, iamme, parlamm italiane! Tu siì a troia mia. Questo l’hai capito, puttana?’
Debora strabuzzò gli occhi e provò d’istinto a coprirsi la fica con le ginocchia. Si sentiva nuda anche con la tuta addosso, davanti alle palesi intenzioni di quel grassone in canottiera .Sentirsele vomitare addosso con quel linguaggio che si usava con le donne di strada fu come un secchio di acqua fredda.
‘Va buò! Calmate! E facimme due chiacchiere. Facciamo se preferisci. Ma o napoletano te l’hai imparà, bucchinara!’
Debora trasalì ancora. Sentirsi chiamare in quel modo la faceva sentire degradata e spaventata. Le dava l’idea dell’irrimediabilità del destino a cui stava andando incontro.
‘Allora. Io mi chiamo Don Gerage Rafelillo. Qualcuno mi chiama Gerage O’ Raffiolo ma tu non ti devi permettere. Mi potrai chiamare Don Gerace e rivolgerti a me con il lei o il voi. Sta vocca bella adda alliscià cazzi non parule!
E detto così le prese fra due dita il labbro superiore e lo tirò scoprendo a forza gli incisivi immacolati della donna.
‘Tu invece ti chiami Debora e sì na puttana! Sì pure spusata con u strunz che se chiame Roberto! Chissà se to fai mettè in cule!’
Debora strabuzzò di nuovo gli occhi con il pollice dell’uomo che le frugava le guancie dall’interno, come a controllare la dentatura di un cavallo.
‘Mo ci toglimmo sto muccaturo da a vocca! Sissignore o fazzoletto! Come cazz’ o chiamate a Torino? A proposito i Torino. Ti devo dire una cosa che ti farà dispiacere!’
Debora lo fissò con aria interrogativa.
‘Devi sapere che sotto lo studio grafico Castaldi e Partenèr ci stanno due cugini miei. Sono sicuro che lo conosci. Se te miette ad allucà, ad urlare, o marito toio o caricammo into bagagliaio e poi gli faccime na cravvatta colombiane nuova nuova!’
Debora iniziò a piangere. Sapevano anche dove lavorava suo marito.
‘Na cravvatta colombiana è come una lengua che penzola dal collo dopo che t’hanno apruto da un orecchia all’altra! Mo’, hai capito cosa succede a tuo marito se ti metti ad urlare?’
La donna mosse la testa in avanti mente chiudeva gli occhi che si stavano infiammando.
‘Tu urla, e maritete è muorto!’
E detto così iniziò lentamente a slegare il noto del fazzoletto, puntandole il cazzo duro fra le scapole.
Appena le mascelle furono libere, la donna tossì per qualche minuto. Don Gegè premurosamente le asciugò la bocca, imbratta di lacrime e saliva. L’idea di avere finalmente quel giocattolino a sua completa disposizione lo faceva impazzire.
‘Come ti chiami, bucchinara?’ lo sapeva ma voleva sentirlo dire dalla sua voce.
‘Arrispundi, strunza!’ e dettò così le assestò una pedata sul culo facendola cadere sul pavimento a faccia a terra. Ancora legata non riusciva a rimettersi seduta. Don Gegè l’afferrò per i capezzoli con due paia di dita e la tirò a sé, sistemandola contro il bordo del letto. Notò che, nonostante la dimensione delle tette, i capezzoli erano abbastanza sviluppati da consentire quella manovra. Continuò a tirarli verso l’alto attraverso la stoffa, finche la ragazza squiittì il suo nome in un urletto alto e sexy.
‘Debora, parliamoci chiaro. Cosa ci sei venuta a fare qui, l’hai capito pure troppo bene. Prima c’avevo un femminiello. Adesso ci stai tu. Tu sei la troia mia. Se volessi ti potrei violentare anche adesso. Ricordati che se io non rimango contento di te, tuo marito farà la fine che ti ho spiegato. E’chiaro? Mi sono spiegato, troia?’
‘Sì’ rispose Debora con gli occhi bassi. Avrebbe voluto chela stuprasse subito piuttosto che continuare con quella tortura.
‘Ora, io mi voglio divertire un po’. Per adesso se non fai stupidaggini tuo marito rimane al sicuro. Quando ti chiedo un cosa, tu puoi decidere di farla o meno. Se non la fai ci saranno conseguenze.’
Debora strabuzzò gli occhi urlando ‘No, Roberto’
‘O vire che non hai capito nu cazz? Le conseguenze sono per te. Chillo strunzo ro marito toio fa una brutta fine solo se ci fai scoprire. Ah mi ero scordato! Tu da ora in poi ti chiami Franco Papetti, detto Fragolone. Vedi di ricordartene. Parla poco e vedrai che a tuo marito non succederà nulla. Ah! E’ arrivato o caffè!’
Don Gerace, dall’alto del suo rango, aveva i suoi privilegi. Il caffè glielo portavano in cella tutte le mattine alle otto. Due tazzine su vassoio di latta. Una per lui, una per la sua Servetta. Quella mattina congedò il secondino brusco.
‘Sai come mi piace berlo? Il caffè sto dicendo’
Debora scosse la tessa.
‘Con il cazzo infilato nella bocca ad una troia come te. Fragolone si inginocchiava e me lo teneva al caldo. Il cazzo non il caffè. Iamm”
Detto così la mise inginocchio, ancora legata sotto il tavolo, e si abbasso i pantaloni.
‘Non lo devi succhiare, mi raccomando!’
Provò un paio di volte a forzare le labbra della ragazza, mentre, seduto con la donna bloccata fra le ginocchia, spingeva il bacino verso l’alto. Davanti a quel cazzo puzzolente e umido, per quanto spaventata, Debora non riusciva proprio a schiudere le labbra. Ad ogni colpo, la punta del cazzo s’infrangeva sulle labbra chiuse e le finiva sulle narici facendole male. Roberto non l’aveva mai trattata a quel modo. Il sesso orale era sempre stato fuori discussione. Per la prima volta in vita sua capì il significato della parola ingiustizia. Una cosa è leggere delle prepotenze di capicosca e funzionari pubblici nel meridione d’Italia, un’altra era stare in equilibrio fra le gambe grasse e pelose di un uomo che usava la tua faccia come carta igienica. Soffrendo di prostata, dal cazzo di Don Gegè ad ogni colpo uscivano delle dense gocce di piscio che si confondevano con le lacrime della donna. Appurato che Debora non avrebbe collaborato, Don Gegè se la sistemò sotto in modo che le palle si appoggiassero sui capelli e il cazzo le penzolasse fra gli occhi. In quella posizione si gustò il caffè e i singhiozzi della donna, infilando ogni tanto nella bocca della donna un pezzettino di brioche o un dito intinto di caffè. Era giusto che anche lei facesse colazione.
‘Va beh, per oggi è andata così! Ma vedrai che presto cambierai idea! Mo iamucene a cuccà! ‘
Don Gegè, aveva passato una notte insonne e vista l’età non c’era più abituato. Con i pantaloni ancora sbottonati slegò mani e piedi della donna, che si alzò da sotto il tavolo massaggiandosi i polsi e le caviglie.
‘Vatti a stendere sul letto mio!’
Dabora lo guardò. Non sapeva cosa dire. In effetti non aveva ancora pronunciato quasi mezza parola. Ma cosa poteva replicare a quel aguzzino che non aveva nessun rispetto di lei e dei suoi sentimenti.
‘Ti prego, scopami e facciamo’
Uno schiaffò in pieno volto le ricacciò le parole in gola. Don Gegè riconobbe con sé stesso che quello sguardo da cerbiatta lo rendeva violento.
‘Mi devi chiamare Don Gerace, puttana! Non te lo scordare! E mo’ sdraiati sul letto’
Debora, si coricò a pancia all’aria. Aveva ancora le scarpe della notte prima.
‘A culo in aria, mappina!’
Sempre più spaventata la donna si morse la lingua e lentamente si girò con il culo rivolto al soffitto.
Don Gerace le tolse le scarpe e le passò le dita fra le dita dei piedi, come a voler sottolineare che non c’era una parte della donna che non gli appartenesse. Poi spense la luce. Pochi secondi dopo sentì le ginocchia dell’uomo sui suoi polpacci. Non ebbe nemmeno il tempo di urlare che l’uomo le aveva afferrato il lembo dei pantaloni e dello slip e gliel’aveva abbassati poco sotto la coscia. Il suo alito le era di nuovo nelle orecchie.
‘Statte buone, pichiacca! O momento toio ancora a d’à venì’
E detto così le piazzo un mano sulla bocca e il cazzo per lungo nella fessura del culo. La donna, spaventatissima, cominciò a dimenarsi e a mordere la mano del suo nuovo proprietario, schiacciata dalla mole dell’uomo. Provava a scrollarselo di dosso, facendo perno con le ginocchia e i gomiti e spingendo verso l’alto. L’unico effetto che produsse fu quello di iniziare a masturbare con le chiappe nude il cazzo dell’uomo, adagiato su tutta la lunghezza di quel meraviglioso solco. Le palle a sfiorare la fica. La cappella quasi all’inizio della schiena. La donna sì senti il cazzo crescerle fra le natiche. Sempre più spaventata si immobilizzò all’istante, terrorizzato che quel porco potesse venirle addosso.
‘Nun te fermà!’
La donna era paralizzata dalla situazione. Non muoveva più nemmeno mezzo muscolo. A Don Gegè gli si stava quasi ammosciando dalla delusione. Non si perse d’animo. Con la mano libera entro nelle tuta della donna e le afferrò il capezzolo sinistro dietro al reggiseno. Strinse con tutta la forza. La donna rimase immobile, finché Don Gegè non concentrò tutta la forza sulle unghie di pollice e indice. A quel punto la donna iniziò a dimenarsi furiosamente, impastando suo malgrado il cazzo dell’uomo fra le sue natiche. Quando sentiva che stava per venire, allentava la pressione in modo che Debora rallentasse o addirittura si fermasse. Andò avanti così per quasi dieci minuti poi Debora si sentì inondare la parte alta dalla schiena da uno schifo viscido e appiccicoso, mentre la mano che aveva davanti alla bocca finalmente si rilassava.
e la gambe che la bloccavano tremarano su si lei per qualche secondo.
Dopo qualche secondo chiese con un filo di voce
‘Don Gegè, mi posso andare a pulire?’
‘Dormiamo.’
Pochi minuti dopo l’uomo si era addormentato sopra di lei. Quel primo mattino nel braccio maschile, Debora lo passò con un cazzo moscio nel culo, lo sperma dell’uomo che le si asciugava addosso, e le lacrime di schifo e rimorso a ricordarle quanto le stava costando quella stupida promozione.
V

La sua prima sera al braccio maschile iniziò molto male. Un remake in chiave splatter del mattino appena trascorso. Si svegliò in un cella, ancora un volta mezza intontita. Ci volle qualche minuto perché si ricordasse dell’isolamento. Evidentemente la ciliegina sulla torta della la punizione per lo sgarro arrecato al suscettibile cazzo di Don Gegè. Era iniziato tutto a pranzo. A mensa, un brutto ceffo che chiamavano Miì, le aveva sputato nel vassoio che, anche senza quel condimento, non sembrava così appetitoso. Tenuta a digiuno come si fa con una cagna che non vuole obbedire. Adesso le brontolava lo stomaco. Ma c’era di peggio. Dalla radiografia a cui era stata sottoposta dalla retine dell’uomo della mensa, sospettava che quel maniaco sapesse del reggipetto sotto la tuta. Il sospetto era confermato dal fatto che poco dopo il maniaco le aveva stretto la mano sull’inguine e l’aveva tenuta lì per tutta la durata del pranzo, armeggiando con le dita a suo piacimento. Gli altri detenuti non ci avevano badato più di tanto, tranne Don Gegè che era seduto dal’altro lato. Debora non era riuscita neanche a guardalo quel vassoio, coperto come era da quello schifo. Figurarsi mangiare. Il pomeriggio era stato più tranquillo. Don Gegè era uscito a far visita agli altri detenuti. Questioni importanti da discutere. Qualcosa su un pentito infame. Qualcosa che non poteva aspettare. In ogni caso il cazzo di Don Gegè, segnato dall’età e non più troppo avvezzo a emozioni così potenti, aveva bisogno di un po’ di tregua. Lo rivide allora di cena. Aveva tanta fame stavolta. Il vassoio le era quasi sembrato invitante.
Stava quasi per provare una forchetta di fusilli scotti, quando un bolo color dente marcio glieli farcì con una spruzzata di sputo fresco. Di nuovo una squadra di calcetto di dita a correrle sulla coscia. Stavolta si lavorano la tuta in cerca delle natiche. Soprafatta dalla fame, con le lacrime trattenute a stento questa volta Debora reagì. Mimì o’ Pazz’ non ci poteva credere che quella puttana avesse osato afferrargli il polso per provare a liberarsi dalla sua morsa. Don Gegè era stato chiaro. A mensa dalle caviglie dall’ombelico, la bucchinare è roba toia. Un premio che pensava di aver meritato sul campo. Si alzò di scattò e lasciò partire un manrovescio di quelli che menava alla moglie quando la trovava a leggere Donna Moderna. Così sprecava i suoi soldi la stronza. Debora, schivò il colpo lanciandosi indietro sulla sedia. Finì a gambe all’aria mentre il vassoio, colpito da un piede, le si rovesciava addosso. Ai secondini il casino a mensa piaceva poco. Dopo essersi accertati, con una rapida occhiata che Don Gerace non avesse niente in contrario, la sbatterono in isolamento senza troppi complimenti. La lasciarono in una cella vecchio stile, priva di porta, ma bloccata da un grata in ferro che occupava l’intera parete che dava sul corridoio. Un pertugio stretto su cui si affacciavano altri loculi simili. I servizi igienici erano a vista, protetti solo da un tenda sporca che pendeva triste dal soffitto, con il dubbio compito di garantire un minimo di privacy a chi andava in bagno. Le altre celle era tutte vuote.
Nonostante il neon perennemente acceso, aveva finito per appisolarsi. Un paio d’ore dopo era di nuova desta e ancora più affamata. Si rese conto che a svegliarla era stato un sassolino, un frammento di parete, che le era rotolato sulla nuca. Ne seguì presto un altro. Non ci mise molto a capire che quei sassolini non stavano mica piovendo dal soffitto. Glieli stava tirando un negro tarchiato con un gran sorriso dipinto su una bocca spropositata e munita di denti incredibilmente quadrati, regolari e larghi. Le ricordava Bingo, il gorilla di Banana Split in versione cattiva. ‘Fragolone! Invertito del cazzo! Facci vedere le tette!’ l’apostrofò il gorillone.
Purtroppo per lei, lo scimmione non era solo. Era con altri cinque energumeni, tutti altrettanto ghignati e contenti di aver trovato un passatempo per rompere la monotonia dell’isolamento. Certo era un po’strano che in una cella di isolamento ci fossero cinque persone. Che razza di isolamento poteva essere? Cinque o dieci non potevano comunque farle niente finché rimaneva al sicuro nella sua cella. Non raccolse la provocazione e se ne rimase zitta nel suo cantuccio. Ma era difficile riuscire ad ignorare per più di qualche secondo, l’assordante coro di voci che la apostrofavano in tutti i modi possibili manifestando piena adesione alla richiesta fatta dal gorilla. Perché le stavano chiedendo di scoprirsi il seno? Sapevano che era in realtà una donna? E allora perché l’avevano chiamata ‘Fragolone’? Con il nome dell’uomo che era costretta scimmiottare.
‘Dai stronzo! Facci vedere quanto sono cresciute sto mese!’ rincarò la dose un altro marocchino con un sfregio che andava dal mento ad un orecchio. Qualcuno deve aver provato a fargli una cravatta colombiana, pensò Debora sentendosi disgustata per la rapidità con cui stava entrando in quel mondo.
‘Dai Fragolone! Faccelè vedè! Ti ricordi che è successo l’altra volta?’
Il gorilla parlava in perfetto accento italiano, addirittura con una certa inflessione di romanesco. Forse per non smentire la sua natura, il gorilla si appese alla sbarra della tenda da doccia usata per nascondere il cesso da sguardi indiscreti. Dopo un paio di oscillazioni da trapezista, la struttura non resse il suo peso e venne giù. La sbarra, una volta caduta, si divise in due pezzi, rilevando che era composta di due componenti che si infilavano l’una nell’altra. Il gorilla e lo sfregiato se ne impadronirono, sfilando la tenda che era rimasta arrotolata dentro la più lunga. Debora trasalì intuendo che le volevano usare per scassinare la serratura della loro cella. Non riuscì a finire il pensiero che il Gorilla le piantò nello stomaco la sua sbarra come fosse una lancia. Non si era resa conto che quell’ambiente era così angusto che entrambe le aste potevano facilmente raggiungerla nella sua cella.
‘Fragolone, facci vedere ste tette o ti facciamo nuovo nuovo!’
Un secondo colpo le arrivò fra le tette. Stavolta era stato lo sfregiato. Invece di mollare la presa, la bloccò al muro spingendo con tutto il peso sull’asta. Debora urlò con la certezza che le costole avrebbero ceduto da un momento all’altro. Dalla cella di fronte stavano battendo tutti quanti sulle sbarre, eccitati dallo spettacolo e dalla prospettiva di vedere un paio di tette. Su un bel travesta come Fragolone, in carcere non ci sputava sopra nessuno.
‘Bravo! Allora ce l’hai la lingua?’
‘Lasciarmi…’ provò a protestare la donna con l’ultimo fiato che le rimaneva nei polmoni.
‘Col cazzo’ rispose il gorilla.
E detto così, infilò la sua sbarra fra le gambe della donna salendo sempre in alto, neanche Mike fosse Bongiorno sul Cervino. Quando arrivò alla fica cominciò ad assestare una serie di ritmici colpetti, con l’intenzione di stimolare l’inesistente cazzo della donna. All’improvviso si bloccò e calò con forza l’estremità dell’asta fra le cosce di Debora, che stava provando disperatamente a tenerle chiuse. Dalla stoffa tesa emerse un inequivocabile zoccolo di gnu, che rese palese a tutti quello che il gorilla aveva già capito.
Le aste furono ritirate all’istante. Nella cella calò il silenzio.
Poi preso da un raptus, lo sfregiato si avventò sulla una donna martoriandole il corpo con una serie di colpi che Debora riuscì a schivare solo in parte.
‘Spogliati, troia! La fica! Voglio la fica!’
Eccitati da quello spettacolo si misero ad urlare tutti quanti, calandosi i pantaloni e iniziando a masturbarsi furiosamente.
‘Faccela vedere!’
‘Se ti prendo te rovino, troia!’
‘Fammi vedere il culo, che te lo sfondo!’
Debora correva in lacrime per la cella cercando disperatamente di evitare i colpi dello sfregiato. Nonostante le finte e gli abili cambi di direzione almeno un colpo su cinque andava a segno. Per fortuna erano solo colpi di striscio. Lo sfregiato stava aumentando il ritmo. Per fortuna stava anche perdendo precisione, travolto come era dall’eccitazione. Un altro negro, con un eritema schifoso sul cazzo, afferrò l’altra sbarra per dare man forte al compagno.
Debora iniziò ad urlare anche lei. Ma la sua voce era soprafatta da quella degli uomini. La sua unica speranza era che arrivasse un secondino attratto da quel casino, degno di una finale di coppa.
‘Cazzo, così la rovinate!’
Il gorilla aveva afferrato le due aste che sembravano cercare il corpo della donna come un impiccato che reclamo l’ultimo sbuffo d’aria.
In pochi secondi aveva strappato le sbarre dalle mani dei due lancieri, esausti e impediti da pantaloni già arrotolati sulle gambe. Debora potè finalmente rifiatare, mandida di sudore, affamata e assetata come non mai.
‘Zoccola, spogliati’continuò il Gorilla ‘se no finisci male. Non so come ci sei capitata qui, ma non ci esci se non ti abbassi quei pantaloni!’
Debora per tutta risposta si era accucciata nell’angolo più lontano con i piedi incrociati e il viso affondato nelle mani. La sentivano singhiozzare dalla paura. Erano gli ansimi che li eccitavano. Ansimi da cagna braccata. Parevano provenire da quel ventre piatto che si abbassava e si sollevava sotto la tura.
‘Va beh, ragazzi continuate! Ma colpitela sulle mani e piedi, se va a finire che la roviniamo!’
Cazzo devastato riafferrò la sbarra e le assestò un forte colpo sul piede destro. Debora scattò in piedi tenendolo fra le mani e saltellando sull’altra gamba. Dopo pochi secondi il primo colpo fu doppiato da un secondo fendente che la prese sulla mano con cui si teneva il piede. Perse l’equilibrio e cadde per terra. Quando fece per rialzarsi, lo sfregiato stava prendendo la rincorsa mirando all’altro piede.
‘Va bene! Ma basta! Basta! Vi prego!’
A quelle parole i due uomini si fermarono come incantati.
Dopo un attimo di silenzio tutti iniziarono a scandire nu-da nu-da battendo i pugni sulle sbarre.
Qualche minuto dopo, quando la donna si alzò in piedi, il silenzio calò di nuovo.
‘Come ti chiami, troia?’
La donna esitò poi rispose con quel poco di voce che riuscì a farsi strada fra le lacrime.
‘Ma che ci frega come si chiama..’
Il gorilla ignorò quella protesta e continuò imperterrito.
‘Bene Debora. Abbassati quei pantaloni e vedi che non ti tocca più nessuno’
A quelle parole Debora afferrò i lembi della tuta e fece per abbassarli con un movimento rassegnato.
‘Piano’ la bloccò il gorilla ‘ sfilateli piano! Sono anni che non vediamo un paio di cosce!’
La sete e la fame la rendevano sempre meno lucida. E forse era un bene. Lentamente fece scendere i pantaloni fino alla caviglia, scoprendo un paio di gambe bianche e proporzionate. Una spruzzata di lentiggini coloravano l’interno delle cosce. Lo slip, madido di sudore, era diventato quasi trasparente. Dai lati spuntava un pelo rossiccio e abbandonante.
‘Non lo sai che solo le tedesche non si depilano, troia!’
Tutti risero mentre ci davano come matti sui loro cazzi che puntavano verso la donna, accalcati sulle sbarre nel disperato e inutile tentativo di volerla raggiungere.
‘Adesso girati! E facci vedere il culo!’
Debora si girò mostrando a quegli uomini sempre più arrapati un culo scolpito in tante sedute in palestra. Le piaceva provocare indossando pantaloni e gonne attillate. Non aveva mai pensato di essere costretta ad agitarlo davanti ad un piccola folla come le stava urlando di fare lo sfregiato. Iniziò a sculettare verso il fondo della parete con le natiche che sollevavano la stoffa dello slip. Arrivata alla parete qualcuno le urlò di toccarsi la punta dei piedi. Intontita dalla sete rispose a quel comando con la volontà di un automa. La punta dell’asta che le sondava delicatamente l’ano la riportò improvvisamente alla realtà. Scattò in avanti d’istinto. Ma un colpo più forte le arrivò subito sulla coscia.
‘Ferma zoccola’
L’ispezione durò qualche minuto. I detenuti si stavano passando l’asta nel tentativo si smutandarla. Immobile con le mani al muro, Debora piangeva e chiedeva ormai senza ritegno a quegli uomini di lasciarla in pace, non facendo altro che aumentare la loro eccitazione. Alla fine si sentì gli slip scivolare alle caviglie e fu costretta a sfilarseli per non inciamparci sopra.
‘Adesso girati!’ le urlò con cattiveria il gorilla.
Si girò piano, tirando la tuta verso il basso a proteggere la fica.
‘Toglitela dai’
Timidamente la donna rimase in reggiseno, scoprendo un triangolo rosso in disordine e di notevoli dimensioni Gli uomini incantati da quello spettacolo dimenticarono di farle sfilare il reggiseno.
‘Accovacciati’ urlò lo sfregiato
‘Brava adesso aprila, bene’
Distrutta dalla vergogna, Debora fu costretta ad infilarsi due paia di dita nel solco fra le gambe e a dilatarlo davanti a quegli sconosciuti che si stavano masturbando senza pietà per le sue lacrime. Alla fine il più eccitato dei 5, un magrebino con i capelli a spazzola, le eiaculò addosso. Debora riuscì ad evitare lo schizzzo all’ultimo momento, chiudendo le cosce e candendo a sedere.
‘Troia!’
L’epiteto fu accompagnato da un nuovo colpo, questa calato sulla spalla.
‘Adesso lo raccogli e te lo spalmi in faccia!’
‘No, vi prego”
‘Zitta!’
‘Muoviti!’
Debora non ebbe scelta. A quattro zampe si diresse verso la macchia di sperma. Con le tette pendule in mostra si ricordarono che la donna non si era ancora denudata completamente. Lo sfregiato le ordinò di togliersi il reggipetto e di mettersi la ‘crema’ sul viso e le tette. Mentre lo spalmava sulle guance e le tette si ricordò della crema alla calendula in camera sua. Il ricordo le provocò un altro accesso di pianto. Come stava cadendo in basso. Per un momento la sete l’aveva quasi spinta a portarsi quel liquido vischioso alle labbra. Quando ne fu consapevole si fece schifo da sola. Come aveva potuto venirle in mente?
‘Adesso, siediti con le gambe fuori dalla sbarre!’
Questo no. Il contatto fisico con quei bastardi non l’avrebbe proprio tollerato. Completamente nuda arretrò di nuovo verso il fondo.
‘No’ se volete mi tocco io ma per favore”
Non poté finire la frase, che il gorilla e lo sfregiato la investirono con una serie di pesanti colpi alle gambe. Nonostante gli uomini stessero cercando di controllarsi, un bozzo nero si andava scurendo sulla coscia destra. Provò a fuggire per la cella, ma quel correre sulle punte non fece altro che eccitare gli uomini che la incitavano e schiamazzavano.
‘Adesso siediti con le gambe fuori dalla sbarre’
Fu costretta ad eseguire l’ordine, infilando le gambe fra due sbarre. I piedi arrivano un po’ oltre la metà del corridoio. Per fortuna per lui, solo cazzo devastato e capelli a spazzola riuscirono a raggiungerla e afferrarle i piedi. Frustati dal fatto di non riuscire a toccarla oltre il ginocchio, iniziarono a toccarla con cattiveria, piegandole all’indietro le dita dei piedi e strappandole i rari peli biondi che crescevano sui polpacci.
‘Aspettate ragazzi’ ghignò ad un certo punto il gorilla. Aveva avuto un idea.
‘Tenetela ferma’
E detto così si fece spazio fra le cosce della donna con la sua asta. La fica della donna era protetta dalla sbarra verticale che le separava le cosce. Raggiungerla non fu facile. Debora si dimenava come un tonno nell’ultimo tratto di rete. Urlava e piangeva. Ci vollero cinque minuti buoni. Fu una scopata collettiva. Mentre cazzo devastato e capelli a spazzola la tiravano verso la asta, gli altri tre uomini la stantuffavano con l’asta. Era ridotta ad una fica che veniva impalata sulla punta dell’asta con il ritmo e la cadenza che quegli uomini preferivano. Si sentì umiliata come non mai quando gli uomini cominciarono a darsi il tempo con la voce. Quando la tiravano in avanti, l’asta veniva spinta dentro di lei. Quando l’allontanavano, anche l’asta veniva ritratta di qualche centimetro.
‘O issà! O issà’
Durò una decina di minuti. Alla fine non ce la fece più e lanciandosi all’indietro ebbe un orgasmo seguito da un lungo e caldo fiotto di orina. Capelli a spazzola e lo sfregiato , davanti quello spettacolo, non ressero più e vennero senza neanche toccarsi.
‘Adesso il culo ragazzi’
Ma Debora, per fortuna per lei svenne e si risparmiò la profanazione del suo culo che avvenne nello stesso identico modo, dopo che fu costretta a sdraiarsi a pancia in giù con le gambe fuori dalla cella.
Quando si riprese era completamente distrutta e sporca di sperma. Continuava a ripetere di aver sete.
Gli uomini che si erano svuotati il cazzo più volte erano ormai esausti.
Alla fine il gorilla si stufò di quella cantilena.
‘Hai sete troia? Mettiti in ginocchio davanti alla gabbia!’
Debora era completamente intontita. A stento capiva cosa le stava succedendo. Eseguì l’ordine passivamente con gli occhi chiusi e le mani che pendevano stanche sui fianchi. Ad un certo punto si sentì la faccia inondare da un liquido caldo e puzzolente. Aprì gli occhi di getto e non riuscì a credere a quello che vedeva. C’erano cinque fontane davanti a sé che come per magia la stavano inondando d’acqua. Stremata dalla sete, spalancò la bocca e iniziò a passare istericamente da un fiotto all’altro. AI cinque uomini non parve vero.’
‘Ti piace il piscio troia!’
‘Bevi! Bevilo tutto!
Quando si accorse di cosa stava facendo gli uomini si erano quasi completamente svuotati. Iniziò a sputare convulsamente e diede di stomaco quando realizzò che in effetti la sete suo malgrado le era passata.
‘Rivestiti adesso, troia!’
Stava ancora tossendo quando le arrivò nuovo colpo fra le scapole.
‘Rivestiti! Non so come ci sei finita in un carcere maschile, ma più ci rimani meglio è per tutti!
L’affermazione dell’uomo fu salutata dalle risate di tutti i presenti.
Con le ultime forze riuscì rivestirsi poi svenne di nuovo con la consapevolezza che adesso lo avrebbero saputo tutti. Il tempismo dei suoi aguzzini era stato perfetto. Il secondino di turno passò una mezz’ora dopo per l’ispezione delle due. Qualche minuto dopo Debora si sentì sbattere pesantemente su un letto. Pensò al peggio ma quando aprì gli occhi di scatto si ritrovò in infermeria.
‘T’hanno fatto la festa, eh Fragolone?’
Troppo stanca per pensare ad una risposta richiuse gli occhi e dormì come una bambina fino a mattina inoltrata.

VI

 

“Allora puttana, oggi to’ vo’ piglià?”

Don Gegè  aveva di nuovo la tazzina in mano quando la riaccompagnarono in cella dopo una notte e un giorno di infermeria Quando i due secondini li lasciarono soli, Don Gegè si afferrò il cazzo nel pugno.

Iamme! Sotto o’ tavole e pigliatello! L’aggia ancora bere stu caffè!”

Debora stava per scoppiare in lacrime di nuovo. Ultimamente non faceva altro. La giornata abbondante trascorsa in infermeria le aveva dato un po’ di tempo per rifiatare. Quel uomo, il suo proprietario, come si era definito,  le stava mettendo di nuovo di fronte all’evidenza dell’incubo in cui era precipitata. Senza un minimo di comprensione per quello che aveva già patito. Senza un briciolo di  compassione per quello che lei stava provando in quel momento.

Come una contadina costretta a denudarsi davanti al signorotto locale la prima notte di nozze. Milioni di donne prima di lei erano state costrette a subire un simile trattamento. Non ci aveva mai pensato. Ma adesso che stava capitando a lei, si rendeva conto della portata di una simile ingiustizia. Aveva ormai  perso completamente il controllo del suo corpo e della sua intimità

“Don Gegè vi prego…” protesto fra le lacrime

“Se faccio quello che mi chiedete, mi rimandate di là?”

Don Gegè strappò un pezzo del cornetto che stava mangiando, lo buttò per terra e lo bloccò sotto il mocassino..

“Inizia a mangiarti sto cornetto”

Quando la donna si abbassò e allungò un mano per raccoglierla Don Gegè le allontanò la mano con la punta del mocassino.

“E chi ti ha detto di toccarlo?”

Debora  si bloccò come paralizzata con la mano sospesa a mezz’aria in un gesto a cui era stato tolto ogni senso.

“La prego…”

Picirilla! Tu devi capire una cosa. Qua le cose soro due: o ti prendi sto cazzo o to priend da tutt o’ carcere! Te piaciuto l’altra volta, eh bucchinara? Mo o’ sape tutto o carcere chi cazz sì! Ti stanno aspettando  per farti in tutti i buchi che tieni. Io posso pure aspettare ma quelli non vedono una donna da anni. Stasera ci stanno le docce. Una volta uno l’hanno tenuto sotto per 5 ore. Ed era un uomo. Ti puoi lavare con me, con gli altri che guardano. O il contrario. Decidi tu”

“Ma quando potrò tornare…”

Quando mi sarò rott’u cazz! Nun nu capisci che tu non conti più niente?”

Detto cos’ si afferrò nuovamente il cazzo in tiro e lo offrì alla donna ancora avvolto  nella tuta, rimanendo comodamente seduto davanti alla colazione. La donna, terrorizzata da quella prospettiva si inginocchiò, sotto il tavolo. Dalle docce era anche difficile pensare che ne potesse uscire viva. Nel suo braccio la doccia la facevano in turni di 50 persone alla volta. Era sicura che quasi nessuno si sarebbe accontentato di un giro solo. Lentamente aprì la bocca e finalmente accolse fra le lebbra  il membro dell’uomo che così prendeva finalmente possesso del suo giocattolo. Attraverso il cotone della tuta lo sentiva pulsare come impazzito.

“Brava!Brava! E adesso fammi fare colazione!”

Detto così inzuppò la briosche nel caffè e mangiò tranquillamente con il cazzo placidamente al caldo fra le labbra della donna. Andò avanti così per cinque minuti buoni. Quando si sporcava con burro e marmellata si puliva le mani su capelli della donna, approfittando dell’occasione per cambiarle posizione.

Dopo qualche minuto lo raggiunsero in cella i suoi uomini. Dalle nove e mezza fino all’ora di pranzo i detenuti potevano liberamente girare nella casa circondariale. C’era la banda al gran completo.

“Alla buon’ora! La troia c’ha fatto la grazia!” esordì Ciruzzo O’ Capitone.

Eh brava a bucchinara, te piace o biscotto ro’ capo?”

Guagliò basta! Piuttosto come stamme a denari?”

Buono! Sta settimana avimmo fatte 15 sacchi! La neve rende bene anche dentro!”

“Bene! E i Camel? So’ arrivate!”

“Niente ancora Don Gegè! Ma stiamo inguaiati di Marlboro!”

Debora sotto il tavolo piangeva ormai senza ritegno. Sentir parlare quei tre degli affari loro come se quello che le stava accadendo sotto il tavolo  fosse del tutto normale, la fece crollare. In effetti nella vita di Fragolone un episodio simile rientrava nella routine quotidiana.  

Cessa! Chi cazzo t’ha dato o’ permesso di fermarti?”

Suo malgrado Debora fu costretta a riaccogliere in bocca il cazzo dell’uomo.

Don Gegè,  fatecè sentì. Va site scupata?” chiese finalmente Totonne o’ Pavesino.

“E che volete guagliò| Mo’ mo’ si è addomesticata. Non c’è stato ancora modo!”

“Don Gegè ricordatevi della promessa che ci avete fatto !“

Era stato Mimì o Pazz’ a parlare. Debora trovò il coraggio di guardarlo da sotto il tavolo. Negli occhi aveva  speranza, cattiveria e soprattutto un fame senza limite.

“Sissignore e sia! Assitatevi angoppe o  lietto, allora!”

Detto così Don Gegè afferrò i capelli della donna e la mise nuovamente in piedi.

 “Salì sul tavolo. Sta tuta c’ha sfranticato o cazzo!”

Debora appoggiò un piede sul tavolo. Subito la mano del capocosca le fu sul culo per spingerla sul ripiano del tavolo dove c’erano ancora gli avanzi del pasto dell’uomo.

Questa volta il don non perse tempo e le infilò il medio nella fica senza pensarci troppo.

Così Debora si trovò ad un metro da terra in mostra davanti a quegli uomini. Come una ballerina di lapdance su un tavolo di un night. Per la verità si sentiva più come un capo di bestiame ad una fiera di agricoltori in calore.

“Quello che devi fare o sai! Inizia dalle scarpe!”

Debora si  tolse le scarpe rimanendo scalza fra tazzine sporche e pezzetti di cornetto non finiti.

Guagliò che vulite verè?” chiese Don Gegè che voleva prolungare l’umiliazione della donna il più a lungo possibile. Mimì si era fissato con  il culo. Ma Totonne e Ciruzzo non vollero sentire ragioni. Volevano vedere le tette.

“Hai capito, o no?”

Debora non riusciva a trovare il coraggio di denudarsi. Rispetto alla cella di isolamento era più vigile e il suo senso del pudore molto più presente. Un pesante cazzotto sulle dita del piede le fece quasi perdere l’equilibrio. Don Gegè per fortuna le afferrò una caviglia prima che cascasse dal tavolo.

Ce stai rompendo o cazz!”

La maglia della tuta se ne andò. Don Gegè le ordinò si stare ferma con le mani dietro la nuca.

“Mo faccimme no giuoco!”

Il reggiseno della ragazza fu messo all’asta. Ognuno poteva fare un’offerta. L’offerta più alta comprava il diritto di denudare le tette della donna

“Cinquanta!”

“Cento!”

Ad ogni offerta Debora trasaliva, sperando che qualcuno rilanciasse ancora in modo da allontanare ancora un po’ il momento un paio di mani pelose avrebbero iniziato spogliarla davvero.

“Centocinquanta!”

“Tienatillo! Mi risparmio i denari per a mutanda!”

Quel linguaggio la feriva nel profondo. Le faceva pensare a cosa avrebbe detto Roberto se avesse sentito quegli energumeni parlare in quel modo del corpo di sua moglie. Mentre indugiava in queste riflessioni, Ciruzzo o Capitone aveva già preso possesso delle sue tette. Sembrava volesse farsi una spremuta di analisi. Dopo averla munta a quel modo per cinque minuti le strappò il via il reggipetto. Poi le afferrò i entrambi .capezzoli con due dita, tirandoli verso l’alo come in segno di vittoria.

Poi fu il turno dei pantaloni che vinse Don Gegè. Per toglierglieli chiese a Cieuzzo e Mimì di sollevare la donna per le ascelle in modo che penzolasse con i piedi nel vuoto. Poi con colpo deciso glielì sfilò facendoli cadere sotto il tavolo. Mentre la donna scalciava furiosamente nel vuoto, Don Gegè si prese il suo tempo per accarezzare quelle cosce che tanto aveva agognato. Le lasciò un morso sull’interno della coscia, prima di farla rimette sul tavolo per l’ultimo giro dell’asta.

Era rimasta solo con gli slip. L’asta andò avanti a lungo. Per tutto il tempo fu costretta a rimanere accovacciata con le gambe aperte, in modo che gli slip neri fossero ben tesi.

Gli Slip se li aggiudicò Totonne o Pavesino. Don gegè pretese il pagamento subito vista la cifra a cui erano arrivati. Poi l’uomo si gettò sulla donna e afferrò l’estremità superiore degli slip fra denti mentre le sue mani si serravano sul culo della donna.

Andò su e giù un paio di minuti con la faccia tuffata fra le cosce della donna.. Quando glieli abbassò sulle caviglie i tre uomini poterono ammirare il sesso della donna in tutto il suo splendore. Una bellissima gatta, fulva e pelosa che tutti si affrettarono ad accarezzare.

“Adesso basta!” Don Gegè interruppe il gioco.

“Mo’ è o turno mio!”

E detto così fece scendere la donna dal tavolino. Ancora provava a nascondersi le pudenda dietro mani e cosce. Iniziò a toccarla con trasporto iniziando dalle caviglie per poi salire verso l’alto e ritornando più volte sulle cosce, la parte del corpo di una donna che più preferiva. Mentre si sentiva le mani dell’uomo profanarla da per tutto, Debora teneva i pugni stretti e gli occhi serrati. A Don Gegè quella passività non piaceva proprio.

“Picirilla, ma si muta? Non hai detto mezza parola. Voglio sentì  a voce toia!”

E mentre diceva così, soppesava una tetta in un mano e passava le dita dell’altra fra i peli della fica.

“Basta la prego!”

“Basta! Basta! Basta! Solo qesto sai dire? M’hanno detto che sì na donna in carriera, e’ viero?”

“E’ viero?” ripeté strizzando con cattiveria un capezzolo della donna che esitava a rispondere.

“Sì, sì è vero” rispose la donna con i quattro monosillabi che riuscì a mettere insieme in mezzo a tutto quel dolore che le esplodeva nelle testa.

“Sì? Allora mo facimmo una bella cosa. Ci racconti tutto di te come se fossi a fare un colloquio per un posto importante. Hai capito? Te voglio sentì parlà!”

E detto così le stritolò una tetta per farle capire a cosa andava in contro se si rifiutava di partecipare a quel gioco. La donna con voce rotta dal singhiozzo iniziò a parlare.

“Mi chiamo…”

“E non si saluta quando si inizia ad un colloquio”

Debora riprese fiato e ricominciò a parlare mentre Don Gegè non smetteva un attimo di palparla.

“Buongiorno, mi chiamo Debora Godioli, ho 35 anni e lavoro nell’information tecnology da quasi 10 anni. Mi sono laureata a Milano nel 1989 e ho iniziato a lavorare come analyst in KPMG.”

Mentre parlava gli uomini di Don Gegè avevano iniziato a toccarla pesantemente. Adesso c’erano quattro paio di mani che la ispezionavano con cura senza tralasciare nemmeno un centimetro del suo corpo.

S’ha imparato a filastrocca a memoria!” la derise Mimì o Pazz mentre la sculacciava con la mano aperta.

“Ho ricoperto il ruolo di analista dei sistemi per 4 anni, acquisendo competenze su SQL, Sequel Server, e Siebel. Inoltre  ho lavorato per tre anni sull’analisi dei processi contabili e logistici di un azienda manifatturiera con particolare riferimento al settore pubblico e ad alimentare.”

Mimì e Ciruzzo l’avevano sollevata di peso per le gambe. La tenevano sospesa in aria come se fosse seduta in una poltrona immaginaria.

“Continua bucchinara!” le ordinò Don Gerace O’ Raffiolo mentre si calava i pantaloni. Totonne, portatosi alle spalle della donna, le aveva afferrato le caviglie tirandole fino a che non le posizionò il dorso dei piedi sulle spalle. In questo modo le gambe della donna erano ripiegate su se stesse  offrendo entrambi gli orifizi della donna alla volontà del cazzo di Don Gegè. Mentre Don Gegè si avvicinava col cazzo in tiro continuò ad umiliarsi ripetendo quella cantilena che effettivamente aveva mandato a memoria in tanti colloqui.

“Lavorando nel settore pubblico ho acquisito un’approfondita conoscenza della problematiche informative a cui va incontro un ente che deve gestire  banche dati che possono raccogliere i dati anche di milioni di utenti!

“Continua mi eccita sentirti parlare” e detto così  le infilò il cazzo fra le gambe che sparì fra i peli della donna. Iniziò a pomparla a ritmo del discorso che la donna stava facendo, ormai fra le lacrime. Ad un certo punto i tre uomini scoppiarono a ridere non riuscendo a capire se era la donna che andava a tempo con il colpi infittigli o era effettivamente il loro capo che aveva adeguato la cadenza delle spinte alla voce della donna.

“Ho-avuto- esperienze-in alcune-provincie-del Nord Overst- accredditandomi”

Alla fine Don Gegè aumento tanto il ritmo che ad ogni spinta corrispondeva una parola della donna. O viceversa. Debora non aveva il coraggio di interrompersi e andò avanti a spiegare il suo curriculum sospesa a mezz’aria con la testa che le cadeva all’indietro. Le venne dentro quando la donna era arrivata alla parte del discorso che riguardava le sue conoscenze linguistiche. Aveva avuto ragione! Ne era valsa proprio la pena di aspettare. A turno si svuotarono tutti e tre nel sesso dilatato della  donna, distesa sula tavolo con le gambe a penzoloni.  Don Gegè non aveva acconsentito che usassero il suo letto. Ci misero poco da quanto erano eccitati. Quando fu sicura che avessero finito chiese il permesso di rivestirsi.  Don Gegè fumandosi una sigaretta le fece segno di sì, ma quando provò ad infilarsi gli slip Don Gegè la fulminò di nuovo.

“Mutande e reggipetto sono un ricordo per i ragazzi!”

 Li avrebbero affittati a tutto il carcere. La gente avrebbe pagato ora per segarcisi dentro. Magari dopo che ci si fosse svuotato dentro mezzo carcere, avrebbero restituito gli indumenti sporchi alla donna per farglieli reindossare.

“Per scartare un cioccolatino troppe carte sono di impiccio!”

 

 

 

VIII

Era ormai un mese che Roberto non vedeva la moglie. Si rifiutava categoricamente di incontrarlo e non rispondeva alle lettere che gi aveva fatto avere tramite l’avvocato. Ormai era sicuro che quei mesi di galera le avessero procurato un esaurimento. Dal carcere gli avevamo fatto sapere che la donna sembrava comportarsi normalmente. Probabilmente, gli dicevano, è solo che non ha voglia di parlare con lei .Aveva provato a chiedere l’intervento di una psicologa, ma fino a quel momento non se ne era fatto ancora nulla. Di Debora più nessuna traccia. Si era preso un periodo di aspettativa dal lavoro, ma rimanere a casa senza far nulla non faceva altro che moltiplicare dubbi e domande. Quando la portiera gli consegnò quella lettera pensò subito che non prometteva nulla di buono. Era appena rientrato dal bar dove scendeva a far colazione e ad allontanarsi per qualche minuto dalle mille cose nel suo appartamento che gli ricordavano la moglie. Non era un messaggio di Debora. Una parte del suo cervello ci aveva voluto sperare, ma in fondo qualcosa gli diceva che quella lettera non conteneva una buona notizia. Dentro c’era un cartoncino bianco, di una carta ruvida e di ottima fattura. Quella usata per i migliori biglietti da visita e per gli auguri di Natale riservati alle persone di una certa importanza. Il cuore di Roberto si fermò per alcuni secondi quando lesse il contenuto di quell’insolita missiva. Stampato in eleganti caratteri rossi c’era solo un indirizzo web che occupava quasi l’intera lunghezza del cartoncino. La prima parta iniziava con www.barabriantube.com il resto del link doveva essere il collegamento ad un filmato caricato su quel sito web. Sapeva che c’erano molti siti simili a youtube, dove era possibile caricare a piacimento i propri filmati. La particolarità di questi siti era di essere siti porno. Non sapeva perché ma era convinto che la cosa avesse a che fare con la moglie. Non riusciva a capire quale potesse essere il nesso, ma era convinto che fosse così. Passò qualche minuto in bilico fra la voglia di precipitarsi al portatile e la paura di farlo. Alla fine accese il Toshiba e con le mani che gli tremavano e digitò il link nel browser. La lunghezza dell’indirizzo e la sua scarsa presenza mentale lo costrinsero a tre tentativi prima di riuscire digitare correttamente il link che puntava server dove era ospitato il sito. Trasalì. Era proprio come si era aspettato.
Si trattava davvero di un video. Il primo fotogramma, immobile sullo scherno, era costituito da un fondale rosa con il titolo in bianco. Le lettere in, caratteri grossolani e squadrati, componevano le parole ‘Il grande Slam’. Nell’angolo in basso destra, sulla barra dei comandi del lettore video, un discreto box lo informava che il filmato durava settantuno minuti. Sempre più spaventato Roberto si accosci. sul divano cercando di trovare la forza e il coraggio di far partire quel maledetto video. Non era detto che c’entrasse con Debora. Ma qualcosa gli diceva che questo e tanti altri pensieri erano solo una vano tentativo del suo cervello di sottrarsi all’inevitabile. Passò un quarto d’ora buono con le mani fra i capelli e poi schiacciò il pulsante che segnò l’inizio dei settantuno minuti peggiori di tutta la sua vita. Davanti ad una doccia, due uomini, magri e abbronzati, guardavano l’obiettivo ridendo. Stavano in posa come si fa di solito nelle foto scattate per celebrare una battuta di caccia o di pesca finita con particolare successo. Il trofeo che stringeva in mano il più alto dei due uomini, non era una poiana e nemmeno un luccio. Era sua moglie. Se ne stava accovacciata ai loro piedi. Con lo sguardo spento. Nuda, fatta eccezioni per uno slip nero ancora arrotolato sua caviglia. Come la bandiera a mezz’asta di un regno conquistato dai barbari. Man mano che gli occhi di Roberto prendevano nota di questi particolari, altrettanti montanti lo colpivano alla bocca della stomaco. Il più bastardo dei due la teneva per i capelli. La mostrava soddisfatto alla telecamera come farebbe un pescatore che solleva un trota salmonata. Debora era completamente ricoperta di sperma. Dal viso le colava sulle tette per scivolare in basso fino all’ombelico, quasi completamente riempito. Non cercava nemmeno di pulirsi pensò l’uomo. Per un momento, solo uno, una punta di risentimento affiorò alla coscienza dell’uomo. Fu subito ricacciata in basso, sotto l’odio, il desiderio di vendetta, lo schifo, gli unici sentimenti che riuscivano a trovare posto nell’anima di quel marito molto vicino alla distruzione definitiva. I due uomini erano nudi fatta eccezione per una passamontagna nero. Il video partiva evidentemente dall’epilogo. Al minuto quattro ritornava indietro, documentando impietosamente come sua moglie era stata ridotta in quello stato. Telecamera fissa. Vedeva Debora correre sullo schermo. In mutande verso la doccia.
Ti stai mettendo in trappola da sola. Fra le lacrime provò ad inviarle un messaggio telepatico che avrebbe voluto potesse raggiungerla in luogo che era esistito solo nel passato. L’audio era basso ma poteva sentire chiaramente chiedere aiuto. Sembrava guardare in un punto molto preciso mentre ombre alte e minacciose impedivano alla luce dei neon di riflettersi sulla pelle nuda della donna.
La sentiva invocare più volte il nome di una persona, mentre le ombre diventavano sempre più alte sulle pareti della doccia. Gli sembrò di capire che le parole pronunciate dalla moglie fossero ‘Don Gegè’. All’improvviso gli parve di cogliere un guizzo nello sguardo della moglie, come se avesse riconosciuto qualcuno di inaspettato fra la piccola folla che la stava circondando. Ci aveva visto giusto. Nel fotogramma successivo la moglie si copriva le tette come se fino a quel momento fosse stata sola e qualcuno avesse fatto irruzione solo in quel momento. Roberto rabbrividì pensando che il pudore della moglie fosse stato provato al tal punto che adesso riuscisse a stare con le tette nude davanti da una piccola folla. Ma cosa aveva provocato quella reazione? Pochi secondo dopo vide la bocca della moglie spalancarsi per la sorpresa. Questa volta l’audio era stato impeccabile Fu il colpo finale. Edoardo. Tutti i neuroni dell’uomo erano concentrati su quel nome. Era il nome di uno dei suoi capi di sua moglie. Non appena la portiera gli aveva consegnato quel biglietto, era stato subito certo che dietro ci fosse lo zampino di quei due. Era un idea rimasta agli estremi confini della sua consapevolezza fino a quel momento. Adesso stava esplodendo in tutta la sua potenza, prendendo possesso di ogni singola sinapsi che si attivava nel suo cervello. Rialzò gli occhi sullo schermo del portatile. Non c’erano dubbi. L’uomo che ora stava togliendo le mani della mogie da davanti le tette, era Franco. Quello che la stava spingendo a novanta gradi doveva essere Edoardo. Le assestò un sonoro schiaffo sulle chiappe. Poi le divaricò le gambe e iniziò a sditalarla da dietro. La telecamera fece un giro intorno alla moglie e si fermò sulla sua fica con uno zoom che non lasciava niente all’immaginazione. Poi il campo si allargò mostrando una fila di uomini che si attorcigliava più volte su stessa. I primi avevano già i calzoni alle ginocchia. Qualcuno si stava masturbando. Fu un incubo. Allo stesso modo in cui lo era stato per Debora qualche settimana prima. I suoi capi la tenevano ferma. A novanta gradi. Ogni tanto uno dei due si abbassava su di lei e le sussurrava qualcosa alle orecchie. Roberto non poteva far altro che urlare insulti al video, vedendo come i singhiozzi della moglie divenissero più rochi in quei momenti. Vedeva gli uomini alternarsi dietro la moglie. Le afferravano le tette. Sistemavano i loro ventri sulla schiena della moglie. E iniziavano a pomparla con vigore. Oltre ai lamenti della donna, si sentivano insulti, commenti, risate. Ognuno faceva il comodo suo scegliendo la fica o il culo. Come in macelleria. Dopo una trentina di persone, Debora era esausta. Dopo il trentacinquesimo era chiaro che se non ci fossero stati i suoi capi la donna sarebbe crollata a terra, in un pozza di sperma. Roberto stava ormai urlando come un pazzo. Sua moglie era diventata una cosa. Ad un certo punto si presentò un panzone con in mano un paio di calze nere. Debora non aveva la forza di indossarle. Siccome non ce la faceva, l’uomo le prese per il collo e la mise con la faccia nella pozza che ormai le arrivava quasi alle caviglie. Fu costretta a sedersi in quello schifo per calzarle. Ci infilò un piede e tese il nylon sulla coscia. Poi si rimise in posizione come un automa lasciando che l’uomo facesse il suo comodo. Al successivo le calze non piacevano. Fu costretta a sfilarle fra applausi e fischi. Fu chiaro a tutti che la donna si sentiva davvero umiliata a dare quegli spettacoli. Così come diversivo fra una scopata e all’altra, la costrinsero a rimettersi le mutande. A toglierle. A tenerle abbassate sopra il ginocchio. A ritogliersele, seguendo il capriccio e i gusti dell’uomo per cui arrivava il turno di scoparla. Ogni tanto qualcuno preferiva venirle in faccia. Un paio si limitarono a pisciarle addosso. Davanti al primo piano dell’urina che scorreva sulle guance della moglie Roberto afferrò una sedia e distrusse il tavolino di vetro in salotto. Si ricordava ancora il pomeriggio che l’aveva scelto con Debora. Man mano che il video andava avanti l’uomo continuava ad urlare, a scaraventare lontano qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. Tranne il Toshiba. Non riusciva a spegnerlo. La moglie si stava ritirando su le mutande per l’ennesima volta, mentre uno dei suoi capi le sondava la bocca con un dito. 27.638. Quando lesse il numero. Cadde in ginocchio. Stremato. Privo di forze. Era il numero dei click su quel video. Quasi trentamila persone in tutto il mondo avevano assistito alla distruzione di sua moglie. Avevano tutti il viso coperto tranne lei. Quel viso non l’avrebbe rivisto mai più.
La polizia bussò un quarto d’ora dopo. Lo trovarono catatonico davanti alla moglie che stava spompando tre cazzi. Quando si soffermava troppo su una cappella, qualcuno le tirava i capelli perché la donna tornasse ad occuparsi anche dei cazzi che stava trascurando. Finì in clinica. Ritornò a parlare solo due anni dopo. Per il resto della vita non riuscì ad avvicinarsi ad un computer senza incorrere in gravissime crisi di nervi. Di Debora non si seppe più nulla. Radio carcere sostiene che Don Gegè l’abbia regalata a Mimì che adesso è uscito. Qualcuno dice che la fa battere nella periferia di Pozzuoli.

Leave a Reply