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Racconti di Dominazione

Quel che concesse Angela

By 23 Febbraio 2006Dicembre 16th, 2019No Comments

Mi ero ritrovato a lavorare lì perché avevo bisogno di guadagnare, e dirò che per molti aspetti mi ci trovavo bene. Guadagnare?… beh, certo, si fa per dire, perché non &egrave che paghino molto, certe scuole private, specialmente quelle che offrono corsi speciali per recuperare anni perduti. E dire che in realtà si tratta di una missione non facile, per noi insegnanti. Oltretutto, ci vuole molta pazienza coi ragazzi, li devi seguire passo per passo e non scoraggiarti mai per la loro pigrizia; ma vi assicuro che alla fine, lavorando sodo, si ottengono risultati sorprendenti.

Certo, alcune giornate erano proprio frustranti, quando sembrava che in aula nessuno stesse ad ascoltare… Ma non &egrave di queste storie che voglio parlare, non temete.
Dovete però sapere che la scuola nella quale lavoravo – una scuola modello nel suo genere, allora in ascesa, grazie alle intuizioni del proprietario – ebbe, proprio nell’anno in cui fui assunto, la brillante idea di offrire ai propri allievi, come “premio” per essersi iscritti, una breve gita, la cui meta neppure ricordo. E indovinate chi fu precettato fra gli accompagnatori? Ero tra i neofiti, e dunque difficilmente mi sarei potuto sottrarre, io che non ho mai amato le gite.

Era ormai sera inoltrata, avevo controllato scrupolosamente che tutti i ragazzi fossero nelle loro stanze – &egrave così difficile tenerli a bada, soprattutto i “piccoli” (i sedici-diciassettenni, intendo): a quell’età ti scappano da tutte le parti, per il solo gusto di farlo e… di fartela. Sembrava tutto tranquillo, oltre ogni aspettativa, e così mi misi in libertà, come si dice, indossando il mio pigiama e preparandomi a dormire (non ci avrei sperato, fino a mezz’ora prima!). Ma, non trovando ancora il sonno, mi immersi nella lettura di un libro, come usavo fare. Ero tranquillo e rilassato – forse troppo? – quando improvvisamente sentii bussare alla mia porta. Preoccupazione e disappunto s’impossessarono di me!

“Oddio, chi sarà?” pensai. “Che sarà successo?”

Di malavoglia mi disposi a scendere dal letto. Sentii bussare ancora.

“Chi &egrave?” domandai nervoso e apprensivo. Nessuna risposta. Quando aprii la porta, mi trovai davanti Angela. La cosa mi stupì e m’imbarazzò al tempo stesso, essendo io in pigiama.

“Ah sei tu?” feci con aria interrogativa e un po’ seccata.

“Sì, professore, sa… ho mal di testa… non riesco a prender sonno. Posso entrare un attimo?”

Il suo modo di fare era timido e invadente ad un tempo, impacciato e disinvolto. Dopo due secondi d’incredulità e di riflessione, la invitai ad accomodarsi.

“Grazie” disse a voce bassa, mentre richiudevo la porta. La situazione mi metteva alquanto in imbarazzo: ero in camera con una ragazza che, pur essendo più alta di me di almeno venti centimetri (rasentava il metro e 90), aveva oltre dieci anni meno di me; e per giunta era una mia allieva! Inoltre, mentre io ero in pigiama, lei indossava una bella camicetta chiara e una gonna di jeans molto corta, che si fermava al ginocchio.

Sì, aveva oltre dieci anni meno di me, poiché all’epoca io avevo trentun anni, e lei ne aveva diciannove e mezzo. Angela faceva parte della classe dei “grandi”: aveva abbandonato la scuola per un suo sbandamento adolescenziale, poi s’era convinta a terminare gli studi e stava cercando di recuperare due anni in uno. Quell’anno, se tutto fosse andato bene, avrebbe dovuto conseguire la maturità.
Non era molto volenterosa ma intelligente, e aveva un modo di fare a metà tra l’incosciente e lo spregiudicato, che definirei “disarmante”. Mi ero sentito a disagio sin dal primo giorno di scuola, con lei, soprattutto per via di quella sua statura notevole, che mi costringeva ad alzare la testa per poterla guardare in faccia. Inoltre, Angela aveva le spalle piuttosto larghe, un’ossatura massiccia e, dalla consistenza delle braccia, si notava che andava regolarmente in palestra e praticava qualche sport. Tutto questo si univa però ad un viso incantevole dai tratti delicati, a folti capelli neri leggermente ondulati che le arrivavano al petto, e ad uno sguardo profondo e di raro fascino, oltre che ad un paio di splendide gambe, dalla forma perfetta, lunghe e slanciate, senza essere ossute. Per di più, sotto gli abiti che portava, s’intravedeva un seno generoso e prorompente.

Non so perché, ma avevo l’impressione che il mio disagio in qualche modo la divertisse e la lusingasse.

“Prof, mi scusi se l’ho disturbata… Vedo che stava per mettersi a letto” disse timida.

“Non ti preoccupare… Ma come mai sei qui, piuttosto? Non riesci a dormire, mi dicevi…”

“Sì ecco, prof, ho un tale mal di testa ed ero venuta a chiederle se per caso… non ha un sonnifero o un qualcosa…” spiegò, ravviandosi i bei capelli.

“No, mi dispiace, Angela, non ne uso.”

“Peccato” disse lei, sconsolata.

“Dài, non pensarci, vai a letto e prova a rilassarti” le consigliai paternamente.

“Ci ho provato… Mi scusi, posso sedermi un attimo? Sa, mi gira un po’ la testa.”

“Ma prego” le dissi preoccupato. “Siediti dove vuoi. Ecco, puoi sederti sul letto.”

“Non si preoccupi” mi disse con un sorriso rassicurante. “Mi passa subito.”

“Non preoccuparti tu” replicai io. “Stai qui tutto il tempo che vuoi. La salute prima di tutto.”

In realtà, la sua presenza nella stanza non mi faceva sentire tranquillo: non volevo che qualcuno, venendo a sapere la cosa, diffondesse strane e maligne voci. Certo, eravamo entrambi maggiorenni, ma il rapporto (professionale) tra allievo e professore ha un proprio codice, molto delicato, e si fa presto a insinuare che l’insegnante ha soggiogato l’alunna ed ha approfittato di lei!

“Posso chiederle un altro favore?” accennò timidamente Angela, col sorriso tipico di chi cerca di catturare la condiscendenza altrui.

“Mm… dimmi” risposi semplicemente.

“Sa, professore, in questi casi, cio&egrave quando ho questi mal di testa, il mio ragazzo… mi massaggia i piedi e i polpacci… mi fa tanto bene…”

La guardai con aria interrogativa, incredulo.

“Sa” continuò lei, sempre col sorriso in cerca di comprensione, “non posso chiederlo alle compagne di stanza, mi prendono in giro e soprattutto… non lo sanno fare con la dovuta delicatezza. Lei invece &egrave bravo, prof, scommetto che sa massaggiare bene!”

Non credevo alle mie orecchie! Mi sembrò una richiesta così sfacciata e assurda… ma come le veniva in mente? Voleva proprio compromettermi, inguaiarmi?

“Ma che ti salta in testa?” le dissi, manifestando tutta la mia contrarietà.

“E la prego, prof! Lei &egrave così bravo, sa tante di quelle cose! Lo so che li sa fare, i massaggi… Ha la faccia di quello che &egrave bravo in certe cose…”

“Ah sì?” feci io, sempre più allibito.

“Sì” disse sorniona, “e poi la prego, la testa mi fa così male… Mi faccia questo massaggio e poi me ne torno in camera mia.”

Cosa potevo rispondere ad una simile richiesta? Benché seriamente preoccupato per i pettegolezzi che questa situazione avrebbe potuto scatenare, cedetti, dicendomi che in fondo non stavamo facendo nulla di “peccaminoso”.

“Per forza ti fanno male i piedi, se porti scarponi del genere!” osservai, mentre se li sfilava.

Lei rise. “Me li hanno regalati… e poi hanno una bella linea.”

Si preparò a ricevere i miei massaggi, sedendosi al centro del letto, con le gambe distese.
Io sedetti sul lato destro del letto, in corrispondenza dei suoi piedi, in modo da potermeli appoggiare in grembo e procedere comodamente al massaggio.

“Lasciati andare, rilassati” le dissi, molto imbarazzato, mentre cominciavo a manipolarle il piede sinistro. Dopo qualche secondo, la faccia di Angela assunse un’espressione estasiata, e la sentii cinguettare:

“Mm… che bravo che &egrave, professore! Ha visto che lo sa fare?”

E aggiunse maliziosa:

“Chissà a quante donne lo fa, dica la verità…”

Io dovetti arrossire un po’, e lei rise:

“Io scherzo, prof! Non se la prenda… Ma com’&egrave che non &egrave fidanzato, lei? Ne ha tante nel cassetto, eh?”

“Non ho trovato quella giusta” risposi laconico, mentre passavo a massaggiarle il piede destro.

“Però &egrave così bravo… la troverà” fece Angela, arretrando un po’ la gamba sinistra, che teneva stesa sulle mie. Fece questo movimento apparentemente per facilitarmi il compito e consentirmi di raggiungere più agevolmente l’altro piede. Ora, mentre la sua gamba destra era completamente abbandonata sulle mie, la sinistra era ripiegata, con la pianta del piede appoggiata sulla mia coscia destra.
Questa postura disinvolta mi scombussolò un po’ e cominciai ad avvertire una strana sensazione, un turbamento dei sensi… La cosa mi confuse ancor più. Angela continuava a parlare e le sue parole peggioravano la mia situazione.

“Lo sa” diceva “che lei &egrave il mio prof preferito? Non so perché… l’ho sempre trovato simpatico… Ho da subito avuto fiducia in lei.”

“Grazie” replicai arrossendo ancora, e intanto pensavo: “Oddio che situazione! Come ne uscirò?”

Angela, sempre continuando a parlare, aveva cominciato a far dondolare leggermente la gamba sinistra con apparente noncuranza e, durante queste oscillazioni, la sua caviglia ed il suo polpaccio venivano a trovarsi quasi a contatto col mio membro che cresceva implacabile, in preda ad un’incontenibile eccitazione. La testa mi ronzava e quasi non ascoltavo più le parole della ragazza. Ma la sua voce sì…

“Quanti compiti che ci date, però!” le sentii dire. “Mica si riesce a farli tutti bene… &egrave per questo che ora sto indietro anche col suo programma, prof… e mi dispiace, sa? Perché gliel’ho detto, con lei ci tengo a fare bella figura.”

“Beh, ti ricordo che devi affrontare due anni in uno, e perciò un po’ di lavoro lo devi fare, no?” le spiegai, anche se non sapevo più neppure quello che dicevo. “E comunque tu sai che io vi aiuto molto.”

“Sì, certo prof, lei &egrave così paziente con noi, mi rendo conto…” mormorò Angela.

In quella, si verificò l’incontro fatale: il suo polpaccio aveva toccato la punta ormai turgida del mio pene; non poteva non essersi accorta, ormai, di quel che stava succedendo. Mi sentivo contemporaneamente eccitato e confuso; teso e pieno di vergogna. Tacevo. Aspettavo una sua reazione, mentre continuavo a massaggiarle il piede destro. Il tono della sua voce non sembrò mutare; continuava a far dondolare la gamba, ma ora aveva preso a strofinarla tranquillamente sulla mia asta.

“Vedrà che se m’impegno, posso farcela, quest’anno” disse con calma diabolica, mentre sfregava, in modo apparentemente casuale ma metodico, la gamba sul mio uccello sempre più duro ed eccitato. “Se lei mi aiuta… E’ vero che lei mi aiuterà, prof?”

“Sì, sì” farfugliai. “Anch’io credo che sia solo questione di impegno. Puoi farcela benissimo.”

“Vedo che le piace molto… massaggiare i miei piedi” osservò Angela con intenzione, mentre con la caviglia mi accarezzava il gingillo, che si ergeva dritto e voglioso sotto il tessuto del pigiama.

“Sì… sì” ammisi, rosso fino alle orecchie.

“Mm… vorrà dire che ci verremo incontro” propose spavalda.

“Come?”

“Verrò a casa sua a prendere qualche lezione… e in cambio…”

Mi fissò con aria furba, ormai sicura di avermi in pugno, mentre col piede continuava quella sua lasciva, estenuante carezza intima, che mi paralizzava il cervello.

“In cambio” riprese, “lei potrà massaggiarmi i piedi quanto vorrà.”

Mi chiedeva una resa incondizionata ai suoi voleri, o press’a poco. Ma sapevo di non poter reagire, di non potermi sottrarre alle sensazioni strane e intense che quella ragazza mi stava procurando.

“Va bene” balbettai.

“Okay, prof” fece lei, allontanando bruscamente il piede dal mio pene, e lasciandolo così pulsante di voglia e deluso.

“Ha fatto proprio un buon lavoro” aggiunse: “ora mi sento meglio. Grazie, prof!”

In un attimo, ruotò su se stessa, e me la trovai seduta alla mia destra, ma non troppo vicino. Si rimise in fretta ai piedi gli scarponi. Vedendola pronta ad andar via, mi offrii, confuso e sconsolato, di accompagnarla alla porta. Lei già si stava avviando verso la stessa, e la seguii a distanza di sicurezza, goffo e a disagio per il sesso che svettava impudico e affamato sotto il pigiama. La statura di Angela, poi, non contribuiva certo ad attenuare il mio imbarazzo. Mentre, postomi discretamente alla sua sinistra, allungavo il braccio verso la maniglia della porta, lei si voltò verso me e, squadrandomi dall’alto del suo metro e 90, mi sorrise in un modo che mi parve dolce e beffardo ad un tempo, dicendomi:

“Allora buonanotte, prof! E si faccia una bella dormita, mi raccomando…”

“A… anche tu” farfugliai io a mia volta, ormai quasi senza fiato, mentre Angela, avvicinatasi a me di qualche centimetro, mi metteva una mano sulla spalla, con un gesto apparentemente cameratesco, da lei mai osato prima con me, che però era in realtà un’ulteriore occasione per stuzzicarmi. Bastò infatti quel lieve tocco, che durò forse solo due secondi, nei quali avvertii più intensamente il suo profumo, per ravvivarmi l’erezione, che raggiunse di colpo i massimi livelli, facendomi impappinare definitivamente. In quell’istante, tra l’altro, il mio uccello era ad appena cinque centimetri dalla sua gamba ed i suoi seni imponenti mi toccavano quasi il mento, annebbiandomi il cervello; Angela stava giocando spudoratamente con la mia voglia di lei, e sapeva di essere padrona assoluta di quel gioco.
Come un automa, le aprii la porta, e lei in un attimo schizzò via e scomparve nel corridoio.

*

Dopo la gita, ci fu, per fortuna, una settimana di ferie. Mi sentivo avvilito per quel che era successo, non sapevo proprio come comportarmi al mio rientro a scuola. Temevo che Angela avesse parlato e che la mia reputazione professionale fosse per sempre macchiata. Cosa mi era successo? Lasciarmi andare così con una mia allieva! Cavolo, si sa come sono certi ambienti, poi i ragazzi tra loro fanno mille pettegolezzi e il fatto chissà come sarebbe stato ingigantito – a mio danno, ovviamente! Dove sarebbero finiti il mio prestigio, la solida immagine professionale, che sino a quel giorno avevo avuto, e la mia autorità fra gli studenti? Senza autorità, o meglio senza autorevolezza, ti sfuggono di mano, ti schiacciano… E poi… mi pesava ammetterlo, ma c’era un’altra domanda che mi tormentava: cosa
pensava lei di me, di quella mia goffaggine? Che impressione aveva fatto a lei, tanto più giovane ma tanto più disinvolta di me? Già prima, a scuola mi era difficile alzare lo sguardo su Angela, sui suoi occhi penetranti e curiosi… e mi sentivo a disagio nel dover sollevare la testa per poterla guardare in faccia, mentre lei mi guardava senza nessuna soggezione, e anzi avevo l’impressione che mi osservasse con una certa curiosità divertita. Se già prima mi era tanto difficile affrontarla senza sentirmi sovrastato dalla sua statura e dalla sua sfrontatezza, figurarsi dopo quella gita!

Al rientro a scuola, mi accorsi che mi era ormai praticamente impossibile sostenere il suo sguardo, che ora mi sembrava ancor più spavaldo e irridente di prima. E quando lei mi guardava, io mi sentivo avvampare il viso.

‘Accidenti, arrossisco! Porca miseria, lo noterà tutta la classe’ pensavo in quei momenti, e l’agitazione che mi assaliva, non faceva che rendere le cose più complicate.

Se ero intento a spiegare una lezione, rischiavo di dimenticare quel che stavo dicendo; se stavo interrogando qualche alunno, rischiavo di dimenticare le domande che intendevo fargli. Aspettavo che da un momento all’altro Angela mi rammentasse, o mi rinfacciasse, quella sera, che riprendesse il discorso sul “patto” che mi aveva proposto… Invece, passò un’intera settimana senza che accadesse nulla.
Ed arrivò il giorno in cui avrei dovuto interrogarla, per saggiare la sua preparazione: non potevamo evitarlo, né lei né io, il registro parlavo chiaro, era il suo turno.
Certo, nella nostra scuola le interrogazioni non erano avvolte da quell’alone di “terrore” che generalmente le accompagna nelle scuole “ordinarie” ma erano pur sempre un “momento della verità”, essendo comunque una verifica pubblica, alla presenza degli altri ragazzi, delle capacità, delle manchevolezze e delle piccole astuzie di ciascuno studente.
Di malavoglia annunciai dunque la notizia ad Angela, davanti a tutta la classe. Lei non si scompose: sapeva che le toccava. Per fortuna, in quella scuola si usava interrogare i ragazzi dal posto, così potei restarmene seduto e farle le domande a… distanza di sicurezza, senza neppure guardarla. Alla mia prima domanda, non seguì alcuna risposta da parte di Angela.

“Cominciamo bene! Scena muta!” pensai, ma non osai fare alcun commento ad alta voce. Temevo una sua possibile reazione, un’allusione imbarazzante o qualcosa di peggio, chissà. Mi rassegnai a farle un’altra domanda; ma la risposta fu di nuovo il silenzio.

‘Non ha mai fatto così, non &egrave da lei, finora ha sempre cercato di dire qualcosa, magari di improvvisare, ma certo non era sua abitudine restarsene zitta’ osservai tra me e me, preoccupato. Sudavo freddo, non capivo quale significato avesse quel silenzio: mi stava provocando ancora? mi stava sfidando?
Provai a farle ancora un’altra domanda; e ancora una volta non ebbi risposta. Cercando di contenere l’irritazione che provavo, le dissi, sempre senza avere la forza di guardarla:

“Oggi non hai proprio studiato, Angela. Come mai?”

Anche senza guardarla, intuivo il suo sorriso di scherno, mentre mi rispondeva:

“Mi dispiace, professore. In questo periodo ho avuto dei problemi, gliel’ho detto…”

“Come sarebbe ‘me l’hai detto’? Cosa vuoi dire? Ti diverti a tenermi in pugno?” pensai esasperato, cominciando a sentire il sudore scorrermi sulla fronte.

Quel “gliel’ho detto” era senza dubbio un avvertimento o un’allusione; si riferiva ai fatti di quella sera, evidentemente – così riflettevo. Ma quali erano le sue intenzioni? Dove voleva arrivare, insomma? Ero in una situazione delicata: da un lato non potevo farmi sfidare da lei così apertamente, davanti a tutta la classe; ma dall’altro, la sua frase non prometteva niente di buono: era un “Attento a come ti muovi e a quello che dici!”
Per non perdere la faccia davanti ai suoi compagni, avrei dovuto annotare sul registro la sua totale impreparazione, ma se l’avessi fatto, Angela si sarebbe certamente vendicata.

“Ti capisco” commentai perciò ad alta voce, con un tono che rivelava la mia incertezza. “Facciamo così” continuai, compiendo un tremendo sforzo su me stesso: “siccome finora ti sei sempre applicata, sia pure con alti e bassi, non voglio essere ingiusto con te e segnalare questa tua impreparazione di oggi. Del resto, tu sai benissimo che quest’anno devi affrontare la maturità e so che &egrave un traguardo a cui tieni molto. Per oggi faccio finta di nulla, ma tu devi riprendere a studiare, Angela.”

“Va bene, prof. E’ veramente comprensivo, lei” replicò la ragazza, con un tono che mi parve, ancora una volta, allusivo e lievemente sarcastico.

Ero davvero esasperato dal suo comportamento: dovevo trovare il modo per farle capire che non poteva, che non doveva continuare così. Alla fine della lezione, c’era un breve intervallo e, mentre tutti uscivano dall’aula, Angela si avvicinò alla cattedra.

“Professore, ha visto che ho bisogno delle sue lezioni?” mi disse con aria alquanto provocante, come per ribadire che era lei a condurre il gioco. Continuava dunque a stuzzicarmi. Sollevai finalmente lo sguardo verso il suo volto: volevo che capisse che stava esagerando.

“Per favore, dimentichiamoci di quella sera” dissi. “Non puoi continuare a tormentarmi con questa storia, non sono mica il tuo burattino!”

Angela continuava a sorridere in un modo enigmatico. Non riuscivo a decifrare le sue intenzioni e questo mi turbava.

“Quella sera? Ma prof, quella sera non &egrave successo niente…”

Ora il suo sorriso era sfacciato, apertamente irridente: con quella frase era riuscita, una volta di più, a mettermi a disagio. Già, non era successo niente, in fondo… Quella sera lei aveva cominciato a giocare con me, e non aveva ancora smesso…

Alla fine prendemmo accordi perché le facessi qualche lezione privata; in verità il regolamento della scuola proibiva ai docenti di impartire lezioni private ai propri allievi, ma, da quel che sentivo, era una regola trasgredita con disinvoltura… L’idea di violare certe norme non mi andava molto a genio, ma, davanti all’atteggiamento di Angela, avevo capito di non avere molta scelta. Evidentemente aveva un suo piano in testa; e – cosa che mi turbava e mi infastidiva – io ero costretto ad assecondarlo. Ero cascato in una trappola da quattro soldi, tesami da una ragazzina! Dovevo proprio essere uno stupido, uno sprovveduto, mi ripetevo. Ma a che pro? Ormai c’ero dentro e dovevo cercare di uscirne senza troppe ammaccature.

La aspettavo a casa mia, per la lezione, alle 17… E già il fatto che dovesse venire a casa mia, dove vivevo solo, mi metteva una certa inquietudine; temevo che si riproponesse la situazione della camera d’albergo. In quale altro imbarazzante pasticcio mi avrebbe cacciato? Si faceva aspettare: erano già le 17.20 e di lei neanche l’ombra. E questo mi fece ulteriormente innervosire.
‘Adesso esagera! Ma chi crede di essere? La regina d’Inghilterra? Con tutte le cose che ho da fare, mi tocca anche aspettare i suoi comodi…’
Fu solo verso le 17.35 che finalmente sentii suonare il citofono: ovviamente era lei (non aspettavo nessun altro). Appena udii la sua voce, entrai in agitazione: sapevo che mi attendeva una serata inquietante, me lo sentivo; ma proprio non riuscivo ad immaginare cosa sarebbe potuto accadere. Non riuscivo a penetrare le sue intenzioni; anzi, a dire il vero, in quei momenti non riuscivo proprio a formulare alcun pensiero, il mio cervello sembrava congelato, proprio come quella sera, in albergo…

Avrei voluto fuggire, ma non riuscivo a fare alcun passo.
Quando le aprii la porta, provai a fare la faccia dura, dicendole:

“Però potresti essere più puntuale, eh? Io ho da fare, sai?”

Ma Angela non si scompose, mi fece uno dei suoi sorrisi tra l’ingenuo e il malizioso, e – com’era nella natura delle cose tra noi due, data la differenza di statura – mi lanciò una di quelle sue occhiate dall’alto, che sembravano bonariamente commiserare la mia condizione di uomo di statura medio-bassa… O almeno così interpretavo io certi suoi sguardi. Ad ogni modo, come di consueto, seppe mettermi subito in imbarazzo, con quel suo modo di fare; e certamente ne era consapevole.

“Beh” le dissi, distogliendo gli occhi da lei, “dammi la giacca, che adesso ti faccio strada.”

“Sta nervoso, oggi, prof?” fece Angela, porgendomi la sua giacca di pelle.

Non so se fu questa sua frase, o se fu il suo profumo, che m’investì in quell’istante, a farmi uno strano effetto, ma sentii le idee confondersi dolcemente nella mia testa. Mentre prendevo la giacca che la ragazza mi porgeva, notai il suo abbigliamento, che trovai eccessivamente disinvolto per una lezione privata: per prima cosa, poiché tenevo gli occhi bassi per evitare i suoi sguardi, notai che ai piedi indossava stivaletti di pelle; salendo rapidamente con lo sguardo, intercettai la sua gonna di jeans che terminava poco sopra le ginocchia; e infine… un maglioncino chiaro, con uno scollo a “V” che lasciava intravedere l’incavo tra i seni… due seni che, nella loro abbondanza, si facevano notare, sotto quel maglioncino, come non mai. Avrei voluto rimproverarla per il suo abbigliamento, ma preferii sorvolare, per non darle occasione di mettermi in imbarazzo, e così replicai semplicemente alla sua osservazione:

“No, non sono nervoso, ma mi piace la puntualità. Sono sicuro che anche tu, se ti fanno aspettare, te la prendi. Beh, comunque non perdiamo altro tempo: andiamo nel soggiorno, dove c’&egrave un tavolo comodo per studiare. Seguimi.”

Attraversato il corridoio, le indicai la seconda stanza a destra e la invitai a precedermi.

“Dopo di te, prego. Siediti dove vuoi, tanto il tavolo &egrave tondo e un posto vale l’altro.”

Angela, entrata nel salone, si guardò intorno e commentò:

“Bello… ma un po’ spento, qui. Più o meno come lo immaginavo.”

“Ah sì?” feci io, un po’ offeso nel notarle negli occhi ancora quello sguardo tra il canzonatorio e il pietoso.

“Sì… come dire?… la tipica casa del professore scapolone e solitario… Un po’ come se la immaginano tutti.”

“Mm, un cliché, insomma. Peccato… e io che pensavo di avere una certa originalità!”

“Ma non se la prenda, prof… Com’&egrave suscettibile!”

“Ma no, non me la prendo! Siediti, piuttosto, e tira fuori i libri, che cominciamo.”

Dallo zainetto fantasiosamente istoriato che aveva con sé, e che contrastava con lo stile, giovanile sì, ma ricercato del suo abbigliamento, tirò fuori alcuni libri e un quaderno. Notai che aveva ancora sulle labbra un mezzo sorriso dei suoi. Si aggiustò una ciocca di capelli sull’orecchio, l’unica che le pendeva libera dal capo, dato che portava la lunga chioma raccolta a coda di cavallo sulle spalle, e mi osservò coi suoi luminosi occhi dall’aria furbetta, evidentemente in attesa di mie istruzioni.

“Bene” dissi, senza poter nascondere un po’ di turbamento, “allora… vediamo un po’… da dove cominciare…”

Feci riferimento ad un argomento del programma scolastico e, sempre osservato da quel suo sguardo tra l’attento, l’annoiato e il beffardo, le chiesi:

“Cominciamo di qui? Perché sai, mi pare che su questo avevi i maggiori problemi, no?”

“Se lo dice lei… In fondo &egrave lei il prof, qui dentro… Mi fido ciecamente di quel che dice” rispose Angela, con un tono che rasentava l’indifferenza. Sembrava volermi spiazzare ancora, mettermi in difficoltà o farmi innervosire…

“E allora sia” replicai, per tagliar corto. “Cominciamo proprio da qui.”

Per un attimo, nell’accingermi a vestire i miei abituali e rassicuranti panni di insegnante, mi sentii nuovamente sereno, pienamente in possesso di me, e tirai un lungo respiro, prima di cominciare a parlare. Evitai di guardarla in volto durante la spiegazione, e filai dritto per qualche minuto, finché non sentii la sua voce che m’interrompeva:

“Mi scusi, prof… la prego…”

“Che c’&egrave?” le chiesi un po’ seccato per l’interruzione, tornando a guardarla in viso: e captai il suo sguardo annoiato e vagamente sofferente.

“La prego, non se la prenda, ma… sa… ho sempre problemi con questi benedetti piedi delicati che ho.”

“Ti fanno male?” le domandai bruscamente. “Ma se hai i piedi così sensibili, perché ti metti quegli stivali?”

“Ah, li ha notati?” s’illuminò lei. “Ma guardi che sono belli, sono di…” – pronunciò il nome di un noto stilista – “non le piacciono?”

“Mah! Tutti i gusti sono leciti… e poi non me ne intendo” dissi, sempre seccato per aver dovuto interrompere la mia lezione.

“La prego, prof…” insisté Angela, “me li posso togliere? Se no, soffro le pene dell’inferno, lei non immagina neanche… e non riesco nemmeno a concentrarmi.”

Non avrei voluto concederglielo, non volevo che si prendesse eccessive libertà; in quella situazione, poi, sola con me in casa mia… Già quella volta in albergo avevo sbagliato a darle retta… Ma aveva lo sguardo della supplice, sembrava davvero tormentata dal dolore ai piedi… Cosa avrei dovuto fare?

“Va bene” dissi quasi tra i denti.

“Oh, grazie, prof! Lo so che non &egrave bello togliersi le scarpe in casa d’altri… Ma lei &egrave intelligente, lo so, non si formalizza.”

In quel momento sembrava proprio una bambina contenta di aver avuto il permesso di uscire con le amiche. La vidi chinarsi per togliersi gli stivali; sembrò che facesse fatica ad eseguire l’operazione. Era più difficile del previsto!

“Ma perché vi mettete quelle scarpe da tortura, voi ragazze? Poi non riuscite nemmeno più a toglierle” commentai.

“Oh prof, non mi prenda in giro” si lagnò Angela, sempre china. “Piuttosto mi aiuti, se no non ci sbrighiamo più.”

“Aiutarti?” replicai con evidente disappunto.

“Ma sì! Mi aiuti a sfilare ‘sti stivali! Non mi dirà che non ce la fa…”

“Non &egrave questo…” ribattei nervoso. “E’ che io sono il tuo professore, non il tuo calzolaio.”

“E la prego! Glielo chiedo per favore!”

Mi seccava dover assecondare sempre le sue richieste più strambe… Eppure, per come sapeva chiedere le cose, come potevo dirle di no? E così mi ritrovai in ginocchio davanti a lei, intento a sfilarle gli stivali. Le tolsi, con una certa difficoltà in effetti, prima il destro, poi il sinistro. Non potei fare a meno di notare i suoi piedi ben curati, con le unghie smaltate di rosso. Prima che avessi il tempo di fiatare, Angela mi chiese:

“Le piacciono i miei piedi? Mi dicono che li ho belli… E lei che ne dice, prof?”

“Mah… sai… ma perché me lo chiedi?” replicai, preso alla sprovvista.

“Beh… ho visto che me li guardava. E poi ricordo ancora come me li massaggiò quel giorno… Si vede che lei se ne intende di queste cose…”

“Di quali cose?” dissi, alzandomi.

“Ma… di piedi femminili. Li massaggia con una tale delicatezza! Non si arrabbi, prof. Perché diventa rosso? Le chiedevo solo un parere.”

“Non &egrave il caso, fra noi. Io sono il tuo professore, insomma! E stiamo perdendo tempo, invece di fare lezione!” mi arrabbiai.

“Ma non mi dica che la metto in imbarazzo!” disse Angela. “Sono solo curiosa di conoscere il suo parere di uomo, non di prof.”

“Ma cosa te ne importa del mio parere di uomo?”

“Mi importa… perché la stimo… e poi qui nessuno ci sente o ci vede: di cosa ha paura? Senta: io non starò a sentire la sua lezione se prima non avrà risposto alla mia domanda.”

“Ah la metti così?”

“Sì, la metto così. Ma lo vede che diventa rosso? Lei &egrave timido, ecco la verità” osservò lei, mentre mi guardava con aria divertita, quasi di sfida. “Ma scusi, se le piacciono tanto, che male c’&egrave? Io non la sto rimproverando!” m’incalzò. La sua provocazione era davvero intollerabile: ormai si stava praticamente burlando di me.

“Mi dica sinceramente cosa ne pensa. La prego, mi dica la verità. Sa” aggiunse poi, facendosi più timida, “al mio ragazzo non piacciono molto… Me l’ha fatto capire. E allora, desidero tanto avere un suo parere… per capire se lui ha ragione.”

“Ma perché ti fai questi problemi, benedetta ragazza?” dissi scuotendo la testa.

“Lei non può capire… Per una ragazza della mia età, certe cose sono importanti. Il mio psicologo dice che ho bisogno di conferme.”

La guardai in viso; in quel momento sembrava proprio una bambina impacciata e insicura. Nonostante tutto, non potevo mettere a tacere il mio istinto di protezione, risvegliato dal suo atteggiamento.

“Ah, questo dice il tuo psicologo?” sorrisi.

Angela annuì, osservandomi seria.

“Ma non credo che lui ti abbia consigliato di domandare il mio parere sui tuoi piedi” aggiunsi.

“E la prego, prof!” m’implorò Angela. “Voglio solo che lei mi dica la verità. Guardi, può anche dirmi che sono brutti, me ne farò una ragione. Ma mi dica cosa ne pensa.”

“E va bene! Non voglio che il tuo psicologo se la prenda con me” ironizzai. “Ecco, te li sto guardando. Contenta, adesso?”

“Le piacciono, allora?” mi domandò Angela, implacabile.

“Sì… va bene… hai dei bei piedi, lo ammetto… bellissimi, anzi” mormorai e, nel dirlo, già me ne pentii: ebbi la sensazione di aver firmato, in quell’istante, la mia resa.
E Angela, dal canto suo, dovette sentirsi ormai pienamente vincitrice, poiché subito rincarò la dose, con un sorriso smagliante:

“Lei cosa ci farebbe con dei piedi così?”

“Cosa vuoi dire, scusa?”

“Beh… ecco… mi ha appena detto che sono belli, cio&egrave che le piacciono. Faccia conto che io sia… sì, insomma, che io sia la sua ragazza.”

“Ma che stai dicendo?” esclamai nervosamente.

“E’ un’ipotesi, prof! Perché diventa tutto rosso?” disse Angela, divertita, notando il mio imbarazzo.

“Senti, non ho voglia di giocare” cercai di tagliar corto.

“E la prego, professore, me lo dica!” tornò alla carica lei col suo tono da ragazzina implorante. “Se io fossi la sua ragazza, e avessi questi piedi che le piacciono tanto, lei cosa farebbe?”

“Ma cosa vuoi che faccia? Cosa si fa con i piedi, secondo te?” dissi esasperato, senza rifletterci troppo; ma subito dopo ripensai alle mie parole, e mi suonarono poco accorte e rischiose; immediatamente vidi infatti disegnarsi un sorriso furbetto sul volto di Angela.

“Me lo dica lei, prof. Io non lo so cosa può fare un uomo con i piedi della sua donna. Però qualcosa immagino.”

Le ultime tre parole mi turbarono un po’, e cercai di troncare quella strana conversazione.

“Io non so cosa immagini, e non m’interessa. In ogni caso, non sei la mia ragazza; quindi adesso pensiamo alle cose serie e riprendiamo la lezione” dissi con tono fermo.

“Eppure quella sera, in albergo, mi sembrò di capire che i miei piedi le stessero facendo un certo effetto” disse Angela, lanciandomi un mezzo sorriso che sapeva di ambiguità.

La sua frase mi fulminò quasi; non credevo alle mie orecchie: la mia allieva aveva fatto una chiara allusione alla mia eccitazione di quella volta. Dove voleva arrivare?

“Lasciamo perdere certi argomenti, per favore” dissi abbassando la voce, e il tono sicuramente tradì il mio imbarazzo.

“Ma non deve agitarsi, prof… Stia tranquillo, lo sa anche lei che quella sera non &egrave successo niente.”

“Ecco, &egrave così: non &egrave successo niente!” esclamai, cercando di aggrapparmi disperatamente a questa certezza.

“E poi, non l’ho detto a nessuno” soggiunse Angela, con un tono che mi parve malizioso, annullando in realtà quello che aveva appena sostenuto: dunque, se aveva mantenuto un segreto, qualcosa doveva pur essere successo, tra noi, quella sera…

“Hai fatto bene: perché in fondo… non &egrave successo niente” insistei, quasi con disperazione.

“Sono cose che possono capitare” fece lei, tentando quasi di rassicurarmi: “lei &egrave un uomo e ha certe reazioni, davanti a certi stimoli, &egrave comprensibile… E’ stata colpa mia, non avrei dovuto venire a importunarla nella sua camera, quella sera; ma deve capirmi, mi sentivo così sola, confusa.”

“Va bene, va bene, non parliamone più!” dissi con foga.

“Ma avevo bisogno di darle una spiegazione. E poi…”

Angela s’interruppe: sembrò riflettere per cercare le parole adatte a terminare la frase. Attesi col fiato sospeso, ma non feci né dissi nulla per esortarla ad andare avanti, perché in qualche modo avevo paura di quel che avrebbe potuto ancora dire.

“E poi” riprese finalmente, “non posso nasconderle che… da quella volta ho cominciato a farmi certe domande. Ho cominciato a chiedermi cosa possa trovarci, un uomo, in certe parti del corpo della sua donna. Come i piedi. Così ho cominciato anche a domandarmi se i miei piedi fossero particolarmente belli, e improvvisamente mi sembrava di vederli con un occhio diverso, meno distratto. E mi sono chiesta se… a un uomo potesse anche venire in mente di baciarmeli. Il mio ragazzo non sembra interessato alla cosa, ma io non smetto di pensarci.”

La mia preoccupazione, nell’udire queste parole, raggiunse livelli insostenibili e si manifestò fisicamente rendendomi la gola secca.

“Perché non ne parli con lo psicologo, di queste cose? Non sono di mia competenza” dissi, provando a schivare l’attacco.

“Allo psicologo ho provato a parlarne, ma con lui mi vergogno, e così… lei &egrave la prima persona a cui confesso questo pensiero.”

“Ma perché proprio a me? Che posso farci, io?”

“Perché… lei mi sembrava attratto dai miei piedi, ed &egrave da quella sera che ho cominciato a farmi certe domande. Volevo sapere se lei…”

“Senti, basta, ragazzina!” replicai sgarbatamente, interrompendola. “Pensavo di dover fare lezione, ma se sei venuta qui con strane idee, puoi anche andartene; quella &egrave la porta!”

“Ma perché la prende così?” disse Angela, accentuando la sua aria smarrita.

“Basta, sono stufo di tutta questa tua commedia: va bene?”

“Non &egrave una commedia” rispose lei, con un tono prossimo al pianto. “E poi non sono una ragazzina!” puntualizzò fiera, mentre cercava di trattenere le lacrime. “Ho vent’anni, sa? Vent’anni! – disse aumentandosi leggermente l’età – E non mi può trattare così!”

“Senti” dissi, facendomi conciliante, “io ti ho ascoltata pazientemente finora, ma non so se ho fatto bene. Mi sembra che tu abbia le idee molto confuse…”

“Ah, sono io che ho le idee confuse? Sono io?” fece lei, mentre una lacrima le scendeva già lungo la guancia.

“Non so che vuoi dire” replicai a bassa voce, con un’incertezza che ammetteva implicitamente le ragioni di Angela.

“Crede che io non abbia notato come mi sta sbirciando i piedi da mezz’ora?” disse la ragazza, asciugandosi le lacrime.

“Ma smettila…” provai a difendermi, sempre meno convinto e convincente. Eravamo da un pezzo seduti uno di fronte all’altra, col tavolo al nostro fianco, e io in effetti avevo continuato a lanciare qualche occhiata curiosa, senza neppure badarci troppo, ai suoi piedi ben curati e graziosi.

“Me lo dica, la prego” disse ancora l’Angela implorante: “lei non me li bacerebbe?”

Sospirai, non sapendo più come reagire.

“Ho bisogno di saperlo: in fondo &egrave stato lei a stuzzicare la mia curiosità” dichiarò la ragazza, e poco dopo ripeté: “Allora? Me li bacerebbe?”

Dopo qualche istante, come per tacita intesa, sollevò la gamba destra e l’appoggiò sulle mie ginocchia. Avrei forse dovuto dirle scandalizzato: “Ma cosa fa?”
Invece presi delicatamente tra le mani il suo piede nudo e sussurrai:

“Purché poi la finiamo con questa storia, e ci mettiamo a lavorare…”

Angela annuì con un tenue sorriso.

Posi delicatamente la mia mano destra sotto il suo polpaccio, quasi all’altezza della caviglia, e le spinsi leggermente più su la gamba, abbassando contemporaneamente il volto, sino a che la mia bocca non incontrò la parte superiore del suo piede, che baciai quasi in trance, senza neppure più chiedermi cosa stessi facendo.

“Visto che le piace? Lo sapevo…” mormorò Angela, gongolando come una ragazzina, e aggiunse, sempre a mezza voce, ma con tono perentorio: “E adesso anche l’altro.”

Sollevò l’altra gamba; io la presi in consegna con la stessa delicatezza, sempre servendomi della destra per sorreggerla, e ripetei il gesto: un bacio anche sul piede sinistro della mia allieva…

Mi sembrò di udire un gemito appena soffocato: sollevai lo sguardo e notai che Angela aveva gli occhi socchiusi e si mordeva le labbra, in modo sensuale, come se i miei baci le regalassero brividi di piacere incontenibile. Mi chiesi se stesse facendo sul serio, o se volesse semplicemente prendersi gioco di me, o provocarmi.

“Adesso credo che basti!” esclamai.

“Professore, la prego… &egrave così bello!” disse lei, in maniera candida e sfacciata ad un tempo.

“Ho fatto anche troppo” replicai, facendo l’atto di volermi alzare.

“Va bene, prof, però ho i piedi un po’ freddi… Non ha per caso un paio di pantofole, di quelle comode, da prestarmi?”

La guardai incredulo, poi sbuffai un “Va bene” e andai in camera mia. Quando tornai nel soggiorno, Angela mi guardò estasiata, sussurrando:

“Grazie, prof” e, mentre si metteva ai piedi le pantofole, aggiunse: “Dica la verità, lei lo desiderava? Baciare i miei piedi, dico… Che cosa ha provato?”

“Cosa vuoi che si provi?” risposi nervoso, e aggiunsi senza riuscire a guardarla in faccia: “E poi, non si fanno queste domande.”

“Ma un po’ di curiosità mi sembra naturale! Lei ha appena fatto qualcosa che non avrei mai creduto di vederle fare, capisce?”

Non risposi, e voltata la sedia verso il tavolo, cominciai a sfogliare le pagine del libro di testo, sperando di troncare così una discussione che non riuscivo più a controllare.

“Ma prof, si rende conto?” le sentii dire. “Lei poco fa mi ha baciato i piedi! Le sembra una cosa che succede tutti i giorni, fra un professore e la sua allieva?”

In quell’attimo pensai: ‘Ebbene, piccola vipera, cosa vuoi ancora?’ e ad alta voce replicai:

“No, non succede tutti i giorni; e sicuramente ho sbagliato a farlo. E’ che sono sempre troppo buono, con voi!”

Continuavo a sfogliare le pagine del libro, e non riuscivo a trovare quella che cercavo, essendo i miei pensieri rivolti a ben altro; mi sembrò di sentire un accenno di risata.

“Cosa c’&egrave di divertente?” dissi sempre più scostante.

“Non se la prenda, prof. E’ un po’ buffo vedere come se ne sta lì tutto imbarazzato… ha le guance tutte rosse, sa?”

“Senti, per cortesia…”

“Avanti, prof, non mi vorrà far credere che l’ha fatto solo per compiacere me! Si vedeva che le piaceva quello che ha fatto. Ma perché non lo vuole ammettere? Siamo soli, in questa stanza. Di che cosa ha paura?”

Per il nervosismo, stavo quasi per strappare una pagina del libro, e Angela se ne accorse.

“Perché non si rilassa?” disse. “Fra un po’, se non si calma, rischia di avere un infarto, glielo dico io!”

“Se solo la smettessi con queste sciocchezze…” provai a rispondere, ma ero sempre meno convincente, ai miei stessi occhi: ogni mia parola suonava indecisa e falsa, come un rattoppo mal messo.

“Lei non &egrave in condizione di farmi la sua lezione, in questo momento” m’incalzò Angela. “Non riesce nemmeno a girare le pagine del suo libro, non vede? Io potrei anche essere un po’ arrabbiata, con lei, perché &egrave come se mi avesse fatto venire fin qui a vuoto.”

“Mi dispiace” bofonchiai.

“Ma non stia così teso. Secondo me, deve solo lasciarsi andare un po’, e poi vedrà che starà meglio.”

Dopo queste parole, sentii qualcosa posarsi sulle mie ginocchia, e sobbalzai leggermente: era un piede della ragazza. Stava sicuramente esagerando, ma io non sapevo come reagire, mi sentivo bloccato e preoccupato, mentre i miei pensieri giravano veloci in cerca di una via d’uscita.

“Me lo baci ancora, prof: sono sicura che dopo si sentirà a posto” dichiarò Angela, facendosi sempre più sfrontata. “Lo faccio per lei!” aggiunse, notando la mia esitazione, e ridacchiò appena, come una ragazzina, sentendo forse di aver detto una spiritosaggine.

Certo, la situazione mi era ormai sfuggita di mano, ma del resto mi sentivo eccitato anch’io, con una strana agitazione nelle parti basse. Tanto valeva continuare, lontani com’eravamo da sguardi indiscreti… Feci istintivamente quello che mi aveva chiesto, o suggerito di fare: le sollevai un po’ la gamba che mi aveva poggiato in grembo, sino a portare il suo piede alla mia bocca, e presi a baciarglielo con passione. Le mie labbra s’imprimevano sulla sua pelle con un’intensità crescente, quasi che volessi tutt’a un tratto liberarmi da un peso, o scaricare, su quella parte del corpo di Angela, la forza di una passione repressa. Il lato cosciente di me si stupì di ciò che stavo facendo: era proprio così forte il mio desiderio? Avevo perso ogni ritegno? Le risposte della mia ragione non m’interessavano affatto, in quegli istanti.

“Perché non prova a baciarmelo anche sotto? Faccia pure, se le va: non glielo impedisco mica” m’incitò la ragazza, con voce soave, facendomi in realtà capire che desiderava sentire le mie labbra anche sotto la pianta del piede.

L’esitazione durò solo un attimo; baciarle anche quella parte del suo corpo di ragazza mi sembrò un atto di audacia, e lo feci con estrema eccitazione. Gli odori, che in un primo tempo avevo temuto mi frenassero o mi disgustassero, non li percepivo neppure più; la voluttà era più forte di qualsiasi altra sensazione.

“E’ incredibile… Lo sta facendo davvero!” esclamò Angela, con un tono che sapeva d’incredulità e di soddisfazione. Notando che mi ero bloccato, aggiunse però:
“Non la sto rimproverando, prof. Trovo piacevole quello che sta facendo. Non immaginavo che fosse così…”; e subito dopo, a voce più bassa: “La prego, non smetta adesso…”

“Lasciamo perdere” mormorai, allontanando da me il suo piede: il suo gradimento sembrava aver risvegliato una certa ritrosia in me. Ma Angela prontamente allungò l’altra gamba sul mio grembo, dicendo:

“Non &egrave giusto, prof; l’altro piede non me lo coccola?”

Poiché esitavo, sollevò sfacciatamente la gamba sino a che non mi trovai la sua delicata estremità quasi sul viso.

“Avanti, prof, lei &egrave così bravo… Le giuro che stava piacendo anche a me…”

Qualcosa nel tono della sua voce, e nel suo gesto, ebbe un effetto sensuale su me, e non seppi o non volli tirarmi indietro. E poi che senso avrebbe avuto, ormai, al punto in cui ero? Mi misi perciò a baciarle il piede con un trasporto folle, insensato, spostando la bocca dalla parte superiore verso la caviglia, e poi giù, sotto la pianta. Volevo lasciarmi andare, fare liberamente tutto ciò che la fantasia mi suggeriva, senza preoccuparmi delle convenienze e delle convenzioni. Trascinato da quel mio strano impeto, allargai ad un tratto le labbra e le diedi un piccolo morso, sul collo del piede. Angela sussultò, presa alla sprovvista, ed esclamò appena: “Ah!”

Non c’era disappunto nella sua voce, ma soltanto sorpresa.

“Ma allora fa sul serio, lei, professore?” sussurrò, con voce apparentemente turbata.

“Scusami” mormorai a mia volta, “mi &egrave scappato, non so bene perché…”

“Ma guardi che a me piace: lo faccia ancora” m’incoraggiò calma, stupendomi una volta di più.

Senza pensarci troppo, le diedi ancora qualche piccolo, tenue morso tra la caviglia e il tallone; sentii allora la sua voce, fattasi superbamente innocente:

“E le dita, professore? Perché trascura le dita?”

‘Ha ragione!’ mi dissi; chissà perché le dita m’intimidivano ancora: eppure ormai non aveva senso. Avvicinai dunque le labbra al suo alluce, le aprii leggermente e lasciai che mi s’infilasse piano in bocca.

“Mi faccia sentire come succhia…” fece la ragazza, con un tono roco e complice. Le barriere fra noi stavano crollando.

Esaudii immediatamente la richiesta, che collimava col mio stesso desiderio, e cominciai a succhiarle l’alluce con una dedizione della quale non mi sarei ritenuto capace, sino a un istante prima. Angela emise un sospiro, lungo e intenso, che aumentò il mio stato di euforia.

“Le altre, professore, le altre! Non lasci le cose a metà” mi esortò la ragazza, con una certa impazienza, facendo muovere l’alluce che tenevo in bocca.

Ad una ad una le succhiai tutte le dita, con cura e passione, tenendo gli occhi socchiusi. Angela mi porse l’altra gamba, chiedendomi implicitamente che mi dedicassi a entrambi i piedi, e così feci vagare freneticamente le mie labbra dall’uno all’altro, come se suonassi un’armonica o un flauto di Pan.

“Com’&egrave bravo, prof!” esclamò Angela, e non capivo se nelle sue parole prevalesse l’entusiasmo o l’ironia. “Però manca ancora qualcosa” aggiunse.

Rimasi immobile e muto per qualche attimo, attendendo che completasse la frase.

“Ma come? Non se n’&egrave accorto? Non me li ha ancora leccati! E’ una mancanza grave, prof!” scherzò la ragazza. Il suo tono eccessivamente irridente, però, non mi fece piacere, e così rimasi ancora fermo, coi suoi piedi tra le mani, cercando di farle capire che non gradivo – e tuttavia sentendomi incapace di reagire energicamente.

“Avanti! Che aspetta? Non mi dica che non lo sa fare! Non ci credo…” insisté Angela. E, prima che potessi risponderle, fece qualcosa che mi colse di sorpresa: sollevò il piede destro e me lo mise in faccia, ridendo.

“E su, si decida, prof! Non &egrave da lei tirarsi indietro” mi istigò irriverente, piegando più volte l’alluce, in modo da strofinarlo sulla mia faccia, poco sotto il mio occhio destro.

Il suo comportamento mi turbava in più di un senso, e non sapevo se indignarmi o se dar retta alla mia parte istintiva, che stava dando segnali di gradimento, all’altezza del pube, e che pretendeva quindi un compenso.

Appena sentì la mia lingua lambirle timida la pianta del piede, la ragazza commentò: “Mm, che bella sensazione, prof. Ci sto proprio prendendo gusto. Faccia pure con comodo.”

Forse era proprio la sua candida sfrontatezza a conquistarmi, e avevo deciso di non contrastarla più, lasciando che mi desse tutto ciò che desideravo prendere. Non sapevo quanto sarebbe durata quella parentesi, e temevo che mi sarei pentito di essermela concessa; ma le regole ipocrite del mondo in quel momento non m’importavano più granché. Non potevo tenerle in conto, mentre mi facevo sempre più audace – o forse perdevo ogni residua vergogna – permettendo ad Angela di strofinarmi il piede sul viso, con la lingua che mi penzolava dalla bocca. Era una specie di gioco, che sembrava divertirla ed eccitarla, e la complicità che quello comportava, solleticava profondamente il mio desiderio.

“In questo momento somiglia tanto ad Hans, il mio cane!” notò scherzosamente la ragazza. “Guardi, fa proprio come lei, prof, con quella lingua da fuori…”

Come per assecondare il suo humour, spinsi la lingua ulteriormente in fuori e ansimai alla maniera dei cani, sicché Angela insisté con la sua ironia irriverente:

“Bravo, bravo, Hans! Sei proprio un bravo cagnone! Leccamelo per bene, adesso.”

E così dicendo, sollevò il piede sinistro e me lo tenne fermo davanti alla faccia, aspettandosi che io aderissi al suo invito, cosa che feci, cominciando a strofinare la lingua sulla pianta del suo piede, di sotto in su, con lunghe e abbondanti pennellate. Non eravamo più le solite persone – non c’erano più un professore e la sua allieva, in quegli istanti, ma due esseri coinvolti in una piccola commedia che entrambi gradivano recitare. Man mano Angela entrava sempre più nella sua parte, e ad un tratto mormorò, con una voce che tradiva la sua eccitazione:

“Continua, Hans, non ti fermare; la tua padrona &egrave proprio contenta di te…”

Quella parola, “padrona”, pronunciata dalla ragazza con disinvoltura, mi colpì profondamente, forse anche perché mi giunse inaspettata, e una forte sensazione, paragonabile ad una piccola scarica elettrica, mi attraversò il corpo scivolando rapida dalla nuca giù per la schiena… Una parte di me sperò che Angela non avesse percepito l’effetto che aveva prodotto su di me la parola da lei appena pronunciata; e un’altra parte del mio essere, la più istintiva e selvaggia, invece confusamente desiderava inoltrarsi ancor più in quella foresta inesplorata di sensazioni.

Per un po’, Angela non disse più nulla, lasciando che io continuassi instancabile a leccarle i piedi, che alternava davanti alla mia bocca. Sembrava concentrarsi su ciò che provava: anche per lei doveva trattarsi di una condizione nuova, e più di una volta, lanciandole qualche occhiata, mi parve di percepire un certo stupore sul suo viso, misto a compiacimento. Forse attendeva una mia reazione; si aspettava che interrompessi il gioco e che la incitassi a riprendere il suo ruolo ordinario. Invece io a mia volta non dissi nulla – forse non volli capire le sue aspettative, e in un certo senso la spiazzai, continuando tranquillamente a strofinarle la lingua sulle estremità.

“Però i cani di solito stanno a quattro zampe” disse la ragazza ad un certo punto, con un tono indefinibile, nel quale convivevano un brivido di eccitazione, una certa voglia di scherzare e il desiderio di osare e spingersi oltre il recinto della consuetudine.

Mi chiesi come interpretare le sue parole: erano forse un invito? Una giocosa provocazione? La sua irriverenza che faceva capolino? Avrei potuto ignorarle, e forse interrompere la commedia, prima di affrontare la zona più buia del tunnel nel quale mi ero cacciato; e invece, silenziosamente, scivolai giù dalla sedia, mettendomi per terra a quattro zampe davanti alla mia allieva. Sentii il sangue pulsare forte nelle tempie, per l’emozione; ci fu un attimo di tregua, nel quale nessuno di noi due disse né fece nulla: forse Angela era rimasta stupita della mia accondiscendenza e non sapeva lei stessa come regolarsi. Rimasi in quell’attimo con gli occhi bassi, folgorato dalla mia stessa audacia, e poi, visto che nulla accadeva, mi spinsi leggermente in avanti e baciai un polpaccio della ragazza – fu un bacio sfiorato, tenue, che sapeva d’incertezza.

“Bravo, Hans, ma i cani non baciano… Leccano” commentò lei, con ritrovata sfrontatezza.

Le sue parole ebbero l’effetto di riaccendere in me la miccia della libido. Tirai quindi fuori la lingua, e con gli occhi chiusi, incurante di me stesso e del mondo, cominciai a passargliela su un polpaccio, poi sull’altro… Avevo la tentazione di andare più su, verso le ginocchia, per avventurarmi subito dopo sulle cosce, ma per un po’ la tenni a bada. Quando finalmente, non resistendo più, osai, Angela mi mise una mano sulla fronte e mi spinse bruscamente indietro, esclamando:

“Stai buono, Hans! A cuccia! Non infastidire la tua padrona.”

Psicologicamente, per me, fu come ripiombare di colpo sulla terra dopo un volo negli spazi più lontani. Sollevai il busto, rimanendo in ginocchio, perplesso e confuso. Mi chiesi che cosa mi fosse saltato in mente, e, soprattutto, cercai un modo per uscire da quella situazione imbarazzante, che io stesso avevo contribuito a creare. Per fortuna, pensò Angela a darmi un appiglio, facendomi uscire dall’incertezza piena d’imbarazzo nella quale ero precipitato:

“E’ tardi, riprendiamo la lezione” disse. “Su, siediti.”

Il suo tono era quasi materno: evidentemente intuiva il mio stato psicologico, e voleva mettermi a mio agio; notai però, con un certo disappunto, che continuava a darmi del “tu”, come durante il nostro gioco – era il segno che qualcosa era irreversibilmente cambiato, fra noi.
Durante la lezione, il nostro rapporto tornò ad essere formale (a parte il suo “tu” ormai costante), e i nostri ruoli sociali di professore e di allieva sembrarono ripristinati.
Sulla soglia di casa, al momento di congedarsi da me, la ragazza però, con tono scherzoso, mi fece:

“E ora tu ti aspetti che ti paghi per intero la lezione?”

Nuovamente mi sentii a disagio, e sollevai perciò a fatica la testa, per poter guardare la mia allieva negli occhi, replicando:

“Va bene… Pagami un’ora invece di due. In fondo hai ragione…”

“Mm… Non meriti neanche un centesimo” disse Angela, scuotendo la testa. “Più che un professore sei un cane.”

“Questo non lo devi dire” feci risentito, e lei rise del mio tono.

“Ma da quando in qua io devo pagare il mio cane?” insisté la ragazza, che si divertiva a provocarmi.

“Va bene, finiamola. Vai pure, non mi devi niente” dissi, e feci l’atto di aprire la porta; ma Angela mi posò una mano sulla spalla, trattenendomi.

“Guarda che scherzavo, prof” disse. “Sono d’accordo con la tua proposta di prima: abbiamo fatto un’ora di lezione, più o meno, quindi ti pago un’ora.”

Io, ormai offeso, insistetti a dirle che poteva anche non pagarmi, e dopo qualche minuto di tira e molla, Angela m’infilò i soldi nella tasca della camicia, dicendo:

“Non fare il bambino, per piacere, prof! Non voglio essere in debito con te…”

Mi resi conto che aveva ragione: mi stavo impuntando come un ragazzino. Feci perciò un cenno di assenso, senza aprire più la bocca, e proprio mentre stavo per abbassare la testa e sottrarre il mio sguardo al suo, Angela si chinò e, stupendomi ancora una volta, mi diede un bacio sulla fronte.
Alzai quindi il capo per guardarla di nuovo negli occhi, con aria sorpresa.

“Scommetto che andrai a nanna presto, proprio da bravo bambino” mormorò, con un’espressione tenera e ironica sul viso.

“Tu invece no?” mormorai a mia volta, quasi meccanicamente.

“Io? Quando mai? Le mie serate sono lunghe. Ma tu cosa ne puoi sapere…” sospirò con un sorriso.

Detto questo, si voltò verso la porta, facendomi capire che la conversazione era finita.
Per un bel po’ di tempo non ci furono altre lezioni private. A scuola, però, Angela continuava a impegnarsi poco e io ero sulle spine; ma come si aspettava che l’aiutassi a superare gli esami? Stavo rischiando il posto e la reputazione, e lei si comportava da vera incosciente. Una mattina, nel corridoio della scuola, la affrontai:

“Ma che cosa combini? Mi vuoi proprio rovinare?” le dissi, con voce bassa ma rabbiosa. “Io per questo istituto sono responsabile del tuo rendimento, lo sai? Queste sono le regole, qui.”

“Prof, non ti riconosco… Via, non devi fare così” replicò la ragazza con un’aria innocente, che m’infastidiva. Anche se in classe continuava a darmi del “lei”, come un tempo, quando eravamo a quattr’occhi, tornava a usare il “tu” confidenziale.

“Ma insomma, come credi di cavartela, quest’anno? Ti vuoi mettere a studiare o no?”

“Mi sa che ho bisogno di qualcun’altra delle tue lezioni…” fu la disarmante risposta di Angela.

La guardai: non credevo alle mie orecchie. Dunque aveva proprio deciso di giocare con me? E io, dove stavo andando? volevo proprio rovinarmi per lei?… Eppure, quel suo sorriso malizioso e intrigante, così carico di promesse, mi paralizzava.

“Sì, va bene…” mormorai, “ma dopo ti metti a studiare?”

“Come no!” mi rispose soltanto, e si dileguò per i corridoi, ancora una volta.

Il giorno dopo, nel pomeriggio, fu di nuovo a casa mia. Ci accomodammo in salone, come la volta precedente, e mentre lei tirava fuori i suoi libri dallo zainetto, le parlai con tono serio, perché capisse l’importanza di ciò che le dicevo:

“Adesso devi promettermi che t’impegnerai. Io la mia parte la sto facendo… Con queste lezioni, io sto rischiando il mio posto, la mia carriera: lo capisci?”

Angela mi guardò con un’aria contrita, in cui riaffiorava la ragazzina che abitava nel suo animo.

“Lo so, prof. Non credere che io non apprezzi quello che stai facendo per me” disse.

“E allora, perché non t’impegni seriamente? Io so che sei una ragazza intelligente, e che puoi fare molto meglio.”

La sua faccia si fece ancor più triste.

“E’ la solita storia… E’ sempre tutto così difficile per me” mormorò, e l’emozione la spingeva quasi al pianto.

“Cosa ti succede? Me lo puoi dire?” le chiesi premuroso e paterno.

“I miei genitori non credono che ce la farò a essere promossa. E mi hanno detto che, se fallisco anche stavolta, non pagheranno più un centesimo per i miei studi.”

“Vedi? Ragione di più per impegnarsi. Ti dico che ce la puoi fare, se ti metti di buona volontà sui libri!”

Angela mi guardò con occhi speranzosi, poi abbassò di nuovo la testa e disse:

“Nemmeno Alessio, il mio ragazzo, crede in me. Pensavo che stesse dalla mia parte, e invece mi dice che sto solo buttando tempo e soldi.”

“Ah, così dice? Bel ragazzo, che hai! Ma cosa ne capisce lui? Non dargli retta: io ti dico che invece ce la puoi fare.”

“Davvero, prof?” fece Angela, concedendomi uno sguardo carico di gratitudine.

“Sì, Angela” le confermai.

“Me lo prometti?”

In quel momento, sembrava letteralmente pendere dalle mie labbra, e il mio orgoglio di uomo e di professore era salito alle stelle.

“Te lo prometto” le dissi con voce ferma e rassicurante.

“Tu sì che mi sai capire…” sussurrò, e allungò una mano ad accarezzarmi una guancia.

“Va bene, Angela” replicai imbarazzato, “lasciamo da parte i convenevoli e cominciamo questa benedetta lezione…”

“Non ancora, prof: aspetta” fece Angela, alzandosi.

La osservai con aria interrogativa, e lei aggiunse: “Ho una sorpresa per te.”

Senza neppure darmi il tempo di replicare, si sfilò il maglioncino nero che indossava e rimase col torso coperto soltanto da un reggiseno di pizzo scuro.

“Beh? Che fai ancora lì? Non mi dài una mano a togliermelo?” m’incitò la ragazza, con un sorriso disteso. Il suo umore si era improvvisamente fatto allegro, e la ragazzina aveva lasciato il posto alla donna smaliziata.

Si voltò quindi, dandomi le spalle, e io, scacciate in un breve attimo le mie perplessità, mi avvicinai a lei, pronto al suo richiamo. Per agevolarmi, Angela raccolse con la mano i capelli, che quel giorno portava sciolti e lisci, e se li portò sul petto, e io mi detti ad armeggiare col gancetto del suo reggiseno. L’emozione mi faceva impappinare, e Angela, rendendosene conto, si mise a ridere, commentando:

“Proprio imbranato, eh, prof? Ma fai così anche con le altre?”

“Ma dài!” mi schermii, mentre lottavo disperatamente col gancetto, sentendomi uno stupido. Finalmente ebbi ragione di quel diabolico aggeggio e tirai un sospiro di sollievo. Angela rise ancora, poi si voltò. Mi ritrovai così le sue sontuose tette nude sotto il mento: dovevano essere una quarta misura abbondante, mi dissi. Inoltre apparivano sode, con capezzoli pronunciati, che avevano l’aria di sfidare il desiderio – questo il pensiero che mi venne in mente osservandoli.

“Ecco il mio regalo per te…” sussurrò la ragazza. “Ci ho pensato a lungo in questi giorni, ma devo proprio dire che te lo meriti. Dopo quello che mi hai detto poco fa, mi sento – come dirti? – su di giri: strano, no?”

Così dicendo, Angela spinse con le mani le tette verso l’alto e me le appoggiò sulla faccia.

“Annusale, prof, avanti” mi stuzzicò, mentre m’imprigionava il naso fra i suoi seni.

L’odore della sua pelle mi riempiva la testa. Angela si schiacciava contro me e, mentre una violenta erezione mi sorgeva tra le gambe, mi resi conto che la ragazza aveva cominciato a spingermi, con la forza del suo corpo imponente, che era maggiore di quanto mi aspettassi: lei camminava in avanti ed io non potevo far altro che indietreggiare, sempre col volto sommerso dalle sue tette profumate e morbide. Ad un certo punto, urtai col sedere contro un muro.

“Sì, da bravo, così: spalle al muro” disse Angela a mezza voce, con un tono roco che tradiva l’eccitazione. “E’ così che ho sognato di farlo con te, sai?” sussurrò poi con voce sempre più calda e coinvolta.

Prese a strofinarmi le tette sulla faccia; improvvisamente poi si spinse in avanti, a chiudermi naso e bocca nella calda ed accogliente morsa che era il solco tra quelle candide, magnifiche bocce di donna, e io, stretto in quella posizione contro il muro, ero senza scampo.

“Ti piace giocare così, mmm? Di’ la verità: lo stavi sognando anche tu, fin dall’altra volta che ci siamo visti qui?” mormorò lei. Cercai i suoi glutei, e glieli palpai freneticamente; la ragazza reagì estasiata, addossandosi a me in modo tale da serrarmi ancor più contro il muro e soffocarmi tra le sue mammelle, sicché arrivai a percepire in me la volontà voluttuosa di abbandonarmi del tutto ai suoi desideri.

“Adesso leccameli, lecca i capezzoli!” esclamò Angela ad un tratto, con tono di comando, come se avesse captato il mio stato d’animo.

Mi scostò i seni dalla faccia, per consentirmi di chinare la testa quel tanto che bastava per leccarglieli, ma in compenso accentuò la pressione del suo bacino su me, in modo da continuare comunque a tenermi schiacciato al muro.
Io afferrai la sua tettona destra e mi misi a leccargliela come un pazzo, concentrandomi soprattutto sul capezzolo. Glielo titillavo avidamente, morbidamente, con la punta della lingua, e lei gemeva soddisfatta, pressandomi ancor più col bacino. Lo stesso lavoro compii sulla mammella sinistra: la mia lingua scodinzolò audace e giocherellona sul suo capezzolo, inturgidendoglielo. Sentii Angela ansimare follemente per il piacere.

“Succhia!” mi disse, con aria apertamente dispotica.

Non aspettavo altro: mi attaccai alle sue tette e cominciai a poppare golosamente, come un bimbo affamato. Lei sembrò andare in orbita, per i sospiri voluttuosi che le sentii emettere. Stavo quasi impazzendo per il piacere di avere tra le mani quei capolavori di carne, soffici e pieni, tondi e sodi, che tante volte avevo intravisto sotto gli abiti della mia allieva. Ma la realtà superava di gran lunga l’immaginazione! Godevo nell’affondare la mia bocca e il mio viso tra quelle rotondità che sapevano intensamente e dolcemente di donna; ero tanto inebriato di lei e del suo corpo da sembrare un ubriaco. Mi sentivo in trance mentre le succhiavo le tette.

“Allora, ti piace il mio regalo, prof?” mormorò Angela.

“Sì…” risposi estasiato, smettendo appena di succhiarla.

“Quindi ho capito bene cosa vuoi da me” sussurrò a voce più bassa, confidenziale e complice.

“E tu? Tu cosa vuoi da me?” replicai senza pensarci.

“La stessa cosa” disse semplicemente e soffocò una risata.

“Ma cosa stiamo facendo?” chiesi io, come se volessi lasciare il campo alla mia parte razionale.

“Non lo so, però vedo che ci piace” sorrise Angela, e la freschezza delle sue parole mi bastò. Era lei che parlava per entrambi, e dovevo lasciarla fare ancora un po’.

Ripresi a succhiarla, perdendomi di nuovo nel piacere che provavo, e la sentii commentare:

“Se continui così, riuscirai a farmi uscire il latte.”

“Non mi dispiacerebbe” confessai, e in quello stesso istante sentii la mia coda libidinosa risvegliarsi prepotente nei pantaloni.

“Mm… Lo sapevo che sei un bambino impertinente. Ma devi seguire i consigli dei grandi e fare quello che ti dicono. Perciò adesso abbassati e leccami le gambe, come l’altra volta” disse piano, con ferma dolcezza materna.

M’inginocchiai. Angela indossava una gonna corta, come di consueto, e calze autoreggenti scure. Delle scarpe si era già sbarazzata. Le posi una mano sulla gamba, timidamente, e lei m’incoraggiò:

“Sì, toglimi le calze.”

Pian piano dunque gliele sfilai, sempre più eccitato all’idea di avere finalmente accesso ad un’altra parte agognata del suo corpo. Mentre, con tutta la delicatezza possibile, le toglievo le calze, avevo l’impressione di aprire le porte di un tempio.

“Su, lecca” mi sussurrò Angela, mentre mi perdevo per un attimo a contemplarle le gambe proporzionate, snelle senza essere scheletriche, e quelle sue ginocchia tornite… Non seppi trattenermi dall’accarezzargliele, ammirato, prima di mettere di nuovo in azione la lingua. Mi avvinghiai alle sue gambe e presi a leccargliele, una alla volta, di sotto in su, iniziando dalla caviglia, poi su per il polpaccio; un’attenzione particolare per il ginocchio, sul quale facevo roteare la lingua in modo speciale, avvolgente; quindi ancora su per la coscia… E man mano che salivo, sentivo i gemiti di Angela aumentare d’intensità… Mi trovavo a mio agio in quella condizione, per me nuova, di amante servile e devoto che compiaceva e omaggiava, nell’unico modo a lui concesso, la sua adorata.
Non mi vergognavo più di procurare piacere, in quel modo così intenso e profondo, ma così poco ortodosso, a colei che desideravo con tanta forza. Nel leccare le sue gambe, sentivo il sapore inebriante della sua pelle sulla lingua e, benché leggermente acre, lo consideravo il sapore più dolce della Terra.

Sembrava proprio che Angela gradisse immensamente la mia stimolazione e io, felice di farle cosa gradita, ripetei più volte quel percorso di sotto in su, sulle sue gambe, con la lingua, fino ad estenuarmi. Proprio quando ero ormai al limite delle forze, sentii Angela esclamare, perentoria, dopo un lungo, focoso sospiro:

“Basta così! Mi stai facendo bagnare come non mai.”

Mi fece piacere sentirglielo ammettere, ma mi spiacque dover interrompere le mie stimolazioni.

“Hai ragione” dissi alzandomi, colto da rimorso, “abbiamo perso troppo tempo, e tu devi metterti a studiare seriamente.”

“Non ti dispiacere, prof” sussurrò Angela, “il tuo regalo, per oggi, l’hai avuto. La prossima volta vediamo…”

Si voltò e si diresse lentamente verso il tavolo, dal quale recuperò il suo reggiseno. La seguii con lo sguardo, catturato dal suo modo di muoversi, aggraziato e seducente. Fu con timidezza e riluttanza che la raggiunsi, dopo che lei si fu rivestita, per cominciare la nostra lezione. In pochi minuti, il suo atteggiamento era cambiato, ed era tornata ad essere un’allieva attenta e coscienziosa.

Al momento di salutarci, sulla porta di casa, non riuscii a trattenere una domanda:

“Ti rendi conto di quello che stiamo facendo?”

Angela mi guardò con aria stupita e fece spallucce, come se stessi dicendo una sciocchezza.

“Di che cosa ti preoccupi?” domandò a sua volta.

“Ma come?… Non hai il dubbio che… stiamo passando il limite? Voglio dire: dove ci porterà questa nostra incoscienza? Non possiamo far finta di niente, Angela: noi due stiamo sbagliando.”

“Ma perché? Sei tu che ti fai dei problemi. Non abbiamo fatto niente di speciale, mi pare…”

“Ma come no? come no?” m’infervorai. “Come fai a non capire?”

“Dov’&egrave il problema, prof?” fece lei, con aria trasognata.

“Non &egrave uno, il problema. Sono tanti. Ad esempio, tu ce l’hai un ragazzo, no? Che cosa gli dici? Gli parli di quello che facciamo noi due?”

“Oh, ma a cosa stai a pensare, prof!” rispose Angela, sorridendo. “E poi, non &egrave certo un problema tuo, non ti sembra?”

Aveva ragione, però ero turbato all’idea che Angela potesse passare dal suo ragazzo a me con disinvoltura, o che potesse farsi sfuggire qualcosa di ciò che avveniva tra lei e me.

“Va bene, ma non c’&egrave solo questo, lo sai bene. Io sono il tuo professore, e forse dovremmo smettere di vederci…”

La ragazza mi lanciò un’occhiata perplessa e nervosa.

“Stai scherzando? Io ho bisogno delle tue lezioni: tu lo sai” disse, e la rabbia, nella sua voce, si mescolava con una punta di disperazione.

“E allora dobbiamo smettere di andare oltre le righe. Basta, abbiamo sbagliato. O se preferisci, ho sbagliato io. Purché ci diamo un taglio…”

Dissi queste frasi senza riuscire a guardarla negli occhi.

“Io non ti capisco. Certo che la vita sai rendertela difficile, eh?” fece Angela, guardandomi come se fossi un marziano; eppure i suoi occhi in quell’attimo erano anche curiosi, di una curiosità intensa e complice. Le aprii la porta, e prima di andar via, mi diede un affettuoso buffetto sulla guancia. Nel mese successivo, nonostante ciò che mi aveva detto l’ultima volta che era stata a casa mia, Angela evitò di venire da me e smise di domandarmi se potevo farle lezioni private. Mi sembrò anche di notare che in classe si mostrasse più gioviale del solito coi compagni maschi, ed ebbi addirittura l’impressione che lo facesse con una certa ostentazione. Si comportava così per ingelosire me?
Da parte mia, mi mostravo indifferente, però mi accorsi che il suo comportamento mi faceva soffrire, benché sulle prime non volessi ammetterlo nemmeno con me stesso; ritenevo che lei agisse mossa da una gratuita cattiveria, o che, come minimo, dimostrasse una mancanza di tatto nei miei confronti.
In quel periodo, d’altronde, il rapporto con la mia ragazza, Eleonora, si andava sfilacciando, almeno dal mio punto di vista: la colpa – non potevo nascondermelo – era proprio di Angela: il fatto &egrave che io sognavo di fare con Eleonora, nell’intimità, ciò che avevo fatto con la mia allieva, non avendone tuttavia il coraggio. Come potevo proporre alla mia ragazza, tutt’a un tratto, di cambiare registro e di osare cose che non avevamo mai neppure ipotizzato nelle nostre comuni fantasie amorose? Cosa avrebbe pensato di me Eleonora, se avessi avuto la sfacciataggine di rivelarle i miei nuovi e urgenti desideri? Non lo sapevo, e comunque non me la sentivo di sperimentarlo.
Mi adattavo dunque a “farlo nel solito modo”, senza uscire dai binari, ma ormai sentivo l’insoddisfazione crescere dentro di me, giorno dopo giorno, sino a farsi insopportabile. Agivo secondo falsità, basandomi su un copione usurato, recitato già mille volte, che non poteva darmi più nessuna emozione.
Un giorno Eleonora mi annunciò che doveva partire per partecipare ad uno stage, che l’avrebbe tenuta lontano dalla mia città per almeno un paio di mesi. In quel periodo, col campo sgombro, e senza più la preoccupazione di poter urtare i sentimenti della mia ragazza, la mia attenzione nei confronti di Angela crebbe: mi resi conto di non poter fare a meno di lei, e la sognai più volte, a petto nudo, con le sue grandi tette che mi venivano incontro sino ad avvolgermi completamente il viso, saturandomi l’olfatto con il loro profumo.

“Angela, a che gioco stai giocando?” le dissi un giorno, affrontandola nel corridoio della scuola, in un momento in cui non c’era nessun altro all’infuori di noi due.

“Quale gioco, professore?” fece lei, con aria innocente.

“Io lo vedo come ti comporti in classe.”

La ragazza si strinse nelle spalle, come per dire: “Perché? Come mi comporto?”

“Non farmi dire!” esclamai. “E poi sei svogliata, stai trascurando di nuovo lo studio. Come mai non sei più venuta a prendere lezioni private da me?”

“Ma professore, mi sembrava che tu non volessi più…”

“No, non trovare scuse: io lo so, questa &egrave tutta una manovra per provocarmi. Che cosa vuoi? Farmi cadere ai tuoi piedi?”

Cercai di non alzare la voce, per evitare che orecchie indiscrete ci udissero, sebbene il comportamento di Angela m’indisponesse parecchio. Dal suo canto, lei mi squadrò con uno sguardo che mi parve ironico.

“Lo sai benissimo che ci stai riuscendo…” aggiunsi, abbassando gli occhi.

“Ah sì? Ma non &egrave mica una novità: io già lo so che ti piacciono i miei piedi” disse la ragazza, rasentando l’insolenza.

“Non scherzare, Angela, non &egrave giusto” dissi, afferrandole un braccio e tornando a sollevare la testa, per guardarla dritto negli occhi.

Angela si scosse, liberandosi bruscamente della mia stretta, e replicò indispettita:

“Forse, con tutta la tua bella cultura, ti &egrave sfuggito un particolare: noi due non stiamo insieme.”

Le sue parole, in quel momento, le percepii come particolarmente cattive: mi convinsi che volesse farmi soffrire, e ne fui talmente sconvolto che non seppi cosa risponderle; la guardai annichilito, con gli occhi sgranati, e lei, assunto di colpo un tono più conciliante, aggiunse:

“Però hai ragione: ho ancora bisogno delle tue lezioni, prof. Dimmi quando posso venire da te.”

*

Eravamo uno di fronte all’altra. L’emozione era tale che non riuscivo a credere che lei fosse di nuovo lì con me, nel salone di casa mia. Poiché avevo abbassato la testa, Angela, afferrandomi teneramente il mento, me la sollevò, finché i nostri sguardi non s’incontrarono.

“Ti vedo agitato, prof… Che c’&egrave? Non vedevi l’ora?” sussurrò.

La paura che per lei fosse tutto un gioco e che si divertisse a prendermi in giro, mi paralizzò; per un attimo desiderai mandarla via e dimenticare tutto, ma, riflessa nei suoi occhi splendidi, la mia voglia di averla vicino si moltiplicò.

“Abbassa un po’ le luci” mi disse.

Spensi quindi la luce centrale e accesi una vecchia lampada che faceva mostra di sé su un tavolino in un angolo della stanza. Quando fui di nuovo davanti alla ragazza, questa aveva già messo a nudo il suo seno.

“Ti &egrave mancato?” mi chiese provocante.

Senza dire una parola, presi una delle sue mammelle fra le mani e gliela coprii di baci, come un invasato, facendo poco dopo la stessa cosa con la sua tonda e morbida gemella. Ero di nuovo immerso nel mio sogno più intenso, e quelle rotondità profumate, con l’evidenza scura e sfrontata dei loro capezzoli, erano il traguardo delle mie segrete speranze. Non speravo più di vederli così da vicino, e di poterli ancora maneggiare, e ora quindi la mia gioia era doppia. Angela rise, commentando:

“Piano, prof. Sembri proprio affamato.”

“Non deridermi. Non posso più fare a meno di te” dissi, lottando con la mia stessa riluttanza a svelarmi. Ma ormai Angela doveva aver capito benissimo cosa provavo.

La ragazza mi strinse a sé, facendo in modo che io sentissi chiaramente le sue tette carnose contro la mia faccia, e il suo stomaco contro il mio petto. Poi mi sussurrò in un orecchio:

“Se ti metti in ginocchio, forse c’&egrave qualcos’altro per te…”

Non potevo non dare ascolto al suo invito. Mi trovai così con la faccia all’altezza della sua corta gonna. Alzai gli occhi verso i suoi, come a chiederle permesso. Angela annuì, sorridente, dicendo:

“Sì, continua. Il mio regalo oggi &egrave lì.”

Feci andar giù la sua gonna, e lei lasciò poi, sollevando un piede alla volta, che gliela sfilassi del tutto. Attraverso le sue mutandine scure intravedevo la peluria del suo sesso, e questa semplice promessa bastò a eccitarmi. Non potevo ancora credere che Angela mi consentisse di conoscere la sua intimità di donna, perciò rimasi lì per un attimo a contemplarla, esitante, adorante.

“Ti piace, prof? Cosa ne pensi?” le sentii chiedere, con una voce addirittura emozionata. Possibile che cercasse la mia approvazione? La donna sfacciata aveva di nuovo lasciato il posto alla ragazza insicura che era in lei.

“Mi piace… Mi piace molto quello che vedo” confessai, con tono sicuro.

“Tu cosa ci faresti?” mi domandò.

Le sue parole mi spiazzarono leggermente. Che cosa desiderava davvero? Che cosa si aspettava che io facessi?

“Te la bacerei” risposi dopo una breve esitazione. Immediatamente sentii un piccolo sospiro di piacere: l’idea, a quel che sembrava, la solleticava potentemente.

“Cosa aspetti?” mormorò la ragazza. Sollevai per un attimo lo sguardo, per chiedere conferma al suo, e lei annuì con un leggero moto del capo.

Le abbassai quindi le mutandine e avvicinai la bocca al suo boschetto scuro. Chiusi gli occhi e vi affondai le labbra, provando un’inedita ebbrezza, che sapeva di abbandono ed eccitazione allo stesso tempo. Respirai l’odore intenso del suo sesso, poi le frugai nel pelo con le dita, delicatamente, finché intravidi il grande solco della sua femminilità, e lì incollai le mie labbra, schioccandole un bacio intenso e possessivo. Angela emise un gemito soffocato e sobbalzò.

“Sei bravo, professore!” esclamò con voce roca. “Adesso però mi aspetto di più…”

La sua richiesta mi diede una piccola scossa al membro.

“Con la lingua?” domandai incerto.

“Mm-m!” fece lei, con intonazione affermativa.

“Ci provo, ma non… l’ho mai fatto” confessai.

“Male, professore! Questo vuol dire che non hai considerazione per le tue donne” disse Angela, con aria di ironico rimprovero. “Comunque” aggiunse, “adesso sei in ballo e non puoi tirarti indietro. Non &egrave mai tardi per imparare, sai? Tira fuori la lingua, avanti.”

“Non so se mi verrà bene” provai a giustificarmi preventivamente.

“Deve venir bene. Devi mettercela tutta. Il gioco oggi &egrave questo” fece la ragazza.

Già: il gioco. L’avevo voluto io. O forse no, forse ci ero semplicemente caduto; ma cosa importava adesso? Avevo dimostrato di gradirlo, dunque non potevo in ogni caso tirarmi indietro. Tirata fuori la lingua, cominciai a passargliela lungo le grandi labbra, un po’ a casaccio.

“Puoi farlo meglio” mi rimproverò Angela.

Mi concentrai meglio, e con più precisione e calma, mi diedi a spennellarla con la punta della lingua lungo il grande solco.

“Sì, non c’&egrave male” commentò la ragazza, e si lasciò scappare un piccolo gemito. “Però adesso cerca il clitoride. Sai dov’&egrave?” mi chiese con un certo sarcasmo.

L’odore intenso dei suoi umori provocava in me nel frattempo strane sensazioni. Non mi aveva mai avvolto la mente sino a quel punto, il sentore dell’intimità femminile.
Appena la mia lingua riuscì a sfiorarle il piccolo bocciolo un po’ sporgente, Angela pronunciò un lungo: “Aah…” di selvaggio compiacimento, e subito dopo, poste le mani dietro la mia nuca, mi compresse la testa contro il suo pube: in tal modo il suo odore m’invase le narici con maggiore violenza.

“Lecca, succhia, continua!” esclamò, aumentando la pressione delle mani dietro la mia testa.

Le leccai quindi delicatamente il clitoride, e questo bastò a provocarle un altro paio di sospiri voluttuosi; quando poi le sfiorai il bocciolo con le labbra socchiuse, in maniera forse un po’ goffa, Angela si lasciò sfuggire addirittura un piccolo urlo di soddisfazione, e affondò le sue dita fra i miei capelli, aumentando in un attimo la mia eccitazione.

“Devi insistere; devi farlo meglio” mi disse, con una voce nella quale si mescolavano ormai il piacere e la pretesa.

Tornai quindi a stuzzicarle il clitoride con le labbra e con la lingua, e sentii ogni volta il suo corpo contrarsi, e il suo respiro farsi più pesante.

“Mettimi un dito dentro, voglio venire” mormorò a un tratto, smettendo di comprimermi ritmicamente la testa.

Fu con una certa timidezza che infilai l’indice nella sua passerina bagnata.

“Fammelo sentire meglio” mi disse Angela, dopo che il mio dito l’ebbe stantuffata per qualche secondo. Glielo girai allora dentro, strofinandolo delicatamente sulle sue intime pareti umide, e sentii di nuovo il suo corpo contrarsi; di lì a poco mi chiese di usare due dita, e poi tre. Il ritmo della mia mano si fece man mano più scatenato, e i suoi gemiti si trasformarono pian piano in brevi urla soffocate, finché sentii le pareti della vagina contrarsi in maniera potente. Angela lasciò che il suo orgasmo la sconvolgesse tutta, e appoggiando le mani alla parete alle sue spalle, lo accompagnò con una serie di piccoli ruggiti, che manifestavano in maniera evidente la natura prorompente e incontrollabile del suo piacere.

Quando si riprese, ritrovando il ritmo normale del suo respiro, commentò:

“Oggi, professore, sei tu ad aver imparato qualcosa da me.”

Ero in piedi davanti a lei; sollevai la testa per guardarla negli occhi, e annuii. Lei aggiunse, con una smorfia di disappunto:

“Il mio ragazzo &egrave come te… Non vuole saperne di queste attenzioni. Peccato! Però, visto che almeno tu ti sei convertito, da oggi in poi potrò rivolgermi a te per le cose che lui tralascia. Che ne dici, prof?”

Cosa potevo dirle? L’abbracciai e affondai ancora una volta il viso fra le sue tette piene di dolce calore. Spinsi poi rapido le mani giù, fino a toccarle il sedere: cercavo di farle capire che volevo qualcosa di più. Angela comprese le mie intenzioni, ma appoggiando le sue mani sulle mie spalle, mi spinse con forza, sino a costringermi a staccarmi dal suo corpo.

“Per oggi basta, prof. Devi farmi la tua lezione, ricordi?” disse.

“Ma Angela, non pensi che meriti di avere qualcosa anch’io? La mia parte l’ho fatta, no? L’hai apprezzata molto, mi pare” replicai, non nascondendo la mia insoddisfazione.

“Sì, certo” mormorò. “Ma quello che vorresti tu, non posso concedertelo: non fa parte del gioco, e lo sai.”

“Gioco? Ma chi fa le regole di questo gioco, scusami? Tu hai avuto tutto quello che volevi, poco fa. Era previsto anche questo, nel gioco?”

“Ricordati che noi due non stiamo insieme. Devo ripetertelo?”

“No, ma che c’entra?”

Angela scosse la testa, con un vago sorriso: aveva l’aria di una maestra, o di una madre, che cerca di spiegare i motivi di una regola, o di una proibizione, a un ragazzino testardo.

“Il gioco non prevede niente, e consente tutto; ma ci sono delle condizioni da rispettare” disse la ragazza.

“Chi lo dice?”

“Lo dico io. Perché, di noi due, sono io quella che può rivestirsi immediatamente e andarsene di qui per sempre, senza problemi o rimpianti. E tu lo sai fin dall’inizio.”

Abbassai gli occhi: non potevo negare che avesse ragione. Non mi aspettavo però che Angela avesse il coraggio di rinfacciarmelo; in quel momento, era come se avesse chiarito i ruoli, per fugare ogni mia residua illusione – o la mia incapacità di accettare fino in fondo, e senza mascheramenti, ciò che ci stava capitando.

“Prof, ascoltami” riprese la ragazza, dopo essersi rivestita, “non fare quella faccia: non ti sto dicendo che non possiamo spingerci più in là. Ma devi sapere che, se vuoi qualcosa in più, devi accettare anche le condizioni che ti pongo.”

“E questo per rispetto del gioco, immagino” osservai con amaro sarcasmo.

“E’ un gioco che hai voluto anche tu. Sta a te scegliere: vuoi che lo interrompiamo adesso? Se vuoi, torniamo ai nostri vecchi ruoli. Per quello che m’interessa…” fece, alzando le spalle con indifferenza.

“E’ troppo comodo, così!” esclamai. “Credi di potermi ricattare? E’ questo che mi stai dicendo?”

Angela non rispose, e si limitò a fare ancora spallucce.

“Tu mi devi del rispetto, hai capito?” m’innervosii, avvicinandomi a lei. “Non mi va affatto bene la maniera con la quale mi hai trattato oggi. E non mi parlare ancora del ‘gioco’, perché ne ho fin sopra i capelli di questa stronzata!”

“Non so cosa ti gira nella testa, prof. Cosa vuoi?” disse Angela, mostrandosi fredda.

“E’ semplice: sono un uomo, una persona, e voglio che mi rispetti. Credi di potermi usare per i tuoi comodi, come una specie di pupazzo? Beh, ti sbagli!”

“Ti ripeto: cosa vuoi?”

“Devi trattarmi come una persona.”

“Cio&egrave? Insisti a volere ‘qualcosa di più’?”

“Certo: anche quello. Mi sembra umano. Tu mi hai usato, poco fa.”

“Se &egrave quello che vuoi, te lo puoi scordare. Te l’ho già detto.”

Il suo tono strafottente ebbe il potere di farmi perdere del tutto le staffe: mi scaraventai su di lei, afferrandole le braccia, senza sapere neppure bene cosa intendessi fare; avevo in mente soltanto la voglia di “darle una lezione”.

“Che fai, professore? Vuoi renderti ridicolo?” le sentii dire.

A quel punto, non volevo e non potevo più tirarmi indietro, e cominciai a spingerla, pensando di immobilizzarla contro la parete. Angela però non sembrava preoccuparsi molto, e anzi la sentivo sghignazzare, il che mi faceva ulteriormente innervosire.

“Ma che vuoi fare? Mi sembri un ragazzino incavolato” commentò.

“Non sono un ragazzino, e adesso te ne accorgerai!” esclamai.

Angela non sembrava opporre una grande resistenza alle mie spinte, ma, essendo più alta di me e non precisamente snella – e non essendo io un gran forzuto – mi costava fatica farla indietreggiare; riuscii però infine a metterla con le spalle contro il muro. A quel punto, rise più forte, chiedendomi:

“E adesso? Mi vuoi riempire di botte?”

“L’hai voluto tu!” dissi, esasperato dal suo sarcasmo, e le diedi uno schiaffo sulla guancia. Me ne pentii immediatamente: non era un gesto degno di me.

Angela mi guardò con disprezzo e sibilò: “Stronzo!”

Prima che potessi rendermi conto di quel che stava accadendo, avvertii un forte dolore allo stomaco, e il respiro mi si bloccò: Angela mi aveva dato una micidiale ginocchiata in quella delicata zona del mio corpo. Lasciai all’istante le sue braccia, e mi piegai in due, spaventato, senza pensare ad altro che a recuperare il respiro.
Di lì a poco, avvertii un tremendo colpo sul collo, che mi fece perdere l’equilibrio: la mia allieva doveva avermi assestato un colpo con la mano, di taglio – forse una mossa di karate, ma io non m’intendevo di arti marziali. Certo non fu un semplice colpettino: tutt’altro! Avevo evidentemente sottovalutato la forza di Angela, e ora mi ritrovavo steso per terra, a tenermi lo stomaco, che ancora mi faceva male.

La ragazza si chinò su me, e mi girò supino; quindi, si sistemò a gambe divaricate sul mio corpo, e si abbassò rapidamente, sino a bloccarmi le braccia al suolo con le sue ginocchia. Mi accorsi che non potevo più muovermi da quella posizione.

“Dimostri di essere proprio un cretino!” disse Angela, guardandomi negli occhi con commiserazione. “Non sei allenato per fare certe cose, e ti muovi come un pinguino, senza la minima agilità.”

“Scusami per lo schiaffo… Non volevo” mormorai mortificato, cercando di rabbonirla.

“Le scuse non bastano. Sono incazzatissima.”

Il suo viso era duro, sdegnato. Avevo paura che volesse infierire su me, per ritorsione.

“Ti prego, lasciami andare, adesso. E’ stato un momento di rabbia… Non so cosa mi sia successo” dissi confuso.

“Troppo comodo. Non te la cavi così. Mi hai fatto male, e adesso voglio che tu capisca cosa si prova.”

Stavo per chiederle: “Cosa vuoi dire?”, quando un suo manrovescio mi colpì la guancia destra. Mi fece parecchio male.

“Dài, smettiamola… Tutto questo &egrave assurdo!” esclamai agitato e spaventato.

“Da quanto tempo non ricevevi uno schiaffo così?” mi domandò lei.

“Non so… Da tanto.”

“Questo &egrave il guaio! Forse avresti dovuto averne di più. Magari dalla tua ragazza. Ti avrebbero un po’ aggiustato le idee.”

“Non scherzare, su” stavo dicendo, quando un altro ceffone mi colpì, stavolta sulla guancia sinistra. “Ahia! Ma io te ne ho dato solo uno!” esclamai.

“L’incazzatura non mi &egrave passata. Mi dispiace per te” disse Angela.

A quel punto mi dimenai, cercando di liberare le braccia, per poterla disarcionare, ma non ottenni nulla.

“Stai buono. L’hai voluto tu” disse la ragazza, e mi mollò un altro manrovescio, che mi sembrò, sulla guancia già dolorante, più forte del primo.

“Mi stai facendo molto male!” mi lamentai, e sentivo ormai le lacrime agli occhi.

“Potevi pensarci prima e fare meno lo stronzo, professore!”

Così dicendo, mi assestò un ultimo schiaffo sul volto, e finalmente si alzò.

“E questa &egrave un’altra lezione che ti meritavi, oggi” commentò, rassettandosi gli abiti.

Subito dopo, si mostrò dolce e premurosa con me, e si offrì persino di massaggiarmi un po’ lo stomaco dolorante, e di spalmarmi una pomata che avevo in casa. Mi sentii poi meglio e insistetti per farle ugualmente lezione. Erano quasi le dieci di sera, quando chiudemmo i libri. A quel punto, Angela mi fece:

“Abbiamo interrotto un discorso, qualche ora fa. Non t’interessa sapere quali sono le condizioni che ti pongo?”

Rimasi là per là disorientato, e poi ricordai: già, le condizioni alle quali avrei potuto ottenere “qualcosa di più” nel gioco…

“Non m’interessano più” dissi. “Smettiamola, con questa storia.”

“Come vuoi. Però questo vuol dire che non ci saranno altri t’te-à-t’te, qui da te.”

Sapevo di non poter bluffare fino in fondo, e così le chiesi, a voce più bassa, quali fossero, insomma, le “condizioni”.
Angela appoggiò una mano sul mio petto, e cominciò a carezzarmelo piano, attraverso la stoffa del mio maglione, dicendo:

“Devi essere disposto a tutto…”

“Chissà. Sentiamo” dissi, ma non potevo ignorare che la sua carezza mi piaceva, e non poco, anche per ciò che lasciava sperare.

“Domani interrogherai, vero? Bene, tu prima chiamerai Simona, che &egrave quasi sempre impreparata, e segnerai sul registro la sua insufficienza. Poi, chiamerai me, io non risponderò, perché nemmeno io sarò preparata, e tu farai finta di rimproverarmi – sai, per non destare sospetti nella classe – ma non segnerai niente sul registro. Ovviamente, poi me lo dovrai far controllare.”

“Ma… che c’entra Simona?” chiesi, un po’ infastidito. “Solo perché ti &egrave antipatica?”

“Tu non devi discutere le mie richieste, devi solo dimostrarmi che sei disposto a fare tutto ciò che ti chiedo. E’ solo l’inizio.”

“L’inizio di cosa?” bofonchiai.

“Delle cose che possono arrivare e che… possono piacerti un casino” mormorò Angela, facendo scendere lentamente la mano verso il mio ventre. Contrassi i muscoli per l’eccitazione e per la sorpresa. La mano della ragazza non arrivò sino al mio sesso, ma si fermò un attimo prima di sfiorarlo attraverso la stoffa dei miei pantaloni. “Allora, che ne dici? Lo facciamo, questo patto?” mi domandò carezzevole.

Il suo sguardo era sornione, sicuro della mia risposta. Potevo forse concedermi il lusso di perdere quegli occhi, quella mano, quella pelle, soltanto a causa del mio orgoglio? Il giorno dopo, a scuola, mi comportai esattamente come Angela desiderava. E così feci nei giorni e nelle settimane che seguirono, sempre più legato a lei, al suo corpo, al suo profumo, ai suoi desideri… Mi trasformai pian piano in un suo docile strumento, e mi accorsi, persino con un certo stupore, che mi comportavo come se non m’importasse più niente di quello che sarebbe stato di me. ‘Chi l’avrebbe mai detto?’ mi ripetevo ogni tanto, ma non facevo nulla per uscire dal recinto incantato e pericoloso nel quale mi ero spontaneamente cacciato.
In pubblico, Angela continuava a trattarmi col consueto rispetto, ma in privato divenne sempre più irriguardosa e insolente, contando sulla mia totale acquiescenza. Il punto di non ritorno lo raggiungemmo forse un pomeriggio, una delle volte in cui lei si presentò a casa mia – le lezioni private continuavano, ma erano ormai quasi soltanto un pretesto per i nostri incontri.

“Oggi ho un altro gioco da fare con te” mi annunciò. Mi disse di spogliarmi. Io mi stupii della sua richiesta, perché fino ad allora non aveva mai voluto che mi denudassi in sua presenza. Lei si accorse del mio stupore, e spiegò: “Mi &egrave venuta una voglia particolare, oggi.”

“Quale?” le chiesi, mentre cominciavo a spogliarmi.

“Sento la voglia di una sveltina” rispose Angela.

Bastò la sola parola ad eccitarmi; però mi diede da pensare l’espressione distaccata con la quale manifestò il suo desiderio.

“E’ la prima volta che mi capita. Tu sei capace di scatenarmi certe cose in testa…” aggiunse la ragazza, che a sua volta si liberò della camicetta, del reggiseno e della gonna, rimanendo in mutande.

Notò che anch’io ero nella stessa condizione. Non avevo osato far cadere la barriera dei miei boxer, senza il suo esplicito consenso.

“Avanti, togliti anche quello: che stai aspettando?” mi disse impaziente. “Voglio vedere il tuo pipì.”

Mi sfilai i boxer con un certo pudore, sentendo i suoi occhi puntati sulla mia intimità. Il mio affare mostrava già un accenno di erezione, e Angela lo osservò con apparente curiosità; poi scosse la testa e commentò:

“Tutto qui lo spettacolo? Non ti si alza più di così, prof?”

Voleva probabilmente soltanto provocarmi, ma in ogni caso le sue parole ebbero l’effetto di una sferzata, per il mio amor proprio; fatto sta che comunque aumentarono anche la mia eccitazione. L’uccello sembrò inorgoglirsi e cominciò a sollevare con più fierezza la testa.

“Mmm… ora va meglio” mormorò Angela, aggiungendo: “Mi stavo quasi offendendo.”

Mi fece cenno di avvicinarmi a lei e, appena fui a tiro, mi agguantò il pisello e cominciò a massaggiarmelo con una certa energia, dicendo:

“Non ti montare la testa, prof. Voglio solo una sveltina… e a modo mio. Devi accontentarti, okay?”

Io a malapena la ascoltai, perché quel lento massaggio al mio pene, con la sua mano che saliva e scendeva sbrigativa e sicura lungo l’asta, mi stava mandando in ebollizione i sensi. Forse anche perché si trattava di un evento inatteso, o forse perché la sua lunga mano era così avvolgente e così esperta…
Ad un tratto, la spostò più giù, a soppesarmi le palle.

“Mmm, se non mi sbaglio, devi essere bello carico, qui dentro. Hai un certo arretrato, eh, prof? Beh, può anche darsi che oggi ti faccio sfogare un po’, e ti libero del tuo carico. Tutto dipende da te…”

Queste sue parole mi colpirono negativamente, un po’ per il loro tono canzonatorio, e un po’ per ciò che preannunciavano in coda. Non sapevo di cosa si trattasse, ma intuivo che non poteva essere niente di buono.

“In che senso? Che cosa vuoi che faccia?” le domandai, non nascondendo la mia preoccupazione.

“Il giorno dell’esame si avvicina. Naturalmente, ci penserai tu, a passarmi la copia” disse Angela, rallentando il ritmo del suo massaggio e strofinando ripetutamente il pollice alla base del glande e lungo il frenulo, così da elevare la qualità della stimolazione. Il piacere riempiva ogni poro della mia pelle e del mio essere, sino a diventare quasi insostenibile. Tuttavia, il mio disappunto dovette trasparire in qualche modo, perché la ragazza aggiunse:

“Che c’&egrave? Hai qualche scrupolo?”

Nel dire questo, cominciò a strizzarmi delicatamente i testicoli. “Ma come?” continuò. “Ti scopi la tua allieva e poi non vuoi neppure farle un piccolo favore?”

“Tanto piccolo non &egrave…” puntualizzai, con la voce strozzata dall’incredulità e dall’eccitazione.

“Mettila come vuoi… Ma certi miei favori devi meritarteli: lo sai” dichiarò Angela, riprendendo a massaggiarmi il pisello, che s’era fatto ben duro e teso.

“Ma &egrave un rischio molto grosso… Mi chiedi una cosa per la quale posso perdere il posto e finire addirittura sotto processo. Tu vuoi questo?” obiettai.

“Certo che no… ma sono convinta che tu sapresti trovare il modo di aiutarmi senza metterti nei casini. Sei così bravo, prof” sussurrò con aria provocante, mentre con la mano percorreva il mio pene, che fremeva turgido per la voglia di lei.

“Lo… lo sai che sono disposto ad aiutarti” dissi, quasi balbettando, perché il suo sapiente massaggio mi stava facendo esplodere il sesso e la mente. “Fammici pensare, dammi un po’ di tempo” aggiunsi, cercando di temporeggiare.

“Io voglio una risposta adesso, subito. Altrimenti mi passa anche la voglia della sveltina, sai?” fece Angela, implacabile. “Ti ho detto che devi essere disposto a tutto, in questo gioco.”

Così dicendo, mi strinse l’uccello più intensamente, come se volesse farmi penetrare nel cervello i suoi desideri attraverso quel mezzo così sensibile al suo tocco, e come se volesse simbolicamente ricordarmi che i miei sogni più intimi e autentici di piacere erano nelle sue mani, e che non avevo scelta, in realtà.

“I… io sono disposto a tutto” replicai, mentre lei riprendeva il suo irresistibile massaggio. Sentivo ormai il mio nodoso ramo fuori di sé per la voglia di sfogarsi. Pulsava, pieno di vigore, e Angela continuava a manipolarlo senza fretta, come se volesse cuocermi a fuoco lento, per eliminare dalla mia mente ogni residuo di dubbio o di resistenza ai suoi voleri.

“Fammelo sentire fra le tette” disse, con gli occhi che le brillavano eccitati e furbi.

Allargò le gambe e poi mi si accovacciò davanti, per accogliere il mio pene nel solco fra i seni, e con le mani serrò questi ultimi su esso, riprendendo a massaggiarmelo, ma servendosi stavolta delle sue magnifiche e soffici tette. Tra un gemito e l’altro, mi disse:

“Sei proprio un bravo ragazzo; fai tutto quello che ti dico, eh? Non &egrave così?”

Io, intento a strofinarle il pisello fra le tette, con la mente confusa nella nebbia dolce del piacere, riuscii per un istante a raccogliere le idee per replicarle:

“Ma… sì, sì, tutto, te lo prometto.”

“Ma che bravo, questo ragazzo!” sospirò voluttuosa, passandosi la lingua sulle labbra. “E allora ripetimelo: che cosa farai tu, per me, il giorno dell’esame?”

Sentii per un attimo squillare un doloroso campanello di allarme nella mente, ma mi dissi che non potevo ascoltarlo; non potevo assolutamente rinunciare al piacere che mi dava Angela, a nessun costo. E così le risposi, in un soffio:

“Tutto quello che mi chiederai.”

E come avrei potuto darle una risposta diversa, mentre avevo l’uccello imprigionato tra i suoi seni, che me lo coccolavano portandolo all’estasi? Le sue tette erano così grandi che praticamente lo divoravano completamente, lo circondavano senza lasciargli scampo.

“Oh, che ometto ragionevole che sei, prof! Ti giuro che mi fai impazzire…” commentò la mia allieva, con voce suadente, accarezzandomi delicatamente una guancia. Poi, dopo avere strofinato ancora per un po’, con crescente foga, le sue soffici e deliziose bocce sul mio bastone palpitante di voglia, mi disse con un tono perentorio:

“Adesso mettiti là, con le spalle al muro. Ho una gran voglia di vedere schizzare il tuo seme dappertutto…”

Appena mi fui sistemato nella posizione che lei aveva richiesto, Angela mi si parò davanti, appoggiando le mani alla parete. Data la sua statura, mi sovrastava; dopo avermi lanciato uno sguardo pieno di desiderio, spinse il suo corpo contro il mio, sino a schiacciarmi contro il muro. Sentivo le sue tette premermi dolcemente il mento, poi il mio viso affondò letteralmente nel suo petto. Evidentemente le piaceva quel tipo di contatto tra i nostri corpi, perché la sentii gemere intensamente, mentre a più riprese mi si sbatteva lentamente addosso. Il mio sesso duro le strusciò ripetutamente sulla coscia. Anch’io ero stuzzicato dal suo modo di trattarmi, che aveva qualcosa di rude e insieme di dolce, ma ero a tratti preso dal panico, quando sentivo il viso compresso contro la sua pelle, perché temevo volesse soffocarmi. Ad un certo punto, la ragazza afferrò il mio bastone, commentando:

“Mmm… Mi sa che ti sta piacendo un casino; vero, prof? Saresti una magnifica troia da sveltine.”

Cominciò quindi a masturbarmi con una certa energia, continuando a sbattermi ritmicamente le sue tettone sul mento. Ogni tanto se le tirava su con la mano libera, in modo da farmele finire in faccia.

“Sì, mi piace… Tu lo sai che mi piace” mormorai a un tratto, mentre la sua mano destra faceva ciò che voleva del mio sesso turgido.

“Anche a me piace trattarti così… Era da tanto che lo desideravo” confessò lei a sua volta, a bassa voce. “Se vedessi quanto mi sono bagnata, prof!”

“Appunto… lo vorrei vedere… Posso?” osai.

“No!” rispose Angela, decisa ed eccitata. “Pensa a indurire come si deve l’uccello; si sta ammosciando un po’ troppo, per i miei gusti. Sbrigati, voglio farti uscire tutto quello che hai nelle palle.”

Non era mai arrivata, nonostante tutto, ad usare questi toni con me. Forse si era accorta che il gioco ci stava prendendo sempre più, e che ci eccitava più di quanto noi stessi avessimo immaginato, nel momento nel quale l’avevamo iniziato. Io stesso mi meravigliai nello scoprire quanto il suo comportamento irriverente stimolasse il mio piacere. In breve, infatti, il membro, dopo un leggero assopimento, mi divenne di pietra.

“Avanti, hai deciso di farmi perdere la pazienza, oggi?” continuava a incitarmi rabbiosamente Angela.

E di colpo sentii prepararsi in me l’apoteosi finale; chiusi gli occhi e il corpo si contrasse, pronto allo sforzo conclusivo…

“Vengo!” avvisai, e Angela si allontanò un po’.

L’attesa fu premiata da un’eiaculazione copiosa, rabbiosa, fantastica, liberatoria, che bagnò il pavimento davanti a me.

“Ti ho inondata?” le chiesi a mezza voce.

“No, appena un po’ sulla gamba sinistra… Mi ero messa a distanza di sicurezza. Dovevi proprio avere una gran voglia, dentro: hai schizzato come un idrante” mormorò Angela, divertita e alquanto lusingata.

Osservò con un certo stupore, per qualche secondo, la macchia di sperma sul pavimento, e le gocce che le colavano lungo la gamba. Sembrava non riuscire a credere che l’avessimo fatto davvero: per la prima volta, infatti, avevo eiaculato davanti a lei. Un’altra idea le attraversò subito la mente, e la inseguì. Il suo viso si fece quindi serio ed esclamò:

“Prendi uno straccio e pulisci quel pavimento, maiale!”

La guardai negli occhi, incredulo, tentato di replicarle: “Ora stai esagerando, basta”. Invece fu lei a parlare ancora, dicendo:

“Avanti, fai quello che ti ho detto! Non pretenderai che una signora come me stia in questo porcile?”

Improvvisamente mi passò la voglia di ribellarmi, e sentii invece i sintomi dell’eccitazione che cominciavano timidamente a riaffacciarsi nella mia mente. Andai dunque a prendere uno straccio bagnato e lo passai sul pavimento, mentre Angela mi diceva:

“Tu guarda cosa si deve vedere! Una viene qui, per una lezione, e si trova in mezzo alle sporcizie di questo maiale, che non sa nemmeno contenersi…”

Appena ebbi finito col pavimento, mi venne vicino, con le mani appoggiate ai fianchi.

“Adesso mi pulisci anche la gamba, naturalmente. Non con quello straccio, cretino! E non usare le mani che hanno toccato lo straccio, sai? La gamba me la devi pulire con la lin-gua! Chia-ro?” fece, scandendo le sillabe delle ultime parole.

Mi trovavo già in ginocchio, quindi non feci altro che avvicinare il viso alla sua gamba sinistra, e cominciai a leccargliela lentamente, di sotto in su. Ad un tratto, quando mi sembrò di avergliela ripulita per bene, feci per allontanarmi, ma Angela mi redarguì:

“Dove vai, porco? Credi di aver finito? Tu la gamba me la lecchi finché te lo dico io. Anzi, giacché ci sei, mi lecchi anche l’altra, così impari a innaffiarmi con le tue schifezze.”

Mi costrinse ad occuparmi in quel modo della pelle liscia e splendida delle sue gambe, finché non cominciai a sentirmi la lingua e le ginocchia indolenzite. Potetti finalmente alzarmi, ma appena feci l’atto di volermi rivestire, Angela mi bloccò.

“Niente affatto!” esclamò. “Adesso ci sediamo a quel tavolo, e tu mi farai la tua lezione, ma te ne starai nudo.”

“Ma come? Ma che significa?” provai a protestare, ma la ragazza mi si avvicinò minacciosa e disse:

“Sì, tu te ne starai nudo, e basta, perché io devo poterti controllare. Se vedo che cominci a fare strani pensieri, e ti si alza la testa dell’uccellino, guai a te! Ti ho già permesso anche troppo, oggi!”

Per un attimo si ridestò in me il desiderio di ribellione, ma il viso della mia allieva non prometteva nulla di buono; già una volta, Angela mi aveva costretto a terra e schiaffeggiato – lo ricordavo bene – e non volevo che la spiacevole esperienza si ripetesse. Così, feci come lei disse. Per un paio d’ore facemmo lezione, Angela ed io, seduti uno accanto all’altra, lei vestita e io senza niente addosso. Feci di tutto per concentrarmi sulla materia scolastica, senza pensare alla sgradevole situazione nella quale mi trovavo, ma non fu facile; di tanto in tanto, ondate di vergogna – di eccitante vergogna, in realtà – mi attraversavano tutto, come rapidi brividi.

Quando finalmente la lezione terminò, io tirai dentro di me un respiro di sollievo, pensando che quella strana giornata fosse finita; ma mi sbagliavo.

“Non dimentichi qualcosa?” fece la ragazza, mentre mi accingevo ad alzarmi. Non riuscivo a capire. Mi squadrò con occhi furbi. “Io prima ho pensato a farti godere, e tu non mi hai ancora ricambiato il favore. E poi non dovrei arrabbiarmi con te?” disse, rendendo severo lo sguardo.

Insomma, mi fece inginocchiare davanti a lei e, dopo essersi sfilata le mutandine, si spinse sulla sedia leggermente in avanti, mettendomi quasi in faccia il suo boschetto. Senza dire una parola, tirai di nuovo fuori la lingua e la usai su quella parte del suo corpo, che trovai incredibilmente umida.

“Per tutto il tempo che siamo stati qui a fare lezione, non ho fatto altro che bagnarmi” mi rivelò, mentre la mia lingua lambiva le sue grandi labbra. “Non credevo che mi eccitasse tanto vederti là, nudo e rassegnato ai miei desideri…”

“Ma parlavi sul serio, prima, quando mi hai chiesto di passarti la copia all’esame?” domandai, interrompendo per un momento le mie leccate.

Ci fu qualche istante di silenzio, poi udii la voce di Angela rispondermi:

“Sono le mie condizioni, prof. Sai bene che tutto questo non potresti averlo, se non le avessi accettate.”

La paura per il mio futuro mi tornò improvvisa; ma l’allontanai subito, rituffandomi sul sesso di Angela, immergendomi nell’odore di donna che sprigionava, mentre nel mio orecchio penetravano i suoi sospiri di soddisfazione.
Quando la mia allieva mi aveva per la prima volta chiesto di passarle la copia, mancavano ancora quasi tre mesi agli esami. Da quel giorno cominciammo a vederci più spesso, anche con la scusa di intensificare la sua preparazione: Angela veniva da me tre o quattro volte alla settimana. Io le feci capire che avevo accettato le sue condizioni, benché questo comportasse per me e per la mia carriera un grosso rischio; adducendo questa motivazione, cercai di ottenere qualcosa in più dalla mia allieva: in parole povere, desideravo fare finalmente l’amore con lei, in maniera completa. Pensavo di meritarmelo, dopotutto: quella che le stavo dando era davvero una prova d’amore e di dedizione. Tuttavia Angela non volle saperne di accontentarmi; mi lasciò intendere che, semmai, avrei avuto ciò che desideravo soltanto dopo gli esami, una volta che mi fossi “comportato bene”.

Com’&egrave immaginabile, accolsi la sua risposta con disappunto e nervosismo; ma Angela sapeva tenermi benissimo sulla corda, stuzzicandomi quanto bastava e dandomi poi qualche contentino, che tenesse i miei sensi e la mia fantasia legati a lei e alla speranza di averla un giorno tutta per me. Un pomeriggio, in cui insistetti particolarmente per convincerla a donarsi totalmente, la ragazza disse che mi avrebbe fatto una piccola concessione, giusto per dimostrarmi la sua buona volontà.

Volle che andassimo in camera da letto: era la prima volta che me lo chiedeva. Si sdraiò sul mio letto e mi disse di toglierle la gonna e le mutandine e di denudarmi completamente, a mia volta. Non volle invece che le sfilassi gli stivali.

“Tanto poi, con quello che faremo, le lenzuola dovrai cambiarle” commentò sogghignando.

Quando mi fui completamente spogliato, Angela allargò le gambe, piegò le braccia in su, sopra il cuscino, le mani dietro la testa, e con un sorriso accattivante mi disse di mettermi carponi sul letto e di leccarle per bene prima le cosce, dalle ginocchia in su, e poi la micetta pelosa.

“Poi vedrai che qualcosa ti dò, oggi” aggiunse maliziosa.

Diligentemente mi occupai di lei, nella maniera che mi aveva detto, regalandole ampie e tenere leccate sulle gambe lisce. Chiudevo gli occhi e mi lasciavo trasportare dalle suggestioni che il sapore e il calore della sua pelle mi donavano. A un tratto sussurrò:

“Adesso la mia patata, avanti: non può più aspettare, me l’hai fatta diventare fradicia…”

Avvicinai il viso alla sua intimità e subito percepii l’odore forte dei suoi umori. Sentii una sua mano che faceva pressione sulla mia nuca, spingendo la mia faccia verso la sua passera.

“Dài, muoviti, che cosa stai aspettando?” m’incitò impaziente.

Con le mani divaricai leggermente la sua lunga fessura verticale e lasciai uscire dalla bocca la rosea e tenera appendice che l’avrebbe titillata. Angela emise un profondo sospiro di apprezzamento, appena sentì la mia lingua che le vellicava l’intimità. Dopo averla stimolata a lungo, con pazienza e perizia, finalmente sentii il suo corpo contrarsi, in preda all’orgasmo. Ci mise qualche attimo a riprendersi; mi guardò in faccia e disse:

“Ti avevo promesso qualcosa. Preparati. Sicuramente ti piacerà…”

Le lanciai un’occhiata interrogativa, e lei spiegò:

“Vai un po’ più indietro e mettiti in ginocchio… Sì, là, fra i miei piedi.”

Non capivo ancora bene cosa avesse in mente, e perciò continuai a guardarla in faccia con una certa aria perplessa. Angela, con le mani dietro la testa, mi fece uno strano sorriso, e sollevò lentamente la gamba destra, sino a portare lo stivale vicino al mio sesso.

“Che vuoi fare?” chiesi sussultando. La ragazza, sempre sorridendo, mi fece cenno di tacere, e accostò la punta dello stivale al mio pisello semieretto. Sentii poi che me lo sfiorava e me lo stuzzicava delicatamente, col fianco della calzatura. Quel suo gioco mi parve particolarmente perverso, ma c’era una parte di me che si sentiva catturata da ciò che stava avvenendo, e che m’impedì di ribellarmi. Mi accorsi con stupore che in effetti la sua singolare stimolazione si rivelava altamente efficace: il pene cominciò a drizzarmisi con una certa velocità, e non potetti quindi nascondere, né alla mia allieva né a me stesso, che gradivo parecchio quel trattamento.

“Guarda come ti piace” sussurrò Angela, quasi per sottolineare il mio disagio. “Ho avuto proprio l’idea giusta per te, prof…”

Si divertì ancora per un po’ a strofinarmi lentamente sul membro il bordo dello stivale, e commentò:

“Dovresti farmi i complimenti; riesco ogni volta a trovare il modo per farti uscire di testa… Guarda lì!”

Insisteva dunque a sottolineare la mia evidente eccitazione; era chiaro che ci provava un gusto matto.

“Te lo tengo ben sveglio, eh, prof?” soggiunse oscenamente allusiva. “Avanti, dimmi che sono brava. Dimmelo!”

La mia risposta era un segno di gratitudine per le sensazioni fortissime e piacevoli che mi stava facendo provare:

“Sì, sei brava, sei bravissima” mormorai confuso dalla mia stessa eccitazione.

“Dimmi che sono l’allieva più brava della tua classe” insisté la ragazza, senza smettere di fare strisciare maliziosamente il suo stivale sul mio serpente dalla testa ormai fieramente ritta.

Sapevo di essere sul punto di dire una menzogna, ma glielo dovevo: non mi ero mai sentito così eccitato in vita mia.

“Sì, sì, &egrave vero, lo sei: sei l’allieva più brava della mia classe” dichiarai come un invasato.

“No, non &egrave vero” fece Angela, con un sorriso sornione: “dilla tutta, la verità: io sono la più brava allieva che tu abbia mai avuto. Non &egrave così?”

“Sì, Angela, &egrave proprio così.”

“Bene. Allora perché non mi metti voti più alti?”

La sua domanda mi prese in contropiede, ma me la sarei dovuta aspettare. Coi suoi giochi, ancora una volta, era riuscita a incastrarmi. Potevo forse tirarmi indietro, dopo quello che avevo appena avuto il coraggio di affermare? Pur di non capitolare in maniera stupida, provai a rilanciare.

“Ma tu cosa mi dài, in cambio?” dissi.

“Tu cosa vuoi?” fece lei, continuando a muovere lentamente il piede sul punto più sensibile del mio corpo.

“Fare tutto ciò che di solito un uomo e una donna, quando si desiderano, fanno insieme” replicai, e feci per avvicinarmi alla ragazza.

Angela però alzò immediatamente la gamba che stava usando per stuzzicarmi e appoggiò la punta del suo stivale sul mio petto, esclamando:

“Altolà, professore! Chi ti ha detto di muoverti?”

Indispettito dal suo gesto, le afferrai il piede che mi aveva puntato al petto e dissi:

“Senti, io e te dobbiamo fare un patto. Non puoi provocarmi così! Cosa vuoi che faccia, eh? Lo sai che sono disposto a tutto per te, ma tu devi darmi quello che mi spetta!”

“Cosa ti spetta? Non ti spetta un bel niente, se la metti così! Cosa vorresti? Che io ti lasciassi fare i tuoi comodi? Ma per chi mi hai presa? Io un ragazzo ce l’ho già, e certe cose le faccio soltanto con lui. Lo sai bene, te l’ho detto altre volte.”

La guardai indignato e allibito; sentii improvvisamente l’urgenza di farle capire che non poteva trattarmi in quel modo.

“Io non voglio essere usato: lo capisci, questo?” dissi con fermezza.

“L’hai voluto tu, questo gioco” ribatté Angela. “Stai avendo quello che vuoi, e mi pare che ti stia anche piacendo” aggiunse, alludendo sfrontatamente al mio pene che in quel momento si mostrava a mezz’asta, ancora sufficientemente fiero del trattamento ricevuto poco prima.

“Non sopporto che tu ti prenda gioco di me!” esclamai, e spinsi il piede che tenevo in mano verso di lei, avvicinandomi al suo corpo.

“Ah, ho capito: vuoi il gioco pesante” commentò Angela, con uno sguardo beffardo. “Adesso basta: lasciami andare la gamba” aggiunse, facendosi seria.

“E tu la smetti di prendermi in giro? Vuoi essere un po’ ragionevole, una buona volta? Io sono il tuo professore, dopotutto.”

“Lascia andare la gamba, ti ho detto.”

“E tu prometti di avere più rispetto per me e di essere ragionevole?”

Angela non mi rispose; mi guardò per qualche attimo negli occhi con un’espressione simile al disprezzo, e infine, cogliendomi di sorpresa, sollevò di scatto il piede che continuavo a tenere in mano, sicché il suo stivale mi colpì il mento con una certa forza. Dire che vidi le stelle non rende precisamente la sensazione sgradevole e dolorosa che provai. Un momento dopo, la mia allieva, approfittando del fatto che ero caduto di lato, mi si gettò addosso, mi voltò a pancia in giù, nonostante il mio precario tentativo di resistenza, e messasi in ginocchio mi serrò il busto fra le sue gambe, che contemporaneamente schiacciavano contro il letto le mie braccia, immobilizzandomi. L’azione si svolse così velocemente che, nel mio intontimento, non seppi distinguerne le varie fasi. Sentii infine la voce di Angela, alle mie spalle, adirata e sarcastica, che diceva:

“Allora, professore, cos’&egrave che volevi da me? Me lo vuoi ripetere, per piacere?”

Io tacqui, per salvare un po’ di dignità, ma la ragazza mi diede un sonoro schiaffo dietro il collo, che mi fece emettere un: “Ahi!” altrettanto sonoro. Angela sghignazzò e mi chiese di nuovo:

“Allora? Mi vuoi ripetere cosa volevi da me, poco fa? Cos’&egrave? Ti sono passate le voglie?”

“Lasciami andare, per piacere” mormorai.

“Ti insegno io, a stare al tuo posto, maiale!” esclamò lei, afferrandomi un orecchio e cominciando a torcermelo selvaggiamente.

“No, ahia, ahia, basta, mi fai male!” gridai io.

“Cos’&egrave che volevi, tu? Mettermi quella specie di grissino smozzicato, che ti ritrovi tra le gambe, nella mia patata? E’ questo che volevi, eh? Dillo!”

Mi stava facendo molto male, e io non pensavo ad altro che a farle smettere quel supplizio, quindi urlai senza ritegno:

“Sì, sì, &egrave questo che volevo! E’ vero! Hai ragione!”

“E non ti vergogni di averlo pensato? Allora ho proprio ragione: non sei altro che un porco. Non &egrave così? Non sei un porco?”

“Sì, sono un porco, un grandissimo porco, &egrave vero!”

“Meno male che lo ammetti” disse Angela, lasciando finalmente in pace il mio povero orecchio. “Spero che tu abbia imparato la lezione, caro professore…”

Non le risposi: ero avvilito e contrariato. Ma la ragazza non apprezzò il mio silenzio, e mi assestò un altro schiaffone sul collo, più violento del primo. Le sue mani grandi e allenate sapevano procurare un bel po’ di dolore.

“Non rispondi? Hai imparato la lezione, sì o no?” fece Angela.

Non ne potevo più di quella situazione, e così risposi stanco:

“Sì, l’ho imparata.”

“E non mi seccherai più con queste pretese? Rispetterai le regole del nostro gioco?”

Sospirai, prima di rispondere un moscio: “Sì.”

“Lo prometti?”

“Sì.”

Finalmente Angela mi lasciò andare. Rimasi com’ero, steso bocconi sul mio letto, forse per almeno un minuto. Avevo bisogno di riprendere fiato e di riavermi dalla disfatta. Ad un certo punto sentii qualcosa toccarmi il fianco: mi voltai, e vidi che la ragazza si era stesa come prima, le mani dietro la testa, appoggiate sul mio cuscino, e mi sfiorava giocosamente le terga con lo stivale.

“Tutto bene, professore?” disse con voce suadente: “Vieni, adesso voglio darti qualcosa di piacevole. Vieni, non aver paura…”

Mi rimisi in ginocchio accanto ai suoi piedi, e lei riprese a stimolarmi il pene usando il bordo dello stivale, come se non fosse successo nulla. Mi sorrise in modo complice, e si divertì a constatare l’evidenza fisica della mia crescente eccitazione.

“Adesso, professore, sai che devi fare?” mi chiese pacatamente. Io, ancora frastornato dagli eventi, non dissi nulla, e la ragazza mi sussurrò: “Toglimi uno stivale… uno solo, quello dell’altro piede, mentre con questo continuo a fare il mio bel lavoro.”

Mentre dunque un suo stivale continuava a massaggiarmi in maniera audace e insolita, ridando a poco a poco pieno vigore al mio pisello, io le sfilai l’altro. Il piede appena liberato dalla calzatura, Angela lo portò immediatamente accanto all’altro; c’era solo il mio bastone di carne, ormai diritto, a separarli. Col suo grazioso piede nudo, quindi, la ragazza mi schiacciò delicatamente il membro contro lo stivale calzato dall’altro piede e cominciò a strofinarmelo sopra. Nel frattempo, mi lanciò un’occhiata divertita e sensuale.

“Guarda come te l’ho fatto diventare, il tuo pipì, col mio servizio” commentò Angela. “Di’ la verità: così grosso non ce l’avevi mai avuto.”

Osservò il mio volto un po’ imbarazzato e continuò:

“Secondo me, fra un po’ da lì ti farò uscire una cascata, che schizzerà dappertutto, te lo dico io…”

La sua frase era forse detta apposta per eccitarmi e farmi perdere il controllo; e difatti mi procurò un’ulteriore scarica di piacere nelle parti basse, sollecitate per di più dal lento movimento del piede della ragazza.

“Ti piace sporcarti il letto, eh?” mi provocò Angela. “Lo so: sei un porco, l’hai appena ammesso. Tu ci dormiresti anche, nella tua cascata bianca. Ma non contarci, perché io sono una signora e non ti permetto di fare lo sporcaccione.”

Le sue parole mi sorprendevano e mi causavano forti scosse di eccitazione in tutto il corpo. In breve, le sue frasi mi spinsero verso il punto più alto del godimento; e quando mi sentii prossimo all’orgasmo, feci per allontanarmi da lei.

“Che fai?” mi redarguì.

“Ho paura di venirti sullo stivale” confessai con apprensione.

“Stai fermo là” fece lei con tono severo.

In effetti, pochi secondi dopo, la mia cascata arrivò, e Angela, tenendomi il salsicciotto schiacciato fra il piede nudo e lo stivale, fece in modo che il seme bagnasse soprattutto quelli e le lenzuola sottostanti.

“Guarda cos’hai fatto!” esclamò subito dopo. “Sei soddisfatto? Adesso devi pulire tutto!”

Mi sentii realmente mortificato, mentre osservavo il mio liquido bianco gocciolare dai suoi piedi. Angela fu in realtà magnanima: non pretese che leccassi via il mio sperma; si accontentò che lo raccogliessi con le mani dal suo piede nudo e dallo stivale, e che me lo spalmassi addosso. Il rimanente dovetti toglierglielo con un fazzolettino di carta, e pretese che lo facessi con estrema cura. Poi volle anche che togliessi le lenzuola sporche dal letto e che, sotto i suoi occhi, nudo com’ero, andassi a metterle in lavatrice. Non contenta, mi fece prendere le lenzuola pulite e sistemarle per bene sul letto.

“Adesso vatti a fare una doccia: non pretenderai di farmi lezione in quelle condizioni, sporcaccione!” mi disse infine.
L’esame ormai si avvicinava, e un bel giorno, stanco del comportamento eccessivo e irrispettoso di Angela, decisi di riprendere il controllo della mia vita. Per prima cosa, mi dissi che assolutamente non dovevo passarle la copia, durante le prove scritte. Ne andava della mia reputazione, della mia dignità. Gliel’avevo promesso, d’accordo; ma lei – mi dicevo – mi aveva ingannato, raggirato, deriso; in sostanza, mi aveva estorto la promessa, con manovre scorrette, e dunque avevo il diritto di rimangiarmela.

Il problema era che avrei in qualche modo dovuto comunicare la mia decisione ad Angela. In classe, durante le lezioni, continuai per un’intera mattinata a domandarmi come avrei potuto fare; sollevavo di tanto in tanto gli occhi sulla mia allieva, e già la visione della sua mole bastava a farmi titubare. Mi aveva già messo al tappeto due volte; cosa avrebbe potuto fare di me, se le avessi dato una notizia del genere? Per un attimo, mi balenò l’idea di lasciare in tutta fretta la città e andarmene lontano. Forse per un mese, chissà, o forse per sempre…
Già, ma poi? Non mi sarei sentito ridicolo ai miei stessi occhi? Fuggire per paura di una ragazza che non aveva neppure vent’anni! No, non poteva essere. Non potevo arrivare a sentirmi così vigliacco. Quindi, mi decisi a parlarle. Stetti a lungo a ponderare e a chiedermi quale potesse essere la maniera migliore per comunicarle quanto avevo stabilito. Infine, pensai che non fosse prudente invitarla a casa mia; dovevo parlarle in un luogo pubblico, così non avrebbe osato mettermi le mani addosso. Tuttavia, non potevo fissare un incontro in un posto nel quale avrei corso il rischio di essere visto in sua compagnia: chissà che voci avrebbero potuto circolare a scuola, se qualche nostra comune conoscenza ci avesse sorpreso insieme… Pensa e ripensa, mi sembrò finalmente di aver trovato la soluzione migliore: Angela ed io ci saremmo incontrati nel grande parco che si trova alla periferia della città, in un orario in cui c’era poca gente – le probabilità di imbatterci là, alle due di pomeriggio di una domenica, in qualcuno della scuola, erano prossime allo zero.

Fu con un certo nervosismo che detti appuntamento alla mia allieva al grande parco. Lei si meravigliò che avessi scelto quel posto e quell’ora, e mi fece qualche domanda per provare a capire cosa ci fosse sotto. Era infatti la prima volta che, al di fuori dell’orario scolastico, le chiedevo di incontrarmi in un posto così lontano da casa mia. Riuscii comunque a superare la sua diffidenza, spiegandole che si trattava di qualcosa di molto importante per entrambi.

Angela fu molto puntuale: le due erano passate soltanto da un paio di minuti, quando vidi comparire la ragazza al cancello del parco, vestita nella sua maniera tipica: maglietta azzurra e minigonna scura. Evidentemente, per essere arrivata così presto rispetto alle sue abitudini di ritardataria cronica, era curiosa di sapere cosa volessi dirle. Ci inoltrammo per un po’ lungo i sentieri alberati, prima che io cominciassi a parlare. Inizialmente m’impappinai alquanto, girai attorno ai concetti evitando di arrivare al sodo, finché una voce dentro di me non mi disse adirata: ‘Si era deciso di non fare i vigliacchi, ricordi?’.

“Bene” mormorai a quel punto, mentre il volto mi si faceva probabilmente di tutti i colori, “mi dispiace dirtelo, ma non intendo proprio fare quello che mi hai chiesto.”

“A che cosa ti riferisci?” replicò Angela, con un’espressione perplessa.

Mi costò più del solito sollevare il viso per guardarla negli occhi; eppure sapevo di non poterlo evitare.

“All’esame” dissi. “Mi spiace, ma quel giorno non posso passarti proprio nessuna copia.”

La mia allieva si bloccò e mi osservò per qualche attimo con un’aria allibita e furente allo stesso tempo.

“Tu stai scherzando” sussurrò.

“No, mi dispiace, parlo seriamente: io certe cose non le ho mai fatte, perché sono una persona seria. Non faccio imbrogli, io. Mi dispiace.”

“Avrai detto almeno dieci volte ‘mi dispiace’, da quando siamo qui. Che cavolo vuol dire? Se ti dispiace, perché me la vuoi dare, questa fregatura? Sei solo un ipocrita!”

“No, Angela, ti sto dicendo che…”

La ragazza m’interruppe, puntando minacciosamente l’indice contro di me:

“E non solo sei un ipocrita” esclamò: “quel che &egrave peggio, sei anche un bugiardo, uno che manca di parola, uno che si rimangia le promesse! Ma che razza di uomo sei?”

“No, vedi… A me non sembra giusto il modo col quale…”

“Guardami negli occhi, quando mi parli!” m’interruppe nuovamente la ragazza, toccandomi una spalla. Bastò il tocco di quella mano per farmi sussultare: cominciavo già ad avere paura. Sollevai però di nuovo la testa per far incontrare i nostri sguardi.

“Ti stavo dicendo” ripresi “che non mi sembra giusto il modo col quale hai ottenuto da me quella promessa. Tu praticamente mi hai costretto a fartela. Sii onesta, Angela, per piacere!”

“Ma cosa vai blaterando? Cosa sono tutte queste scuse, adesso? A te quel gioco &egrave piaciuto. Lo sapevi che per tenerlo in piedi, dovevi stare alle mie condizioni. L’hai sempre saputo, fin dall’inizio.”

“Ma andiamo! Certe cose non me le potevi chiedere. Non esiste nessun gioco che possa costringere qualcuno a violare la legge e a mettere a rischio la sua reputazione.”

“Ah, tu parli di reputazione? Ma &egrave chiaro che pensi solo alla tua. E alla mia non ci pensi? Cosa credi che sia, io? Una specie di giocattolo? Credi di avere il diritto di spassartela con me come ti pare e piace, senza metterti in gioco?”

Scossi la testa, senza avere il coraggio di rispondere. Angela sembrava ormai sul punto di esplodere. Temevo una qualche sua reazione violenta da un momento all’altro, e non sapevo come difendermene.

“Sto parlando con te, bello!” fece la ragazza, spazientita, dandomi una manata sulla spalla.

“Non mi toccare!” esclamai, cercando di far passare la mia paura per indignazione.

“Oh, che c’&egrave? Hai paura di romperti?” replicò lei.

“Non sono disposto ad accettare le tue angherie” dissi, e cominciai ad accelerare il passo. Il cuore mi batteva forte: era il panico.

“Ma dove cacchio vai, adesso? Stiamo parlando!” mi gridò dietro Angela, e cominciò a seguirmi, allungando il passo anche lei.

Improvvisamente scattò in me una decisione: la fuga. Cominciai di colpo a correre, con grandi falcate, senza sapere neppure dove stessi andando. Avendola presa in contropiede, riuscii a distanziare Angela per un po’. Mi voltai indietro a un tratto, e vidi che anche lei si era messa a correre. Le sue gambe erano più lunghe e allenate delle mie, oltre che più giovani, ed ebbi l’impressione che stesse rapidamente acquistando terreno. Aumentai quindi la mia velocità, sino a sentirmi presto il fegato sovraffaticato e il respiro pesante; ma non potevo, non dovevo fermarmi! Mi ero infilato in un sentiero dalla vegetazione sempre più fitta, ma non mi preoccupavo affatto di capire la mia meta: il mio unico, illusorio desiderio era quello di fare stancare la mia inseguitrice, costringendola a rinunciare a raggiungermi. Forse mi stavo comportando come un bambino, ma era stato il mio istinto profondo a suggerirmi quella soluzione, e l’avevo afferrata al volo, senza starci troppo a pensare su.

Non andai però molto lontano, perché di lì a poco, penosamente in debito di ossigeno, dovetti fermarmi e appoggiarmi, ansimante, al possente tronco di un albero frondoso. Angela mi raggiunse in pochi secondi. Era infuriata.

“Perché ti sei messo a correre? Che cosa vuoi dimostrare?” disse.

Le feci segno di avere pietà di me, che a causa del fiatone non ero in grado di parlare.

“Non sei altro che un vigliacco! Non solo non vuoi mantenere le promesse, ma cerchi anche di sfuggire alle tue responsabilità scappando come un ragazzino” continuò, implacabile, la mia allieva. “Adesso io che cosa dovrei fare, secondo te?” aggiunse, guardandomi negli occhi con aria di rimprovero.

Poiché, ancora impegnato a recuperare ossigeno, non le rispondevo, Angela mi afferrò per il bavero, dicendo:

“Ehi, professore caro, non si usa rispondere, quando qualcuno ti fa gentilmente una domanda?”

La paura riempì in quel momento ogni angolo del mio essere.

“Lasciami stare” le risposi. “Non vedi che sono distrutto?”

La ragazza continuava a tenermi per il bavero della giacchetta, e commentò con sarcasmo:

“Oh, ma guardalo: sta tremando! Coscienza sporca, eh? Sai di avere fatto una cazzata!”

“Lasciami andare” ripetei, cercando di mantenere la voce ferma, ma dalla mia bocca uscirono invece parole incerte e tremolanti.

Davanti al mio comportamento, l’ira e la voglia di rivincita della ragazza dovettero crescere a dismisura. Angela mi scosse, infatti, ed esclamò:

“E chi ti lascia? Non te la cavi mica così! Tu mi dovrai chiedere scusa, pezzo di merda che non sei altro!”

“Dài, ti prego, non &egrave il caso di dare spettacolo qui…” provai a farla ragionare.

“Tanto per cominciare, mettiti in ginocchio!” m’intimò con voce terribile. “Uno come te non &egrave degno di stare in piedi, davanti a una signora come me!”

Esitai; non volevo dargliela vinta ancora una volta.

“Muoviti, mi stai facendo perdere la pazienza!” mormorò la ragazza, senza alzare la voce, ma con tono deciso e imperioso. La guardai negli occhi e compresi che non aveva affatto voglia di scherzare. Lentamente m’inginocchiai.

Mi fece stare così per almeno un minuto, che sembrava non passare mai; forse stava pensando semplicemente al da farsi. Finalmente sentii di nuovo la sua voce; mi chiese nervosa:

“Cosa stai guardando? Le mie gambe? E come ti permetti di guardarmele, maiale?”

“Ma no, io non guardavo… Pensavo…”

“Pensavi? Ma a che cavolo può pensare, una merda come te?”

“Senti, io…”

“Tanto per cominciare, tieni gli occhi bassi e non guardare verso di me, hai capito?”

Annuii e abbassai lo sguardo, fino a concentrarlo sulla terra accanto alle mie ginocchia. Desideravo soltanto che tutto finisse al più presto.

“E adesso lo sai che devi fare?” mormorò Angela, con lo stesso tono fermo. “Adesso mi chiedi scusa, e dichiari ad alta voce di essere pentito di quello che hai detto prima.”

Feci quello che mi aveva chiesto, sempre tenendo gli occhi bassi.

“Sai cosa vuol dire questo? Che tu la copia me la passerai, come mi avevi promesso – promesso: ricordati! – ma in cambio io non ti darò quello che tu volevi. Ti dovrai accontentare di molto meno” disse Angela, sprezzante.

A quel punto, non potetti fare a meno di alzare la testa e guardarla in faccia.

“Che stai dicendo? Per chi mi hai preso? Io sono stanco di fare il pupazzo!” esclamai, perché – devo ammetterlo – il fatto che la ragazza si fosse a sua volta rimangiata la mezza promessa di concedermisi totalmente dopo gli esami, mi aveva urtato.

Angela mi guardò freddamente, con un mezzo sorriso di disprezzo, e lasciò che mi alzassi.

“Bene, chiudiamola qui!” aggiunsi. “Io non ti devo niente, e tu non mi devi niente. Preferisco così. Non mi va più di continuare questo gioco assurdo. Mi pare che ci siamo spinti troppo oltre.”

“A te farebbe comodo, vero? Te la cavi con poco, tu, dopo che te la sei spassata…” fece Angela, le braccia conserte e il suo sorrisetto di disprezzo ancora fisso sul volto.

“Tu dici? Non so chi, di noi due, se la sia spassata di più.”

“E adesso tu vorresti andartene tranquillamente a casa, eh? Capitolo chiuso… Una bella pietra sopra… E’ così?”

“Sì, perché?” feci io, guardandola perplesso.

“Perché allora non hai capito proprio niente!” esclamò, riafferrandomi per il bavero. “Poco fa, quando eri in ginocchio, hai strombazzato di esserti pentito di quello che mi avevi detto prima. E’ vero o non &egrave vero? Rispondi!”

“Sì, ma basta, adesso, lasciami andare!”

“Tu ti stai rimangiando la tua promessa per la seconda volta. Ma che razza di merda sei?” fece la ragazza, sbattendomi contro il tronco dell’albero, al quale poco prima mi ero appoggiato, e avvicinandosi ulteriormente a me. Mi aggrappai ai suoi fianchi, e provai a spingerla via, ma non ce la facevo; preso dal panico, in quel momento volevo solo scappare, e feci la prima cosa che mi venne in mente: tuffai il viso sul suo petto, e provai a morderle selvaggiamente una tetta, attraverso il tessuto della sua maglietta, in maniera da farle male e costringerla a lasciarmi andare. La manovra però non mi andò bene, perché Angela istintivamente si tirò indietro, sicché riuscii soltanto a mordicchiarle la stoffa della maglietta e un minuscolo, insignificante lembo di carne, più piccolo di un chicco di riso. Ma bastò quello per far infuriare la ragazza, nel vero senso della parola.

“Che bastardo! E io che volevo essere buona con te!” esclamò, sollevando di colpo la gamba destra, in modo da inchiodarmi col suo ginocchio all’albero. Mentre mi teneva premuto con notevole forza il ginocchio contro il petto, mi piazzò senza troppi complimenti il palmo della mano destra sulla fronte, e con quella spinse rudemente, facendomi sbattere la testa contro l’albero stesso. Tenendomi immobilizzato quindi col ginocchio e con la mano destra, si servì della mano libera per schiaffeggiarmi su entrambe le guance senza pietà, di dritto e di rovescio. Io le afferrai la gamba che mi teneva inchiodato all’albero, e cercai vanamente di spingerla via. Mi accorsi che era troppo forte per me. Provai anche a darle un calcio, ma lei lo schivò facilmente, e mi ricompensò dandomi un colpo col ginocchio che teneva contro il mio petto, e sussurrandomi: “Vuoi che ti faccia veramente male, stronzo?”

I ceffoni si susseguirono quindi rapidi, e m’intontirono. Furono almeno una dozzina, ma certamente non avevo la lucidità mentale per contarli. Quando finalmente cessarono, Angela mi guardò negli occhi, per leggervi la mia sofferenza; il suo sguardo era ancora carico di collera.

“Allora, sei o non sei una vera merda?” disse.

Mezzo stordito com’ero, non riuscivo a trovare le parole per risponderle; non capivo più nemmeno bene dove mi trovassi e perché. Angela ripeté quindi la domanda, e io annuii.

“C’&egrave mancato poco che te la facessi addosso, ammettilo!” esclamò, ridacchiandomi in faccia. Distolsi lo sguardo, mortificato.

“Ammetti che quello che stai avendo te lo sei cercato tu?” domandò ancora la ragazza, e io nuovamente annuii.

“E’ o non &egrave un rifiuto umano chi si rimangia le promesse? Rispondi!” aggiunse.

“Sì, &egrave un rifiuto umano” sussurrai, con la voce che mi era rimasta.

“Da oggi, per farti perdonare, farai tutto quello che ti chiedo, senza discutere. Siamo d’accordo?” mi chiese ancora.

“Sì” bisbigliai.

“E lo sai, naturalmente, che se ti saltasse in testa il ghiribizzo di non mantenere la promessa, quello che ti ho fatto oggi ti sembrerebbe una carezza, rispetto a quello che ti farei in quel caso?”

Meditai un attimo su queste parole di Angela, soprattutto sul loro tono e sullo sguardo che le accompagnava, e compresi che sarebbe stata davvero capace di farmela pagare amaramente.

“Sì, lo so” dissi.

“Comunque, adesso rimettiti in ginocchio, e rimanici finché non avrò cambiato idea. Naturalmente, le merde non possono avere obiezioni: lo abbiamo appena chiarito, no?”

Detto ciò, tolse finalmente il ginocchio e la mano coi quali continuava a tenermi inchiodato all’albero, e io mi buttai immediatamente ai suoi piedi, posizionandomi come un quadrupede.

“La prossima volta ti faccio veramente fare la fine della cacca: spiaccicato per terra” mormorò minacciosa. Inaspettatamente, subito dopo m’ingiunse di toglierle uno stivale. Appena il suo piede fu messo a nudo, mi ordinò di incollarvi la mia bocca, e di tenerla lì finché non mi avesse detto di toglierla.

Mentre tenevo le labbra sul suo piede, Angela commentò: “Questo &egrave il lavoro che dovrebbero farti fare, professore.”

La sentii ridere, ma senza un’ombra di crudeltà. Dietro la sua apparente cattiveria, c’era di nuovo la ragazzina curiosa e stupita del mondo, che pensavo di aver perso.

“Io non so perché hai voluto spaventarmi in quel modo” aggiunse, con voce pacata e dolce, mentre cominciavo a darle bacetti sul dorso del piede e sulla caviglia. “Non puoi lasciarmi nei guai, prof… Io cosa faccio, senza di te?”

Ero contento che si fosse calmata, e per manifestarle il mio stato d’animo, presi a succhiarle l’alluce, sapendo che gradiva certe attenzioni.

“Sai cosa mi ha detto lo psicologo, ultimamente?” continuò. “Dice che mi vede più serena e sicura di me, ed &egrave convinto che gli nascondo un nuovo amore. Io gli ho assicurato che c’&egrave sempre soltanto Alessio nella mia vita, e lui mi ha detto che non gliela conto giusta. La cosa mi diverte. Stai tranquillo, neanche a lui parlo del nostro gioco. A nessuno.”

‘Ragazza mia, tu sei pazza’ pensai, considerando i suoi strani cambiamenti di umore, eppure continuai a baciarle follemente il piede. Probabilmente, se avessi espresso ad alta voce il mio pensiero, Angela avrebbe replicato: ‘Qui i pazzi sono almeno due, prof’. E in cuor mio non avrei saputo darle torto.

“Va bene, prof” mormorò a un tratto la ragazza, “adesso ho voglia di sentire la tua bocca da un’altra parte.”

Sollevai il viso: Angela sorrideva divertita e complice e aggiunse: “Andiamocene. Non possiamo mica farlo qui…”

E io – ricordavo ciò che mi aveva detto poco prima – avevo perso del tutto il diritto di dirle di no; benché fossi ancora scombussolato, feci cenno che l’avrei seguita e accontentata. Quando c’incamminammo, notai con sollievo che nei paraggi non c’era nessuno: per fortuna, a quell’ora il parco, specie nella zona in cui avevamo avuto quello scontro, era quasi deserto, sicché potevo essere pressoché sicuro che nessuno avesse assistito alle cose spiacevoli e imbarazzanti avvenute fra noi due.

Poco dopo, eravamo a casa mia. Angela, accanto al tavolo dove di solito facevamo lezione, se ne stava a gambe larghe su una sedia, ed essendosi tolta gonna e mutandine, aveva i genitali oscenamente esposti; quanto a me, avevo la bocca proprio vicino a quella zona del suo corpo, e, inginocchiato davanti a lei, non facevo altro che irrorargliela e stuzzicargliela con la lingua.

“Sai che sono ancora arrabbiata con te?” disse la ragazza. “Per farti perdonare, penso proprio che dovrai stare qui a slinguazzarmi fino a stanotte.”

Nella risata che le scappò subito dopo, avvertii il suo stato di profonda eccitazione. Il suo folto boschetto si riempì subito dei suoi umori, e il mio olfatto ne fu completamente invaso e soggiogato. Le passai la lingua lungo tutto il grande solco, prima lentamente, e poi facendo guizzare la punta. Il movimento vivace di questa andò poi a stuzzicarle anche il suo sensibile grilletto di carne; e Angela reagì all’intensa stimolazione con commenti entusiasti che m’incitavano a continuare senza risparmio. Sembrava non stancarsi mai della mia opera; volle infatti che continuassi a leccare la sua intimità anche dopo il primo orgasmo. Era letteralmente vorace, quel giorno: l’idea della vendetta doveva averla colmata di una libidine senza fondo.

Ad un certo punto, la mia lingua cominciò a stancarsi, e glielo feci presente. Angela non volle sentire ragioni, e m’impose di continuare, dicendo:

“Ricordati che devi farti perdonare. E poi, devi fare quello che ti dico senza discutere: ti sei già dimenticato delle ultime promesse? Guarda che, se vuoi, ti rinfresco subito la memoria…”

Non avevo intenzione di verificare se stesse parlando sul serio; anche se il tono della sua voce era carico di risonanze erotiche, Angela ci avrebbe messo poco a passare alle vie di fatto, se l’avessi contrariata per l’ennesima volta nell’arco della giornata – ne ero convinto. Così, feci il possibile per far guizzare ancora vivacemente la mia lingua sulle sue intime e succose labbra.

“Dentro!” mi sussurrò a un tratto la ragazza, ed io accostai la lingua all’ingresso della vagina; Angela ebbe un brivido di piacere, e mi esortò a continuare; infilai dunque lentamente il mio organo gustativo nella sua umida caverna, e lo feci muovere un po’. Sentii la mia allieva gemere a labbra chiuse, intensamente, comunicando così il suo estremo gradimento.

“Fammela sentire, sì!” esclamò la ragazza, e io continuai la mia cauta e audace esplorazione, sentendo il suo sapore di donna invadermi i sensi.

Il secondo orgasmo di Angela arrivò presto, e fu più evidente e potente del primo. La ragazza gettò la testa indietro, e il suo corpo parve contrarsi interamente, sino ai muscoli delle gambe, mentre i suoi sospiri si susseguivano rapidi e quasi rabbiosi. A quel punto, pensai che ne avesse finalmente abbastanza, ma mi sbagliavo. Il tempo di riprendersi e recuperare le forze, e Angela mi fece:

“Andiamo sul tuo letto, adesso viene la seconda parte del tuo lavoro…”

Si stese bocconi sul mio giaciglio, divaricando leggermente le lunghissime gambe. In quel modo, il suo sedere sodo e carnoso risaltava in tutta la sua magnificenza. Girò la testa verso di me e con espressione candida e irresistibile sussurrò:

“Hai capito cosa devi fare? Ora la tua lingua voglio sentirla proprio lì; sono sicura che mi farà godere oltre ogni immaginazione, l’ho anche sognato.”

Anche se, in base al nostro patto, non fossi stato obbligato a soddisfarla, sicuramente non avrei potuto resistere ad una richiesta così sensuale. Mi accoccolai fra le sue gambe e mi chinai, la lingua pronta a fare gli straordinari. Ero emozionato, perché per la prima volta avevo accesso a quella parte del corpo della mia allieva. Tremavo quindi un poco, quando cominciai a leccarle un gluteo.

“Ahh, sì…!” mormorò subito estasiata la ragazza. “Insisti!” m’incitò, invitandomi implicitamente ad osare e usare la fantasia. Feci dunque scivolare il mio sensibile organo gustativo nella zona calda tra la sua passera e il buchetto posteriore, titillandola a più non posso. I gemiti scomposti di Angela mi fecero comprendere quanto stesse apprezzando le mie trovate. Feci poi scorrere il guizzante e fragile serpentello lungo il solco delle sue natiche, e la ragazza cominciò a lanciare addirittura brevi urla accennate di godimento.

“Ah, che magnifico leccaculo che sei!” esclamò ad un tratto, in preda a un raptus erotico.

Le sue parole mi sorpresero e mi eccitarono; il loro risvolto offensivo mi sfiorò appena, come una leggera ombra. Il piacere però soverchiava il disappunto, e così, con una crescente erezione, continuai a farle sentire la mia lingua vivace e saltellante tra un gluteo e l’altro. In un intermezzo fra i suoi sospiri, Angela trovò il tempo di dirmi un’altra frase che mi destabilizzò:

“Chissà cosa direbbero, gli altri tuoi alunni, se sapessero che mi lecchi il culo.”

Immediatamente dopo, si lasciò andare ad una risatina maliziosa. Il sesso mi si drizzò all’istante, ma provai anche un brivido freddo: che cosa intendeva dire, la ragazza? Desiderava parlare agli altri dei nostri incontri? Cercava di spaventarmi? o forse di ricattarmi? No, si stava semplicemente divertendo: doveva essere senz’altro così – mi dissi, tentando di tranquillizzarmi. Ma l’inquietudine non voleva lasciarmi. Angela insisté:

“Ci pensi, prof? Loro non immaginano neanche quanto tu sia bravo a leccarmi le chiappe; non immaginano quanto ti piaccia farlo. Loro credono che tu sia una persona seria, a modo… e invece sei solo un maiale che non desidera altro che leccare il culo alla sua allieva preferita!”

“Angela, per favore!” replicai, non nascondendo un certo nervosismo.

“Per favore cosa?” rise lei. “Vuoi forse dire che non &egrave vero? E allora, cosa stiamo facendo, noi due, adesso, eh?”

“Lo sai che piace a te quanto a me” obiettai.

“Oh, ma io ho tutto da guadagnarci. Non ho una reputazione professionale da difendere. E poi, sto ottenendo da te ciò che voglio, cavandomela con una leccata alle chiappe, che oltretutto mi fa godere un casino…”

C’era del vero, nelle parole di Angela. Stavo rischiando ogni cosa per lei, ed era lei stessa a stabilire il prezzo che doveva pagarmi. Le allargai leggermente le natiche e insinuai la lingua nelle regioni più remote e più calde del suo lato posteriore, cercando così di non pensare alla mia situazione. Dovevo dar corso alla mia dedizione fino in fondo, oramai: almeno, in quel rifugio, abbandonando ogni remora, avrei trovato un angolo sicuro e accogliente di piacere. Ma la ragazza continuava a voler risvegliare, con la mia coscienza, il tormento.

“Sto pensando che forse ti premierò così, quando mi avrai fatto quel grande favore che sappiamo” disse. “Quando avrò saputo com’&egrave andato lo scritto all’esame, se tu avrai fatto le cose per bene, verrò qui da te e ti permetterò di leccarmi là sotto per tutto il giorno.”

Rimase qualche attimo in silenzio, mentre la mia lingua risaliva lungo il solco fra i suoi glutei, e poi aggiunse: “Tu che ne dici?”

Subito dopo, sussultò per il piacere che le stavo regalando. Io non sapevo cosa risponderle; non volevo cedere alle sue condizioni: per il “grande favore” – come lei lo chiamava – che avrebbe potuto rappresentare anche la fine della mia carriera, desideravo qualcosa in più da lei. Ma ormai quella porta era chiusa: me l’aveva fatto capire al parco. Non mi era più permesso chiederle ciò che realmente sognavo. In definitiva, non potevo risponderle in nessun modo. Il mio silenzio però la insospettì:

“Cosa c’&egrave, prof?” mi chiese. “Non mi dire che ci stai ripensando un’altra volta! Per favore, non costringermi ad arrabbiarmi di nuovo con te, perché poi sai come va a finire. Non voglio farti male.”

“Non ci sto ripensando. Quel che &egrave detto, &egrave detto” le assicurai.

“Allora perché non rispondevi? Ce l’hai con me?”

“No, ma… lo sai come la penso. Vorrei un vero premio da te, in cambio di quel che dovrò fare. Qualcosa che sia all’altezza della situazione.”

“Sai di non essertelo meritato: ne abbiamo già parlato. Gli errori si pagano, no? E poi, non mi va di tradire Alessio.”

“Perché, adesso cosa stai facendo?”

“Non &egrave la stessa cosa: tu fai semplicemente quel che lui non vuol fare. Ad esempio, il sedere lui non si sognerebbe mai di leccarmelo, come fai tu; e forse non saprebbe neppure farlo così bene come te.”

“Ma non puoi lasciarlo, finalmente, quello là, visto che non ti dà tutto quello che tu vorresti?” le dissi di slancio, obbedendo a ciò che il cuore da tempo mi dettava. “Perché non ci mettiamo insieme noi due? Non vorresti iniziare una vera storia con me? Lasciamoci tutto questo alle spalle, proviamo a lasciar perdere questa specie di gioco e facciamo finalmente sul serio…”

Alla mia proposta, Angela rispose con una sonora risata.

“Noi due insieme?” disse. “Ti sei proprio montato la testa, eh? Ma cosa me ne faccio, io, di un professore leccaculo e leccapiedi?”

“Perché mi offendi così? Perché non provi, invece, a conoscermi meglio?”

“Senti, prof, io non voglio offenderti, però &egrave meglio che lasciamo le cose come stanno, credi a me. Io so perché voglio Alessio. Fra le gambe ha una stanga di ferro lunga così, e mi piace sentirmela dentro, e poi mi piace carezzare il suo petto forte. Certo, a lui non va di assaggiare certe parti di me, e così mi toglie un bel pezzo del divertimento… ma per questo ci sei tu, prof. Non devi prendertela: nella mia vita ti ci ho messo comunque. So che ti piace avere tra le mani e in bocca certe parti del mio corpo; e io questo piacere non voglio mica togliertelo. Accontentati e sii felice.”

Le sue parole mi resero triste come non mai; non ci sarebbe dunque mai stata speranza, per me? Il mio rapporto con Eleonora era ormai agli sgoccioli, lo sentivo – e proprio perché mi ero dedicato interamente alla mia allieva. E adesso avevo la conferma che il mio sogno più grande sarebbe rimasto soltanto abbozzato. Angela non avrei mai potuto averla tutta per me; sarei stato solo il rimpiazzo, l’amante della domenica, quello che sopperisce alle manchevolezze dell’amore ufficiale.

Volevo che capisse i miei sentimenti, e per farlo non trovai niente di meglio che espandere il territorio dei miei amorosi colpi di lingua. Le sollevai un po’ la maglietta e cominciai a leccarle la parte bassa della schiena, appena sopra il sedere. Sentii Angela mugolare soddisfatta della mia iniziativa.

“Mm, però! Ti dài da fare, prof?” fece lei. “Va bene, te lo posso concedere. E comunque, adesso che hai iniziato, non fermarti.”

Incoraggiato in questo modo, sollevai ancor più la sua maglietta, e feci salire lentamente la lingua lungo l’arco vellutato della sua schiena, percependo i brividi di piacere della ragazza.

“Non c’&egrave niente da fare! Sei proprio bravo, in certe cose” commentò Angela. “Quasi quasi vorrei dirlo alle altre ragazze, a scuola, per farle morire d’invidia. Loro non sanno cosa si perdono!”

Colse un mio attimo di smarrimento e aggiunse subito: “Non ti preoccupare, prof! Non dirò niente: scherzavo. Non voglio nessun altro, tra i piedi, in questo gioco. E’ un nostro segreto e poi… non mi va l’idea di condividerti con altre. Con quelle ragazzine sceme, poi!”

Nel frattempo, le mie leccate avevano quasi raggiunto il suo collo. Avvicinai il naso alla sua pelle, per meglio captarne l’intenso profumo. Mi misi a baciarla, ripercorrendo in senso inverso il cammino che aveva fatto la mia lingua. La ragazza aveva ripreso a mugolare coinvolta dalle mie dolci stimolazioni. Il sentiero dei baci raggiunse presto le sue natiche, e appena sentì la mia bocca schioccare caldi baci sui suoi glutei sodi e lisci, Angela esclamò:

“Ma che bello! Adesso me lo baci, anche! Di’ la verità, maiale che non sei altro: il mio culo ti ha stregato.”

Le venne da ridere, ma interruppe l’ilarità, per lasciar posto ai più urgenti gemiti del piacere.

“Che cosa faresti, per potermelo baciare ancora?” mi chiese, esaltata dalla libidine. “Dimmelo! Dimmi che cosa saresti disposto a fare…”

“Tutto” mormorai, a mia volta invasato, accentuando la golosità dei miei baci. “Tutto” ripetei più volte. Non c’era, per noi due, parola più erotica ed eccitante. Di lì a poco sentii il corpo di Angela scuotersi, attraversato dalle onde di un nuovo, potente orgasmo.

*

La mia allieva mi prese in parola: da quel giorno, non volle più concedermi nulla, dicendomi che dovevo prima dimostrarle che ero davvero capace di tutto per lei.

“Sono stata molto buona con te” spiegò un pomeriggio, in un bar dove qualche volta ci vedevamo: “ti ho dato la possibilità di assaggiare il piacere di poter soddisfare grazie al mio corpo le tue fantasie più nascoste. Però adesso devi dimostrarmi quanto valgo veramente per te.”

“Che cosa devo fare?” le chiesi.

Angela sorrise e rispose: “Lo sai bene, ne abbiamo parlato tante volte. Ormai mancano solo due settimane al giorno dell’esame. Dovrai solo avere un po’ di pazienza. Se dimostrerai la tua buona volontà, io ti verrò incontro.”

“Ma io voglio sapere… che cosa mi darai” dissi ansioso.

“Non ricordi quello che mi hai detto l’ultima volta? che sei disposto a tutto, pur di baciarmi le chiappe? Io ti voglio prendere in parola.”

“Solo questo vuoi concedermi? Solo questo, in cambio del rischio che io correrò?”

Il sorriso della ragazza si fece più largo: era evidente che il gioco la divertiva sempre più.

“Mi sembrava che il premio ti allettasse parecchio” commentò.

“Ecco” feci, abbassando gli occhi, “io pensavo che potresti permettermi di fare finalmente un po’ di tutto; tranne” mi affrettai a specificare “tranne, si capisce, quello che hai… riservato al tuo ragazzo.”

“Mmm… se ho capito bene, vuoi una specie di grande festa, nella quale il mio corpo e il mio piacere siano il centro della tua attenzione.”

“Sì, &egrave più o meno quello che intendevo.”

Angela mi rivolse un mezzo sorriso e mormorò, accarezzandomi una guancia: “Se avrai fatto il bravo ragazzo, e ti sarai comportato come si deve, cercherò di darti questa soddisfazione.”

Ancora una volta, mi sentivo trattato come un ragazzino, ma capivo che era inutile ribellarsi a qualcosa che una parte di me apprezzava con vivo piacere. Mi sarei dedicato piuttosto ad ignorare ciò che in me – forse un certo orgoglio? forse il senso di dignità? – si sentiva ferito e vilipeso, come ormai avevo imparato a fare. E poi, in fondo, che cos’era mai quell’orgoglio pretenzioso e sterile, che serviva solo ad allontanarmi da ciò che più desideravo? E cosa rappresentava quel senso di dignità, che doveva servire a farmi camminare impettito fra i miei simili? L’opinione dei miei simili… Bella roba! Nient’altro che carta straccia, davanti agli occhi, al calore e al sapore di Angela! Il gioco era tra noi due; ogni male e ogni bene sarebbe derivato soltanto da ciò che avevamo cominciato, un giorno non lontano.

La mia scelta l’avevo ormai fatta, il sentiero era tracciato. Forse ad un certo momento mi sarebbe stato presentato un conto pesantissimo, probabilmente superiore alle mie capacità; forse Angela sarebbe andata via dal mio orizzonte, improvvisamente come era comparsa, e io sarei ricaduto nel mio spazio vuoto di sogni. Tutto questo lo sapevo. Ma dovevo comunque aspettare che la roulette si fermasse, e la pallina scegliesse il suo numero; non potevo assolutamente lasciare il mio posto, prima di quell’istante.
Non fu facile venire incontro alle richieste di Angela, perché gli esami si svolsero in un altro istituto, e per giunta io non facevo parte della commissione. Ma la mente machiavellica della mia allieva non si scoraggiò per così poco, ed elaborò un complicato piano, che prevedeva l’uso di un cellulare, che una complice le avrebbe passato da una finestra del bagno – avevano fatto appositi sopralluoghi – e grazie al quale lei si sarebbe messa in comunicazione con me.

Alla fine, nonostante i miei timori e sudori freddi, tutto andò per il meglio. Io feci quel che mi competeva, in base ai nostri accordi – ovvero feci il compito al posto di Angela e glielo dettai via cellulare – e la mia allieva, estremamente sveglia e ricettiva, seppe farne tesoro. Non mi rimaneva quindi che attendere la promessa ricompensa.

Per qualche giorno non ricevetti assolutamente notizie da Angela; e l’impazienza cominciò ad angustiarmi. Finalmente il telefono squillò, e udii la voce della mia allieva, mielosa e carezzevole.

“Scusami se non mi sono fatta viva subito per ringraziarti” disse, “ma tu puoi immaginare che in questi giorni c’&egrave stato tanto da fare… I miei genitori hanno voluto dare una festa per celebrare l’avvenimento. Capirai, non riuscivano a credere che la loro figlia si fosse finalmente diplomata. Sono contenti di vedere che ho messo la testa a posto”, e a questo punto Angela si lasciò scappare una risatina carica di sottintesi. “E tutto grazie a te, prof” aggiunse. “Sei stato veramente un grande appoggio per me. Più che un professore, un amico. E io non so più come sdebitarmi.”

Non capivo bene cosa intendesse dire; perché fingeva di non ricordare i nostri accordi?

“Come, non lo sai?” dissi, allusivo. “Mi sembra che ne abbiamo parlato abbastanza, no?”

“Beh, prof” fece la ragazza, dopo un attimo di esitazione, con un tono che sembrava perfino imbarazzato, “questi discorsi, sai, non &egrave opportuno farli per telefono.”

“E allora vediamoci di persona.”

“Va bene. Dimmi tu quando e dove…”

La sua voce sembrava insicura; tanto che le chiesi:

“Ma non hai, per caso, cambiato idea? Non ti va più di fare quello che avevamo detto?”

“Ma no, prof. Ti ho detto che non &egrave questo il momento… Vediamoci al solito bar. Okay?”

Quando finalmente c’incontrammo, Angela mi spiegò che non si era affatto rimangiata le sue promesse e che anzi aveva avuto una splendida idea: quella di invitarmi nella villa al mare dei suoi, che in quel fine settimana sarebbe stata tutta a nostra disposizione.

“Che ne dici? Non &egrave una bella sorpresa, questa?” domandò con un’aria giuliva, da ragazzina contenta di aver ricevuto un regalo a lungo desiderato.

Io in realtà ero un po’ dubbioso. “E se piomba improvvisamente qualcuno?” obiettai. “Sei sicura che tua madre e tuo padre non capiteranno lì proprio mentre ci siamo noi?”

Angela fece segno di no con un deciso movimento della testa, e disse che non c’era da preoccuparsi.

“Lì avremo tutto il tempo che vorremo” commentò. “E sono certa che ti piacerà molto tutto quello che si farà” aggiunse, toccandomi amichevolmente una mano.

*

La villa al mare di Angela era davvero un piccolo gioiello. Oltrepassato il cancello di ferro, che recava fregi di gusto barocco, ci si immetteva su un lungo vialetto di ghiaia, fiancheggiato da piccoli pini, e finalmente si giungeva all’abitazione, una villetta di due piani, color ocra, sulla quale spiccavano graziose persiane color beige. Appena arrivai, notai la mia allieva, che era intenta a ridipingere una cancellata che dava su un piccolo orto.

“Non credevo di sorprenderti immersa nel lavoro” commentai sorridendo.

“Ho promesso ai miei di dare una mano a rimettere le cose in sesto, qui” disse Angela, senza smettere di passare il pennello sulla cancellata.

“Beh, spero comunque che questo non c’impedirà di sbrigare le nostre faccende” dissi, continuando a usare un tono leggermente ironico.

“Non pensare sempre a una sola cosa” fece la ragazza, scuotendo la testa. “Visto che passeremo due giorni insieme, potrai darmi anche una mano. Di tempo ne avremo tanto.”

“Oh, sarebbe questa l’idea meravigliosa? Farmi venire qui per sgobbare?”

“Non vorrai farmi fare tutto da sola? Non sarebbe mica gentile, da parte tua!”

Mi avvicinai a lei, per osservarla meglio e risentire il suo profumo. Anche con la semplice tuta che indossava, era affascinante; e il modo da lei scelto di portare i capelli quel giorno, legati dietro la schiena a formare una lunga coda di cavallo, ritenevo le donasse molto. La afferrai dolcemente per i fianchi, da dietro, e feci per baciarle la schiena, anche se coperta dalla tuta.

“Che fai?” reagì lei, scostandomi bruscamente con lo stesso braccio col quale stava dipingendo la cancellata. “Renditi utile, invece, e vammi a prendere qualcosa da bere!”

“Volentieri, ma non conosco la casa, qui” risposi. Angela mi spiegò dove si trovava la cucina, e così, dietro sua indicazione, prelevai dal frigo una lattina di birra e gliela portai. “Senti, ma perché non &egrave venuto Alessio a darti una mano?” le domandai, dopo averla osservata lavorare per almeno cinque minuti. Ero un po’ seccato di dovere star lì a fare lo spettatore. Non aveva senso…

“Al mio ragazzo non piace fare questi lavori, e sapendolo, non provo neanche a chiedergli di aiutarmi, perché sarebbe soltanto d’impiccio, e se ne starebbe tutto il tempo in cucina a scolarsi le birre e a guardare i video musicali in TV… o a fare casino con la sua chitarra. Perché lui &egrave chitarrista in un complesso, sai?” rispose Angela, senza nemmeno voltarsi a guardarmi.

“Ah sì?” feci, sottolineando col tono di voce il mio disinteresse. “Ma se a lui non piacciono questi lavori, che cosa ti fa pensare che debbano piacere a me?”

A quel punto, Angela si voltò finalmente verso di me, e mi fissò negli occhi. Il suo sguardo era quello di una madre severa, sul punto di ammonire il figlio a causa di qualche mancanza.

“Prof, ma a te piace proprio essere trattato come un bambino, eh?” disse, le mani chiuse a pugno e appoggiate sui fianchi.

Non capivo il senso della sua domanda, però sapevo che il suo atteggiamento non prometteva nulla di buono.

“Che stai dicendo? Che c’entra?” dissi, arretrando leggermente.

“Venendo qui, hai accettato implicitamente di continuare il nostro gioco. Ricordati che sei stato tu a insistere perché ci incontrassimo di nuovo. Di’: non &egrave così?”

“Sì, certo, ho insistito io; ma tu sai bene che fra noi c’era un patto. Mi avevi promesso qualcosa, in cambio del mio aiuto agli esami. Non lo ricordi più, per caso? Beh, l’aiuto l’hai avuto, e adesso mi aspetto che tu faccia la tua parte…”

Angela, sempre con le mani sui fianchi, scosse la testa.

“Io non ti avevo più cercato, proprio per darti la possibilità di ripensarci” disse. “Poi quel giorno, al telefono, mi sono mostrata fredda, ti ricordi? Era proprio per darti un’ultima occasione di rinunciare al nostro gioco. Però, ora, venendo qui da me, hai fatto una precisa scelta che ha delle conseguenze… Voglio dire che, dal momento che sei qui, devi accettare le mie condizioni, come sempre.”

“Ma di che condizioni stai parlando, diamine? Devi solo mantenere la tua parola. Io ho fatto tutto quello che tu volevi! Cos’altro vuoi?”

“Non alzare la voce con me, hai capito? Qui sei a casa mia, e devi comportarti bene e misurare le parole!” fece la ragazza, minacciosa, puntando l’indice verso di me.

“Sei tu che mi fai innervosire. Ma come ragioni? Avevamo un patto. Non lo vuoi più rispettare? Se &egrave così, dimmelo subito, così tolgo il disturbo, evito di alzare ancora la voce e non sto a perdere altro tempo con te…”

“Ti faccio notare che adesso stai diventando addirittura offensivo” disse Angela, con tono calmo ma tutt’altro che dolce.

“Perché? Cos’ho detto?”

“Che stai perdendo il tempo con me. Qui” fece Angela, avvicinandosi a me, e toccandomi il petto con l’indice col quale prima mi aveva ammonito, “qui, se c’&egrave qualcuno che può dire una frase del genere, sono io: chiaro? Perché sono io che ho perso un bel po’ di tempo con te! E non te lo scordare!”

Trasecolai. Ma come poteva dirmi una cosa simile? Chi aveva tratto più vantaggio dal nostro “gioco”? Non mi ero compromesso abbastanza, a causa sua? Lei che cosa aveva rischiato, in fondo, per me? E in ogni caso, non era lei a essersi umiliata.

“Non cominciare a mettermi le mani addosso” replicai, amareggiato per le sue parole e piuttosto preoccupato per la piega che stava prendendo la faccenda.

“E tu non offendere! Stronzo!” esclamò Angela, che come al solito sembrava scaldarsi nel veder crescere la mia paura.

“Senti… A questo punto capirai che &egrave proprio inutile che io rimanga qui. Non sono gradito” dissi, e le voltai le spalle, incamminandomi verso la mia macchina.

In pochi passi, Angela mi raggiunse e mi agguantò per le spalle, dicendomi:

“Adesso ricominci a fare il bambino?”

“Lasciami stare!” dissi, scrollando energicamente le spalle e cercando di liberarmi della sua stretta.

“No, perché non posso tollerare che tu faccia il bambino. Devi accettare le conseguenze di ciò che fai. E’ troppo comodo darsela a gambe!”

Così dicendo, Angela intensificò la sua presa, e mi costrinse a voltarmi verso di lei.

“Ma insomma, che vuoi da me?” dissi, e la mia voce, nonostante le mie stesse intenzioni, assunse un tono supplichevole. “Io credevo semplicemente che avremmo passato qualche ora piacevole insieme. Ma se non sono queste le tue intenzioni, preferisco andarmene subito e rinuncio a chiederti quello che mi spettava.”

“Ma cosa ti spettava?” replicò Angela con un largo sorriso, che svelava diversi e contrastanti lati del suo carattere. Sembrava in quel momento divertita come una ragazzina, ma anche eccitata, e sembrava pregustare piaceri oscuri, derivanti dal disagio e dalla sottile paura che mi leggeva perfettamente in faccia. “Davvero pensavi di venire qui e trovarmi ai tuoi piedi, disposta a farti fare tutto quello che volevi?” continuò.

“No, mi aspettavo soltanto di poter fare quello che abbiamo sempre fatto… magari un po’ più a lungo e con più tranquillità” confessai.

La ragazza scosse un’altra volta la testa e disse: “Tu dimentichi che sono io che detto le condizioni. E’ questo, il ‘gioco’. Così &egrave stato sempre, fin dall’inizio; non mi dire che non lo sapevi…”

“Va bene, però adesso preferisco andarmene” mormorai, abbassando gli occhi.

“Ma come? Proprio adesso che stavo per chiederti di leccarmi i piedi?” fece Angela, in tono amichevole, strizzandomi un paio di volte le spalle, con le sue grandi mani.

La sua improvvisa richiesta non mi lasciò indifferente: con grande stupore della mia parte razionale, infatti, ricevetti un brusco e piacevole segno di risveglio da parte del serpente che fino ad allora se n’era stato quieto nelle mie mutande.

“Dài, avanti, che aspetti?” m’incitò. “Credo che sia arrivato il momento giusto per farlo: &egrave da stamattina che sto in giro, e i miei piedi hanno proprio voglia di essere presi in considerazione…”

Ero ad un bivio: la tentazione e l’eccitazione erano forti; ma una parte di me desiderava andar via di là ed evitare così le spiacevoli sorprese in cui temeva d’imbattersi presto o tardi. Era da un pezzo che osservavo gli stivali da lavoro che Angela calzava quel giorno, e ora provavo il desiderio di sfilarglieli…

Quasi senza accorgermene, presi una decisione. E prevalse il desiderio. Piegai lentamente le ginocchia, senza dir nulla, e allungai le mani verso lo stivale destro della ragazza.

“Aspetta” sussurrò lei: “vado a sedermi là. Vieni, &egrave troppo scomodo farlo qui.”

Angela si accomodò su una sedia da giardino sistemata accanto alla porta d’ingresso della villa. Io mi accovacciai ai suoi piedi, e senza perdere altro tempo le sfilai, con garbo e con cura, gli stivali di gomma, pieni di polvere.

“Aah, sì!” sospirò Angela, con fare rilassato. “Fai il tuo dovere, dài…”

I suoi piedi erano fasciati da calze scure; gliele tolsi, con la stessa delicatezza di prima, e subito dopo le carezzai la pelle delle estremità, incantato. Le sollevai con cura un piede e lo portai verso la mia bocca. Il suo odore era forte e pungente, ma per me era semplicemente uno degli effluvi di Angela, e contribuì alla mia eccitazione adorante. Finalmente le mie labbra incontrarono la pelle della sua caviglia, e si schiusero per un bacio intenso. Poi pian piano si fece avanti la lingua e cominciò a scorrere verso il basso, raggiungendo in pochi attimi l’alluce e, a seguire, le altre dita.

Angela emise un mormorio indecifrabile, a bocca chiusa, che esprimeva il suo estremo gradimento. Bastò quel piccolo segnale a dare un’altra scossa elettrizzante al mio membro, che in pochissimi attimi s’irrobustì abbastanza.

“Non dimenticare che di piedi ne ho due” fece la ragazza, ironica e provocante.

Già: per troppa passione, avevo quasi dimenticato di coccolarle il sinistro. Rimediai subito alla mia mancanza, leccandolo con passione raddoppiata. Feci scivolare la lingua sotto la pianta del piede, insalivandola tutta, e poi mi dedicai maniacalmente agli interstizi fra le dita, percorrendoli uno dopo l’altro col mio guizzante organo gustativo.

La frenesia di Angela era palpabile. La sentii sospirare a più riprese, finché non esclamò:

“Togliti i calzoni, voglio vedere quanto ti stai eccitando!”

Rimasi per un momento titubante.

“Ma… qui, all’aperto?” domandai.

“Sì, qui. Non ci vede nessuno, la strada &egrave lontana e anche le ville dei vicini. E allora? Che fai, ti decidi o no?”

Persino la sua tirannica impazienza contribuiva a scaldarmi i sensi. Feci quindi quello che mi aveva chiesto, denudandomi dalla cintola in giù, e gettando disordinatamente calzoni e mutande dietro di me.

“Oh, lo vedi che &egrave già sveglio, il tuo signor pipì? Ci avrei scommesso…” commentò Angela, trionfante e sfacciata.

Allungò un piede verso la mia faccia, suggerendomi implicitamente di riprendere l’opera interrotta, e io, senza proferire parola, ricominciai a leccare.

“E’ incredibile, l’effetto che ti faccio” notò la ragazza, con un tono di reale stupore. “Mi basta metterti in faccia un mio piedino, per farti drizzare l’amichetto porcello che porti a spasso fra le gambe. E tu non sai quanto mi fa bagnare questa cosa, prof…”

Le baciai con voluttà le caviglie e i calcagni, per farle comprendere quanto gradissi le sue parole inebrianti.

Dopo qualche altro piacevole mugolio, la ragazza si stiracchiò e disse:

“Adesso mi sembra arrivato il momento di riprendere il lavoro.”

Le rimisi le calze e gli stivali e poi, con la testa e i sensi ancora in fiamme, mi alzai pigramente in piedi, e le rivolsi uno sguardo interrogativo, che lei colse.

“Cosa c’&egrave?” mi fece.

“Posso… rimettermi quelli, allora?” le domandai, indicando i pantaloni e le mutande che poco prima mi ero tolto.

Angela fece decisamente segno di no con la testa e disse: “Dalli a me.”

“Ma cosa devo fare? Starmene qui a gironzolare col sedere da fuori?” protestai.

“No, tu hai da lavorare, adesso. Devi andare dentro, e cominciare a rifare i letti di tutte le stanze, e a spazzare per terra. Altro che gironzolare!”

“Ma non posso finire io di dipingere la cancellata, mentre tu vai dentro a spazzare e a rifare i letti?” provai a proporle. La ragazza fece di nuovo un segno di diniego.

“Sono io che decido chi deve fare che cosa, qua dentro” disse seccamente. “E tu farai naturalmente tutto quello che a me non va di fare” aggiunse, con un mezzo sorriso. “Do you understand?”

Quindi ripeté, tendendo una mano verso di me:

“Dammi i pantaloni e le mutande.”

Prima di consegnarglieli, provai a farle cambiare idea:

“Ma non posso proprio mettermeli? Così mi sentirò a disagio…”

“Il gioco oggi &egrave questo” sussurrò lei, facendo ancora una volta “no” con la testa. Quando finalmente ebbe tra le mani i miei indumenti, aggiunse:

“Ah, dimenticavo! Voglio anche le chiavi della tua macchina.”

Fu come una botta in testa, per me.

“Cosa? Ma perché, scusa? Che ne devi fare?” dissi allarmato.

“Non voglio che mi pianti in asso sul più bello” disse Angela. “Ora sei qui, e devi starci fino in fondo.”

“Ma come vuoi che me ne vada? Così, mezzo nudo?”

“Con te, non si sa mai.”

“No, senti, scusami, ma questo proprio non mi va. Le chiavi della macchina, proprio no!”

Immediatamente, nel sentire queste mie parole, il volto di Angela si fece accigliato.

“Lo sai che non ci perdo niente a prendermele da me” minacciò. “Dimmi cosa preferisci…”

“Questo però &egrave sequestro di persona!” borbottai, stizzito e impaurito allo stesso tempo.

“Uh, quanto la fai lunga! E’ solo il nostro gioco… Ti &egrave sempre piaciuto, e ti piacerà anche stavolta, professore.”

Così dicendo, la ragazza allungò nuovamente la mano verso di me, col palmo rivolto verso l’alto, e io, arrendendomi alle sue ragioni, presi dalla tasca della camicia le chiavi e gliele consegnai.

“Adesso vai dentro, e fai quello che ti ho detto” mormorò, alzandosi e dirigendosi verso la cancellata dell’orto, per riprendere il suo lavoro. “Fai il bravo, prof!” aggiunse, voltandosi verso di me, prima che entrassi in casa.

Le incombenze che mi aveva affibbiato mi portarono via parecchio tempo. Già solo per rifare i letti – sette in tutto, compresi quelli per gli ospiti – se ne andò più di mezz’ora. C’era inoltre polvere ovunque, e mi accorgevo che una semplice spolverata non risolveva il problema. Dovetti quindi usare un bel po’ di olio di gomito per ridare un aspetto decente almeno alle camere da letto. Era passata già più di un’ora dal momento in cui avevo cominciato a sgobbare, quando diedi inizio al servizio di ramazza. La villa era abbastanza grande, e per spazzare il pavimento in “tutte le stanze”, come mi aveva chiesto Angela, temevo di dover impiegare mezza giornata, o giù di lì.

Ero ancora a metà dell’opera, al piano di sopra, quando sentii nel salone a piano terra la voce della ragazza, che diceva:

“Io ho finito. Tu a che punto sei?”

Glielo dissi, e lei replicò:

“Per adesso, interrompi, ché &egrave ora di pranzo. Andiamo a farci una doccia.”

Mi spiegò che l’avremmo fatta insieme. Un’altra “prima assoluta”, nel nostro gioco. Il solo pensiero di quel che stavamo per fare mi rese euforico. Avevo il cuore che palpitava forte, e gli occhi che mi schizzavano dalle orbite, quando finalmente entrammo insieme nella cabina doccia. Angela volle che le insaponassi la parte posteriore del corpo, dal collo ai calcagni. Inutile dire che veri e propri brividi di eccitazione mi attraversarono tutto, quando la mia mano, scendendo dalla schiena, si soffermò sui suoi glutei sodi. Lei si accorse che indugiavo un po’ troppo lì, e commentò scherzosamente:

“Che c’&egrave? Ti sei incantato, prof? Non voglio farci la muffa, qui.”

Mi accovacciai allora, per lavarle le gambe, e a quel punto non resistetti alla tentazione di baciarle la coscia, proprio sotto il fondoschiena. Angela emise un breve mugolio riconoscente, ed io mi feci più audace. Prolungai il sentiero dei baci fino a portarlo sulle sue natiche e poi più su, fin dove arrivava la mia bocca. Ero di nuovo in piedi dietro di lei, e diedi ascolto a un improvviso e folle desiderio: mi feci più vicino al suo corpo bagnato e profumato, e le strofinai sulla coscia il mio sesso che già si mostrava a mezz’asta.

“Dovevo aspettarmelo, da un porco come te” mormorò la ragazza. Nella sua voce si mescolavano severità, disappunto e sensualità. E sicuramente la sfumatura più sincera era quest’ultima.

Fu per me un indiretto incoraggiamento. Mi strinsi a lei, le mani allacciate contro il suo ventre. Da lì le lasciai scivolare lentissimamente verso il basso, sentendo il suo respiro farsi più pesante. Finalmente raggiunsi i peli che custodivano la sua intimità e con un dito trovai le sue grandi labbra. Angela sussultò, gradendo la sorpresa, e si spinse leggermente indietro, come per aderire meglio al mio corpo. Il mio bastone era duro e teso, ormai, ed era dolcemente compresso tra la sua coscia e il mio ventre.

Il mio dito le scivolò dentro, e il mugolio della ragazza si trasformò in un’esclamazione di piacere. La dolce stimolazione del suo sesso assunse un ritmo sempre più rapido, sino a diventare selvaggia. Muovevo il dito pensando a ciò che avrei intensamente desiderato fare col mio pene ormai smanioso. I gemiti di Angela m’incitavano incessantemente; e alla fine lei appoggiò le mani alla parete, per reggersi meglio, mentre il suo corpo era attraversato dalle ondate furiose dell’orgasmo.

La mia speranza ormai si era accesa – anzi, era diventata incandescente – e così mi strinsi più forte alla ragazza, strofinandomi sul suo corpo, e mormorai:

“Ti voglio, Angela. Ti prego, facciamolo subito…”

Ma Angela si divincolò rudemente, liberandosi, e voltatasi verso di me, mi mise una mano sulla spalla, costringendomi con una spinta ad arretrare di due passi.

“Professore, professore!” esclamò, scuotendo la testa, con aria più ironica che adirata. “Come alunno mi sa che sei una frana: le mie lezioni non le impari mai…”

“Ma io ti desidero” insistetti. “Non stava piacendo anche a te? Perché non lo facciamo?”

“A me non piace ripetere cento volte le stesse cose, professore. E sai cosa succede quando mi scoccio e perdo la pazienza?”

Sapevo che non dovevo sottovalutare il suo avvertimento, ma speravo, prima o poi, di aprire una breccia nella sua determinazione e di far nascere, nonostante tutto, un sentimento più profondo tra noi due.

“Ti prego, Angela. Ti voglio. Adesso” ripetei, senza la minima arroganza – anzi, col tono del supplice innamorato.

Angela sospirò e chiuse il rubinetto della doccia; quindi mi spinse fuori della cabina e, le mani appoggiate ai suoi fianchi, disse:

“Senti, prof, facciamo così, visto che ci tieni tanto – una specie di scommessa: se riesci a mettermi a terra, faremo quello che mi hai chiesto; ma se sarò io a mettere a terra te, poi sarai tu a dover fare quello che dico io. E senza altre storie. Allora, che ne dici? Ti va? Come vedi, ti dò una chance…”

Appariva davvero molto sicura di sé: il suo sorrisetto beffardo lo dimostrava; e del resto, ci eravamo già confrontati fisicamente altre volte, e in quelle occasioni mi ero ritrovato a soccombere. Considerando razionalmente la faccenda, non aveva alcun senso, per me, accettare la sfida. Eppure, la speranza – come si sa – va oltre ogni ragionamento; e io speravo, per una volta, magari grazie all’energia della mia passione per lei, di avere la meglio.

“Va bene, ci sto” annuii, cercando di mostrarmi sereno.

Eravamo bagnati e completamente nudi, l’uno di fronte all’altra. I suoi bei capelli scuri e zuppi – che avevo respirato con ardore durante il nostro contatto sotto l’acqua – incorniciavano magnificamente il suo viso, ricadendole in parte sul petto e in parte sulla schiena. Stavamo giocando, in fondo – si sarebbe potuto dire – ma, se di gioco si trattava, bisognava ammettere che lo prendevamo molto sul serio. E così, nonostante il sorriso di Angela e la sua aria rilassata, io sapevo bene che ce l’avrebbe messa tutta per farmi finire ancora una volta al tappeto. ‘Bene’ mi dissi, ‘vorrà dire che dovrai mettercela tutta anche tu’.

Continuammo a guardarci negli occhi e a studiarci per qualche minuto. Angela non si scomponeva e sembrava attendere paziente le mie mosse. La sua estrema fiducia nelle proprie capacità contribuiva a irritarmi. Improvvisamente attaccai, lanciandomi a testa bassa contro di lei: pensavo che, considerata la differenza di stazza fra noi, fosse l’unico modo per aver ragione della sua mole, facendole perdere l’equilibrio. Ma Angela evidentemente si aspettava da me qualcosa del genere, perché, pur arretrando di qualche passo per il contraccolpo, parò energicamente con entrambe le mani la mia testa, che così non poté finire contro il suo torace.

La mia mossa era stata dunque inutile, e anzi si ritorse contro di me, perché la ragazza, senza attendere neppure un secondo, sollevò rapidamente la gamba e, approfittando della mia posizione china, mi assestò una robusta ginocchiata al centro del petto. Non ero abbastanza allenato da reggere certi colpi, e per giunta cominciò a mancarmi il respiro. Le mie gambe si piegarono, quindi, e finii carponi per terra.

La ragazza allungò una gamba fino a mettermi un piede sotto il mento, e mi sollevò piano quest’ultimo, stuzzicandomi:

“Siamo già al K.O.? Non mi va di vincere così facilmente, dài!”

Mi lasciò stare, poi, finché non mi ripresi. Quando vide che mi rimettevo in piedi, mi fece:

“Allora, sei pronto?”

La guardai, ancora un po’ intontito, e annuii; ma ero sempre meno convinto di quel che stavo facendo. Lasciò ancora che mi avvicinassi a lei; stavolta lo feci cautamente, e con molta lentezza; quando le fui abbastanza vicino, strinsi le braccia attorno alla sua vita e mi misi a spingere. In realtà, non sapevo neppure che razza di tattica fosse: mi lasciavo guidare dal mio istinto, che in certe cose era in verità abbastanza ingenuo.

Sentii che Angela se la rideva; strinse a sua volta le braccia intorno alle mie spalle, e, accettando la mia tattica, controbilanciò – credo senza troppa difficoltà – le mie spinte. I nostri corpi erano allacciati, come se volessimo abbandonarci agli impulsi della passione. La mia faccia era affondata nel suo petto, e sentivo le mammelle premere soffici contro il mio mento, proprio mentre io, a mia volta, cercavo di fare pressione sul corpo di Angela, per farla almeno arretrare di qualche passo. In quella posizione, catturato dal profumo della pelle della mia avversaria, e dal calore del suo splendido corpo, non potetti impedire alla mia eccitazione di manifestarsi; così, mentre continuavo a esercitare pressione, il membro mi si svegliò ingolosito, e gradì molto di trovarsi a stretto contatto con la parte alta della coscia di Angela. Il mio serpente si allungò quindi rapidamente, accarezzando lascivo, con quel suo movimento verso l’alto, la gamba della ragazza. In quel momento, tuttavia, quella evidente manifestazione del mio umore profondo era per me quantomeno imbarazzante: segnava in effetti un altro punto a vantaggio di Angela, impedendomi di concentrarmi a dovere sul nostro match.

Angela riusciva comunque a impedirmi di muovere anche un solo passo in avanti – tantomeno ero in grado di farle perdere l’equilibrio. Provai quindi disperatamente a dare spinte laterali, sperando in tal modo di coglierla impreparata, facendola cadere su un fianco. Ma anche questi tentativi si rivelarono inutili.

Ad un certo punto, Angela decise di abbandonare la resistenza e passare al contrattacco. Cominciò quindi a spingermi all’indietro, con tutta l’energia che possedeva. Riuscii a tenerle testa per qualche attimo, ma poi le mie forze iniziarono a cedere, e subii l’impeto della sua spinta, indietreggiando di colpo di qualche passo. Cogliendomi di sorpresa, utilizzò poi un semplice trucco al quale io non avevo neppure pensato: mentre facevo un ennesimo passo indietro, sistemò proditoriamente il suo piede di traverso dietro la mia caviglia, facendomi in sostanza uno sgambetto, e io rovinai al suolo come un sacco di patate.

Angela mi fu immediatamente sopra, senza darmi neanche un attimo di tempo per riflettere. S’inginocchiò lesta, piazzando le gambe ai lati del mio busto disteso per terra, e usando le stesse per schiacciarmi al suolo le braccia. Mi aveva dunque immobilizzato. Raggiunto il suo scopo, si sistemò meglio, comprimendo le gambe contro i miei fianchi, in maniera da farmi sentire del tutto prigioniero.

“Allora, professore, cosa stavamo dicendo, un momento fa?” chiese, provocante. “Non abbiamo detto che, se tu avessi perso, avresti dovuto fare tutto quello che ti dico, senza più fiatare? E’ così o ricordo male?”

Ero talmente abbattuto e in collera con me stesso, che non mi andava assolutamente di proferire parola. Mi limitai ad atteggiare il volto in una smorfia di stizza.

“Che c’&egrave? Hai perduto la memoria?” insisté la ragazza, mettendomi una mano sotto il mento e sollevandomi la testa, per costringermi a guardarla negli occhi.

“Sì, d’accordo, ho perso… e tu hai vinto” dissi infine, per tagliare corto. “Che cosa mi aspetta, adesso?”

“Intanto, ora ti alzi e finisci di farti la doccia” rispose Angela, in tono deciso. “A quanto pare, devo trattarti come un ragazzino…”

Si sollevò finalmente e, tendendomi una mano, mi aiutò ad alzarmi a mia volta. Avevo i muscoli delle braccia doloranti, dopo aver sopportato il suo peso. La ragazza mi prese per un braccio e mi condusse, quasi trascinandomi, nella cabina doccia. Aprì il rubinetto e, dopo aver fatto scorrere un po’ d’acqua, saggiandone la temperatura, afferrò più saldamente il mio braccio, e me lo piegò dietro la schiena, dicendomi:

“Adesso lascia che l’acqua ti scorra in testa, perché credo che tu abbia bisogno di rinfrescarti le idee. E non voglio sentire storie. Solo io deciderò quando potrà bastare.”

Sentii il potente getto di acqua appena leggermente tiepida scorrermi prima sulla testa e poi scivolare giù lungo il collo e le guance… Data la temperatura dell’acqua, cominciai presto a sentire qualche brivido; ma sapevo che non dovevo protestare né muovermi, altrimenti Angela se la sarebbe presa col mio braccio, che in qualche modo teneva in ostaggio. Dopo almeno cinque minuti di quel trattamento, cominciavo ad averne abbastanza, ma resistetti in silenzio.

“Va bene, e adesso finisci di lavarti come si deve. Non voglio sporcaccioni in giro per casa” fece la ragazza, lasciando andare finalmente il mio braccio.

Pretese che finissi di lavarmi mentre lei mi osservava fuori della cabina, le braccia conserte e lo sguardo severo. Nonostante tutto, la sua presenza e il suo atteggiamento non lasciavano indifferenti i miei sensi, e così, mentre m’insaponavo dal collo ai piedi, il mio sesso desiderò esprimerle il suo apprezzamento, ricominciando a farsi duro e turgido, senza essere neppure sfiorato dalle mie mani.

Angela notò sia la mia eccitazione che il mio impaccio, perché commentò:

“Ma come? Il tuo signor pipì non te lo lavi?”

Farfugliai qualcosa, per giustificarmi, e la ragazza, scuotendo la testa, fece:

“Lo vedi che c’&egrave bisogno del mio controllo? Non sai nemmeno farti una doccia. Avanti, lavati il pipì, da bravo. E anche le palline.”

Il suo modo di fare mi sconcertava e mi confondeva. Veramente mi stava trattando come un ragazzino, e questo razionalmente non potevo accettarlo; eppure avvertivo chiaramente quanto la situazione solleticasse la mia libido. Il gioco andava sempre più avanti, e io avevo perso da un pezzo, in realtà, la forza e la voglia di fermarlo. Era inutile che continuassi a barare con me stesso.

“Fammi vedere come sai lavarteli, dài. Fai il bravo ragazzo, pulito e ordinato” continuò a stuzzicarmi Angela.

Mi faceva piacere accontentarla, ma non avevo il coraggio di guardarla negli occhi, in quegli istanti. Cominciai a insaponarmi lentamente il pene semieretto, e di tanto in tanto sbirciavo la ragazza, ma solo fino al busto, e notavo che aveva sempre le braccia conserte. Sapendomi controllato strettamente da lei, mi sentii spasmodicamente eccitato, e l’erezione continuò a svilupparsi ad un ritmo accelerato. Nel giro di pochi attimi, ebbi l’uccello teso e fieramente rigido, con la testa rivolta verso l’alto; lo sentivo quasi scoppiare di desiderio. E quella sensazione sembrava amplificare a sua volta la mia voglia, in un circuito senza fine.

Incitato ancora da Angela, m’insaponai per bene anche lo scroto, e mi massaggiai leggermente le palle. Poi risalii con la mano, a sciacquarmi sensualmente l’asta, e misi a nudo il glande, per dare anche a quello una rinfrescata.

“Lo vedi che sai lavarti per bene, quando vuoi?” sussurrò Angela, e il suo modo di punzecchiarmi aveva un sapore intrigante. “Però resti sempre il solito porco, che si eccita toccandosi davanti alle signore. Guarda come ti &egrave diventato grosso, il signor pipì, soltanto perché ci sono io a guardarti…”

Le sue parole alimentavano il fuoco del mio piacere, e mentre le ascoltavo, continuavo, con un vago senso di soggezione, a carezzarmi l’asta, scossa dai brividi del desiderio.

“Non hai proprio nessun pudore!” mi schernì la ragazza. “Secondo me, continui a lisciartelo nella speranza che ti si allunghi ancora. Ma non ti vergogni di essere il maiale che sei?…”

Io la ascoltavo, e i brividi piacevoli raddoppiavano d’intensità. Non toglievo più la mano dal mio sesso.

“Ma cosa credi, d’impressionarmi?” continuò Angela. “Sei solo un fottuto esibizionista, guarda là! Io lo so che vuoi eccitarmi facendomi vedere come ti si gonfia…”

Subito dopo, vidi che la ragazza si toccava la patata, e indugiava col dito sul clitoride. Le sfuggì un gemito, e poi aggiunse:

“Sì, bravo… Sei proprio bravo a farmi bagnare, lo sai; e vorresti approfittarne. Ma io prendo solo quello che voglio, dovresti saperlo, ormai. E da te voglio solo che me lo faccia vedere, come stai facendo adesso. Sì, bravo, così!”

Doveva aver capito, dai movimenti sempre più rapidi della mia mano, che stavo per raggiungere il punto di non ritorno, e immediatamente esclamò:

“Stop! Basta così. Non voglio che consumi altra acqua, ti sei lavato abbastanza.”

Rimasi interdetto; sollevai lo sguardo verso il suo viso, cercando di assumere un’espressione supplicante, mentre sentivo la testa girare, a causa della brusca interruzione. Ma Angela non si lasciò impietosire.

“Togliti la mano dall’uccello! Sei davanti a una signora, non te lo dimenticare, porco!”

In effetti, la mia mano indugiava, speranzosa, attorno alla mia erezione rimasta senza sbocco. Cercai di tergiversare ancora, ma Angela accennò ad avvicinarsi a me, e sapendo che sarebbe stata capace di farmi pagare la mia ostinazione, lasciai in pace il mio membro, che rimase a puntare pateticamente il soffitto. La ragazza gli lanciò un’occhiata divertita e disse:

“So io come farti sbollire! Adesso, mentre finisco di lavarmi e di vestirmi, tu te ne vai di sotto, ad apparecchiare la tavola, ché ho già una certa fame.”

Non mi rimase che asciugarmi rapidamente, e scendere nell’ampia cucina della villa, per fare ciò che lei mi aveva chiesto. Mentre ero già sulla porta del bagno, la sentii dirmi, dalla cabina doccia:

“Ah, e naturalmente, se sporchi da qualche parte giocando col tuo pisello, pulisci bene, perché se trovo una sola traccia del prodotto delle tue palline, te la faccio leccare fino all’ultima goccia. Parola mia! Non voglio vedere quella roba in giro.”

L’eccitazione, giù in cucina, mi tormentava ancora: mentre sistemavo la tovaglia e le stoviglie sulla tavola, non riuscivo a togliermi dalla testa la voce e l’atteggiamento provocante di Angela, e, anche in sua assenza, l’uccellino non voleva saperne di mettersi a riposo, e continuava, svergognato, a sollevare la testa. La nudità del mio corpo rendeva la situazione ancora più intrigante, per la mia mente, sicché non riuscivo più a uscire dalla gabbia di sensualità nella quale mi ero cacciato.
A tavola, Angela si presentò indossando un’altra tuta da ginnastica, e comode ciabatte; aveva inoltre riannodato i capelli dietro la schiena, a coda di cavallo. Sedette di fronte a me, e io feci di tutto per nascondere le ripetute erezioni che la sua sola presenza mi scatenava. Eppure, praticamente, lei durante il pranzo non fece che ignorarmi, concentrata sulle notizie del telegiornale, e sul cibo, che divorava con un certo appetito.

Quando finimmo di mangiare, la ragazza si alzò e, come se stesse dando istruzioni a un suo dipendente, mi fece:

“Metti tutto in ordine, in cucina, e lava i piatti; poi, quando hai finito, lava per bene tutti i pavimenti, anche al piano di sopra, mentre io, prima che faccia buio, cerco di dare una sistemata all’erba nel vialetto, che &egrave cresciuta un po’ troppo.”

Stetti ad osservarla imbambolato, mentre si infilava nuovamente ai piedi gli stivali da lavoro.

“Te ne stai lì ancora seduto?” disse un po’ contrariata, osservandomi. “Guarda che hai tanto lavoro da fare. Mi raccomando, la cucina dev’essere pulita bene. E quando torno, voglio trovare tutto fatto.”

Continuava a trattarmi come un semplice dipendente; e io non potevo dir niente, perché il gioco era andato così: lei mi aveva messo a terra, in bagno, e io, stando ai patti, dovevo fare tutto ciò che mi veniva chiesto, senza protestare.

Il pomeriggio passava molto lentamente: dopo la cucina, credevo di avere fatto già la metà del lavoro, ma non mi ero ancora reso ben conto di quanto fosse grande la villa. I pavimenti da lavare, in realtà, non finivano mai. Doveva essere già pomeriggio inoltrato, quando mi sedetti un attimo, per riposarmi. In quel momento, tornai a focalizzare l’attenzione sul fatto di essere nudo. Avvertii di colpo questa condizione come un’imposizione ingiusta e irritante, e mi chiesi che cosa m’impedisse di rivestirmi. Mi alzai, deciso a riprendermi i miei indumenti, quando mi balenò improvvisa la risposta alla mia stessa domanda: io non sapevo dove fossero, i miei vestiti – ecco che cosa m’impediva di rimettermeli addosso.

Dimenticando per un momento le incombenze che mi aveva affidato Angela, mi recai nella sua stanza, dove ricordavo di aver visto, quando avevo rifatto il letto, un grande armadio a sei ante. Avevo pensato che i miei indumenti dovessero essere senz’altro lì dentro. Ma quando lo aprii, trovai più abiti di quanti immaginavo ce ne fossero, in una casa di villeggiatura come quella. Cominciai a frugare di qua e di là e ad aprire ogni genere di cassetti, ma i miei vestiti non saltarono fuori. C’era dappertutto solo biancheria femminile.

Mi sovvenni improvvisamente dei miei “doveri” e diedi un’occhiata al mio orologio (l’unica cosa che mi fosse rimasta addosso): mi resi conto che ero impegnato da mezz’ora in quella caccia infruttuosa, e che da un momento all’altro poteva rientrare Angela. Lasciai quindi perdere immediatamente le mie ricerche e tornai a occuparmi dei pavimenti da lavare. Mentre passavo lo straccio per terra, continuavo però a chiedermi dove mai la ragazza avesse potuto nascondere i miei abiti e le mie scarpe, senza arrivare a niente.

Faceva già quasi buio fuori, quando la sentii rientrare. Stavo strizzando in quel momento lo straccio, per lavare il pavimento dell’ennesima stanza. Quando Angela mi trovò ancora intento all’opera, mi disse seccata:

“Tutto un pomeriggio ci hai messo e non hai ancora finito?”

“Forse non ti rendi conto di quanto sono grandi le stanze di questa benedetta villa” risposi.

“Come si vede che non sei abituato a fare certi lavori! Eh già, tu vivi nella sporcizia e nel disordine!”

“Non &egrave vero, Angela” mi difesi, sentendomi accusato ingiustamente, ma la ragazza mi tolse bruscamente la parola, dicendo:

“Va bene, ne riparliamo. Adesso vienimi a togliere gli stivali, ché ho i piedi gonfi.”

Angela si accomodò su un divano in salotto, e io, inginocchiato davanti a lei, mi occupai di liberarle le delicate estremità dal fastidio di quelle ingombranti calzature. Mentre le contemplavo i piedi, la ragazza mi disse di portarle una conca di acqua calda e di versarci un determinato prodotto che avrei trovato nell’armadietto del bagno. Capii meglio che cosa intendesse fare, quando mi chiese di sistemare la conca per terra e vi immerse i suoi piedi. Fui io, poi, naturalmente, a doverglieli frizionare e sciacquare amorevolmente, sempre inginocchiato davanti al suo divano.

Il pediluvio sicuramente le giovò, perché vidi il suo viso rischiararsi e rilassarsi. Non mi dispiaceva maneggiare i suoi piedi rosei e delicati, dopo tutto il monotono lavoro di quel pomeriggio. Li sollevai per sentire il loro profumo, ora che erano ben lavati, e la ragazza si divertì a strofinarmeli in faccia, cogliendomi alla sprovvista e bagnandomi un po’. Fu tenendomi il volto stretto scherzosamente fra le sue estremità che disse:

“E’ tutta la sera che aspettavi un momento del genere, di’ la verità… Non ti sembra vero di averli in faccia, i miei piedini che ti fanno impazzire.”

Ci guardammo per un attimo negli occhi e sicuramente quel che entrambi trovammo in fondo agli sguardi fu un’intensa complicità. La ragazza sussurrò:

“Credo che la mia sorpresa ti stia piacendo. Anche se non hai il coraggio di ammetterlo. In ogni caso, io mi sto divertendo da matti, e non mi farai smettere tanto facilmente…”

La sua minaccia aveva un sapore sensuale e malandrino. Sicuramente la mia eccitazione avrebbe di nuovo raggiunto vertici clamorosi, se Angela non avesse aggiunto, subito dopo quelle parole:

“Adesso riporta da bravo la conca in bagno, perché io devo fare una telefonata; indovina a chi! Sì, l’hai capito: ad Alessio. Gli dirò quanto mi sto annoiando senza di lui. Peccato che invece lui non sappia quanto mi sto divertendo col mio bravo professore, che mi lava e mi massaggia i piedi, e che gira tutto nudo per casa, facendomi bagnare con lo spettacolo del suo bel birillo tutto duro…”

Rise di gusto, con una punta di malignità, e continuò:

“Se lo sapesse, immagino che ci rimarrebbe un po’ male, non credi? Voi uomini siete tutti possessivi, ma stupidi, e non capite che più tentate di opprimerci, e più noi ci prendiamo tutte le libertà di cui abbiamo bisogno.”

Per quanto fossi abituato a certe affermazioni di Angela, stavolta seppe sconvolgermi non poco: dalle sue parole trasparivano infatti una certa freddezza e una voglia di rivalsa che non comprendevo del tutto. Non riuscii a impedire che un brivido gelato mi percorresse la schiena. C’era davvero da rabbrividire, davanti alla sua impietosa determinazione. Eppure, per lei era anche un gioco, e lo si capì dalla risatina quasi infantile che fece immediatamente dopo.

“Io, poi, stai certa che non mi faccio mettere in gabbia da nessuno! Non &egrave ancora nato il fesso che può mettermi il bavaglio!” disse, con un’espressione fiera, mentre le asciugavo i piedi. “Sono sicura che quando fa le sue fottute tournée di qua e di là, trova sempre qualche puttanella disposta a entrare nel suo letto, e poi ha il coraggio di fare a me certe scenate di gelosia. Ma quanto siete stronzi, voi uomini! Ma chi credete di essere?” esclamò con livore.

Le baciai i piedi con molta tenerezza e con passione, cercando così di calmarla. La guardai in faccia; aveva ancora un’espressione nervosa, perché certamente pensava alle malefatte di Alessio. Aumentai quindi la mia dose di passione, sbaciucchiandole ripetutamente il collo della caviglia del piede destro. Come un ossesso, le riempii poi di caldi baci la pianta dell’altro piede. Osservai di nuovo i suoi occhi. Mi guardavano a loro volta con aria interrogativa. Non mi chiedevano niente e mi lasciavano fare. Le succhiai un alluce, continuando a osservare il suo sguardo. L’espressione del suo viso andò rilassandosi, e finalmente sospirò, più tranquilla.

Avvolsi di nuovo nell’asciugamano i piedi della ragazza e li strofinai con tutta la cura amorosa di cui ero capace. Di tanto in tanto, mi chinavo a schioccarle ancora qualche bacio intenso. Glieli accarezzai infine per sentire se erano proprio asciutti, e li cosparsi di talco. Mi sembrava di compiere un rito dolce, intimo, naturale e al tempo stesso peccaminoso.

“Ti piace sul serio essere qui con me, stasera?” mormorò ad un tratto la ragazza, sollevandomi il mento perché la guardassi ancora una volta negli occhi. Aveva ritrovato un po’ di dolcezza.

Annuii, e osai: “Vorrei esserci per sempre. Vorrei che tu lo capissi.”

Angela mi guardò per qualche istante, come assorta, e sorrise in modo enigmatico, senza rispondermi. Poi accennò ad alzarsi, dicendo:

“Bah, andiamo a fare questa benedetta telefonata, adesso!”

In quei momenti, pensavo a Eleonora: forse avrei dovuto telefonarle, così come Angela faceva col suo ragazzo. Ma ormai il rapporto con la mia ragazza aveva imboccato una strada stretta e impervia, e non avevo idea di come riportarlo sulla via maestra, in mezzo al sole – e forse non ne avevo nemmeno più voglia. Non avrei saputo cosa dirle, quella sera. No, ormai era Angela che io desideravo: e se ero in quella villa, con lei, accettando le regole del suo gioco, era perché speravo di convincerla, con la mia dedizione, ad accorgersi dei miei veri sentimenti, e ad accettarli. Era con lei che io volevo percorrere la via maestra, in mezzo alla luce.

Attesi che avesse finito di parlare col suo ragazzo, poi mi avvicinai a lei e le chiesi che cosa avesse in mente per la serata.

“Che cosa vuoi che abbia in mente?” replicò. “Ora si va a nanna: sono stanca, dopo una giornata così.”

“Credevo che avremmo fatto… qualcosa” insistei, piuttosto deluso.

“Mi pare che abbiamo fatto abbastanza, per oggi. A te non basta mai, eh, professore?”

“Mi hai dato solo qualche contentino! Ti sembra giusto?”

“Alt!” mi ammonì. “Mi sembra di ricordare che in bagno abbiamo fatto un discorsetto, noi due. E mi sembra pure di ricordare che ti ho messo a terra, e avendo perso, tu ti sei impegnato a non protestare più. Non &egrave così? Rispondi!”

Dovetti annuire.

“E allora, perché stai protestando, adesso? Vuol dire che non stai ai patti?” fece Angela, guardandomi con aria seccata.

“Scusami” dissi, rinunciando alle mie pretese, e aggiungendo però: “Non posso almeno dormire insieme a te?”

La ragazza fece di no con la testa e disse:

“Ora ti faccio vedere dove dormirai. In una delle camere per gli ospiti. Il letto te lo sei anche rifatto, no?”

“Senti” provai a chiederle, “ma non posso, almeno durante la notte, indossare qualcosa, visto che la temperatura si abbassa? Ho paura che avrò un po’ di freddo. In macchina ho lasciato la mia borsa da viaggio, nella quale ho un pigiama. Se mi dài le chiavi…”

“Niente chiavi, carino! Non ci provare!”

“Allora non posso prendere il mio pigiama?”

Sbuffando, la ragazza rispose: “Vieni con me.”

Andammo in camera sua, e lei aprì un cassetto, dal quale estrasse una felpa di quelle per ragazze adolescenti (di grande taglia, s’intende), che aveva un vistoso cuore ricamato sul davanti.

“Ecco, ti posso dare questa, tanto non la metto più da quando avevo sedici anni” disse Angela.

“Ma stai scherzando?” replicai. “Non hai niente di meglio da darmi?”

“Non cominciare a fare polemica!” mi ammonì la ragazza. “Sicuramente ti starà abbastanza bene addosso: che altro vuoi?”

Capii che non c’era spazio per le proteste, e m’infilai la felpa senza più fiatare. Quel suo vecchio vestito, dalle spalle troppo larghe per me, e dalle maniche troppo lunghe, arrivava a coprirmi abbondantemente i genitali. Angela rise, vedendo l’effetto che la sua felpa faceva addosso a me, e commentò:

“Non ti lamentare sempre! Coperto così, non sentirai sicuramente freddo. In fondo &egrave quasi estate, siamo già a giugno…”

Impietosita, mi diede anche un suo paio di calzettoni sportivi di foggia maschile, da mettere ai piedi. C’era però un dettaglio: li aveva già indossati lei, quando era uscita per tagliare l’erba nel viale. Per questo motivo, cercai di glissare, rifiutando la sua generosa “offerta”. Ma lei sembrò offendersi.

“Cos’altro c’&egrave che non va?” fece nervosa. “Prima ti lamenti perché senti freddo, e adesso non vuoi le mie calze? Non sono ancora finiti, i tuoi capricci, per oggi?”

Con poche frasi, Angela era riuscita a farmi sentire nuovamente un ragazzino; e più provavo a risponderle, più mi cacciavo nella sua trappola. Mi rassegnai dunque a indossare le sue calze usate, e lei mi accompagnò poi fino alla mia stanza – al principio, ad esser sincero, non capii perché ci tenesse a farlo, ma la ragione mi fu chiara quando, dopo avermi dato la buonanotte, uscì dalla camera, chiudendo a chiave la porta dietro di sé. Rimasi senza parole.

“Non voglio che stanotte tu te ne vada girando per casa con strane idee in testa, o che ti venga la stupida voglia di filartela. Con te non si sa mai!” la sentii dire dietro la porta. Poi udii i suoi passi che si allontanavano.

‘Ma &egrave totalmente fuori di testa?’ pensai, buttandomi rabbioso sul letto.

Già… E come potevo prendermela con lei? Ero stato io a insistere per passare un paio di giorni in sua compagnia. Ed eccomi accontentato! Sapevo quello che mi avrebbe detto, se avessi protestato: ‘Le regole le conosci. Le hai cercate, volute quanto me. Di che ti lamenti?’.

Eppure, la mia ragione non tollerava la situazione; non potevo – mi suggeriva – starmene chiuso là dentro, ad accettare tutti i soprusi di quella ragazza. Stava abusando della mia bontà e del mio affetto per lei. Avrei dovuto bussare energicamente contro quella porta, chiamare Angela a gran voce, ingiungendole di aprire e di ridarmi i miei vestiti; e, se era il caso, avrei anche dovuto ingegnarmi per sfondarla, quella maledetta porta!

Invece no: mentre il mio pensiero immaginava quel gran trambusto, io rimanevo rassegnato sul mio letto, le mani dietro la testa, gli occhi al soffitto. Non avrei risolto niente con la rabbia e le minacce. Lungo quella strada, avrei perso sempre la battaglia. Se davvero volevo uscire da quella situazione, non dovevo fare altro che allontanarmi per sempre da quel posto, se non addirittura da quella città, e dimenticare Angela. Ma era questo ciò che io volevo? Veramente?

No, Angela non mi voleva male, dopotutto. Lo sapevo. Per lei, quello era un gioco: lo diceva apertamente; e si divertiva a farlo con tutta la gioiosa energia dei suoi vent’anni ormai quasi compiuti. Di che cosa dovevo aver paura? Quella porta si sarebbe riaperta, al più tardi la mattina dopo. Sì, Angela mi aveva anche schiaffeggiato e malmenato, in qualche occasione, però io me l’ero cercata; e poi, tutti i giochi che si rispettino vanno giocati con serietà e convinzione, come se ne andasse della nostra stessa vita.

Ma il mio cuore barava un po’, e in fondo non poteva esser certo che le cose stessero proprio così. Non potevo essere sicuro che la porta si sarebbe riaperta. Mentre accarezzavo questo pensiero leggermente inquietante, notai che mi stava tornando l’eccitazione, proprio quando meno me l’aspettavo. Meccanismi della mente! L’idea di avere addosso qualcosa di suo mi suscitava pensieri incontrollabili; indossare le calze che lei aveva indossato sino a qualche ora prima, non mi metteva più in imbarazzo, nel buio discreto di quella stanza; anzi stimolava i miei desideri più nascosti, fino a farmi pensare intensamente alla sua presenza, alla voce calma e ferma con la quale mi aveva indotto a capitolare ancora una volta, quella sera; al suo profumo. Avrei voluto che fosse lì e che si lasciasse accarezzare dappertutto; mi sarebbe bastato quel contatto, per andare in estasi: lo sentivo.

A poco a poco sentii crescere un’erezione, ed ero contento che la passione mi facesse ancora e sempre quell’effetto; lasciai scivolare una mano verso il pube, e le feci sfiorare i genitali, per appropriarmi di quel desiderio, per spingerlo sino all’estremo limite, per consentirgli di darmi tutto il piacere che prometteva.

Ma pensai che non sarebbe stato opportuno che il mio seme lasciasse qualche traccia sul letto o – peggio – sulla felpa di Angela: ero convinto che in qualche modo se ne sarebbe accorta, e che me l’avrebbe fatta pagare. Così, lasciai lentamente assopire il desiderio, sperando che il giorno successivo avrei avuto modo di soddisfarlo.

*

Non l’avevo sentita entrare nella stanza, né avevo udito la chiave girare nella toppa. Doveva essere molto presto, comunque, quando Angela bussò sulla mia spalla, dicendo:

“Alzati, hai del lavoro da fare anche oggi. Hai dormito abbastanza, su!”

Per me non era ancora “abbastanza”: mi sentivo ancora stanco, anche perché quella notte dovevo essermi addormentato piuttosto tardi, dopo che la mia mente aveva vagato a lungo fra pensieri angosciosi e piacevoli. Nonostante la mia riluttanza, la ragazza aprì le persiane, e lasciò entrare le prime luci del giorno, costringendomi a stropicciarmi le palpebre. M’invitò ancora energicamente ad abbandonare il letto, e infine io non potetti far altro che obbedirle.

“Ma sai che ti sta proprio bene, quella mia felpa, addosso?” fece Angela, dandomi un’occhiata alquanto divertita. “Se vuoi, puoi tenertela.”

“No, non ci tengo proprio” bofonchiai, con la bocca ancora impastata dal sonno.

“Lo sai cosa ti aspetta oggi?”

“Immagino che sarà peggio di ieri” feci con amara ironia.

“Prima di tutto, devi preparare la colazione; poi laverai la cucina; quindi staccherai le tende, perché ho notato che sono un po’ sporche, e le metterai a lavare. Dopodiché, laverai anche i vetri di tutte le finestre e darai una pulita a tutti i tappeti…”

“Ecco fatto, mi sento Cenerentola” commentai, interrompendola.

“Ti lamenti? Non sai quello che farò io, oggi. Mi occuperò dell’orto, e non sarà un affare da poco, a quello che ho visto.”

“Già: io sempre in casa, ad ammuffire, e tu a prendere il sole, là fuori…”

“Beh, avanti, basta: il tuo quarto d’ora di lamentele &egrave finito; adesso vai in cucina!”

Il tono di Angela era sbrigativo. Trovavo ingiusto il suo comportamento, ma non avevo assolutamente le forze per contestarla, e così filai dritto giù, a preparare la colazione per entrambi. Stavo proprio per versare il caff&egrave appena fatto nelle tazze, quando sentii che Angela mi chiamava, dal piano di sopra. Salendo le scale, le chiesi a gran voce cosa volesse, e lei mi rispose semplicemente di raggiungerla in bagno. Quando vi entrai, sentii un certo tepore: la ragazza si era da poco fatta la doccia, e appena mi vide, mi disse di portarle un asciugamano pulito, dalla sua stanza. Tornai, recando tra le mani un grande asciugamano bianco, e Angela mi fece:

“Asciugami, dài: che aspetti?”

La guardai un attimo perplesso: non mi aspettavo una simile richiesta. Tuttavia, non mi dispiaceva afferrare quell’occasione per sfiorare il suo corpo, e quindi mi avvicinai a lei e cominciai a strofinarle addosso quel panno morbido e lindo. Angela però mi sgridò:

“Ma perché sei così moscio, stamattina? Strofina più energicamente, se no stiamo qui fino a stasera!”

In realtà, io stavo muovendo lentamente le mie mani, perché desideravo prolungare il più possibile quei momenti; ma chiaramente, Angela era di diverso avviso. Le stavo asciugando la schiena, quando inavvertitamente – o forse spinto dal mio subconscio – con la mano nuda le sfiorai il solco fra le natiche.

“Ah, andiamo bene, professore!” esclamò la ragazza. “Già a quest’ora sei pieno dei tuoi soliti pensieri?”

Le spiegai che non l’avevo fatto apposta, e lei replicò minacciosa:

“Fallo un’altra volta e poi vedrai cosa ti capita! Caschi proprio male, guarda: oggi non mi sono alzata con l’umore facile.”

A quel punto, non riuscii a trattenermi dal commentare:

“Vuoi dire che oggi dovrò soltanto sfacchinare? E’ per questo che io sono qui?”

Angela sospirò nervosamente e disse:

“Ti ho avvisato, prof: oggi non mi provocare.”

“Ma allora perché mi hai fatto venire qui dentro? Perché vuoi che io ti veda nuda, e che senta sotto questo asciugamano le forme del tuo corpo, se sai quanto ti desidero? Perché mi provochi così e poi non vuoi farti nemmeno sfiorare con un dito?”

“Oggi si gioca così. Il mio umore &egrave questo e io lo seguo. E tu ti adegui. Okay?”

“Questa non &egrave una risposta” obiettai, con voce mite.

Angela si voltò e mi squadrò severa per un secondo, senza dir niente; poi mise una mano sotto il mio mento, e me lo spinse, lentamente ma fermamente, in su, finché io non fissai il mio sguardo nel suo.

“Allora sai cosa ti dico, adesso?” fece, con tono calmo ma certamente non accomodante. “Che mi vai a prendere anche i vestiti, e che poi me li metti addosso, compresi gli stivali. E che la smetti subito di fare i capricci, altrimenti te ne faccio pentire.”

Trovai sul letto di Angela gli abiti che la ragazza aveva scelto d’indossare quella mattina: mutandine nere di pizzo, una maglietta gialla a maniche corte e una gonna di jeans, un po’ più lunga di quelle che lei portava di solito – e che comunque le arrivava appena alle ginocchia. Quando tornai in bagno, lei era lì, seduta su uno sgabello, che mi attendeva. Senza dir niente, mi avvicinai alla ragazza e le feci capire di volerle infilare la maglietta. Angela, anche lei senza dir parola, alzò le braccia per agevolarmi il compito. Le feci scivolare la maglietta lungo il busto, e gliela sistemai per bene; nel far questo, sfiorai più volte il suo corpo con le falangi; la guardai negli occhi, preoccupato per una sua eventuale reazione; ma la ragazza mi fece capire che era tutto a posto. Poi m’inginocchiai e accostai le mutandine ai suoi piedi; anche stavolta Angela collaborò, sollevando le gambe per darmi modo di infilarle l’indumento intimo. Non potei nemmeno questa volta fare a meno di sfiorarle con le dita il corpo – o più precisamente le gambe – mentre facevo scivolare le mutandine verso il suo bacino. La sua pelle liscia e morbida, sotto la quale si sentivano però muscoli tonici, non poteva lasciarmi indifferente, e un brivido di piacere fece udire la sua eco lungo i sentieri delle mie percezioni.

Sicuramente la ragazza era conscia delle sensazioni che provocava, ma sembrava rimanere indifferente alle mie emozioni; o meglio, sembrava aspettarmi al varco: una mia parola di troppo, o una mossa audacemente improvvida, e la sua reazione non benevola si sarebbe immediatamente scatenata. Lo sentivo, lo sapevo, e dunque stavo ben attento a non darle alcun pretesto per dure rappresaglie.

Quando le mie mani ebbero condotto le mutandine sino alla metà delle sue cosce, la ragazza si alzò lentamente, per permettermi di portare a termine la mia impresa; trattenni il respiro, per evitare di farmi prendere dall’emozione, mentre le mie mani compivano l’ultima parte del tragitto. Si udiva, nel silenzio teso della stanza, soltanto il soave rumore della stoffa che strisciava sulla pelle. Pochi secondi durò quel breve viaggio lungo la parte superiore delle sue cosce, ma mi parvero sospesi sull’eternità; nel momento in cui le mutandine ebbero finalmente raggiunto la loro posizione canonica, sentii un breve sospiro della ragazza, che non sapevo come interpretare. Compiacimento o disappunto?

Non ebbi molto tempo per rifletterci, perché poco dopo udii Angela sussurrarmi:

“Sistemale meglio…”

La tortura non era dunque affatto finita; e dal tono della sua voce, potevo arguire che lei ci stesse prendendo gusto. Portai le dita ai fianchi delle mutandine, insinuandole tra la stoffa di queste e la pelle della ragazza; tirai l’indumento leggermente su, poi spostai le dita verso la parte posteriore, sfiorando le natiche di Angela, mentre ripetevo lo stesso movimento verso l’alto, per sistemarle anche lì adeguatamente le mutandine. Udii un altro sospiro, breve come il precedente, ma più profondo: con tutta probabilità, si trattava di una manifestazione di piacere, ma non potevo esserne certo. E in mancanza di certezze, dovevo continuare a contenermi. Ma l’eccitazione la provavo, eccome!

Intravidi sul volto della ragazza un mezzo sorriso: voleva scrutare le mie reazioni, capire fino a che punto sapessi contenermi. Sollevò prima un piede, poi l’altro, permettendomi di infilarle la gonna di jeans; ma mentre le mie mani erano ferme all’altezza delle sue ginocchia, non riuscii più a trattenermi, avvicinai rapido le labbra alla sua coscia destra e gliela baciai con trasporto. Rivolsi poi gli occhi al suo viso, per spiare le sue reazioni: aveva ancora il suo mezzo sorriso e annuiva sorniona.

Cominciai quindi a baciarle le gambe follemente, quasi senza riprendere fiato; lasciai ricadere la gonna sulle sue caviglie, e la mia bocca ne seguì il percorso fin giù; poi risalì rapida, finché non raggiunse l’inguine di Angela. A quel punto, la ragazza iniziò a gemere e, infilandomi una mano tra i capelli, mi compresse il volto contro quella zona del suo corpo, inducendomi ad insistere coi baci.

“Ogni scusa &egrave buona per te, vero, professore?” mormorò Angela, ma il suo tono, nonostante le apparenze, era benevolo e grato.

Le abbracciai le gambe e cominciai ad alternare vorticosamente baci voluttuosi e leccatine. Ad un tratto, la ragazza tolse la mano dalla mia nuca, e mi lasciò nuovamente libero di muovermi; mi chinai quindi rapidamente e iniziai a baciarle, una per una, le dita dei piedi, per passare poi al dorso e infine alle caviglie. Sentendo il gradimento di Angela, una speranza si accese in me, e risalii pian piano la china, finché mi trovai con la bocca all’altezza del suo pube. Appoggiai le labbra sul suo sesso, velato dalle sottili mutandine, e feci una leggera pressione con la bocca, mentre glielo baciavo. Angela sussultò, in preda al piacere.

Incoraggiato, mi sollevai un altro po’ e le regalai sul ventre, proprio all’altezza dell’ombelico, un lungo bacio con risucchio. La ragazza sembrò piacevolmente stupita, e mi passò teneramente le dita fra i capelli. Pensai che forse era la volta buona, e, sollevandole la maglietta, continuai a inerpicarmi con la bocca lungo il suo torace. Proprio mentre stavo per raggiungere il seno, però, Angela mi bloccò energicamente, ponendomi una mano sulla testa e spingendomi giù.

“Stai buono, professore!” esclamò. “Devi saperti accontentare!”

Ancora una volta spiazzato e alquanto indispettito dai suoi modi, che giudicavo inutilmente bruschi, replicai:

“Perché non ammetti che stava piacendo anche a te? Ma che cos’&egrave che ti trattiene, si può sapere?”

“Non siamo a scuola, qui. E quindi non accetto interrogazioni” disse seccamente la ragazza.

“Ma tu mi stai facendo impazzire, Angela: te ne rendi conto?” mormorai con intonazione quasi implorante.

“Stai perdendo tempo. Devi ancora finire di vestirmi, mi pare, e poi avrai tante altre cose da fare, stamattina. Ti conviene sbrigarti” fece lei, mostrandosi fredda.

Sapevo di non poter discutere ulteriormente, e mi rassegnai a far percorrere alla sua gonna il sentiero dalle caviglie al bacino. Angela si sedette poi di nuovo sullo sgabello e m’indicò un paio di stivali di gomma puliti, che si trovavano accanto alla porta del bagno. Glieli infilai ai piedi con tutta la delicatezza possibile, e approfittai dell’occasione per accarezzarle ancora una volta le bellissime gambe lisce e toniche.

“A proposito di vestirsi… Pensandoci bene, ho qualcosa da farti mettere, oggi” disse, proprio mentre finivo di sistemarle al piede il secondo stivale.

La guardai negli occhi, perplesso. C’erano sfrontatezza, irriverenza e ilarità, nel suo sguardo. Mi disse di seguirla, e l’accompagnai in camera sua, dove iniziò a rovistare nei cassetti; dopo un po’, con un sorriso trionfale e con un paio di capi di vestiario tra le mani, mi si avvicinò, dicendomi:

“Provati questi, vediamo come ti stanno.”

Guardai meglio ciò che mi stava porgendo, e mi resi conto che si trattava di un paio di mutandine da ragazza adolescente, con un tessuto a fiorellini su sfondo bianco, e di una t-shirt, anch’essa da liceale vezzosa, con pupazzetti e cuoricini assortiti stampigliati per ogni dove, e con i bordi di color rosa.

“Che roba &egrave?” le domandai sconcertato.

“E’ tutta roba mia, ma non me la metto più da almeno tre anni. Lavata e pulita, comunque. La t-shirt ti andrà un po’ larga, data la differenza di taglia fra noi, mentre le mutandine ricordo che quasi non mi entravano più, perché si erano ristrette, e quindi ti calzeranno a pennello.”

“Ma che stai dicendo? Va bene, finché si scherza e si gioca, ma ci sono certi limiti, sai?” reagii nervoso. “Non pretenderai che io ti assecondi anche in questo? Io ‘sta roba non me la metto! Anzi, sai che ti dico? Riprenditi pure questa!” aggiunsi, sfilandomi platealmente la felpa e gettandola sul suo letto.

Angela mi stette ad osservare con aria di divertita sfida; e quando mi fui denudato, tornò tranquillamente alla carica:

“Beh, ora che ti sei spogliato, fammi vedere come ti stanno le mutandine e la t-shirt.”

“Ma allora non hai capito niente di quello che ti ho detto? Preferisco piuttosto rimanere nudo, guarda!”

“Mi stai facendo perdere tempo” borbottò la ragazza, con un tono vagamente risentito, se non minaccioso.

Voleva forse arrivare ancora una volta ad una prova di forza? Non era giusto – mi dicevo – non poteva farmi questo…

“Senti, te lo chiedo per piacere” dissi, “questo no!”

“A casa mia, le regole le vuoi fare tu?” replicò Angela, facendo un passo verso di me; mi trattenni per dignità dall’indietreggiare impaurito.

“No, ma che discorsi, Angela? Ci sono cose che non mi va di fare, e tu devi capirlo.”

La ragazza scosse il capo: non voleva sentire ragioni.

“Ricominci a fare i capricci? Allora vuol dire che mi dài ragione” dichiarò: “ti comporti da ragazzina viziata e irragionevole, ed &egrave giusto che io ti tratti per quello che tu dimostri di essere veramente.”

Mi sembravano ragionamenti surreali, eppure non riuscivo a sottrarmi al fascino della loro strana logica; e soprattutto, nonostante le difese che la mia ragione tentava di innalzare, non riuscivo a scacciare un vago senso di eccitazione che cominciava a diffondersi per il mio corpo, prendendone pian piano possesso.

Angela fece un altro passo nella mia direzione, dicendo con voce calma:

“Da bravo, provati i vestiti che ti ho dato. Sono quelli più adatti a te; scommettiamo che trovo il modo di convincerti che ho ragione?”

Quest’ultima frase la pronunciò con le mani sui fianchi, mostrandosi pronta a sfidarmi e a battermi ancora una volta.

“Va bene, ti accontento, ho capito dove vuoi andare a parare” mormorai. “Però credo che adesso stai cominciando a esagerare…”

“Tu dici? Io sono convinta che tutto questo ti piace un casino; almeno quanto piace a me, prof.”

“Tu te ne stai approfittando, ecco la verità!”

“Oh, ma allora, se &egrave questo che pensi, ribellati!” mi provocò sarcasticamente la ragazza. “Se vuoi darmi una lezione, dammela; che aspetti? Io sono qui. E in fondo, sei o non sei un professore? Il tuo mestiere &egrave quello di dare lezioni agli altri…”

Dopo un attimo, ed uno sguardo ilare, aggiunse: “…Se ci riesci…”

Per qualche secondo presi in seria considerazione la possibilità di sfidarla un’ennesima volta, ma alla fine scelsi la saggia rassegnazione, anche perché l’eccitazione, che cominciava a superare gli argini di sicurezza, mi avrebbe sottratto parte delle energie; e scuotendo la testa, afferrai le mutandine coi fiorellini, che avevo abbandonato sul letto, e me le infilai in silenzio.

“Adesso sì che fai il bravo ragazzo!” la sentii esclamare; ma avevo gli occhi rivolti al pavimento, e non intendevo alzarli, per il momento. “L’hai capita che non ti conviene proprio farmi arrabbiare” aggiunse con tono più dolce.

“Io ti amo, Angela” sussurrai, proprio mentre in quelle mutandine da ragazza il mio sesso si stava risvegliando rabbiosamente. Non so perché pronunciai quella frase, proprio in un momento simile; forse volevo farle capire che c’era qualcosa che andava oltre il nostro gioco e che lei non poteva più ignorare, e forse speravo che la mia appassionata sincerità la inducesse a rinunciare al suo incosciente e provocante cinismo, che cominciava, con la sua coinvolgente e incontrollabile potenza sensuale, a spaventare seriamente la mia parte razionale.

“Ti amo, mi capisci?” ripetetti con tutta la passione che potevo; e Angela scoppiò a ridere.

“E io dovrei crederti?” disse, indicando, con un gesto volutamente irriverente, le vezzose mutandine che non riuscivano a contenere adeguatamente il gonfiore della mia virilità. “Pensi veramente di poter conquistare una ragazza, con quei bei fiorellini sul tuo pistolone?”

“Questa te la potevi risparmiare” feci, non nascondendo il mio nervosismo.

“E perché mai? Sei divertentissimo, professore!” replicò Angela, continuando a sbellicarsi dalle risate.

Non potevo più trattenermi, ed esclamai:

“Sei solo una cretina!”

Subito dopo queste parole, le voltai le spalle e feci per allontanarmi dalla stanza. Avevo appena fatto un paio di passi, quando mi sentii afferrato per un orecchio; la stretta si fece in un attimo dolorosa, e sentii, dietro di me, Angela che diceva, arrabbiatissima:

“Com’&egrave che mi hai chiamata?”

“Ahia! Ti prego, Angela, lasciami andare: mi fai male!”

“Voglio che ripeti quello che hai appena detto. Com’&egrave che mi hai chiamata?”

“Non l’ho fatto apposta: mi &egrave sfuggito. Mi avevi provocato, e io…”

“Ti pentirai di averlo detto!” esclamò la ragazza, con voce terribile.

“Dài, Angela, calmati: non &egrave successo niente; una parola può scappare” provai a giustificarmi. Ma lei non sembrava darmi retta, e, sempre tenendomi per un orecchio, mi trascinò nella mia stanza.

“Adesso piegati sul letto, con le mani così, avanti!” disse la ragazza, mollando finalmente la presa. Mi massaggiai l’orecchio, e provai a capire, osservandola, quanto profonda fosse la sua rabbia; e in effetti il suo sguardo mi fece paura. “Hai capito o no quello che ti ho detto?” aggiunse, notando che indugiavo.

“Angela, cerchiamo di ragionare… Farò quello che vuoi; vado immediatamente a fare i servizi che mi hai chiesto” dissi, cercando di rabbonirla.

“Ora devi solo stare zitto!” esclamò dura. “Zitto!” ripeté a voce più alta. “Ti devi pentire amaramente di aver detto quella parola, stronzo!”

“Ma ti ho già detto che non volevo…”

“Piegati sul letto, per la miseria, e fai silenzio!” esplose la ragazza, interrompendomi. Dal suo furore compresi che non era il caso di contraddirla ulteriormente. Feci perciò quanto mi aveva ordinato, piegandomi in avanti di novanta gradi, con le mani appoggiate sul letto, e rimasi poi in attesa.

Dopo qualche attimo, Angela, situata alle mie spalle, mi abbassò lentamente le mutandine; io feci per voltare la testa, in modo da tenere sott’occhio i suoi movimenti, ma lei m’ingiunse bruscamente di tenere la testa bassa e di non guardarla. Attesi ancora, col cuore che palpitava forte, e per lunghi attimi sembrò non accadere nulla; poi finalmente ricevetti un doloroso colpo sulle natiche, che mi colse di sorpresa e mi spaventò perfino, facendomi sobbalzare. Cacciai anche un breve urlo.

“Fai silenzio, gallina!” mi redarguì Angela: “Ti sto appena carezzando.”

Non potevo credere che stesse succedendo davvero: Angela mi stava sculacciando. E con vigore, anche. Le sue grandi mani erano abbastanza forti, come del resto già sapevo, ed erano capaci di fare parecchio male. I colpi successivi si susseguirono con discreta rapidità, e i miei glutei provarono un’atroce sofferenza; con gran fatica riuscii, almeno fino al sesto colpo, a vincere l’impulso di urlare nuovamente; ma il settimo fece superare, al dolore che mi tormentava, la soglia della sopportabilità, e così la mia voce manifestò ciò che il corpo provava, e subito dopo – prima che la ragazza mi colpisse ancora – la scongiurai di smettere, promettendole che avrei fatto tutto quel che lei mi avesse chiesto.

“Te l’ho sempre detto che ti comporti come una mocciosetta” commentò Angela velenosamente. “E proprio per questo hai bisogno di ricevere una bella lezione. Stai sicuro che dopo ti passerà per sempre la voglia di fare i capricci e di mancarmi di rispetto.”

Senza pietà, la ragazza continuò a sculacciarmi almeno per un altro minuto, che a me parve un’eternità. Alla fine del trattamento, avevo gli occhi pieni di lacrime. La mano di Angela passò quindi alla dolcezza e cominciò ad accarezzarmi le natiche.

“Non avresti dovuto farmi incazzare, lo sai” mormorò la ragazza. Detto questo, la sua mano s’insinuò fra le mie cosce, scivolò lungo lo scroto, e infine prese possesso della mia asta semieretta. “Ah, &egrave così?” commentò ironica e sensuale: “Allora &egrave come sospettavo: tu ci provavi gusto, porcellino…”

“Mi hai fatto male” tenni a precisare, imbarazzato e indispettito da ciò che la sua mano aveva appena scoperto.

“Certo, come no?” fece Angela. “Ma come la mettiamo con questo?” aggiunse, strizzandomi delicatamente il sesso, che andava gonfiandosi nella sua mano. “Non vorrai mica negare l’evidenza, ragazzo? E che evidenza!” ridacchiò, dando un’altra strizzata all’erezione ormai quasi matura.

“Anch’io mi stavo bagnando, sai?” mi sussurrò poi all’orecchio, sedendosi sul bordo del letto e ricominciando ad accarezzarmi maliziosamente l’asta. “Mi piaceva trattarti così. Mi piace farmi trascinare fino in fondo dai miei desideri più nascosti e segreti… e prima di conoscere te, non sospettavo neanche di averli.”

“Mi stai dicendo che ho creato un mostro?” mormorai.

“Può darsi, professore” rise la ragazza. “Diciamo che sono stata la tua migliore allieva, come mi hai già confessato una volta.”

Angela strofinò più volte il pollice sulla punta del mio membro, e stuzzicò la zona sensibile del filetto, facendo aumentare la mia eccitazione e le dimensioni del mio arnese.

“Ti prego, non torturarmi più” la implorai: “porta fino in fondo quel che hai cominciato.”

“No, professore, non te lo meriti. Devi stare in punizione; ma prima devo metterti un po’ di pomata sul culetto, che &egrave tutto rosso.”

Così dicendo, mi accarezzò beffardamente le natiche. Mi lasciò poi solo per qualche attimo e, appena fu di ritorno, mi spalmò effettivamente sul sedere qualcosa di fresco, che mi diede parecchio sollievo.

“Grazie” sussurrai, sinceramente grato.

“Comunque adesso rimarrai chiuso qua dentro finché non avrai meditato abbastanza su quello che hai fatto. Chiaro?” disse Angela.

Non mi voltai neppure; sentii soltanto la porta chiudersi, e poi lo scatto della chiave nella serratura. Mi lasciai andare a pancia in giù sul letto, senza coprirmi il sedere.

‘Speriamo che ci ripensi presto’ mi dissi, mentre sentivo l’erezione riprendere quota: bastava soltanto il ricordo della voce della ragazza per ridare vigore ai miei sensi. Ero legato a lei con tutto il mio essere, e nonostante ciò che era appena accaduto fra noi, non ero capace di staccarmene di mia iniziativa – anche se capivo bene che, se la storia fosse andata ancora avanti, avrei rischiato di giocarmi la carriera e la tranquillità. Solo Angela avrebbe forse potuto mettere fine al nostro gioco: i fili che lo reggevano erano completamente nelle sue mani. Io mi aspettavo che un giorno lei si stancasse – era nell’ordine delle cose – e benché questo mi facesse paura, una parte di me lo sperava. Perché il piacere &egrave un potere geloso e, se lo si lascia completamente libero di agire, elimina ogni altro possibile concorrente, dalla nostra vita. E forse non ero pronto o disposto a lasciargli fare interamente il suo lavoro…
Non fui lasciato troppo a lungo a meditare. Fortunatamente, dopo appena un’ora, la porta si riaprì, e Angela m’invitò caldamente a sbrigare le faccende che mi aveva assegnato quella mattina. Pretese assolutamente – anche per infliggermi un’ulteriore punizione – che tenessi addosso le sue mutandine e la t-shirt coi pupazzetti e i bordi rosa.

Era passato da un pezzo mezzogiorno quando, dopo avere sfacchinato tutta la mattinata, mi accinsi a preparare il pranzo. Ero piuttosto stanco e afflitto, ma preferivo non concentrarmi troppo su quel che provavo, né sugli indumenti che indossavo, altrimenti una strana mistura di abbattimento e libidine avrebbe preso il sopravvento nel mio animo, fin quasi a stordirmi.

A tavola, Angela dichiarò senza mezzi termini che la mia cucina faceva schifo, e che, a giudicare da quello che le avevo fatto mangiare, avrei potuto avere un brillante avvenire come avvelenatore. Sapevo che stava esagerando, per il solo piacere di umiliarmi, ma non la contraddissi.

“Stasera si esce” annunciò a un tratto.

“Ah sì?” feci stupito. “E dove si va?”

“Poi vedrai” rispose sibillinamente, e aggiunse: “Andremo con la tua macchina.”

Fu verso le sei di sera che, mentre spazzavo nel salone, mi comparve davanti vestita e agghindata per uscire, dicendomi:

“Adesso devi prepararti anche tu.”

“Ma che cosa mi metto? I miei vestiti ce li hai tu” le feci notare.

“Te li ho messi sul letto; però aspetta: prima che tu ti vesta, dobbiamo fare una cosa…”

La guardai negli occhi, per cercare di capire cosa avesse in mente; ma lei mi sorrise enigmatica e m’invitò a seguirla in bagno.

“Siediti su quello sgabello e aspetta” mi disse poi.

Feci quello che mi aveva chiesto, e la mia attesa non fu priva d’inquietudine: non mi era ancora ben chiaro dove volesse andare a parare – e ormai avevo capito che da lei potevo aspettarmi di tutto. La vidi a un certo punto tornare in bagno con un barattolino e un minuscolo pennello, e le chiesi che cosa stesse per fare.

“Devo abbellirti un po’, professore, altrimenti sei impresentabile” sorrise. La sua aria non era tuttavia rassicurante.

Quando finalmente, di lì a poco, capii che intendeva applicarmi lo smalto rosso alle unghie dei piedi, saltai letteralmente sullo sgabello.

“Non se ne parla nemmeno!” esclamai.

“Avanti, non fare storie! Non ricominciare a fare la ragazzina capricciosa, ché diventi insopportabile!”

“No, ma dico: sei impazzita? Mi vorresti far uscire conciato così?”

“Ma dài, ai piedi avrai le scarpe, no? Nessuno vedrà le tue unghie: lo sapremo solo tu e io…”

“Neanche per sogno! Sarei in imbarazzo per tutta la serata! Non potrei sopportare una cosa del genere!”

“Cosa vuoi, un’altra sculacciata, professore?” fu la minaccia di Angela. “Guarda che ti accontento subito…”

“Fai quello che vuoi: io così non vado da nessuna parte!” mi ostinai, come se ne andasse della mia vita.

“Allora sai che ti dico?” fece la ragazza. “Che, se fai ancora i capricci, va a finire che lo smalto te lo metto anche alle unghie delle mani. Tanto sai che faccio come voglio.”

Sapevo che aveva ragione, purtroppo; e così dovetti realisticamente rassegnarmi al male minore, e la implorai di risparmiarmi almeno le mani.

“Ecco, ora sì che ragioniamo: quando vuoi, sai essere un bravo ragazzo, prof…” disse Angela, con un largo sorriso di soddisfazione.

Quando ebbe compiuto la sua opera, stetti per un bel po’ a contemplarmi i piedi, sulle cui unghie spiccava quell’inedito color rosso acceso, come se non mi appartenessero: mi sentivo espropriato del mio stesso corpo – era una sensazione strana, inquietante, eppure anche altamente intrigante. Dovevo essere come voleva Angela, poiché nel gioco le avevo delegato ogni decisione. E questo pensiero riuscì ancora una volta a scaldarmi i sensi.

“Hai finito di ammirarti?” mi schernì la ragazza ad un tratto. “Adesso vatti a vestire, se no facciamo tardi.”

Le sorprese però non erano finite: quando entrai in camera mia, notai che sul letto, accanto alla mia maglietta e ai pantaloni, non c’erano le mie mutande né le mie calze: al loro posto, facevano bella mostra di sé un perizoma azzurro e un paio di autoreggenti scure. Chiamai immediatamente Angela, con voce adirata.

“E secondo te, io dovrei mettermi quella roba? Senti, Angela, tu stai abusando della mia pazienza. Io rivoglio i miei vestiti qui. Tutti. E subito!” esclamai, non appena la ragazza comparve sulla porta.

“Che cos’&egrave che vuoi? Non ho sentito bene” replicò lei, avvicinandosi a me con aria di sfida.

“Sono stufo delle tue minacce!” dissi, poiché mi sentivo come preso in trappola, e non trovavo altra via d’uscita che l’indignazione.

“Ti ho solo procurato l’intimo più adatto alla tua condizione” disse Angela, sfacciata, indicando le unghie dei miei piedi smaltate di fresco. “E tu, anziché ringraziarmi perché ti presto la mia lingerie, ti metti a fare ‘sto casino?”

“Non puoi trattarmi così. Ora basta” ribadii.

“Ora basta lo dico io!” tuonò la ragazza. “Ma chi credi di essere, per fare tante storie? Non sei altro che una mocciosetta, che si pavoneggia con le sue belle unghiette rosse e le sue mutande a fiorellini.”

Detto questo, Angela mi sghignazzò in faccia.

“Non &egrave questo che sei?” disse, mettendomi una mano sulla spalla.

“Ridammi i miei vestiti” feci io, ma con un tono di voce mite.

“Ora ti ridarò soltanto una cosa, visto che &egrave l’unico linguaggio che capisci” disse, e indicandomi il letto aggiunse imperiosamente: “Piegati come stamattina, avanti! Non sopporto la gente che mi si rivolge urlando.”

La sola prospettiva di ricevere altri colpi, sul mio sedere già martoriato, bastò a terrorizzarmi; mi buttai quindi in ginocchio ai suoi piedi e le abbracciai le gambe, con atteggiamento supplice.

“Ti prego, no! Quello no!” esclamai. “Ti chiedo scusa… Ti chiedo umilmente perdono!”

Sollevai piano lo sguardo per verificare l’espressione del suo viso, e notai che era pensoso, ma alquanto compiaciuto. Angela stava evidentemente chiedendosi se fosse il caso di soprassedere, considerandosi soddisfatta. Ritenni necessario insistere con le suppliche, e mi chinai a terra, come un antico cortigiano, fino a toccare con la bocca i suoi piedi, che erano esposti in tutto il loro candore nei suoi sandali infradito. Mi misi dunque a baciarle le adorate estremità con tutta la tenerezza di cui ero capace, mentre le mie mani stringevano le sue caviglie.

“Sono stato uno stupido. Ti chiedo ancora scusa. Ti supplico di perdonarmi” continuai a ripetere, fra un bacio e l’altro.

“Sono ancora molto arrabbiata con te” disse lei a un tratto, ma la sua voce non era nervosa. Raddoppiai le premure, sperando di farle passare del tutto l’arrabbiatura, e cominciai a leccarle le dita dei piedi, ad una ad una. Nel frattempo il mio uccello cominciava ad alzare la testa, sentendosi attratto dal richiamo irresistibile di quel becchime.

“Su, così, da bravo, proprio come un cagnolino” suggerì la ragazza, e sussurrò poco dopo, con più sensualità: “Sì, così: bravo, Hans. Bravo, cagnolino…”

Per farla contenta, cominciai ad ansimare come un cane, e le leccai per bene i piedi in tutta la loro estensione, con lunghe e ampie pennellate.

“Fammi sentire come abbai, Hans” fece a un tratto Angela.

Non potevo sottrarmi, se volevo il perdono; e così, mi sforzai di imitare come meglio potevo l’abbaiare di un cane.

“Questa fa schifo. Sai leccare molto meglio di come abbai, Hans” commentò sarcastica la ragazza.

“Scusami. Meglio di così non mi riesce” dissi realmente mortificato. “Spero che mi perdonerai lo stesso” aggiunsi con un tono umile.

“Vedremo” fece Angela. “Intanto datti da fare con quella lingua, se no…” – e qui lei abbassò la voce, rendendola un bisbiglio denso di eccitazione – “…potrebbe tornarmi improvvisamente la voglia di suonartele su quel bel culetto. Stai attento!”

Il mio uccello si era decisamente mutato in una lancia dritta che puntava verso l’alto, mostrando tutta l’intensità del piacere che attraversava ogni fibra del mio corpo; dopo l’ultimo incitamento di Angela, la mia lingua si spinse sulle sue caviglie e sui suoi talloni, e poi risalì per un tratto, fino alla metà dei suoi polpacci.

“Ma come sei bravo” sospirò la ragazza, chiaramente coinvolta dalle mie stimolazioni.

“Mi perdoni adesso?” le domandai.

“Forse. Ma prima voglio che tu faccia un’altra cosa…”

Alzai la testa e guardai Angela negli occhi, mentre le mie emozioni sembravano congelate, in attesa delle sue parole.

“Mettiti bene in ginocchio… Stai dritto, così!” mormorò finalmente, con tono fermo. “E adesso voglio che me lo strofini sulle gambe” aggiunse, con gli occhi lascivi fissi nei miei.

La richiesta mi stuzzicò immediatamente, e senza perdere tempo accostai il mio sesso duro e carico di voglia al suo polpaccio e cominciai a muovere lentamente il bacino, in modo da fare strusciare l’uccello su quella zona del suo corpo. Entrambi eravamo eccitatissimi; sentii i mormorii di gaudente approvazione di Angela, e la mia fantasia s’infuocò sempre più.

Appena accennai a prendere il mio bastone fra le mani, per muoverlo più agevolmente, la ragazza esclamò:

“No, niente mani! Non lo toccare!”

Voleva che mi dimenassi in maniera oscena e quasi disperata, agitandole contro la gamba il simbolo della mia smaniosa virilità: quello spettacolo sembrava accenderle i sensi come niente altro al mondo.

“Forse ti permetterò di liberarti della tua bella panna calda…” sussurrò, leccandosi le labbra. “Ne devi avere tanta, nelle tue palline. Non &egrave così?”

Annuii, senza perdermi lo spettacolo del suo sguardo malizioso e divertito.

“Guarda quanto sei porco… Ma guardati!” sussurrò ancora. “Vorrei tanto farti una foto, in questo momento, e mandarla a tutti i miei ex compagni di scuola… e anche al preside… per far sapere a tutti quello che fai in privato, con la tua allieva preferita. Che ne dici, prof?”

Le sue sensuali minacce mi raggelavano, ma alimentavano anche il mio desiderio; lanciai ad Angela uno sguardo preoccupato, e lei fece una risata dal sapore irridente.

“Chissà cosa penserebbero di te” disse la ragazza. “Il tuo nome circolerebbe in tutta la città… Diventeresti famoso, sai? E anch’io. Forse c’intervisterebbero alla TV: ci pensi?”

Sembrava crederci davvero nel dirlo, e aveva un entusiasmo ingenuo da ragazzina, che si mescolava in modo sorprendente con la sfrontatezza delle sue fantasie.

“E che cosa diresti alla TV?” le chiesi, cercando di stare al gioco, mentre continuavo a far ondeggiare ritmicamente e metodicamente il bacino e a strofinarle l’uccello sul polpaccio.

“Te lo puoi immaginare, prof!” rise lei. “Direi in mondovisione quanto sei bravo a leccarmi i piedi. E poi rivelerei che sei la mia puttanella ubbidiente. E magari potrei anche parlare di quelle mutande a fiori che ti piacciono tanto!”

Più rideva delle sue facezie, e più sembrava eccitarsi.

“Ti farei mettere in ginocchio così, a dire davanti a milioni di spettatori che sei disposto a tutto per me” continuò Angela, con voce sempre più sensuale. “Poi ti ordinerei di baciarmi i piedi, di lavarmeli e di leccarmeli, e tu lo faresti volentieri, lo so. Perché &egrave questo il tuo vero mestiere.”

“No, Angela, ti prego!” mormorai. “Non dire così!”

“Io dico quello che voglio!” reagì lei. “Non mi sfidare, perché sono anche capace di farlo davvero, quello che ho detto…”

“No, tu non devi farlo… Ti prego.”

“Stai zitto, e continua a strofinarmi il pipì sulla gamba. Lo sai bene che tutto quello che ho detto ti piace, perché ce l’hai durissimo. Non l’ho mai sentito così gonfio…”

Purtroppo non aveva tutti i torti: la mia erezione era particolarmente “carica”, e nessuna mia parola avrebbe potuto nascondere l’evidenza. Continuavo diligentemente a strofinargliela sul polpaccio; a un certo punto, aumentai l’ampiezza dei miei ondeggiamenti, in modo da coinvolgere entrambe le sue gambe in quel lubrico omaggio.

“Non sei altro che questo: un porco leccapiedi” insisté Angela. “Sei solo capace di farmelo sentire sulle gambe, come un cane. E devi anche ringraziarmi, perché te lo concedo. Per uno come te, &egrave un grande onore potermi strofinare addosso quel ridicolo salsicciotto.”

Dopo un po’, aggiunse:

“E allora? Non ti ho ancora sentito dirmi ‘Grazie’!”

“Grazie!” mormorai.

“Non basta: mi devi anche baciare il culo, per questo favore che ti faccio.”

Immediatamente, come se davvero non aspettassi altro, mi portai alle sue spalle, camminando sulle ginocchia, quindi le sollevai la gonna e le abbassai leggermente gli slip; poi schiacciai la bocca e il naso contro uno dei suoi carnosi glutei, e le diedi un sonoro bacio. Ripetei la stessa cosa con l’altra metà del suo sedere. Angela non commentò, e io non riuscivo a capire cosa desiderasse: forse voleva che insistessi con quell’intimo trattamento, e perciò continuai a darle baci profondi, sempre col naso affondato nelle sue rotondità posteriori.

“Okay, baciachiappe, adesso torna qui davanti a me e continua quel che stavi facendo” disse a un tratto la ragazza.

Ricominciai a farle sentire sulle gambe la durezza della mia asta, che nel frattempo non aveva affatto perso il suo vigore; dopo un po’, Angela sfilò il piede destro dal sandalo e lo avvicinò al mio uccello, premendomelo contro il ventre.

“Ora mi farai vedere quanta crema bianca sai far uscire da lì” sussurrò, accarezzandomi lentamente e sensualmente il sesso col piede, che le serviva anche a tenermelo schiacciato contro il corpo.

Io ero troppo preso dalle mie sensazioni per trovare un commento da fare, e chiusi gli occhi, sentendo che il traguardo si stava avvicinando. Lasciavo che il piede di Angela facesse ciò che voleva con la mia turgida virilità, lanciata verso la sua soddisfazione, che monopolizzava tutte le energie del mio corpo. Non pensavo ad altro che al piacere che la ragazza mi stava procurando. Il prezzo da pagare non m’interessava e non poteva, in quel momento, pretendere di insidiare i miei pensieri.

Fu solo quando stavo ormai per venire che mi resi conto del… rischio che correvo, data la posizione in cui Angela costringeva il mio uccello: feci quindi appena in tempo a voltare di lato la faccia, che sentii un fiotto del mio seme colpirmi sul collo e sulla guancia, e poi un altro, e un altro ancora. La ragazza rideva come una pazza, e muoveva col piede il mio membro di qua e di là, per riempirmi il più possibile del mio stesso sperma.

“Vedi quanta crema c’&egrave nella tua fontana! Non ti piace? Perché non ne bevi un po’?” mi disse, fra una risata e l’altra. “Oh, come sei bello, così. Dovresti guardarti allo specchio, prof” aggiunse poi, mentre il mio sesso lanciava i suoi ultimi colpi.

Continuò per un bel pezzo a ridere, indicando la mia faccia, mentre dalla guancia e dal petto imbrattati sentivo colare il mio seme.

“Il riso fa buon sangue, dicono” commentai un po’ seccato.

“Ma perché quella faccia? Non hai goduto?” mi stuzzicò Angela. “Guarda, sei incontentabile! Cos’altro devo fare, per te?”

Un altro attacco di risa le impedì di aggiungere altro. Indicò ancora il mio viso, e io scossi la testa, senza dir niente. Subito dopo andai a farmi una doccia.

*

Lei mi aspettava giù nel salone. Con mio grande stupore, si era cambiata; mi disse infatti che le era venuta voglia di mettersi il suo abito da sera scuro, che sul davanti aveva un’ampia scollatura, la quale lasciava ampiamente intravedere il solco tra i seni – neanche a dirlo, inoltre, nella parte inferiore si fermava appena a metà coscia, lasciandole quindi scoperte le stupende gambe. Ai piedi si era messa un paio di scarpe a punta con tacco alto, che accentuavano la differenza di statura fra noi.

“Sei elegantissima” mormorai ammirato, non essendo del resto abituato a vederle addosso mise impegnative. “Immagino che andremo in un posto serio, stasera.”

Angela annuì e mi chiese:

“Ti sei messo la mia lingerie?”

Abbassai la testa e feci segno di sì. Ero sicuro che per tutta la sera avrei provato quel senso d’imbarazzo.

“Fammi un po’ vedere” disse. “Di te non mi fido troppo…”

E infatti mi si avvicinò, e chinandosi quanto bastava, mi sbottonò i calzoni e me li abbassò un po’, osservando compiaciuta il suo perizoma che a malapena conteneva i miei genitali. Lasciò poi cadere i miei pantaloni sino alle caviglie e constatò che avevo indossato anche le sue autoreggenti. Sorrise, accorgendosi che non me le ero sistemate bene, e me le tirò un po’ più su.

“Mettiti a posto i pantaloni e andiamo” disse poi, voltandomi le spalle e avviandosi verso la porta.

Fuori, la luce dolce dell’imbrunire carezzava già gli alberi e le cose. Non potetti però pensare troppo a lungo alla luce ed ai colori, perché l’atteggiamento di Angela mi allarmò: la vidi infatti procedere sicura verso lo sportello del posto di guida della mia auto.

“Che stai facendo?” le domandai nervoso, allungando il passo.

“Prendiamo la tua macchina, no?” fece lei, come se parlasse di una cosa scontata.

“Va bene, ma… dammi le chiavi” le dissi.

“Che bisogno c’&egrave, scusa?” replicò Angela, facendo spallucce, e dando al telecomando l’ordine di apertura degli sportelli.

Dopo il “bip” regolamentare, il mio nervosismo aumentò, e mi avvicinai a lei, insistendo:

“Dammi le chiavi, per favore!”

“Ma perché? Cosa te ne devi fare?”

“Come sarebbe a dire? Devo guidare, no?”

Angela mi squadrò con un mezzo sorriso e scosse la testa.

“Vatti a sedere al tuo posto” disse, come se cercasse di contenersi davanti ad un ragazzino indisciplinato, e m’indicò il posto accanto al guidatore.

“No, senti, Angela, questo no!” esclamai. “La macchina mia la guido solo io!”

“Ricominciamo a fare i capricci?” disse la ragazza, visibilmente seccata, con una mano sul fianco.

“Ma la macchina &egrave mia…” ribadii.

Angela richiuse lo sportello che aveva già aperto e si diresse verso la cancellata dell’orto. Non capivo bene cosa intendesse fare; ad ogni modo la seguii.

“Facciamo così” disse, appena l’ebbi raggiunta: “se riesci a riprenderti le chiavi, guiderai tu; altrimenti guiderò io. Ci stai?”

In realtà, come al solito, non avevo scelta, e accettai la sfida. La ragazza, sorridendo, agitò la mano nella quale teneva il mazzo di chiavi e lo fece tintinnare; non appena mi avvicinai a lei, per cercare di riprendermelo, Angela esclamò: “Ohplà!” e sollevò il braccio verso il cielo; io feci di tutto per cercare di raggiungere la sua mano, ma non era alla mia portata; e neppure sollevandomi in punta di piedi ottenni nulla. Angela, divertita, commentò:

“Eh, fra qualche anno, se mangi un po’ di più, ce la puoi fare, ciccino mio!”

Così dicendo, mi diede, con la mano libera, un buffetto sulla guancia. Il suo comportamento irridente m’indusse a tentare ancora; mi rimisi in punta di piedi e allungai la mano più in alto che potei, e la ragazza, per nulla preoccupata, rise agitando il mazzo di chiavi, che rimaneva ancora inesorabilmente lontano – troppo lontano – dalla punta delle mie dita. Spiccai allora un salto, tentando anche di cogliere la ragazza di sorpresa, ma non ci fu verso: per quanto in alto riuscissi ad arrivare saltando, le chiavi rimanevano sempre irraggiungibili, in cima al suo lungo braccio. In quei momenti provai una grande rabbia, anche perché Angela riusciva davvero a farmi sentire un ragazzetto incapace di competere con un adulto; e le sue risate di scherno non miglioravano certamente il mio stato d’animo.

“Oh, ma perché ti ostini così?” arrivò a dire. “Se non ce la fai a prenderle, vuol dire che sei troppo piccolo. E non lo sai che i bambini come te non possono guidare la macchina?”

“Piantala, Angela, non sei divertente!” esclamai, mentre continuavo a spiccare inutili salti verso il mazzo di chiavi.

Rendendosi però conto di avere toccato un nervo scoperto, la ragazza ci prese gusto e continuò a bersagliarmi con le sue prese in giro. Ad un certo punto, non ne potetti più, e istintivamente le diedi una spinta. Presa evidentemente alla sprovvista – e forse anche a causa dei suoi tacchi alti – Angela perse l’equilibrio, e finì col sedere per terra; immediatamente mi lanciai verso di lei, che però, lesta, gettò le chiavi al di là delle sbarre della cancellata.

“Che cosa hai fatto? E adesso?” gridai, gettandomi a peso morto sul suo corpo. Ci trovammo così, lei supina sotto di me, e io disteso prono sopra di lei. Ci guardammo per un attimo negli occhi; i suoi non smettevano di essere irridenti.

“Adesso tocca a me darti qualche schiaffone” mormorai, sentendomi in diritto di prendermi la mia rivincita. Angela però sembrava estremamente calma, per nulla preoccupata dalla mia minaccia. “Mi hai sentito?” insistei.

“Certo che ti ho sentito” rispose la ragazza. “E allora? Quand’&egrave che cominci? Sto aspettando…”

Il suo tono era spavaldo, sarcastico. Sentivo di non potermi più tirare indietro: non avrei sopportato la sua derisione. Eppure non riuscivo a fare ciò che avevo annunciato. La paura di dover subire la tremenda vendetta della ragazza mi paralizzava.

“Mi stai sfidando, Angela?”

La guardai dritto negli occhi, cercando di ritrovare la forza d’animo, e lei sostenne il mio sguardo.

“Sì, e allora? Qual &egrave il problema? Hai perso per strada le palle?” mormorò.

“E’ che posso farti molto male, se voglio…”

“Ne sei proprio convinto?”

Detto questo, fissandomi intensamente con aria di sfida, Angela appoggiò le mani al suolo e, facendo leva con quelle e con i piedi, sollevò il proprio corpo e il mio. Vidi la sua faccia contrarsi per lo sforzo.

“Uno, due, tre!” esclamò con la voce alterata dalla fatica, e subito dopo si voltò di scatto da un lato, disarcionandomi. Rapidamente balzò in piedi e, spazzando con la mano la polvere dal suo vestito, mi disse: “Vediamo adesso come me li dài, questi schiaffi.”

“Non so come mi &egrave passato per la testa” provai a giustificarmi, vedendola di nuovo torreggiare su me, ancora steso per terra.

“Ma io sono a tua disposizione! Fatti sotto, che ci divertiamo!” m’incitò lei.

Di malavoglia mi rialzai e le andai incontro. La ragazza, con una rapida mossa, mi afferrò saldamente per i polsi e, avendo facilmente ragione dei miei tentativi di resisterle, mi spinse con forza fino a farmi finire con le spalle contro la cancellata. Quindi mi si avvicinò ulteriormente, sino a far aderire il suo corpo al mio, sempre tenendomi per i polsi. Mi ritrovai, in pratica, col naso al centro della sua scollatura, piazzato proprio nell’incavo fra le tette.

“Vuoi il gioco pesante anche stasera? Guarda che ti accontento, prof” sussurrò Angela, e la sua voce tradiva la sua rinascente eccitazione.

“Che vuoi farmi? Spezzarmi le braccia?” le domandai, sentendo che mi stava facendo male ai polsi.

“Se tu farai il bravo, non ti succederà niente” mormorò, e poi, premendo più forte il suo corpo contro il mio, aggiunse: “Ti piacciono le mie tette? Perché non me le lecchi?”

In effetti in quel momento respiravo il loro profumo, che sembrava riempirmi il cervello, e la tentazione di cedere al desiderio c’era; ma il fatto che lei me lo chiedesse in quel modo, torturandomi gli arti, m’indispettiva, e così mi mostrai recalcitrante.

“Hai sentito quello che ti ho detto?” insisté la ragazza, torcendomi ancor più i polsi. “Leccami, se non vuoi che mi arrabbi sul serio! L’hai voluta tu, questa sfida… Mi hai fatto anche sporcare il vestito, e adesso devi pagare.”

Le braccia mi facevano seriamente male, e capii di non avere scelta: temevo che Angela potesse procurarmi una slogatura, o anche qualcosa di peggio. Forse esageravo, ma probabilmente lei faceva affidamento proprio sulla mia paura.
Mi decisi quindi a tirar fuori la lingua, e la insinuai nel profondo e delizioso canale fra i suoi seni, agitandola poi a più non posso. La ragazza emise un mugolio di soddisfazione e allentò la presa sui miei polsi. Fattomi audace, lasciai scivolare la lingua sulla parte superiore dei suoi carnosi e morbidi globi, quella che emergeva dalla scollatura, e poi infilai il guizzante serpentello della mia bocca tra il suo vestito e il seno, spingendolo poi lentamente più giù, sino a forzare la scollatura e a lambire il capezzolo. Non c’era neppure il reggiseno, quella sera, a sbarrarmi la strada: le sue tette erano abbastanza sode da affrontare la sfida di un abito come quello senza bisogno di sostegni. Questo pensiero accrebbe la mia eccitazione, e spinsi volentieri la lingua verso l’altra collina, e poi giù verso il capezzolo ancora intonso.

Angela sospirò beata e improvvisamente spinse in basso la mia mano sinistra, che teneva ancora per il polso, e la incollò al suo pube. Colto di sorpresa, sussultai, un po’ per il piacere che quella mossa mi provocava, e un po’ perché indispettito dal fatto che fosse lei a disporre delle mie mani. Ma non potevo sottrarle alla sua presa, e mi rassegnai a lasciargliele usare. Così, mentre la mia lingua continuava a viaggiare su e giù per le sue tette, la mia mano veniva mossa sapientemente da Angela, che se la strofinava lentamente sul vestito, all’altezza dei suoi genitali – e io ne sentivo vagamente le forme, ne intuivo il calore e la tensione.

“Adesso mi farai bagnare e dovrò cambiarmi le mutande. Sei il solito porco!” mi sussurrò la ragazza.

Poco dopo spostò la mia mano, portandola al di sotto del vestito, ad accarezzarle le cosce, e poi finalmente dentro gli slip, a contatto diretto con la sua passera. Il respiro per un attimo mi si bloccò, quando sentii sotto i polpastrelli i peli della sua intimità e poi le sue grandi labbra che si schiudevano lentamente al passaggio delle mie dita e che si facevano umide, suggerendo la loro voglia. Angela muoveva le mie dita al ritmo che desiderava, senza fretta, ma pigiandole con discreta intensità, perché stimolassero opportunamente il suo caldo frutto.

“Continua a leccare, maiale, non fermarti” mi disse, ormai chiaramente su di giri.

E io non mi fermai, mentre sentivo la mente scoppiare per le mille sensazioni piacevoli che provavo in quegli istanti, tra il profumo della sua pelle e del suo seno, le forme di questo che mi lambivano il viso, i suoi sospiri voluttuosi e il contatto con i suoi genitali che emettevano il loro succo di passione. Ad un tratto, Angela decise di fare uso anche della mia mano destra e se la portò sul sedere. Potetti dunque sentire al tatto anche le sue forme posteriori, sode e invitanti, che la ragazza mi costringeva a carezzare, secondo il ritmo e il modo da lei deciso. Si stava regalando, insomma, una stimolazione multipla, che sembrava piacerle immensamente, a giudicare dall’intensità crescente dei suoi mugolii.

Arrivò anche un momento in cui Angela cominciò ad utilizzare la mia mano sinistra per titillarsi il clitoride e i suoi gemiti si fecero più intensi. Di lì a poco mi accorsi che stava finalmente per venire, perché cominciò a muovere più rapidamente le mie mani. Di colpo, poi, me le lasciò andare e si aggrappò con entrambe le sue mani alla cancellata, pigiandomi con forza col suo corpo, sin quasi a schiacciarmi contro la cancellata stessa. La mia faccia affondò letteralmente nelle sue tette e cominciai a respirare a fatica, tanto che mi spaventai un po’; ma per fortuna non durò molto quella strana situazione, perché presto Angela fu scossa dall’orgasmo, in maniera particolarmente violenta, e le sue ondate si tramutarono in altrettante spinte che lei diede contro il mio corpo.

Si staccò finalmente da me, e vidi il suo volto ancora immerso in una sorta di beatitudine dei sensi, mentre il respiro le si faceva pian piano regolare.

“Sei stato bravo, questa volta” commentò sorridente; ma in fondo io non avevo fatto altro che lasciarmi usare, essere il suo docile strumento. “Adesso però rischio di dovermi fare un’altra doccia… Sono tutta sudata, e in più queste mutandine sono fradice” aggiunse, dirigendosi in casa.

“Ma ora come faremo a recuperare le chiavi della macchina? Con questa luce, non credo che nell’orto si riesca a vedere granché” le feci notare.

“Non ti preoccupare!” mi rispose tranquilla.

Infatti, dopo essersi data una rinfrescata ed essersi cambiata gli slip, ricomparve con un sorriso divertito e agitando in mano qualcosa.

“Le tue chiavi stanno qui” mi annunciò.

“Com’&egrave possibile? Non le avevi buttate nell’orto?”

“Macché, scemo! Era un bluff e tu ci sei cascato. Quello era un mazzo di vecchie chiavi inutili.”

Si avvicinò alla mia auto e mi lanciò uno sguardo significativo.

“Ti sei finalmente convinto che devo guidare io?” mi domandò.

La risposta non poteva che essere una sola, e senza dire altro le sorrisi rassicurante e mi sistemai sul sedile del passeggero.
Percorrevamo già da cinque minuti una strada che non conoscevo, quando finalmente ruppi il silenzio e le chiesi dove fossimo diretti.

“E’ un bel posto, deve per forza piacerti” mi disse semplicemente Angela. “Ci sono venuta coi miei amici, e qualche volta anche con i miei.”

Frattanto la strada continuava, e c’inoltravamo nella sera, con la luce del cielo che si faceva sempre più tenue. Di tanto in tanto, non potevo evitare di sbirciare le gambe della ragazza, quasi interamente scoperte, e specialmente quando lei, per pigiare i pedali, le muoveva, facendo talora guizzarne i muscoli, un simile spettacolo mi turbava piacevolmente. Angela dovette accorgersi delle mie occhiate, perché si voltò per un attimo a sorridermi con una certa aria soddisfatta, e poco dopo la sentii mormorare:

“Non ti lamenti più? Ti piace che stia guidando io, allora…”

Avrei voluto accarezzarle la coscia, ma non mi azzardavo a farlo, temendo una sua reazione poco amichevole. Mi distrassi dunque ad osservare il paesaggio, chiedendomi quando la macchina si sarebbe finalmente fermata. Giungemmo dopo qualche minuto in un borgo che io non conoscevo, e la ragazza mi annunciò che eravamo quasi arrivati. Rallentò, infatti, e accostò, davanti ad un edificio bianco a due piani.

“Che cos’&egrave?” le chiesi, appena fummo scesi dalla macchina.

“Un ristorantino. Si mangia benissimo, fidati; e fanno anche bella musica” disse Angela, invitandomi a seguirla.

L’interno era accogliente e curato; mi domandavo però quanto costasse una cena lì, e la ragazza mi prevenne, spiegandomi che i prezzi non erano poi così alti come si poteva immaginare. Un cameriere ci venne incontro e ci invitò gentilmente ad accomodarci a un piccolo tavolo con due coperti.

“Fra poco cominceranno a suonare” disse Angela, indicando una pedana in fondo alla sala, sulla quale si trovavano un pianoforte verticale e una batteria. “Allora, che ne dici della serata? Promette bene?” aggiunse poi, dopo avermi dato il tempo di guardarmi un po’ attorno. La sua voce si era fatta premurosa. La guardai negli occhi, cercando di capire il suo umore.

“Qualcosa non va?” mi chiese, notando il mio sguardo.

“No, no: anzi, mi fa piacere che tu adesso sia più tranquilla di… poco fa” ammisi.

“E a me fa piacere essere con te” disse la ragazza, toccandomi una mano.

Il suo comportamento gentile, e perfino romantico, mi riempì di soddisfazione e speranza; ma una parte di me continuava a chiedersi, inquieta, che cosa ci fosse sotto. Fu in quel momento che mi ricordai improvvisamente della biancheria intima che indossavo, e abbassai lo sguardo, sicuramente arrossendo.

“Sei un po’ teso” notò Angela.

“Vorrei vedere te” dissi. “Non mi sento certamente a mio agio, con la roba che porto addosso.”

La ragazza, divertita, mi fece segno di tacere, mettendosi l’indice davanti al naso, e commentando:

“Vuoi farlo sapere a tutti? Guarda, lo dico per te, perché per me, sai…”

Fece spallucce e mi lanciò uno sguardo malizioso, se non addirittura sottilmente maligno.

“Va bene, lasciamo perdere: cercherò di pensarci il meno possibile” dissi.

“Eh, lo so, sarà difficile… ma tu provaci” fece lei, senza nascondere il piacere che provava nel vivere quella situazione e nel constatare il mio disagio.

Tornò il cameriere, e con un fare molto gentile ci chiese se volevamo ordinare qualcosa; Angela, senza neppure interpellarmi, ordinò una bottiglia di vino, due antipasti e due primi tipici a base di pesce.

“Potevi almeno darmi il tempo di guardare nel menù” feci, risentito, non appena il cameriere si fu allontanato.

“Lascia fare, tu non te ne intendi. E poi hai perso la tua ennesima sfida con me: l’hai già dimenticato? Eppure &egrave successo soltanto tre quarti d’ora fa” replicò Angela.

“Che c’entra la sfida? Adesso non sono nemmeno più libero di mangiare quello che voglio?”

“Stai zitto e non cominciare a far polemiche!” esclamò la ragazza, a bassa voce ma con un tono deciso. Temendo che potesse fare scenate e ridicolizzarmi in pubblico, preferii non insistere.

Nel frattempo, il locale, che quando eravamo entrati noi era ancora semivuoto, stava cominciando a riempirsi di clienti. Ad un tratto, vidi il volto di Angela illuminarsi: sembrava che avesse visto entrare qualcuno che conosceva. Infatti si alzò rapidamente, e senza dirmi nulla andò a raggiungere un gruppo di giovani che si trovavano ancora accanto alla porta, in cerca di un tavolo. Poco dopo, Angela condusse il gruppo verso il nostro tavolo, e mi presentò.

“Questo &egrave un mio caro amico, un professore che mi ha aiutato moltissimo” le sentii dire. “Non so come avrei fatto senza di lui, quest’anno. A proposito, lo sapete che mi sono diplomata, finalmente? E in gran parte &egrave proprio merito suo.”

Vidi gli occhi di tutti i suoi amici puntati nella mia direzione, e mi sentii in forte imbarazzo, anche se mi faceva piacere quel che Angela aveva appena detto di me. Mi aveva piacevolmente stupito, in particolare, lo sguardo fiero col quale aveva pronunciato l’elogio: mi aveva letteralmente scaldato il cuore.

Mi alzai in piedi e strinsi le mani degli amici di Angela, tutti all’incirca suoi coetanei; di colpo, però, avvenne qualcosa che mi turbò: mi sembrò di notare che un paio di loro osservasse insistentemente le mie caviglie. Istintivamente, abbassai per un attimo lo sguardo, per verificare rapidamente se per caso – tra il bordo inferiore dei pantaloni e le scarpe – non s’intravedessero le calze che Angela mi aveva fatto indossare. I miei pantaloni, fortunatamente, erano abbastanza lunghi e coprivano interamente le gambe, senza lasciare alcuno spiraglio al di sopra delle scarpe: notai che infatti non si vedevano le calze, e mi rassicurai. Tuttavia, quando tornai a sedermi, mi sentii di nuovo inquieto: e se per un attimo, nonostante ogni precauzione, quei maledetti pantaloni, per una ragione qualunque, si erano sollevati senza che me ne accorgessi, e avevano dato modo a quei ragazzi di sbirciare attoniti? Questo mi domandavo, e nessun ragionamento bastava a rassicurarmi. Non si spiegava, in effetti, lo sguardo stranito di quei due ragazzi: dovevano per forza aver visto qualcosa…

Angela finalmente smise di chiacchierare coi suoi amici e prese di nuovo posto davanti a me. Proprio in quel momento il cameriere ci portò gli antipasti. Io però non riuscivo a tranquillizzarmi e comunicai alla ragazza i miei dubbi.

“Te l’avevo detto che per te sarebbe stata comunque una seratina difficile… e piccante al punto giusto” fu il commento di Angela.

“Non scherzare, per favore! Sto rischiando seriamente di rovinare la mia reputazione, stasera. E tu non te ne rendi conto!”

“Sei tu che non riesci a pensare ad altro, e ti stai fissando su quelle calze. Non ti nascondo che la cosa, per me, ha un suo fascino.”

“Smettila, Angela! Non &egrave il momento. Sono veramente preoccupato…”

“Ma dài, piantala! Secondo me, sei tu che ti stai fissando: quelli là non hanno visto niente, perché non si vedeva niente, te lo posso assicurare.”

“Vorrei che fosse così… Però tu non hai notato quei loro sguardi.”

Angela mi guardò e la mia faccia preoccupata bastò a suscitare la sua ilarità. Le scappò infatti una risatina, che accompagnò con un commento:

“Stai diventando proprio paranoico…”

“Guardali bene, allora!” esclamai. “Non vedi che stanno parlottando, e si dànno di gomito? Che cosa vuol dire, questo, secondo te? Si stanno passando la voce, e ridono di me: capisci?”

“Paranoico: te l’ho detto” ribadì la ragazza, scuotendo la testa. “Perché dovrebbero parlare proprio di te, scusa? Io li conosco, sono ragazzi allegri e si dicono continuamente un sacco di sciocchezze e di battute, tanto per ridere. Non ti fissare, adesso, dài!”

“No, Angela, quelli se ne sono accorti: ne sono convinto.”

“Ma anche se fosse, di che ti preoccupi? Loro in realtà non sanno neanche chi sei. Non frequentano la tua scuola. Probabilmente non li rivedrai mai più in vita tua…”

“Non si può mai dire, Angela! Sono tuoi amici, sapranno quindi in che città vivi e che scuola hai frequentato, e se vogliono, possono risalire fino a me.”

“Oh, quanto la fai lunga!” sbuffò la ragazza. “Adesso sai che faccio? Vado da loro e gli chiedo se hanno notato le tue calze.”

La guardai terrorizzato. Angela si accorse del mio stato d’animo, e si divertì ad alimentarlo.

“Guarda che sono capace di farlo” insisté, accennando davvero ad alzarsi.

“No, ti prego!” dissi, prendendole una mano.

“E io invece glielo chiedo” fece, alzandosi.

“Ti supplico!” bisbigliai, facendomi piccolo piccolo sulla sedia.

“E tu che cosa mi dài, in cambio del mio silenzio?” disse, fissandomi negli occhi con un’espressione furba e trionfante che ormai conoscevo bene. E conoscevo anche la risposta giusta – l’unica possibile.

“Tutto, tutto quello che vuoi, naturalmente” mormorai, abbassando gli occhi.

“Ecco, così mi piaci, professore” disse la ragazza, dandomi due amichevoli pacche sulla mano. “Più tardi ti farò sapere qual &egrave il compenso che mi devi, in base a questo… piccolo patto.”

Stavo mangiando con poco appetito il primo piatto, perché ancora assorto nei miei pensieri, quando cominciò a farsi sentire la musica.

“Si balla!” esclamò gioiosa Angela.

La guardai supplichevole, perché di tutto avevo voglia, tranne che di ballare, in un momento come quello; e poi, avevo più che mai paura che un mio movimento brusco, durante la danza, potesse scoprirmi le caviglie; ma lei m’indirizzò uno sguardo severo, e mi ricordò sottovoce il “nostro ultimo patto”. Dovevo dunque essere disposto proprio a tutto: non c’era niente da fare…

Mi trascinò praticamente al centro della sala, fra altre coppie che cominciavano a dondolarsi e a scatenarsi. Dopo un paio di brani piuttosto ritmati, salì sul palco un cantante e, accompagnato soltanto dal piano e dal basso elettrico, cominciò a intonare uno slow americano. Immediatamente Angela mi mise le braccia intorno al collo e mi strinse a sé, incurante del mio imbarazzo, fin quasi a spiaccicarmi la faccia sulle tette, il naso dentro il dolce canale che le separava.

“Che fai?” sussurrai nervosamente. “Così ci guarderanno tutti, che razza di maniere? Ricordati che non siamo soli, qui…”

“Fregatene e rilassati!” fu la sua risposta. “Siamo qua per divertirci.”

“Ma io che figura ci faccio? E se qualcuno mi riconosce?”

“Piantala e ricordati del nostro patto! O te lo sei già scordato?”

Non riuscivo a lasciarmi andare, come avrei in fondo desiderato, e a godere del contatto del suo corpo e del profumo delle sue tette, che per la seconda volta, quella sera, riempiva le mie narici: questo almeno in un primo momento, perché poi, subentrata la rassegnazione, non pensai che a farmi invadere dalle piacevoli sensazioni che la vicinanza di Angela mi donava. Ad un certo momento, però, la ragazza mi strinse un po’ più forte, e cominciai a sentire la sua coscia che strisciava ripetutamente sul mio uccello.

“Angela, ti prego… vogliamo dare spettacolo?” le sussurrai allarmato.

Lei ridacchiò e mi accarezzò la nuca, con fare tenero e al tempo stesso sfottente.

“C’&egrave poco da ridere!” feci io. “Fra un po’ chiameranno la ‘buon costume’… o qualche fotoreporter.”

“Esagerato! Ma perché non ti rilassi? Goditi in pace la serata e non stare sempre a protestare” disse la ragazza, continuando a ridere. “Tanto, lo sai, non hai scelta” aggiunse a voce più bassa, passandomi sensualmente una mano sull’orecchio e tra i capelli. Questo suo gesto non fece che dare un ulteriore impulso all’erezione che già si stava facendo strada nell’angusto perizoma da lei impostomi.

“Mmm” commentò Angela, constatando, al contatto con la sua coscia, il risveglio del mio sesso. “Sento che qualcosa bolle in pentola, là sotto: o mi sbaglio?”

“Sei una pazza” bisbigliai, mentre mi premeva ancor più il viso sulle tette, e il mio naso finiva quasi per esserne prigioniero, assediato dal loro profumo.

Quando finalmente il “lento” terminò, Angela si staccò da me; ma io ormai ero in uno stadio avanzato di eccitazione: per di più, il mio pene ormai eretto se ne stava in piedi, prepotente, contro la pancia, e la sua punta fuorusciva dal perizoma, il che mi metteva terribilmente in imbarazzo. Avevo la sensazione che tutta la gente lì presente mi guardasse incuriosita, con gli occhi puntati principalmente verso il mio pube; probabilmente mi sbagliavo, ma la ragione non riusciva a dominare i miei pensieri. Tornai quindi al mio tavolo in preda all’ansia, camminando come se stessi sui carboni ardenti – e questo non poteva che peggiorare la mia sensazione di disagio.

“Che hai?” mi domandò insinuante la ragazza, quando ci fummo di nuovo seduti.

“Lo sai benissimo cosa ho” risposi seccato. “Certe cose non me le dovresti fare… non &egrave giusto.”

Angela fece una risatina e commentò:

“Se proprio non riesci a dominare la situazione, puoi sempre andare in bagno, no?”

“Ma fammi il piacere!”

Continuai a mangiare di malumore, con Angela che di tanto in tanto ammiccava e ridacchiava. Verso la fine della cena, i suoi amici si accostarono al nostro tavolo e presero a chiacchierare con lei; io non vedevo l’ora di essere fuori da lì. Forse per aumentare il mio imbarazzo, non appena mi alzai in piedi, Angela mi mise un braccio intorno al collo, continuando a parlare con quei suoi coetanei – e vidi che i loro sguardi mi fissavano incuriositi, di tanto in tanto. Ci avviammo verso l’uscita, in loro compagnia, e la ragazza non smetteva di cingermi il collo, anzi aumentava talora l’intensità della stretta, come se volesse comunicare agli amici che c’era del tenero fra noi due – era un modo di fare, il suo, che non mi faceva piacere, non perché non desiderassi avere con lei un rapporto più profondo, ma perché in quel momento il suo gesto non corrispondeva alla verità, e anzi tendeva proprio a stuzzicarmi e a provocarmi, dato quello che provavo per lei. I suoi amici non osavano fare commenti – anche perché come me piuttosto in soggezione di fronte a lei, più massiccia e più alta del più prestante tra loro di almeno una decina di centimetri, senza contare i tacchi – ma certamente, a giudicare dai loro sguardi interessati, si ponevano delle domande.

Anche quando ci fummo congedati da loro, e Angela ed io ci incamminavamo da soli verso la mia auto, lei continuava a tenere il braccio intorno al mio collo, con la mano piazzata quasi al centro del mio petto, in maniera possessiva. A quel punto, vibrai spazientito:

“Ma che ti &egrave saltato in mente, di fare questa sceneggiata?”

“Quale, scusa?” ribatté lei con aria innocente.

“Ma andiamo, Angela! Tenermi così, davanti a quei tuoi amici! Ti diverti proprio tanto, eh?”

“Certo che &egrave difficile capire che cosa vuoi. Eppure volevo solo accontentarti, almeno stasera” disse la ragazza, sfrontatamente. “Scusa, non mi hai lasciato intendere che ci tieni a metterti con me? Beh, almeno per una volta volevo farti provare questa sensazione…”

“Hai una bella faccia tosta!” esclamai. “Ti sei solo voluta divertire alle mie spalle, sapendo che io stavo schiattando e che non potevo reagire…”

Angela gettò il volto all’indietro e scoppiò a ridere, di una risata ampia, profonda e al tempo stesso piena di maligna soddisfazione.

“Povero ciccino, come ti faccio soffrire” commentò la ragazza, con aria di dileggio, e chinandosi mi diede un bacio sulla fronte. Con un gesto di stizza mi staccai immediatamente da lei, ma l’unico effetto che ottenni fu quello di farla ridere ancora.

“Come sei buffo” mormorò, mentre ci sistemavamo in macchina. Prima di avviare il motore, aggiunse, lo sguardo puntato nel mio: “Non capisci che li stavo facendo crepare d’invidia? Mi divertiva immaginare quello che stavano pensando, quelle loro testoline… Che io avessi una storia con il mio professore. Io, che agli occhi di tutti sembravo negata per lo studio… Ma tu non puoi capire.”

Abbassò quindi gli occhi con un sospiro, e girò la chiave dell’accensione. Per qualche minuto, mentre costeggiavamo il mare scuro e suggestivo della notte, nessuno di noi disse nulla. Poi di colpo, quando già eravamo fuori del centro abitato, Angela mi fece:

“Abbassati i pantaloni.”

Tre parole secche, come un ordine ovvio. Non volevo credere alle mie orecchie e replicai:

“Come hai detto, scusa?”

“Hai capito perfettamente. Abbassateli.”

Avevo mille obiezioni in testa; principalmente, temevo che qualcuno passando in macchina accanto a noi, magari durante un sorpasso, potesse vedermi in quelle condizioni. Tuttavia, la perentoria richiesta di Angela stimolava anche fortemente i miei sensi, e tacendo mi sbottonai i calzoni; inarcai leggermente la schiena, per sollevare il sedere quanto bastava per permettermi di spingere giù i pantaloni sino alle caviglie; infine mi rimisi seduto. Qualche secondo dopo, la luce dei fanali di un’auto dietro di noi mi mise in agitazione: illuminava discretamente le mie gambe fasciate dalle autoreggenti di Angela. Lei intuì subito il mio stato d’animo, teso ed eccitato nello stesso tempo, e allungò la mano verso la mia gamba sinistra, la più vicina a lei; mentre la macchina ci superava, e io, col respiro bloccato, tremavo tutto, la mano di Angela cominciò ad accarezzarmi sensualmente e metodicamente la coscia attraverso la calza.

“Stai buono, rilassati” sussurrò la ragazza.

Proprio in quel momento, invece, focalizzai l’attenzione sul fatto che lei, per stuzzicarmi, stesse guidando la mia auto con una mano sola, e il mio stato d’ansia crebbe.

“Pensa a guidare, metti la mano sul volante” mormorai, sentendomi la bocca asciutta.

“Ti ho detto di rilassarti” insisté, e la sua mano si fece più audace, salendo verso il mio inguine.

Sussultai d’istinto, quando sentii la mano di Angela che mi accarezzava delicatamente l’uccello, mollemente adagiato nel perizoma. Percepii persino la freddezza delle sue dita, attraverso il tessuto traforato.

“Angela, dài, sono preoccupato…” dissi.

“Pensi che andremo a finire in un fosso e che la tua bella macchinina si sfascerà?” replicò la ragazza, con un umorismo che trovai fuori luogo. “Tu non ti fidi abbastanza di me” aggiunse: “&egrave questo il tuo guaio. Invece devi stare soltanto zitto e rilassarti, perché &egrave questo che deve fare, una brava puttanella come te…”

Queste ultime parole, che lei pronunciò mentre la sua mano continuava a giocare col mio pene, attraverso la sottile stoffa del suo perizoma, mi diedero un brivido supplementare di eccitazione in fondo alla schiena.

“Uhmm” commentò la ragazza, notando l’acceso risvegliarsi del mio sesso: “ma senti come piace, il mio giochetto, alla puttanella…”

“Mi fai impazzire, Angela” bisbigliai, chiudendo gli occhi e rovesciando la testa all’indietro.

“Guarda, sta per passare un’altra macchina” mi fece lei: “fra un po’ i suoi fari illumineranno le tue cosce, e loro potranno vedere che belle calze da puttanella indossi stasera. Magari si faranno anche una sega, là dentro…”

Mentre la mano di Angela, come per commentare le parole, tornava ad accarezzare la calza e, attraverso quella, la mia coscia, io aprii gli occhi, angosciato e infoiato allo stesso tempo, e non riuscii a distogliere lo sguardo dall’auto che iniziava a sorpassarci. Imperterrita, Angela continuava a muovere la mano sulla mia gamba.

“Chissà, penseranno che siamo due lesbiche: che ne dici?” mi domandò la ragazza, elettrizzata e divertita.

Io mi sentivo come scisso: da una parte – laggiù – sentivo la mia erezione crescere, e il senso di piacere salirmi dentro, ma dall’altra ero paralizzato dal terrore, confuso all’inverosimile, e fissavo l’abitacolo dell’auto che ci stava affiancando; mi parve di scorgere al di là dei vetri, per quel poco che potevo, due uomini sui cinquant’anni; certo in quel momento non potevano vedere con sufficiente chiarezza quello che stava accadendo nella nostra auto, eppure ebbi l’impressione che i loro occhi – sì, anche quelli del guidatore – fossero rivolti verso di noi.

“Ciccino, ti prego, non fartela sotto: ricordati che le mutande sono mie” mi prese in giro Angela, e aggiunse, spostando più su la mano: “E’ questo che devi far funzionare, adesso…”

L’auto ci aveva ormai superati, quando la ragazza riprese a frizionarmi con dolcezza il pisello.

“Forse qualcuno ci fermerà stasera, e ci chiederà di fargli vedere qualcosa” disse Angela, senza concedere tregua alla sua mano maliziosa. “Vorrei proprio vederti sulla strada, con queste cosce da fuori e queste calze bene in vista. Me ne starei nascosta per spiare se qualcuno si ferma. E sicuramente sarebbero in tanti, perché lo so che sei una brava puttanella. Chissà cosa ti chiederebbero di fare; ma tu sei disposta a tutto, perché sai che devi portarmi i soldi… tanti soldi…”

Non riuscivo a credere che la sua fantasia si spingesse fino a questo punto, e ne ero francamente scioccato; ma non riuscivo neppure a sottrarmi al fascino di quel potere: Angela era capace di farmi fare letteralmente ciò che voleva, e temevo proprio che, se realmente avesse desiderato che io adescassi gli automobilisti, ancora una volta sarei stato incapace di dirle di no. Era forse proprio questa consapevolezza ad alimentare la mia eccitazione, sino a farle raggiungere una potenza inedita e persino sconcertante.

“Lo sai che mi eccita da matti toccare queste calze, sapendo che dentro ci sono le tue gambe?” confessò Angela, dando un’altra carezza alla mia coscia e poi risalendo tranquillamente verso il centro caldo del mio piacere.

Sentivo la sua mano esplorare con delicatezza il mio pene ormai turgido, attraverso la tenue barriera del perizoma: sembrava giocarci, come se si trattasse di un gingillo al quale fosse affezionata; c’era la confidenza di un’ormai consolidata abitudine, nei suoi pigri e tenaci movimenti. Man mano che la mia virilità, così premurosamente sollecitata, si andava espandendo, tendeva a superare i ridicoli confini di quella mutandina inadatta, e infine la sua testa fece capolino dal bordo del perizoma; la ragazza se ne accorse, e la cosa parve divertirla, perché la sentii abbandonarsi ad un piccolo sussulto di risa.

“Non ti basta mai, eh?” mormorò con maliziosa complicità. “Hai un pipì insaziabile: ma sentilo un po’! E poi vorresti negare che sei una maledetta puttanella?”

Me lo lisciò ancora per qualche secondo, quindi aggiunse:

“Lo so cosa vorresti fare… Mostrare a tutti quello che sei. Far vedere quanto ti &egrave diventato duro fra le gambe. E io la mia troiettina voglio accontentarla. Guarda, guarda: sta arrivando un’altra macchina; adesso gli facciamo vedere noi che cosa c’&egrave in queste belle mutandine…”

“Ti prego, Angela: mi vergogno” sussurrai. Ma non feci nulla per oppormi concretamente alle sue azioni.

“Silenzio. Tu non ti vergogni di niente, perché sei solo una gran puttana!” esclamò la ragazza, e l’improvvisa durezza delle sue parole mi scosse. “E se loro ti chiedono di farglielo vedere, tu lo farai.”

Intravedevo dietro quel tono un intenso coinvolgimento erotico, e tuttavia tremavo a sentirla parlare così.

“Mi vergogno sul serio” dissi. “Non farmi questo, dài! Ho anche un po’ paura…”

“Ormai non puoi più tirarti indietro. E poi questa cosa mi sta eccitando troppo” ribadì la ragazza, strofinandomi delicatamente due dita sulla parte inferiore del glande, che fuorusciva dal perizoma e se ne stava fiero a prendere aria.

I fari della macchina che sopraggiungeva illuminarono il nostro abitacolo; io m’irrigidii, come in attesa di qualcosa di terribile, mentre Angela continuava impassibile le sue manovre oscene. L’auto alle nostre spalle sembrava non aver fretta di sorpassarci e continuava a fare luce senza smettere di tallonarci. Giocavano persino con gli abbaglianti, e questo dettaglio mi parve inquietante. Si erano forse accorti di qualcosa e volevano partecipare alla nostra provocazione? Che intenzioni avevano?

“Stanno pregustando lo spettacolo” fece Angela, e mi sistemò la maglietta in modo che la mia erezione venisse alla ribalta, in bella evidenza, nascosta a metà soltanto dal perizoma.

“Tu mi stai facendo paura: parlo sul serio” dissi, e lei si limitò a rispondermi con una risata compiaciuta, mentre la sua mano mi accarezzava languidamente la coscia.

Di lì a poco, la macchina finalmente ci superò, e io non volli neppure sbirciare nella sua direzione. Angela ormai ci aveva davvero preso gusto e annunciò:

“Adesso li riacchiappiamo e li facciamo giocare con noi: non ti preoccupare.”

“Che vuoi fare?” dissi angosciato, anche se l’avevo capito benissimo.

“Dài, tieniti forte, e soprattutto non coprirti il pipì, perché &egrave la parte principale dello spettacolo” disse la ragazza, e cominciò a pigiare sull’acceleratore.

A quel punto chiusi gli occhi, realmente spaventato, e sentii che la mano di Angela abbandonava la mia gamba: evidentemente, l’aveva riportata sul volante, data la delicatezza della manovra che si accingeva a compiere.

“Continua a menartelo: dev’essere sempre duro” disse con un tono perentorio.

Feci quello che mi aveva chiesto, e mi sentii più che mai in balìa della sua volontà e delle sue decisioni; forse fu quella sensazione a stimolare la mia fantasia, poiché sentivo il mio sesso sempre più rigido e pulsante.

“Eccoli là!” esclamò la ragazza, e sentii il motore salire di giri. Stavamo effettuando un sorpasso; socchiusi gli occhi, e la velocità alla quale andavamo mi sembrò azzardata; tuttavia avevo anche perso la forza di parlare – mi sentivo paralizzato e ammaliato nello stesso tempo.

Lanciai un’occhiata in direzione dell’altra macchina, e notai i volti dei tre ragazzi che la occupavano fissi su noi, come allibiti. Dunque avevano davvero visto? Spaventato mi piegai su me stesso, per nascondere il volto e anche ciò che poteva intravedersi della mia erezione, che sentivo sempre gagliarda e vispa.

“Che fai?” mi domandò Angela.

“Quelli là mi hanno visto, capisci?” risposi terrorizzato.

“E allora? Alzati, non fare il bambino: adesso ce li abbiamo di nuovo alle spalle.”

Aveva cominciato ad accelerare nuovamente, e io avevo la sensazione di sudar freddo.

“Senti, ma tu questa sera vuoi tornare a casa viva?” le chiesi, seriamente allarmato.

“Sei il solito cacasotto!” ridacchiò la ragazza. “Ma come? Un altro, al posto tuo, si sarebbe eccitato, con questa velocità, e avrebbe già inondato tutto, col suo coso bello carico; invece tu… A proposito, fammi sentire come ce l’hai.”

Ciò detto, allungò la mano verso il mio sesso e cominciò a tastarlo.

“Sei un’incosciente!” esclamai, preoccupato dal suo modo di guidare. “Non togliere la mano dal volante, in un momento come questo!”

“Ma stai zitto, fifone!” mi liquidò lei. “Sono io che dovrei essere arrabbiata, sai?”

“Ah sì?”

“Certo! Senti qua! Lo hai fatto diventare di nuovo moscio. Adesso mi tocca di nuovo manovrartelo.”

“Pensa a guidare, per piacere!” insistei, ormai paralizzato dalla paura.

“La pianti di piagnucolare? Altrimenti, fra poco fermo la macchina e ti sculaccio!” minacciò Angela. Dal tono della voce, c’era da crederle; dunque tacqui immediatamente.

In pochi attimi, i movimenti della sua mano riuscirono a restituire vigore e turgida fierezza al mio membro.

“Adesso togliamoci di qua: ho voglia di vedere il mare; tanto quegli altri smidollati non ci seguono nemmeno più: si devono essere scandalizzati, poverini!” disse ironica la ragazza, rimettendo sul volante la mano con la quale mi aveva masturbato. “E tu fai il bravo e non farlo più ammosciare!” mi ammonì, col tono che avrebbe usato nei confronti di un ragazzino discolo.

Continuavo a titillarmi il pene, per tenerlo sempre duro e all’insù, quando Angela improvvisamente imboccò una viuzza laterale.

“Puoi considerarti fortunato, prof, lo sai?” mi stuzzicò la ragazza.

“Davvero? In che senso?” feci io.

“Beh, perché quelli là si sono stancati di seguirci. Altrimenti, ti avrei costretto a esibirti per loro. Parlo sul serio, eh!”

Si voltò per un momento verso di me, e io cercai di leggere nei suoi occhi: il suo sguardo – che intravedevo appena nella penombra – era carico d’ironia, eppure non potevo affatto essere certo che scherzasse.

“Ora voglio che tu faccia schizzare tutta la tua bella crema bianca. Tanto poi potrai lavarti nel mare” disse lei dopo qualche attimo, cogliendomi di sorpresa.

“Sì, ma si sporcherà il sedile… il tappetino” obiettai titubante, benché – come nasconderlo? – eccitato dalla sua improvvisa richiesta.

“E chi se ne frega?” rise la ragazza. “La macchina &egrave tua!”

“Ma io non voglio sporcarla. Possiamo farlo sulla spiaggia” cercai ancora di resistere.

“Guarda che la minaccia di prima vale anche adesso; non ci perdo niente a fermare la macchina e a metterti col culo all’aria, per fartelo diventare di nuovo tutto rosso a forza di schiaffi. E ti avverto che non ho portato neanche la pomata. Fai un po’ tu…”

Bastarono queste parole di Angela a rendermi di nuovo… “ragionevole”. Ricominciai a sfregarmi l’asta, sbirciando il volto della ragazza, che ogni tanto si girava verso di me, osservando a sua volta compiaciuta il mio impegno.

“Avanti, che aspetti?” mi stimolò. “Voglio vedere schizzare la crema dappertutto, capito?”

Questa e altre frasi che mi andò ripetendo fecero sì che la mia eccitazione raggiungesse il livello massimo, e quando finalmente il mio orgasmo provocò un susseguirsi di getti che colpirono il cruscotto, il tappetino e persino il parabrezza, Angela esclamò esultante: “Oh bravo, ce l’hai fatta! La tua fontana &egrave sempre bella carica, vedo…”

Pensai soltanto che ero riuscito a farla contenta, e feci di tutto per ignorare le spiacevoli conseguenze della mia eiaculazione.

Nel frattempo, eravamo arrivati alla spiaggia. Scesi dalla macchina e fatti pochi passi, ci trovammo in riva al mare. Non c’era anima viva intorno a noi, e si udiva soltanto il rumore delle onde. Angela cominciò disinvoltamente a spogliarsi, gettandomi nell’imbarazzo.

“Dài, su, non c’&egrave nessuno, non cominciare a preoccuparti” disse, avendo capito quel che provavo. “Avanti, comincia a spogliarti anche tu” aggiunse, e capii che si trattava di un ordine tassativo.

Poco male, pensai: almeno mi sarei lavato. Quando fummo entrambi nudi, lei mi prese per mano, e cominciò a correre, trascinandomi in acqua. Era la prima volta che mi capitava di fare il bagno in mare a quell’ora e senza niente addosso, e la sensazione, superato il primo imbarazzo, non era affatto sgradevole.

“Io lo faccio spesso” mi confidò Angela. “Mi piace troppo. Anzi, &egrave uno dei motivi di lite che ho qualche volta con Alessio. Lui pensa che non sia prudente, o decoroso, per una ragazza, e io gli faccio notare che ha semplicemente una mentalità antiquata, e lo mando a cagare.”

Poco dopo, eravamo stesi sulla sabbia, a lasciare che la calda aria di quella sera ci asciugasse almeno un po’.

“Sai che con te ho imparato molte cose di me stessa?” disse a un tratto la ragazza. “A volte ho perfino un po’ paura di quello che sento dentro e che prima di conoscerti non sospettavo nemmeno di avere. Da un po’ però ho imparato a convivere con questa parte di me, anche se mi sento tuttora confusa…”

Le presi una mano, per farle sentire che le ero vicino e che l’ascoltavo con interesse.

“Ho provato a parlarne anche con lo psicologo” continuò, “ma non credo che lui possa capire. Io mi sento finalmente libera, capisci? Lui dice che a volte si ha paura della libertà, e dev’essere anche vero, non so… Non voglio più soffocare le cose che sento. Voglio dare spazio ai miei desideri più profondi, senza preoccuparmi troppo se sono o no in linea col modo di vivere comune della gente.”

Sospirò un attimo e poi riprese a parlare:

“Non so perché ti dico tutte queste cose… Forse perché tu mi hai aiutato a capirle. Adesso sai cosa c’&egrave? Sento il bisogno di un momento di riflessione. I miei mi hanno promesso che mi pagheranno una vacanza nel nord Europa, che da tempo sognavo; forse sarà l’occasione per pensare a ciò che voglio veramente fare.”

“Potrei venire anch’io con te” le proposi timidamente.

“No, prof: devo andarci da sola. Non verrà nemmeno Alessio con me: l’ho già deciso. Forse anzi lo lascerò. Volevo dirtelo anche prima.”

Le strinsi più forte la mano, comunicandole la mia speranza; lei comprese il messaggio e mi disse:

“Il nostro gioco finisce stasera, professore. Non so se ci rivedremo. Devo pensare a tante cose, te l’ho detto…”

“Non c’&egrave proprio posto per me?” azzardai.

“Voglio un’ultima cosa, e tu devi farla. Ricordati che finché siamo qui, io posso sempre sculacciarti se non ti comporti bene” mi ammonì Angela.

Ovviamente, feci ciò che mi aveva chiesto: mi accostai alla sua passera, e aiutandomi un po’ col tatto e un po’ con la luce della luna, trovai il solco delle sue grandi labbra e iniziai dolcemente a leccarlo.

“Non ho ancora deciso se farti stare lì fino al mio primo orgasmo” disse con voce eccitata, “…ma può darsi che vorrò andare avanti per tutta la notte. E’ un’esperienza da fare, prima o poi, no?”

Non avevo perso del tutto la speranza di far breccia nel suo cuore, e cercai di trasmetterle il mio messaggio attraverso la lingua, che percorreva amorosa la sua intimità, e s’impregnò presto dei suoi odorosi umori. Raggiunsi il clitoride e lo lambii con le labbra, prima di umettarlo con la punta della lingua. I gemiti di Angela si fecero intensi e quasi rabbiosi. Continuavo a temere che qualcuno ci sentisse, ma evidentemente su quella spiaggia non c’era nessuno. Dopo il primo orgasmo, la ragazza m’incitò a non fermarmi; il suo grilletto sembrava insaziabile e lei non smetteva di smaniare e di gemere. Mi afferrò a un tratto la testa e la compresse contro il suo pube, sempre più esaltata dalle mie stimolazioni.

“Datti da fare, professore, datti da fare!” esclamò. “Voglio portare con me il ricordo della tua lingua.”

Fu soltanto dopo il terzo orgasmo che si calmò un po’, anche se a quel punto pretese che le leccassi tutto il corpo, dalle guance sino ai piedi. Ero ormai stanco e a volte avevo la sensazione di avere la lingua asciutta, ma nonostante questo cercai di accontentarla. Percorrere la sua pelle da cima a fondo mi sembrò un estremo atto di devoto affetto, che riuscì a far risorgere la mia libido. Quando credevo di aver finito, Angela m’indicava una parte del suo corpo che secondo lei avevo trascurato, e mi diceva che avrebbe “preso provvedimenti” se non mi fossi dato da fare immediatamente. In particolare, volle che le leccassi per bene i piedi e le loro dita, e che inoltre glieli sbaciucchiassi a lungo. Sembrava non soddisfarsi mai, e mentre io la lavoravo per ogni dove con la lingua e con le labbra, lei provvedeva a stimolarsi i genitali senza alcun ritegno. Mentre le leccavo l’interno cosce, ebbi la sensazione che avesse un ennesimo orgasmo, perché la sentii tremare e sussultare, ed emise un sospiro più forte degli altri; con un cenno mi fece capire che voleva rilassarsi: doveva essere sfinita.

Finalmente ci rivestimmo e ci avviammo verso la macchina. Lungo il tragitto verso la sua villa, eravamo entrambi silenziosi. Forse stavamo pensando, un po’ frastornati, a quanto era successo fra noi negli ultimi giorni. Avrei dato qualunque cosa per conoscere nel dettaglio le sue sensazioni e le sue riflessioni; in ogni caso, non ebbi il coraggio di chiederle esplicitamente di rivelarmele.

Quella notte, essendo l’ultima che avremmo trascorso insieme, Angela mi permise di dormire nella sua stanza, anche se non sul letto, bensì sul tappeto. La mattina dopo, a colazione, provai a proporle ancora una volta di metterci insieme, ma la ragazza respinse cortesemente la mia idea, dicendo:

“Sono ancora tanto giovane, prof, e voglio fare esperienza. Per il momento, ho capito che non voglio legarmi. Tu hai qualche anno in più, troverai sicuramente qualcuna più tranquilla di me, che possa apprezzarti.”

Vedendomi pensoso e alquanto malinconico, al momento di salutarci mi si avvicinò e accarezzandomi una guancia, mi disse:

“Come ricordo, puoi tenerti le mie calze e il perizoma.”

Le sorrisi grato; certamente non li avrei più indossati (senza di lei non avrebbe avuto senso), ma li avrei custoditi per poter qualche volta, guardandoli, ripensare alla nostra esperienza.

“Comunque, spero di rivederti” mormorai, aprendo lo sportello della mia auto.

“Non si può mai dire, professore” fece Angela, stringendosi nelle spalle. “Forse fra dieci anni… E chissà quante cose avremo da dirci, allora…”

Mentre mettevo in moto la macchina, ripensai alle unghie dei miei piedi ancora smaltate di rosso – un altro ricordo di lei, che avrei tenuto sul mio corpo per un po’ – e, inutile dirlo, un brivido di eccitazione mi scese rapido lungo la schiena. ‘Su, concentrati sulla guida, adesso’ mi dissi sorridendo.

*

Quando tornai in città, capii che dovevo raccogliere le macerie che il ciclone Angela aveva lasciato nella mia vita. Niente sarebbe stato più come prima; e certamente avrei impiegato un bel po’ di tempo a riprendermi del tutto.

Non era più il caso di continuare a lavorare in quella scuola, e così scrissi una bella lettera di dimissioni e mi misi a cercare altre opportunità. Anche quello era un modo di chiudere col passato: sapevo infatti che, se avessi ancora messo piede nell’edificio in cui avevo conosciuto Angela, ogni angolo sarebbe bastato a farmela tornare in mente.

Lei mi mandò anche una cartolina, comunicandomi che si sarebbe iscritta all’Università, ma in una città lontana dalla mia. La tenni in evidenza sulla scrivania per vari mesi; e la tolsi, per la verità, soltanto quando cominciai a mia volta ad organizzare il mio trasloco. Qui però si sconfina in un’altra storia…

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