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Racconti di Dominazione

shedog in ropes

By 30 Marzo 2018Dicembre 16th, 2019No Comments

Lo specchio riflette i nostri corpi, la schiava &egrave vestita di culotte e collare, il guinzaglio non c’&egrave, non ora. Io sono dietro, ancora parzialmente vestito, in mano ho solo una sciarpa, di quelle estive, leggere. La ripiego quattro volte per il lato corto prima di metterla davanti ai suoi occhi. So che ancora percepisce le forme e le luci ma mi &egrave sufficiente; un nodo dietro la nuca ad anticipare il rumore della zip dello zaino. Entrambi sappiamo cosa ne uscirà, ma solo io so come la userò. Accarezzo le sue braccia prima di portargliele dietro la schiena, i gomiti a 90 gradi e gli avambracci ben allineati. Due sapienti giri di corda attorno ad essi sono sufficienti per impedirle di usare gli arti superiori. &egrave già sufficiente questo perché sia in mia balia e sono attento a farglielo notare, strattono leggermente la corda e lei &egrave costretta a seguirla, come il cane segue il guinzaglio del padrone. La corda passa all’esterno del braccio poco sopra il bicipite destro. Il mio fiato leggero si adagia sul suo collo sotto l’orecchio sinistro mentre la ruvida juta si adagia lenta sopra il seno per completare un primo giro attorno al torace. Il secondo giro segue il percorso del primo, solo un poco più stretto. Avverto un pizzico di risentimento per quei giri un poco lenti, lo so. Ora la corda deve affrontare la prima chiusura, il dito passa sotto la linea obliqua dalle manette alla spalla, la corda &egrave tesa, ma non troppo. Ora il movimento &egrave secco, la compressione &egrave percepibile adesso, le juta entra nella spalla, saranno dei bei segni. Chiudo il nodo e mi metto di fronte a lei, la legatura &egrave solo all’inizio.

Sono di fronte a lei, lei che sotto i veli della sciarpa non può che intuire i lineamenti del padrone nell’ombra che le si pone davanti. L’indice della mia mano entra senza troppi complimenti tra la pelle e le corde, &egrave un gesto volto all’estetica, all’ordine. Le corde scorrono sotto il mio dito per evitare spiacevoli accavallamenti. Ora &egrave in ordine. La osservo un attimo ancora, so che non le piace ma a me si. Recupero un’altra corda e la unisco alla precedente, pochi gesti per realizzare i kannuki e di nuovo sono alle sue spalle. E di nuovo il mio fiato &egrave sul suo collo. La corda residua &egrave nella mia destra, la avvolgo in un abbraccio perché la tensione della juta permanga mentre con la manca ne prendo un altro pezzo. Una doppia linea lunga meno di mezzo metro si forma tra le mie mani, la lascio scendere sul suo seno per poi farla indugiare dispettosa sui capezzoli turgidi, prima di farla scendere ancora. L’attaccatura inferiore del seno forma la conca per la cima, &egrave lì che quella doppia linea andrà a lasciare il suo segno. La tensione aumenta mentre chiudo il primo giro passando di nuovo all’esterno del braccio. Ancora un giro, ancora un ultima volta il mio fiato sul collo prima della chiusura e degli ultimi kannuki. Il tk &egrave pronto, osservo il mio lavoro nello specchio, sento con le mani la corda entrare nelle carni delle braccia. La mia mano sul collo a controllare l’aria che entra ed esce in quel torace compresso. Il quadro che mi restituisce lo specchio mi piace, la voglia di penetrarla, lì e subito, &egrave tanta, voglio già usarla, ma non &egrave ancora tempo. Indugio ancora prima di estrarre un’altra corda, una semplice legatura unisce la nuova corda al tk, il resto della cima scorre morbida sulla candida pelle della schiava, passa nell’anello e ricade, la fisso ma non &egrave in tensione, &egrave anzi molle. E di nuovo mi diverto con la disattesa della sua aspettativa

Uso il piede destro per toccarle l’interno degli stinchi, una richiesta non verbale, un ordine non fraintendibile, le gambe si aprono un poco; il necessario perché la juta possa tornare a disegnare sul corpo. Due giri veloci attorno alla vita e bloccati dietro, la corda passa sulla natica destra e gira attorno alla coscia, ora vicino all’inguine, la mia sinistra solletica il suo sesso attraverso il tessuto, sia al primo che al secondo passaggio. Uno strattone indica la fine di quel percorso con uno strozzo, un passaggio sopra il nodo centrale e l’operazione si ripete attorno alla gamba sinistra. Tornato al centro &egrave tempo di dare spessore al nodo, i passaggi sono ripetitivi e noiosi nella tecnica ma ad ogni passaggio la corda sfrega sulla natica, uno sfregamento che si conclude sempre con il passaggio dei nodi finali. Ancora e ancora la corda passa e sfrega, una volta a destra e una a sinistra, e il nodo scende, fino a formare una solida base a cui agganciare un’altra corda. Un’altra corda che passa dall’anello. Il primo giro mantiene la corda in tensione, il secondo ruba il peso della schiava dai suoi piedi e lo fa suo. Lo so, sarebbe innaturale che le punte di quei piedi non cercassero il contatto con il terreno, glielo lascio, &egrave in difficoltà nel mantenere quell’equilibrio. Fisso la corda di sospensione. La mia mano destra si porta sotto al suo collo, aperta, a prendere contatto con il candore dell’epidermide. La sinistra si posa davanti alle sue cosce e preme fino a portar i piedi al di fuori dell’immaginaria linea dell’equilibrio. Vedo e sento il peso scaricarsi sulle corde intorno alle cosce mentre il busto viene accompagnato dalla mia mano più giù, sempre più giù. L’ombra che scorge sotto la benda &egrave quella dei miei piedi, la mia mano destra ora non accompagna più il busto ma tiene le corde che le immobilizzano le caviglie alla barra sospesa. La osservo a gambe tese e leggermente divaricate, il peso delle tette rovesciato verso il volto mentre quattro corde la allontanano dalla certezza del suolo. Le orecchie della schiava finalmente tornano a percepire la voce del padrone

“Mettila in bocca”.

Non sa cosa aspettarsi, sa che lo vuole fare, sa di voler compiacere e apre il primo dei buchi che il padrone si &egrave preso.

Mentre infilo l’oggetto nella bocca della schiava mi chiedo quale possa essere la sensazione, cosa si aspettasse anziché quella forma strana; così simile ad uno spermatozoo dalla consistenza siliconica. Forse lo ha già intuito, forse no, poco importa.

“Lascia” &egrave l’ordine che le do per farle aprire la bocca. Lo riprendo in mano e lo accendo. Mi rialzo e poco sotto il mio sguardo le culotte mi negano la vista degli altri buchi, il passaggio in bocca so già non era necessario. Scosto il cavallo quel tanto che basta per darmi l’accesso alla vulva. L’oggetto fatica ad entrare solo un poco, lubrificato dalla saliva e dagli umori. Ora ha capito di sicuro. Estraggo il cellulare, avvio l’app su un pattern che dia un progressivo aumento di vibrazione e la guardo. mi delizio dei suoi piccoli movimenti, di qualche spasmo delle gambe, del respiro affannoso. &egrave stata a testa in giù a sufficienza, allento un po la corda che tiene alte le caviglie e le metto a pari con il bacino; discorso inverso per il busto che viene invece sollevato fino a raggiungere l’altezza del mio cazzo. Attraverso i miei pantaloni le faccio sentire l’effetto che mi fa vederla così, lo sente sulla guancia e sulle labbra. Il contatto dura poco, non ho molto tempo. Il suo fiato mi dice chiaramente che vuole essere usata, ma non &egrave ancora giunto il momento. Vado a prendere altro nello zaino, lei sente solo il suono di un accendino che scatta un paio di volte e le corde che la sorreggono muoversi. Poi ancora nulla, un’ombra si infila sotto di lei, due bastoncini di legno che si stringono prima su di capezzolo poi sull’altro. E bruciore alla schiena, una goccia di cera che inizia a colorare il disegno definito dalle corde. Il desiderio di essere usata &egrave sempre più forte, il respiro sempre più veloce quando finalmente la schiava sente il rumore dei pantaloni che cadono, i capelli strattonati indietro dalla mano e il glande che forza l’apertura della bocca

La bocca della schiava si apre senza alcuna resistenza, la posizione, per quanto innaturale aiuta la penetrazione nella gola, ed &egrave lì che il padrone cerca l’iniziale soddisfazione, diretto, senza ulteriori preamboli. Il naso schiacciato contro la sua pancia. Il cazzo rimane lì, custodito dalla gola per un tempo che varia dall’interminabile della schiava all’insufficiente del padrone. Mi stacco lasciando un filo di bava a mantenere il legame con il buco orale e molti altri a bagnare il pavimento. Due colpi di tosse e due boccate d’aria sono sufficienti come intermezzo prima che l’operazione si ripeta. Di nuovo bava e tosse e respiro, e di nuovo dentro.

Ma questa volta non &egrave per rimanere, &egrave una fugace stoccata, seguita da una seconda e una terza e altre ancora. Sotto la sciarpa lacrime di mancanza d’aria e di controllo di rigurgito si colorano di nero matita prima di solcare il viso candido. Il padrone ne sarà felice quando si abbasserà a guardarla, quando avrà finito di usare quel volto per il suo piacere. Il secondo buco continua a vibrare, il Lush &egrave alla massima intensità da un paio di minuti quando il cazzo esce per l’ultima volta dalla bocca. Ancora il corpo legato mantiene aperte le labbra in attesa di ulteriore utilizzo. La mano che lascia le sue cinque dita sulla guancia sinistra le fa capire che sbagliava.

Il trucco colato sotto la benda, la bava che ancora pende dal labbro inferiore, il respiro affannoso tra fatica, dolore e godimento. Una foto a immortalare quell’immagine. L’istantanea sul cellulare ben visibile appoggiata a terra sotto la testa della schiava. La benda cala, la prima immagine ad apparirle &egrave quella racchiusa nel rettangolo dello schermo, quella del proprio viso usato ed abusato. Le iridi ora libere dal velo cercano il padrone, lo trovano nello specchio, ricambiano lo sguardo, un accenno di sorriso prima che gli occhi sottomessi tornino a fissare il pavimento.

Il punto debole delle sospensioni &egrave il tempo, e quello preventivato &egrave finito, le stesse candele si stanno avvicinando alle corde che le tengono sospese. Spente vengono abbandonate a terra. Con fare sapiente il rigger accompagna i piedi a terra e libera le caviglie, poi &egrave la volta del bacino, lasciato scendere e spogliato di
corda e culotte. La coda rosea del Lush rimane unico orpello di una figa perfettamente glabra. O almeno lo era prima che fosse estratto senza avvertimenti ne complimenti e, di nuovo, riposto tra le carnose labbra. Anche l’ultima corda che scendeva dall’anello viene liberata, questa volta però rimane nelle sapienti mani. Pochi secondi e i lunghi capelli si tirano in una coda, non il tempo di prendere fiato e un umido metallo cerca di violare l’unico buco non ancora toccato. Poggia su volto e ginocchia la schiava, le braccia ancora costrette dietro la schiena, mentre il gancio entra nel culo.
Ancora un nodo, una corda da mettere in tensione, una corda che unisce la coda dei capelli all’anello metallico.

Porto gli occhi allo specchio, lei mi osserva, &egrave costretta dai capelli che tirano a tenere il volto dritto, sorrido al pensiero che le rimarrà il segno del pavimento sul mento. Elimino gli ultimi indumenti che mi rimangono e mi inginocchio dietro di lei. Non può offrirmi i suoi buchi come &egrave solita fare allargandosi i glutei con le mani, la juta &egrave ancora lì, a bloccare gli arti superiori. La mancina va a prendere il nodo dietro la schiena, la dritta prende il cazzo mentre il bacino porta il glande a saggiare i suoi umori. Potrei passare più volte sulla sua fessura a farle pregustare la futura penetrazione, potrei cercare scuse e motivi per non farlo. La verità &egrave che non ne ho voglia, voglio leggere sul suo volto il dolore del primo colpo che bussa al collo dell’utero. Con la mano sinistra tiro verso di me l’imbragatura mentre contraggo i glutei e affondo la mia carne nella sua. Non ho difficoltà, il Lush aveva già preparato il terreno. Mi godo allora la sensazione di tenere il cazzo nella sua custodia di carne, una custodia fradicia di piacere e di desiderio. Poi la frenesia del sesso e dei corpi, del sudore della monta, degli schiaffi, delle mani sul collo mentre le sussurro che &egrave la mia cagna. Il suo urlo affermativo. Non vengo, non ancora, eppure sono fuori, eretto sulle gambe e nel sesso, le libero le mani e il culo. Un nuovo oggetto in mano. Un oggetto che vede mentre &egrave in ginocchio con le mani dietro la testa.

Pochi giri di corda a simulare una mutanda sono sufficienti a mantenere la testa del nuovo gioco attaccata al clitoride, poche vibrazioni bastano a farle capire che di nuovo non sarà in grado di trattenersi. Recupero un nuovo oggetto dallo zaino, il ronzio del motorino accompagna la mia mano sinistra sulla pelle nera, la destra salda sull’impugnatura. Per quasi un metro di lunghezza riassaporo la consistenza e la rigidità della piccola snake. So che lei sta fissando lo scorrere della mia mano, non ho bisogno di guardarla per capire che la sua eccitazione &egrave al culmine, l’eccitazione dell’attesa unita alla stimolazione della wand. Solo ora alzo lo sguardo.

“Perché sei ancora in piedi? La posizione la sai”.

Assume la posizione delle cagne, io sono a circa un metro da lei, vedo i segni lasciati dalle corde, caviglie, cosce, busto. Segni che appaiono come solchi continui, il disegno degli intrecci permane in bassorilievo a dare l’idea della juta che penetra nelle carni, questo nuovo segno invece racchiude il senso della frusta, una linea dritta, secca, i bordi rossi appaiono in rilievo. La coda torna nella mancina mentre aspetto. La contrazione dei glutei e della mascella, i denti che si serrano, il respiro ancora trattenuto; il segno lì, immobile a sancire la memoria di questa sera per qualche giorno. I muscoli si distendono, abbandono il codino e la destra si muove rapida, quasi impercettibile. Un altro segno, questo sul gluteo sinistro, muscoli che si tendono e rilassano. E di nuovo. E di nuovo. E ancora. Raggiunto il sesto aspetto

“Quante?”

“Sette padrone”

“No”

Abbandono a terra la frusta, rimuovo la wand e con un altro passo raggiungo la sua testa. La destra sfiora la pelle e il collare, un tocco leggero nascosto nella penombra di una notte che entra dalla finestra. Un solo brivido concedo alla cagna a quel tocco, un solo brivido, da godere ad occhi chiusi, prima di usare il collare come tramite del comando di movimento. Ginocchia e mani seguono i miei piedi, una sosta allo zaino, ne estraggo una museruola e un plug a coda, li vede e attende di poter scodinzolare. Ma la passeggiata prosegue fino alla porta finestra che da sul giardino. Mi sposto dietro di lei, non ho bisogno di riguardo per aprirle le chiappe con le mani. La mia saliva cola seguendo il solco tra i glutei, sinuosa. La punta del plug la intercetta all’altezza dell’ano e la cagna ha ritrovato la sua coda. Mi avvicino alla sua nuca, lei rimane immobile tra le mie gambe mentre la mia mano si chiude tra i suoi capelli costringendole la testa all’indietro. La museruola trasforma il volto in muso, sono di nuovo al suo fianco.

“Seduta” mentre la mano che non conduce si posa sulla maniglia della porta finestra.

Gli occhi sopra la museruola mi guardano, leggo una supplica di clemenza. Ancora valuto se concederla o meno mentre apro, l’aria di primavera inoltrata &egrave fresca sui corpi nudi. L’erba solletica i miei piedi, poi le sue mani e le sue ginocchia. Pochi passi prima di fermarmi. Non &egrave ancora a suo agio, non soddisferà l’ordine che volevo impartire, non riuscirebbe. Raccolgo un’oggetto sferico, lo pulisco con l’acqua corrente del giardino e torno da lei. Lei rimasta immobile. Toglierle la museruola non riporta il muso ad essere un volto, non quando la mano del padrone agita una pallina di gomma davanti agli occhi impauriti. La lancio vicina, e attendo. &egrave ancora immobile, &egrave ancora bloccata, &egrave ancora dubbiosa. I primi gattoni, lenti, incerti. Il muso si lascia carezzare dall’erba mentre i denti affondano nella gomma. Il mio sorriso la gratifica, la pallina torna nella mia mano sinistra; la destra accarezza la testa. Mi siedo e continuiamo a giocare con la pallina, due tre lanci ancora, ancora carezze, il muso della cagna &egrave gioia. Ora &egrave in grado di eseguire l’ordine.

Ancora scodinzola quando mi porta la palla per la quarta volta.

“&egrave ora di rientrare”.

Riattacco il guinzaglio al colare e mi alzo. So che &egrave confusa quando segue i miei passi allontanarsi dalla porta d’ingresso e andare verso la siepe, non vedo il suo muso, &egrave dietro di me. Raggiunta la siepe mi fermo, aspetto che mi raggiunga

“Non mi sono dimenticato, lo so che i cani escono per fare i bisogni”.

Aspetto, vedo il dubbio nei suoi occhi, l’incertezza tra il no e una nuova frontiera, il dilemma tra la soddisfazione del padrone e la vergogna dell’umiliazione. Distolgo lo sguardo mentre una carezza di incoraggiamento dona la spinta necessaria. La gamba destra si alza, mi volto, i suoi occhi sono chiusi, le labbra serrate, il liquido quasi trasparente inizia ad uscire, buona parte cola sulla gamba prima di spegnersi nell’erba. Torno a strattonare il collare, lei ha finito i bisogni ma non l’esperienza all’aperto. La conduco verso la canna dell’acqua, stacco il guinzaglio e mi allontano di un paio di passi. Il getto &egrave tanto freddo quanto forte ma funzionale a rimuovere i residui di urina dalle zampe. Nemmeno una carezza mentre la conduco verso la porta finestra. Apro.

“Seduta e resta”. Rientro in casa.

Pochi attimi per me, un’eternità per la cagna, la porta si apre di nuovo, un asciugamano a terra e uno nelle mie mani. Il muso si affaccia a cercare il consenso che arriva con un cenno del capo. La guardo compiaciuto mentre posa le ginocchia e i palmi delle mani si posano dove l’acqua si assorbe. Il sedere torna a poggiarsi sui talloni mentre la cullo nella dolcezza dell’asciugatura. La schiena, il torace, le zampe e il muso, per concludere frizionando i capelli. Estraggo il plug prima di infilare un dito tra il collare e la pelle. Mi basta una leggera pressione per farle capire che può tornare bipede, un’altra per indirizzarla al divano. Fatica a comprendere la posizione, sono costretto ad usare le parole.

“Sdraiata pancia in su, testa oltre il bordo del divano, gambe aperte e piegate”.

Ancora per poco non comprende il motivo di quella posizione, il mio scroto si poggia sulle sue labbra, la mia destra sulla sua figa, medio ed anulare entrano, il palmo sul clitoride. Inizio a muovere le mani e la schiava inizia a lappare, avverto il suo piacere quando si interrompe, uno schiaffo sulla vulva e riprende. Di nuovo si interrompe, di nuovo uno schiaffo. Un’ennesima interruzione del contatto lingua palle mi porta a spingere il bacino pochi centimetri più avanti. Cambia l’obiettivo eppure lei sa che deve continuare. La sensazione della lingua sull’ano &egrave indescrivibile come sempre, con più foga muovo le dita, ancora e ancora, ancora sberle e si riparte. All’improvviso mi fermo, interrompe anche lei. Mi faccio più indietro, le mani sul collo, il cazzo che entra nella gola. Nessun ritmo, nessuna cadenza, esco e rientro a piacimento, accelero e mi fermo, rimango nella sua gola a gustarmi il soffocamento e mi allontano. La posizione trasforma bava e lacrime in una maschera. Ed &egrave attraverso quella maschera che la guardo, tra un affondo e l’altro, mentre tossisce, mentre il suo corpo mi ricorda che la sua gola non &egrave nata per custodire il mio membro e il suo collo non &egrave nato per il collare; eppure io sono lì a sentire le palle battere sul suo naso, a stringere le mani poco sopra il simbolo della sua devozione e schiavitù. Di nuovo separo il cazzo dalla bocca che bene mi ha servito, stacco e mani dal collo e inizio a segarmi mentre il mio ano si poggia sulle sue labbra. Mi gratifico con la devozione della lingua e l’autocompiacimento finché sento montare, selvaggio, l’orgasmo. Non una goccia del mio piacere viene lasciata cadere, il suo buco orale, ancora pieno del mio apprezzamento, ripulisce ogni residuo dal mio glande. Mi allontano a prendere la sua ciotola e la lascio a terra, vicino a lei.

“Sai cosa fare”.

Si alza, la bocca chiusa, sigillata, per non sprecare il mio seme, mentre si accuccia con le labbra sopra il metallo e lascia uscire il connubio di sperma e saliva. Per un istante lo guarda

“Posso padrone?”.

Acconsento con un cenno del capo, forse meno disinteressato di quello che volevo far apparire, guardo la sua lingua allungarsi verso quel bianco che si contrappone al metallo. Più volte ripete l’operazione, tutte le volte che sono necessarie affinché il frutto dei miei testicoli sia nutrimento della mia schiava.

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