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Racconti di Dominazione

Sparire a venticinque anni

By 7 Dicembre 2011Dicembre 16th, 2019No Comments

Barbara era scomparsa.
In un tiepido pomeriggio di primavera, in una città affollata da milioni di abitanti, Barbara, venticinque anni appena compiuti, un musetto carino, circondato da una capigliatura bionda e riccia, era scomparsa.
All’inizio non se ne era accorto nessuno tranne lei.
Poi, non avendone notizia, gli amici ed i parenti si erano rivolti alla polizia.
L’ultima ad averla vista era stata Martina, una sua amica.
Si erano lasciate alle cinque del pomeriggio di quel sabato di primavera e nessuno l’aveva più vista.
Sparita in pieno centro, in mezzo a migliaia di persone che facevano shopping o passeggiavano.
Per un po’ l’avevano cercata, poi la sua pratica era finita in mezzo a migliaia di altre pratiche uguali.
Migliaia di persone che ogni anno, in Italia, scompaiono senza essere più ritrovate.
I motivi sono tanti, molte persone scompaiono perché decidono di far perdere le loro tracce.
Altre semplicemente perdono la vita in circostanze particolari e non vengono più ritrovate, o magari il loro cadavere viene rinvenuto per caso, dopo tanti anni.
La scomparsa di Barbara, una ragazza piccola di statura e formosa, allegra e piena di vita, era invece molto particolare.
Quel pomeriggio, come aveva appurato la polizia, si era vista con Martina poi, più o meno verso le diciassette, le due amiche si erano separate e Barbara aveva continuato a girellare per il centro, guardando le vetrine.
Era entrata in un grande negozio del centro, aperto da poco (ma questo la polizia non lo sapeva). Un magazzino dedicato tutto alla moda giovane, a prezzi bassi.
Aveva girato a lungo, prima di trovare una camicetta, che le piaceva e quindi dirigersi verso i camerini per provarla.
I camerini si trovavano sul retro, vicini al magazzino del negozio e c’era parecchio disordine, forse perché avevano aperto da poco, e stavano ancora sistemando un po’ di cose.
Aveva incrociato due operai con la tuta blu, che si erano appiattiti contro il muro, uno da un lato ed uno dall’altro, per farla passare.
Barbara aveva ringraziato ed aveva proseguito verso i camerini, tenendo in mano la camicetta da provare.
Proprio mentre passava tra i due si era sentita afferrare da dietro mentre una mano le premeva un tampone bagnato sulla bocca e sul naso.
Ricordava solo di aver lasciato cadere a terra la camicia, pensando ‘accidenti ora si sporcherà’, poi era stata presa di peso ed avvolta in qualcosa.
Si era risvegliata, legata mani e piedi ed imbavagliata, stretta dentro quello che doveva essere un grosso tappeto arrotolato.
Il rumore ed i sobbalzi le indicavano che doveva essere in un’automobile o, più probabilmente, doveva trattarsi di un furgone.
Quando l’avevano scaricata, ancora avvolta nel tappeto, Barbara era troppo intontita per rendersi conto di quello che stava accadendo intorno a lei.
Solo più tardi, quando era stata lasciata sola, rinchiusa in quella che sembrava una cella ricavata in una cantina, la ragazza aveva cominciato a rendersi conto della sua reale condizione.
Era libera di muoversi, perché i due che l’avevano rapita, l’avevano liberata dalle corde che la bloccavano.
Barbara era riuscita facilmente a liberarsi del bavaglio fatto con un pezzo di stoffa e del robusto cerotto ed aveva finalmente potuto respirare profondamente.
Aria fredda e umida, sicuramente sono in un sotterraneo.
Passò poi ad esaminare la stanza, illuminata da un tubo fluorescente piazzato sul soffitto.
Un locale piccolo, più o meno due metri per tre, con le pareti sporche ed umide, senza nessun arredamento.
C’era solo una brandina sudicia, senza materasso e senza lenzuola, con una vecchia coperta, piegata, poggiata sopra.
Una sedia di ferro arrugginita con sopra un piatto con una coscia di pollo e dell’insalata e, a fianco, una bottiglia d’acqua.
Completava la dotazione della sua cella un bidoncino di metallo sgraffiato e puzzolente, senza coperchio.
Il forte odore di urina che veniva da quell’oggetto, le ricordò che erano molte ore che non andava in bagno.
Guardò dentro il bidoncino, con circospezione, cercando di trattenere il respiro.
Era completamente vuoto, ma l’interno, incrostato e maleodorante, le suggeriva che diverse persone, ne avevano fatto lo stesso uso che lei si apprestava a fare.
Si abbassò le calze e le mutandine e si inchinò cercando di non toccare il bordo del bidoncino con le cosce.
Pensò che non aveva mai fatto pipì in un bidone e che il rumore che faceva il zampillo di liquido, battendo sulla superficie di metallo, era buffo.
Nonostante tutto aveva fame e divorò il pollo, anche se era freddo. Non le avevano lasciato le posate e fu costretta ad impugnare la coscia tra le dita per mangiarla. Per l’insalata fu più complicato, ma pensò che sporcarsi le dita per mangiare, nella sua condizione, fosse il meno.
Si ripulì alla meglio versando un po’ d’acqua sulle mani, che asciugò sulla vecchia coperta, poi bevve il resto della bottiglia.
Decise di dormire vestita, un po’ perché faceva freddo, ma soprattutto perché non si sentiva per niente sicura e non era il caso di farsi trovare spogliata quando si sarebbero fatti vivi i suoi carcerieri.
Era sicura che, data la situazione difficile in cui si trovava, non avrebbe chiuso occhio per tutta la notte, invece, si addormentò come un sasso, nonostante la scomodità della brandina.
La mattina successiva Barbara fu svegliata dal chiavistello della porta che girava e scattò subito in piedi, buttando via di lato la coperta.
Si aspettava di trovarsi davanti i due operai, invece entrarono una donna ed un uomo.
Lei era alta e magra, con un viso severo, il naso lungo e stretto su cui poggiavano un paio di occhiali dalla montatura dorata, portava i capelli lunghi e nerissimi, raccolti dietro la nuca, in una grande crocchia, tenuti insieme da un grosso fermaglio. Avrà avuto un’età tra i cinquanta ed i sessanta, e, dall’aspetto, pensò che potesse essere un’istitutrice o una bibliotecaria zitella.
L’uomo, più o meno della stessa età dell’altra, era altissimo, magro e completamente calvo. Vestiva completamente di nero ed il suo sguardo, vagamente torbido, le fece venire i brividi.
‘Bene, cara. Benvenuta nella casa. Cominceremo subito con te, senza perdere tempo.
Tu sei Alice …’
‘Ecco signora, sicuramente c’è stato un errore, io mi chiamo Barbara e non so perché …’
‘Taci!’
La sua voce si era fatta gelida e tagliente.
‘Tu da oggi sarai Alice perché io ho deciso che ti chiamerai così.
Ti avverto subito che alle schiave non è permesso interrompermi, anzi le schiave, prima di parlare, devono chiedere il permesso …’
‘Schiava? Ma cosa sta dicendo? Ma è pazza? La schiavitù non esiste.’
La donna alzò un braccio in un gesto che sembrava allo stesso tempo imperioso e minaccioso e Barbara si zittì.
‘Ti perdono solo perché sei appena arrivata. Nei prossimi giorni capirai.
Allora, tu sei Alice, una schiava che deve essere istruita.
Verrai prima iniziata, poi ti verrà insegnato ad ubbidire, a servire il tuo futuro padrone, in quelli che saranno i tuoi compiti, ad avere cura di te stessa e molte altre cose.
Ricorda, la cura del proprio corpo è molto importante, perché una schiava poco curata, viene prima o poi rifiutata dal padrone e, se non ne trova un altro che l’accetta, è la sua fine.
Tu, Alice’, rimarcò bene il suo nuovo nome, ‘sei giovane e carina, se saprai gestire bene il tuo corpo, hai parecchi anni di lavoro davanti a te.’
Barbara era confusa e spaventata e reagì bruscamente alle strane parole della donna.
‘Ma che cazzo dici, mi chiamo Barbara, non sono mai stata schiava di nessuno e non voglio nessun padrone!’
La donna scosse la testa mentre l’altro, per la prima volta, aprì bocca.
‘Signora, credo che faremo bene ad iniziare subito la nuova arrivata.’
‘lo credo anch’io, la porti nella sala.’
La sala era un grande ambiente, probabilmente usato una volta come magazzino. C’erano diversi oggetti, mobili o macchinari, non si capiva bene, ricoperti con dei teli di plastica verde.
Barbara fece il suo primo ingresso nella sala, caricata sulle spalle dell’uomo mentre l’altra toglieva il telo ad uno degli oggetti sparsi nella stanza.
Era una cavallina, di quelle che si usano in palestra. Barbara la conosceva bene, l’aveva saltata un mucchio di volte a ginnastica, quando faceva il liceo.
Fu sistemata a pancia in giù sull’attrezzo e, mentre lui la teneva ferma, lei le legava strettamente mani e piedi alle zampe della cavallina.
‘Ora sarai iniziata, è la prima prova del tuo percorso.’
Barbara cominciò ad avere veramente paura.
Non aveva idea in cosa consistesse questa iniziazione o come cavolo l’aveva chiamata quella donna, ma il fatto che l’avessero legata sulla cavallina in quella posizione, le faceva venire dei brutti pensieri.
Quell’uomo dallo sguardo torbido, l’avrebbe frustata finché lei non avrebbe detto di chiamarsi Alice, oppure, peggio, l’avrebbe brutalmente sodomizzata, per farle accettare la sua condizione di schiava.
Quando la donna le sollevò la gonna e le abbassò fino alle ginocchia slip e collant, Barbara si convinse che il loro obiettivo fosse proprio il suo posteriore.
Si accorse che nella sala, a differenza della sua cella, c’era un bel tepore, proveniente da un grande camino, disposto nell’angolo più lontano.
L’uomo stava attizzando il fuoco, mentre la donna le carezzava il sedere.
Ci mancava solo, in mezzo a tanti guai, di avere a che fare con una vecchia lesbica, pensò Barbara.
‘Cara Alice, hai veramente un bel culetto, sodo e sporgente. Mi dispiace un po’ doverlo fare, ma è il marchio di fabbrica, che faccio applicare a tutte le schiave che escono da qui.’
In quel momento Barbara capì le loro intenzioni. Se avesse potuto scegliere avrebbe preferito farsi frustare a sangue le chiappe, oppure farsi scopare da quel vecchio, che ora si stava avvicinando, brandendo un ferro rovente, che aveva scaldato per bene sul camino.
Ma non aveva scelta, era lì, immobilizzata pronta a subire l’atto iniziale della sua nuova vita da schiava.
La donna, con agilità insospettabile, saltò sopra la cavallina ed atterrò precisa sulla schiena di Barbara, immobilizzandola completamente con il suo peso.
‘Farà parecchio male, ma passerà, come le altre cose che dovremo farti, per trasformarti in una buona schiava. E poi il disegno non è brutto. Rappresenta un angelo con le ali aperte, perché voi schiave, per il padrone, dovrete essere come degli angeli.’
Credette di morire quando il ferro rovente affondò nella sua carne.
Le sembrò che l’operazione durasse un’eternità e, mano mano che passavano i secondi interminabili, il metallo bollente penetrasse sempre più in profondità.
La slegarono dalla cavallina e lei si afflosciò a terra, semi svenuta.
‘Alice, alzati!’
Barbara era immobile, incapace di muoversi.
‘Vuoi alzarti, oppure preferisci che facciamo lo stesso anche dall’altra parte?’
Barbara si alzò faticosamente, il dolore era insopportabile e non aveva alcuna intenzione di fare il bis.
‘Spogliati, devi liberarti di questi vestiti.’
Rimase con il reggiseno e le mutandine abbassate, perché non avrebbe potuto sopportare la stoffa sulla pelle appena ustionata.
‘Tutto, devi rimanere nuda.’
Barbara non poté fare altro che eseguire e rimase nuda e tremante davanti ai suoi aguzzini.
‘Possiamo applicarle i ferri, poi, per oggi può bastare.’
L’uomo le mise ai polsi ed alle caviglie dei pesanti bracciali di ferro, fatti da due metà incernierate e chiuse con un perno di metallo, che bloccò ripiegandone le estremità con una tenaglia.
I ferri, così li aveva chiamati la donna, erano stretti, pesanti e terminavano con un grosso anello.
Barbara percorse il corridoio che la separava dalla cella, nuda, terrorizzata e tormentata dal dolore lancinante della fresca marchiatura e quando raggiunse la sua destinazione, le fecero passare una grossa catena attraverso l’anello di uno dei ferri che le stringeva le caviglie.
Non toccò la cena che le avevano lasciato sulla sedia, ma si buttò sulla brandina a pancia in giù, cercando di tirarsi sopra la coperta.

Il mattino successivo la donna la riportò nella sala.
In fondo, nell’angolo opposto al camino, avevano tolto il telone a quello che era inequivocabilmente l’attrezzatura di uno studio dentistico.
Lui se ne stava in piedi, con indosso un camice verde e sogghignava.
‘Siediti pure, piccola, oggi inizieremo a lavorare seriamente su di te, per trasformarti in una brava schiava.’
Barbara si mise a gridare, dicendo che non aveva alcuna intenzione di fare la schiava, ma sembrava che per quelle due persone lei neanche avesse aperto bocca, perché, senza aggiungere nulla, la fecero sedere sulla poltrona. Barbara si accorse che era dotata di robuste cinghie di cuoio, con cui subito le immobilizzarono braccia e gambe.
L’uomo dispose la poltrona in posizione orizzontale e poi la fece abbassare.
‘Ora mia cara’ disse la donna ‘dovrai iniziare ad imparare a soddisfare il tuo futuro padrone con la tua bocca’.
‘Cosa? …’ Esclamò Barbara.
‘Insomma, per dirla senza tanti giri di parole’, la interruppe il dentista, ‘al tuo futuro padrone dovrai fare dei bei pompini e vogliamo essere certi che tu non provi a staccargli l’uccello con un morso, quindi …’
‘Dottore, per favore, questo linguaggio è insopportabile.’
La donna era diventata paonazza e lo guardava adirata.
‘Mi scusi signora, mi è scappato, insomma, ragazza mia, dovrai fare prima un po’ di pratica con me.’
‘Non ci penso neanche lontanamente, non provi ad avvicinarsi, altrimenti …’
‘Altrimenti cosa?. Mia cara ragazza, sei seduta su una poltrona da dentista ed io sono un dentista.
Ora tu me lo succhierai per bene, senza fare storie, e non voglio neanche sentirlo sfiorare dai tuoi denti, altrimenti sarò costretto ad estirparli uno ad uno, magari pure senza anestesia.’
La donna le tenne a forza la bocca aperta e il dentista le piazzò uno strano aggeggio.
Era un’intelaiatura d’acciaio che si andò ad incastrare tra la parte interna del labbro ed la base delle gengive, sia sopra che sotto.
Ora Barbara aveva la bocca spalancata e non avrebbe potuto chiuderla per nessun motivo.
Gridava, terrorizzata, ma i due non sembravano affatto impressionati.
L’uomo abbassò la poltrona mettendola in orizzontale e si aprì i pantaloni.
In mezzo alla stoffa nera spuntò un pene grande, lungo ed un po’ curvo, già bello eretto.
Allargò le gambe e si sedette sui seni di Barbara, cominciando a strofinarglielo sulle guance.
Dalle labbra della ragazza, tenute aperte a forza dall’aggeggio che le avevano incastrato in bocca, colava un sottile filo di bava, che l’uomo si divertì a raccogliere con la punta del pene.
Quando iniziò a passarglielo sulle labbra, strofinandolo come fosse un rossetto, Barbara ebbe dei conati di vomito, ma lui continuò imperterrito, finché lei non si calmò.
Ora la ragazza era ferma, completamente immobile e non gridava più, solo un respiro ansimante le scuoteva il petto compresso dal peso dell’uomo seduto su di lei.
Emise soltanto un lamento quando glie lo infilò nella bocca.
L’uomo allentò due viti a galletto poste di lato all’attrezzo di metallo e lei sentì che la sua bocca si chiudeva in parte, fino a farle stringere leggermente il pene, infine le serrò di nuovo.
Barbara si sentì tirare i capelli sulla nuca, poi la sua testa cominciò a muoversi avanti e indietro.
L’uomo ansimava e grugniva di piacere mentre il suo pene entrava ed usciva nella sua bocca, così, lentamente, Barbara socchiuse gli occhi e si lasciò andare.
Si scosse solo quando sentì lo sperma che le riempiva la bocca, cercò di scansarsi ma l’uomo le tenne la testa ferma, mentre si susseguivano le contrazioni.
Quando finalmente fu tutto finito, lui si alzò e la liberò dell’attrezzo che la costringeva a stare con la bocca aperta.
Era stanca, la bocca indolenzita e, oltre tutto, la carne, dove il giorno prima le avevano impresso il marchio rovente, bruciava terribilmente, ma in un certo senso si sentiva quasi sollevata.
La fecero scendere dalla poltrona da dentista e la riaccompagnarono nella sua cella.
Il pavimento del corridoio era umido e freddo a contatto dei suoi piedi nudi
Un po’ di sperma le scivolò fuori dalla bocca e lei lo asciugò con la lingua.
Fu un gesto rapido ed istintivo, che sanciva l’accettazione della sua condizione di schiava.

Il giorno dopo la venne a prendere la signora.
Le sciolse la catena che le bloccava la caviglia e le fece percorrere di nuovo il corridoio che portava alla sala.
Cos’altro vogliono farmi ora?
Le ordinò di nuovo di accomodarsi sulla cavallina e Barbara ubbidì.
Questa volta non la legò, era sicura che la schiava non si sarebbe più ribellata.
‘Mia cara Alice, prima dell’addestramento vero e proprio, resta solo da sistemare il tuo ano, per renderlo più confortevole.’
‘Cosa?’
Sentì la voce del dentista dal fondo della sala.
‘Mi scusi signora, ma sennò la ragazza non capisce. Quando il tuo padrone ti inculerà, vorremmo evitare che si scortichi l’uccello, così dobbiamo prima allargare il tuo buco del culo. Non troppo da sfondarlo irrimediabilmente, ma abbastanza da rendere la cosa facile e piacevole per lui. Non preoccuparti, la signora è una vera maestra in queste faccende.’
La signora si era infilata dei guanti in lattice trasparente e si stava spalmando le dita con una sostanza oleosa che spremeva da un tubetto.
‘Alice, stai rilassata, non ti farò nulla.’
Le infilò un dito nell’ano e cominciò ad esplorare.
‘Allora?’ Chiese il dentista.
‘Stretto, molto stretto. Direi nuovo, sotto questo aspetto. Ci vorrà un po’ di tempo.’
‘Bene’, disse il dentista, ‘prendo gli attrezzi. Cominciamo con il n. 1?’
‘Beh, non così stretto, per iniziare basterà il n. 2.’
Il dentista teneva in mano una grande cassetta di legno con dei cilindri di metallo lucente, arrotondati ad una estremità, mentre all’altra avevano attaccata una sottile catenella.
Erano disposti su due file, in ordine di grandezza e prese il secondo, partendo dal più piccolo.
A Barbara sembrò enorme e pensò che le avrebbe sfondato l’intestino, ma non disse nulla, perché era troppa la paura che aveva di quei due.
La donna spalmò con cura il cilindro di metallo, accertandosi che Barbara lo avesse visto bene, poi si mise alle sue spalle.
‘Su, fai la brava, fatti allargare il culetto, bene così.’
Il cilindro era freddo e duro. La signora lo spingeva e lo ruotava.
‘Ahi, fa male.’
‘Certo che fa male. Ma Alice è una schiava brava e ubbidiente e …’
La signora spinse di colpo il cilindro, che sparì in mezzo alle natiche di Barbara, lasciando solo la catenella a penzolare tra le sue cosce allargate.
Barbara aveva lanciato un urlo, di sorpresa e di dolore.
‘Benissimo, ora puoi scendere.’
La fece scendere dalla cavallina e quel cilindro, piantato nel suo ano, quando toccò terra bruscamente con i piedi nudi, le causò una fitta dolorosa.
‘Tieni le gambe chiuse, ragazza, ora mettiamo le mutande così non c’è pericolo che esca.’
Quello che la donna aveva chiamato mutande, era un indumento di cuoio nero, che, una volta indossato, coprì completamente il corpo di Barbara dall’attaccatura delle cosce fino alla vita. Era legato sul davanti da una piccola catena di metallo, che passava, incrociandosi, in una serie di anellini, alternativamente su un lato e sull’altro, dal bordo superiore, all’altezza dell’ombelico, fino ai peli pubici, dove era bloccata da un lucchetto. Lì il cuoio si allargava, lasciando completamente scoperto il suo sesso.
‘Questo dovrai portarlo fino a domani mattina, poi faremo un controllo e vedremo come procede.’
Il mattino dopo le concesse un’ora di libertà, senza le mutande di cuoio e, soprattutto, senza quel maledetto cilindro, poi la riportò nella sala.
Esaminò con cura l’ano della schiava e decise che si poteva passare al n. 3.
Entrò abbastanza facilmente ma poi, una volta bloccato dalle mutande di cuoio, Barbara si accorse che le risultava difficile e doloroso muoversi.
L’andirivieni dei cilindri di metalli, conficcato nel suo ano, procedette per diversi giorni.
La signora, la mattina successiva, stabiliva se si poteva passare alla misura superiore, o se doveva tenere ancora quello più piccolo.
Era un procedimento doloroso ma non troppo, la donna procedeva con cautela, sicuramente per non mandare sprecato il lavoro fatto fino ad ora.
Si fermò al n. 7, che Barbara dovette portare per ben cinque giorni. La signora sentenziò che ora il suo ano era perfetto e che Alice poteva considerarsi una aspirante schiava perfettamente iniziata.
Quella sera la signora non la riaccompagnò nella sua cella.
‘Ora, cara, inizia il tuo addestramento. Alloggerai in una stanza confortevole, che sarà praticamente identica e quella definitiva, a casa del tuo padrone.
Durante questo periodo dovrai imparare tutto quello che deve sapere una brava schiava.’ La stanza era molto più grande della cella e ben arredata.
Un morbido letto ad una piazza e mezzo, con una completa dotazione di lenzuola, cuscini e coperte.
Un armadio, un comò con lo specchio ed una poltrona, eleganti e di buona fattura, completavano l’arredamento.
Una porta conduceva ad un bagno piccolo ma dotato di ogni comfort, box doccia incluso.
Non mancava un grosso anello di ferro conficcato nel muro con una catena, che la signora usò per bloccare una caviglia di Barbara. Anche se migliore, pur sempre di prigione si trattava.
Nell’armadio c’erano dei vestiti, leggeri, corti e scollati, adatti ad un clima estivo, ma, visto che la stanza era riscaldata e lei non sarebbe dovuta uscire di casa, erano adatti ad ogni stagione.
In basso trovò anche un paio di scarpe rosse, chiuse dietro da un sottile cinturino, con il tacco molto alto.
Non c’era traccia di biancheria intima.
La signora le spiegò che le schiave non erano autorizzate a portare mutande, reggiseni e calze, perché dovevano essere rapidamente a disposizione del padrone.
La signora partì subito con le lezioni. Era precisa ed inflessibile.
Ogni particolare doveva essere perfetto, dal trucco alla posizione in cui doveva stare seduta.
Simulava con lei dei dialoghi con un padrone immaginario, e la riprendeva aspramente quando il tono di voce non era quello giusto, o non era pronta a rispondere ad una sua domanda.
Una sera si presentarono entrambi. Il dentista si sbracò sulla poltrona mentre la donna si sedette sul bordo del letto.
‘Lui è il tuo padrone, è appena rientrato e siete soli.’
Barbara si avvicinò timorosa, facendo sferragliare la catena alla caviglia.
‘Buonasera padrone, posso toglierle le scarpe?’
‘Certo, piccola troia.’
Barbara si apprestò a slacciare una scarpa al dentista.
‘Cosa devi dirgli, cretina. Giorni e giorni che proviamo e …’
‘Oddio! Sì, mi scusi ‘ grazie mio signore per avermi rivolto la parola.’
Barbara gli tolse le scarpe e la signora la guardò, come se volesse suggerirle qualcosa.
‘Posso massaggiarle i piedi padrone?’
‘Devi! Puttana, e poi dovrai anche baciarli.’
Barbara eseguì un breve massaggio, poi gli sfilò i calzini e prese a baciargli i piedi.
‘Puzzano i miei piedi?’
‘No mio signore.’
‘Bugiarda i miei piedi sono sudati e puzzano, ma tu adori la loro puzza, vero?’
‘Sì, padrone, i suoi piedi puzzano ed io adoro il loro odore.’
‘Bene, troia. Ora tirati su. Come ti chiami?’
Barbara ebbe un attimo di esitazione. Stava per dire il suo vero nome, anzi il suo vecchio nome.
‘… A ‘ Alice. Signore.’
‘Bene, Alice. Ho voglia di un pompino.’
Ecco, era giunto il momento, dopo tanta preparazione, il suo addestramento era arrivato ad un punto cruciale.
Si piazzò in mezzo alle gambe allargate del dentista ed iniziò ad aprirgli i pantaloni.
Le tremavano le mani, era la prima volta che faceva una cosa del genere e ci stava mettendo troppo tempo.
‘Alice’
‘Sì padrone.’
‘Piccola troia incapace, ti si sono paralizzate le mani?’
‘Mi scusi, signore, ecco, ho fatto.’
‘Beh, cosa aspetti, tiralo fuori.’
Infilò le dita nelle mutande e lo prese delicatamente. Era grande e stava indurendosi in fretta.
Barbara si avvicinò con la bocca.
Questa volta fu la signora a parlare.
‘Alice, ti ho forse insegnato questo, io?
Non devi infilartelo in bocca subito. Lo devi prima leccare per bene. Devi un po’ giocarci.
Poi, quando sarà il momento, e te ne accorgerai, potrai ingoiarlo e succhiarlo.
Dai, prova ancora.’
E così cominciò a leccarlo. Sotto l’impulso della sua lingua era cresciuto ancora.
Non era facile, perché emanava un odore orribile e, dopo i primi colpi di lingua, fu presa da conati di vomito.
‘Oh no! Alice, cosa stai combinando?’
‘Stupida troia, prova a vomitarmi addosso e ti stacco la pelle. Non ti piace il suo aroma?
Beh, può capitare con il tuo padrone non si faccia spesso il bidè.
Sai cosa deve fare una brava schiava, sopportare e dire: adoro l’odore ed il sapore del cazzo del mio padrone.
Dai ripeti.’
‘Sì, adoro l’odore ed il sapore del cazzo del mio padrone.’
‘Bene, ora continua.’
Barbara respirò a fondo un paio di volte e riprese a leccare.
Individuò presto i punti migliori dove la sua lingua causava maggior piacere all’uomo.
‘Abbassati di più. Leccami bene le palle.’
La schiava eseguì prontamente. L’uomo le prese la testa tra le mani e la sollevò fino a portarla sopra al suo pene, ormai gonfio e duro.
Barbara chiuse gli occhi e si abbassò, cercando di inghiottirlo tutto.
Il dentista la costringeva a muoversi in su ed in giù e le sue labbra, strette intorno al pene dell’uomo, lo stavano rapidamente portando all’orgasmo.
Lo sentiva ansimare e con le mani la stringeva forte dietro la nuca.
Sentì la voce della signora.
‘Usa la bocca, ragazza. Devi usare ogni parte della bocca. Stringilo alla base del glande, non preoccuparti, non gli farai male.’
Barbara eseguì e lo sentì sussultare.
Stava per raggiungere l’orgasmo. Su questo frangente la sua insegnante era stata precisa: non doveva assolutamente tirarsi indietro. Il suo padrone doveva essere libero di spararle il suo seme in bocca, e lei avrebbe dovuto ringraziarlo di questo onore ed inghiottire tutto, fino all’ultima goccia.
Oppure avrebbe potuto decidere di allontanarsi e schizzarle addosso il suo sperma, divertendosi ad imbrattarla.
Il dentista scelse la prima soluzione e Barbara si sentì soffocare.
Continuava a schizzarle in gola quella roba calda e densa e lei sapeva che doveva deglutire tutto, fino all’ultima goccia.
‘Beh, non c’è male, disse l’uomo. Diciamo che la stoffa della troia schiava c’è, ma bisognerà lavorare parecchio.
Alice, piccola puttana, dovrai farmi ancora parecchi pompini prima che ti possiamo affidare ad un padrone.
Ora sbrigati a ripulirmelo, perché ti voglio inculare.’
Barbara finì di ripulire, con la lingua, il pene dell’uomo, poi si mise sul letto, in ginocchio.
Lui la raggiunse subito. Si era tolto del tutto pantaloni e mutande e si era piazzato di fronte a lei.
‘Su fammi una sega. Non posso ficcartelo moscio.’
Barbara ubbidì e ritornò subito eretto.
‘Adesso allarga bene le chiappe che ti voglio sfondare.’
Poi rivolto alla signora, ‘però, ha un bel culo la nuova schiava, ha pure due belle gambe e le tette non sono niente male. Ha solo il musetto un po’ triste, ma vedrai che le farò tornare l’allegria.’
‘Ahi!’
Barbara aveva gridato per il dolore, visto che il dentista aveva cercato di infilarglielo di sorpresa, senza alcun lubrificante.
‘Piccola troia, non devi gridare. Devi allargare bene le chiappe e dire: oh che bello mio signore, quanto mi piace prenderlo in culo. E mi devi pure fare un bel sorriso.’
Ricominciò tutto da capo e Barbara sopportò senza fare un fiato la violenta penetrazione, poi iniziò a muoversi ed a mugolare.
L’uomo lo tirò fuori e la colpì con una violenta sculacciata.
‘Stronza, non hai capito un cazzo. Non devi godere, non devi avere un orgasmo o magari simularlo. Tu devi solo essere contenta perché il tuo padrone ti sta inculando. Sono io che devo godere. Capito?’
Ricominciò e questa volta andò tutto liscio.
Barbara rimase sul letto con il sedere indolenzito, gocciolante di sperma misto a tracce di sangue.
La prima lezione era finita ma ce ne sarebbero state molte altre.
Le visite serali e notturne del dentista erano frequenti e varie.
La penetrava regolarmente avanti ed dietro, usando sempre il preservativo nel primo caso, perché una schiava incinta sarebbe stato un bel problema, diceva lui.
Aveva anche imparato a fare bene i pompini.
Ormai era vicino il momento in cui Barbara, anzi, Alice, avrebbe lasciato quella casa per trasferirsi dal suo padrone definitivo. Era giunto il momento.
La signora una mattina le disse che il suo addestramento era completo e che presto avrebbe lasciato la casa, per essere assegnata al suo primo padrone.
Aveva usato proprio la parola assegnata. Una schiava era una specie di oggetto che veniva dato in uso ad un padrone.
Una volta firmato il contratto il padrone poteva disporre della schiava tutto il tempo che voleva. Poteva restituirla se la schiava non si comportava bene o anche se non la trovava di suo gradimento, in tal caso, però doveva pagare una penale per le spese di sostituzione.
Il contratto si concludeva con la morte del padrone ed era per questo motivo che la signora aveva parlato per Alice di primo padrone.
‘E’ parecchio in là con gli anni ed è probabile che tra un po’, dovremo venire a riprenderti e trovarti un nuovo padrone.
Non ti preoccupare, nel caso che lui non scenda più da te per diversi giorni, potrai metterti in contatto con me.
La tua stanza si trova in un luogo nascosto accessibile solo al padrone ed a nessun altro, oltre a me ed al dentista.
Non rischierai di morire di fame, chiusa nella tua cella.’
Nel primo pomeriggio Barbara, ora diventata Alice, lasciò la casa in cui era stata richiusa per diversi mesi.
Nel garage in cui fu fatta entrare, c’era una grossa berlina nera, con i vetri posteriori oscurati.
Lei sedette dietro con la signora, mentre il dentista si mise alla guida.
‘Mettiti questo, cara’, le disse la donna porgendole un pesante cappuccio nero, ‘per il tuo bene è meglio che tu non sappia da dove parti e dove vai.’
il viaggio durò diverse ore e, quando alla fine scese dall’auto, la fecero entrare, sempre bendata in una cantina. Solo lì, finalmente, le tolsero il cappuccio.
‘Adesso, Alice, ti accompagneremo nella tua stanza, più tardi conoscerai il tuo padrone.’
La stanza era praticamente una replica di quella in cui lei aveva compiuto il suo addestramento.
Il dentista le fissò con un grosso lucchetto la lunga catena che, all’altro capo, era ancorata al muro.
Lo scatto metallico della serratura sancì la sua definitiva prigionia e schiavitù.
Il suo mondo sarebbe stato limitato a quella stanza ed al raggio d’azione che la catena, solidamente fissata al ferro che le imprigionava la caviglia, le avrebbe permesso.
‘Hai tutto il tempo per preparanti, truccarti e sistemarti al meglio per la prima visita del tuo padrone.’ Le disse la signora.
Poi aggiunse ‘Gli piacciono i vestiti rossi ed i tacchi alti. Buona fortuna.’
La pesante porta di ferro della prigione si chiuse e Barbara, anzi ormai Alice, rimase sola.
Quando la porta si aprì di nuovo, per lasciar entrare il suo padrone, lei era pronta.
Si era lavata, asciugata e pettinata i suoi lunghi capelli. Aveva provveduto a truccarsi secondo gli insegnamenti della signora e, seguendo il suo ultimo consiglio, aveva indossato un vestito, corto e scollato, color rosso fuoco.
Si era guardata allo specchio ed aveva sistemato meglio la scollatura, in modo da mettere in risalto i seni.
Provò a sorridere. Tutto sommato si trovò bella. Una bella e giovane schiava.
Per ultimo si mise le scarpe. Scelse, sempre ricordando la raccomandazione della signora, quelle con il tacco più alto.
Sarebbe stato imperdonabile essere rifiutata subito, al primo incontro dal suo padrone.
Come la porta si aprì, Alice scattò in piedi, poi chinò leggermente il capo, in segno di sottomissione, come le avevano insegnato.
‘Tu devi essere ‘, puoi guardarmi, puoi alzare la testa.’
‘Sì, grazie mio signore. Io sono Alice e sono qui per servirla. Ubbidirò sempre al mio padrone e farò qualsiasi cosa mi chieda.’
Alice alzò la testa e si trovò davanti un omino, piccolo e grasso, dall’aria malaticcia.
Doveva essere parecchio stanco e non sembrava godere di buona salute.
‘Vieni qui, fatti vedere, Alice.’
La schiava si mosse lentamente verso di lui, facendo sferragliare la catena sul pavimento.
‘Sei molto carina e sembri anche giovane. Io invece non lo sono più. La schiava precedente è invecchiata con me ed ho dovuto restituirla. Molto bene, se oltre che bella sarai anche brava come mi hanno promesso, potrai regalarmi dei bei momenti di piacere.
Ora vediamo un po’ meglio come sei fatta. Tirati su il vestito, lentamente.’
Alice cominciò a sollevare il vestito, scoprendo le cosce.
‘Belle gambe, snelle, dritte e ben fatte. Su, tira su ancora.’
Alice si scoprì fino alla vita.
‘Devi depilare meglio la tua vagina, non mi piacciono le donne con i peli. Mi raccomando anche le gambe. La tua pelle dovrà sempre essere liscia come la seta. Hai capito?’
‘Sì mio signore.’
‘Resta ferma così e girati, vediamo dietro, come sei fatta.’
Alice ubbidì prontamente e si girò.
‘Lucrezia, la mia vecchia schiava aveva un culo migliore, almeno all’inizio, ma anche tu puoi andare. Solleva ancora il vestito. Voglio vedere sopra.’
Alice sollevò completamente il vestito e si girò nuovamente verso di lui.
‘Bei seni. Grandi e sodi, si vede che sei giovane.
Ferma così, ora.’
Lei ubbidì e rimase immobile, davanti al suo padrone, mentre lui la esaminava attentamente, come se stesse comprando un cavallo alla fiera del bestiame.
Le passò a lungo un dito sulle labbra, poi le pizzicò delicatamente i capezzoli, terminando con una carezza sul sedere, proprio nel punto in cui la sua pelle era stata marchiata, subito dopo la cattura.
‘Perfetto.
Ti voglio provare subito.
Ora vado a sedermi sulla poltrona, vediamo che sai fare.’
Alice lo seguì ubbidiente ed aspettò che lui si accomodasse.
Gli tolse le scarpe ma lui non volle farsi massaggiare i piedi.
‘Un’altra volta, magari. Ora devi occuparti di lui.’ Disse indicando in mezzo alle gambe.
Alice gli aprì i pantaloni e si inginocchiò.
Era piccolo e molliccio e dovette impiegare tutto quello che aveva imparato in quei mesi di addestramento, ma alla fine riuscì a farlo diventare abbastanza grande e, soprattutto, abbastanza duro, da poterlo prendere in bocca.
L’uomo sembrava apprezzare ma proprio quando aveva l’impressione che andasse tutto per il meglio, la fermò e la fece rialzare.
Fu presa dalla paura: forse aveva sbagliato qualcosa?
‘Mio signore, non sono stata abbastanza brava?’
‘No Alice, anzi sei bravissima. è solo che, alla mia età devo risparmiare le energie e non ho più tante cartucce da sparare. Ora alzati e aspettami sul letto, continuerò con il tuo bel culo.’
Mentre lei aspettava impaziente, seduta sul letto, lo vide armeggiare con uno strano arnese con delle cinghie di cuoio.
Sapeva che non le era permesso fare domande e quindi non gli chiese nulla ma lui si era accorto degli sguardi curiosi della schiava.
‘E’ una piccola armatura di protezione, in cuoio e borchiette di metallo. Serve a conferire la necessaria rigidità al mio pene un po’ stanco, senza comprometterne la sensibilità.
Ne aumenta anche un po’ le dimensioni, cosa che credo apprezzerai.
Per ultimo, le borchie di metallo, che avrai certamente notato, renderanno un po’ più difficile il tuo compito di schiava, ma allo stesso tempo molto più eccitante la mia penetrazione. A proposito, devi ricoprire il letto con quel telo che sta sulla sedia, perché sicuramente perderai sangue, e non vorrei macchiare la sovraccoperta del letto.’
Alice era spaventata, ma il lungo addestramento in cui era stata abituata ad ubbidire senza battere ciglio, le fu utile, e così si concentrò nello stendere bene il telo sopra il letto, assicurandosi che non ci fossero pieghe.
Il suo padrone si avvicinò.
Il suo pene, stretto da quelle strisce di duro cuoio, aveva un’aria strana e minacciosa. Le borchie le sembravano appuntite, ma forse si sbagliava ed era solo una sua fantasia.
Pensò che senza quel duro e doloroso lavoro per allargare il suo ano, a cui era stata sottoposta, ora l’avrebbe massacrata.
Doveva sorridere, perché una brava schiava non deve mai manifestare sofferenza davanti al suo padrone.
‘Mio signore sono pronta. Sarà una gioia per la tua schiava, accogliere il tuo pene dentro di me.’
‘Non essere precipitosa, Alice. Non sai quello che ti aspetta.’
‘Padrone, la tua schiava accetterà con gioia tutto quello che ti porterà pia ‘.’
L’uomo le aveva allargato le natiche all’improvviso ed aveva iniziato a spingerle dentro quello strano arnese.
‘… piacere.’ Concluse con voce strozzata.
Il dolore era fortissimo, sembrava che le stesse quasi strappando la carne.
Sarebbe stato un miracolo non mettersi ad urlare, figuriamoci sorridere.
Il suo padrone sembrava apprezzare molto il trattamento che le stava infliggendo.
Lo sentiva entrare sempre più profondamente mentre il metallo delle borchie mordeva dolorosamente la sua carne.
Aveva chiuso la bocca e serrato le gengive per non gridare, ma ogni tanto le sfuggiva qualche piccolo gemito.
‘Alice, fa male vero?’
‘No ‘ mio signore ‘ qualsiasi cosa fa piacere al mio ‘ al mio padrone, è una ‘ gioia per me.’
‘Mia piccola schiava, lo so che fa male, molto male, e che tu sei stata abituata a non lamentarti, ma io ti chiedo ora, anzi, ti ordino, di lamentarti, di gridare, se veramente senti dolore. Hai capito?’
‘Sì, mio signore.’
lo spinse dentro, a fondo, e Alice gridò, per la prima volta, dopo tanti mesi, gridò.
Allora lui cominciò ad entrare ed uscire, con una foga insospettata per un uomo di quell’età e lei gridava.
Ogni volta che lui lo spingeva dentro, Alice gridava disperatamente.
Gridò ancora più forte quando l’uomo raggiunse l’orgasmo e lei si sentì improvvisamente bagnata.
Poi più nulla. Era uscito dal suo corpo, lasciandola senza fiato, per quanto aveva gridato.
Era di fronte a lei e stava slacciando le cinghie di cuoio che legavano la sua armatura.
Era completamente rosso di sangue, del sangue della sua schiava e Alice, nel vederlo, per un attimo temette di svenire, poi si riprese e sorrise.
‘Grazie mio signore, per il seme che mi hai donato.’
Era una delle frasi da dire dopo, con il tempo avrebbe imparato quali fossero le più gradite.
‘Bene, basta così.
Domani proverò il tuo sesso, ma ricordati di togliere quello schifo di peli.’
‘Buonanotte mio signore.’
La porta si chiuse con un fragore metallico, poi sentì la chiave che girava facendo scattare le mandate.
Era finita la sua prima giornata della sua vita da schiava. Alice passò parecchio tempo a depilarsi con cura.
Il suo padrone era stato chiaro e non aveva intenzione di deluderlo sin dall’inizio.
Nell’armadietto del bagno non aveva trovato creme depilatorie ma solo un rasoio usa e getta.
Se la sua pelle doveva apparire sempre liscia e perfetta, avrebbe dovuto usarlo molto spesso, ma visto che aveva un mucchio di tempo libero, non era certo un problema.
Passò con cura il rasoio dal manico di plastica sulle gambe e sulle braccia, finché non fu sicura del risultato.
Lasciò per ultimi i peli del pube. Prima li sfoltì con le forbicine per le unghie, poi, dopo aver bagnato bene la pelle, iniziò a passare la lama, facendo molta attenzione a non ferirsi proprio lì.
Pensò alla strana armatura di cuoio e metallo del suo padrone, a cosa le aveva appena fatto dietro, e le venne quasi da ridere: io sto qui a preoccuparmi di non graffiare la mia fica, quando lui me la massacrerà, penetrandomi con quell’arnese terribile.
Il riso si tramutò rapidamente in pianto mentre cercava di eliminare gli ultimi peli rimasti tra le labbra chiuse del suo sesso e l’attaccatura delle cosce.
Il giorno dopo il padrone si presentò puntuale e di buon umore.
Sembrava ansioso di cominciare.
Si accomodò subito in poltrona e Alice accorse prontamente, tenendo la catena sollevata con una mano, per evitare che strusciasse troppo sul pavimento.
‘Mia piccola schiava, è molto importante, per te, che tu oggi lavori bene con la tua splendida bocca.
Oggi penetrerò il tuo sesso. Se farai in modo che il mio pene sia abbastanza duro e dritto, quando sarà il momento opportuno, gli infilerai un bel profilattico e potrai anche provare un po’ di piacere, ma senza esagerare. Se non sarà possibile, sarò costretto ad usare l’armatura che hai già provato ieri di dietro.
Questo avrà due conseguenze spiacevoli, la prima già la conosci, e penso che cercherai di evitare che la tua bella cosina venga ferita da tutte quelle borchie di metallo.
La seconda è che non posso usare il preservativo con l’armatura e quindi potresti rimanere incinta.
Le schiave non devono avere figli e quindi sarei costretto a chiamare i miei fornitori per farti abortire.’
Alice si impegnò allo spasimo, nel tentativo di far diventare il più duro possibile, quel cazzo vecchio e stanco.
Avrebbe veramente usato l’armatura, oppure voleva solo tenerla sulla corda?
La guardava soddisfatto mentre lei si affannava, con le labbra e la lingua a farlo rizzare, e intanto con una mano giocherellava con l’armatura slacciata.
Alla fine, le porse un preservativo e Alice si affrettò a srotolarglielo sopra, prima che si ammosciasse.
La fece distendere sul letto a gambe allargate.
Quando lo sentì entrare, tirò un sospiro di sollievo: per questa volta si era salvata.
L’uomo impiegò parecchio a venire e ci riuscì soltanto aiutandosi con le mani, affondate nei suoi seni.
Gli piaceva stropicciarle le tette, tirarle i capezzoli fino a farle male e Alice si accorse che anche lei stava provando piacere. Non doveva manifestarlo in maniera troppo plateale, perché alle schiave non era permesso provare godimento.
Comunque alla fine lui riuscì ad avere il tanto agognato orgasmo e rimase per qualche minuto addosso ad Alice, respirando affannosamente.
‘Ora puoi togliermi il profilattico. Attenta, non ne devi versare neanche una goccia. E’ tutto per te, lo devi bere tutto.’
E Alice, per la prima volte bevve lo sperma del suo nuovo padrone.
Quando lui se ne fu andato, si infilò nel letto, spense la luce e si masturbò a lungo.
In questa maniera le sembrava di riuscire a far sopravvivere la sua femminilità, almeno per qualche momento.
Non voleva essere soltanto una schiava senza volontà, educata in funzione del piacere del suo padrone, una specie di automa.
Il giorno successivo le portò soltanto da mangiare.
‘Mi spiace, Alice, ma oggi non posso penetrarti. Sono troppo stanco, ma ti prometto che domani mi occuperò di te.’
Fu di parola e quando tornò si fece spogliare completamente da lei e si sdraiò sul letto.
Le fece unire i polsi dietro la schiena e ‘
Alice capì in quel momento a cosa potessero servire i ferri che le avevano messo subito dopo il suo rapimento. A parte quello che era servito per bloccarle la catena che le imprigionava la caviglia, aveva sempre pensato a quei bracciali, pesanti e taglienti, come a dei segni della sua schiavitù.
Quando sentì scattare un moschettone, che prese insieme i due anelli, che fuoriuscivano dai ferri ebbe paura.
‘Tranquilla mia cara, ora, visto che non potrai usare le mani, dovrai fare tutto con la bocca.
Oggi dovrai farlo fino in fondo e naturalmente dovrai bere tutto.’
Durante il suo addestramento, aveva fatto un’infinità di pompini al dentista, ma con quell’uomo vecchio e debole, era molto più difficile.
Lei succhiava, leccava, lo stimolava in mille maniere, ma sembrava sempre allo stesso punto.
Non sarebbe venuto mai e ‘
‘Alice, una brava schiava deve riuscirci, comunque. Vorrà dire che proverò l’armatura nella tua fica, rosea e delicata.’
‘No padrone, per favore, non lo faccia. Mi dia ancora un po’ di tempo. Mi lasci tentare ancora.’
‘Una schiava non deve dire al suo padrone cosa fare. Ora togliti, che mi devo infilare l’armatura.’
Alice invece non si staccò. Era rimasta disperatamente attaccata al suo pene.
Cercava, in un ultimo estremo tentativo di evitare il tormento dell’armatura.
Ebbe l’impressione che stesse succedendo qualcosa.
Forse era salva.
Il suo padrone sorrideva e lei aveva l’impressione che fosse diventato più grosso e più duro.
Il primo schizzo di sperma che le arrivò in bocca le sembrò la cosa più bella del mondo.
Tenne bene serrate le labbra intorno al pene dell’uomo che continuava a far zampillare il suo seme caldo e bevette tutto, con gioia.
Il padrone, alla fine le fece anche i complimenti.
Era contenta.
Dopo che lui l’ebbe lasciata sola si chiese se la sua contentezza dipendeva dall’aver scampato in extremis la penetrazione della sua vagina con l’armatura, o se era contenta perché una brava schiava è contenta quando ha fatto felice il padrone.
Nei mesi successivi non usò più l’armatura.
Alice si convinse che si era trattato di un deterrente per spingerla a dare sempre il massimo.
In ogni caso, pensò che era troppo rischioso provare a vedere se avesse avuto il coraggio di mettere in atto le sue minacce.
Ora era completamente asservita al suo padrone, dedicava tutte le sue energie a soddisfarlo e la notte, sempre più raramente, trovava il coraggio di masturbarsi.
Erano passati cinque o sei mesi (difficile regolarsi senza orologio e calendario) quando successe.
Lui era sdraiato sul letto ed Alice, con le mani bloccate dietro la schiena, stava succhiando disperatamente il suo pene, quando l’uomo ebbe un sussulto e si accasciò di schianto, con gli occhi sbarrati, immobile.
Stecchito.
Il suo primo padrone era morto. Stroncato da un accidente, nudo e con il cazzo dritto (per quanto gli riusciva) e lei ‘
La sua schiava, con le mani legate dietro la schiena, incatenata per la caviglia al muro di pietra, non avrebbe potuto far nulla per uscire dalla sua prigione.
Fu presa da un terrore cieco. Sarebbe morta di fame e di sete, rinchiusa in una cantina, insieme al cadavere di un vecchio.
Poi ricordò le parole della signora quando l’aveva portata lì.
La sua salvezza era sulla parete di fronte. Un piccolo apparecchio elettrico attaccato al muro.
Un griglietta che nascondeva un altoparlante, una spia rossa accesa ed un tasto per chiamare.
Si mise di schiena e, con un dito delle mani legate dietro, pigiò il pulsante.
Nessuna risposta.
Lo pigiò ancora, e poi ancora, freneticamente.
Sentì una voce femminile, gracchiante.
‘Alice? Dimmi.’
Era la signora. Era salva.
‘E’ morto. E’ qui con me. Morto!’
‘Stai tranquilla. Non fare nulla. Tempo tre, massimo quattro ore, e saremo da te.’
Era salva. La sua vita non sarebbe finita, per ora.
Già, la sua vita di schiava.
Le avrebbero assegnato un altro padrone e sarebbe ricominciato tutto da capo.

Era tornata nella sua stanza, nel sotterraneo della casa della signora.
Ora era una schiava in attesa di una nuova assegnazione.
Ogni tanto il dentista le faceva visita, era per non perdere l’allenamento, diceva lui, sogghignando, mentre la penetrava con gran soddisfazione.
C’era anche una nuova allieva. La signora, una volta, glie l’aveva fatta vedere da lontano, di sfuggita.
Una ragazza mora, con una gran massa di capelli ricci ed una bocca grande e carnosa.
La sentiva spesso piangere e gridare e la signora le disse che non stava andando molto bene il suo addestramento.
Ripensò ai suoi primi giorni lì.
Già, più o meno un secolo fa, era entrata in quella casa una ragazza di nome Barbara, piccola di statura e formosa, allegra e piena di vita.
Si passò le dita sul sedere. La marchiatura con il ferro rovente, che le avevano applicato al suo arrivo, aveva scavato la sua carne e sarebbe rimasta per sempre, accompagnandola nella sua vita di schiava.
Alice spense la luce e si addormentò pensando a come sarebbe stato il suo nuovo padrone.

Nota dell’autore:

Questo racconto ha avuto una vita molto travagliata.
La prima stesura, decisamente ‘forte’, che sono stato costretto a ritirare, aveva suscitato parecchio clamore.
Da un lato alcune persone mi incitavano a continuare, spingendomi più a fondo, dall’altro
qualcuno si è particolarmente risentito, costringendo la direzione a bloccarlo.
Sono rimasto a lungo in dubbio su cosa fare poi, alla fine, ho deciso comunque di riproporre il racconto, ritoccando i punti dove mi ero lasciato prendere la mano.
Un’ultima riflessione: è sufficiente aprire un quotidiano alle pagine di cronaca, per leggere fatti terribili, molto più terribili della storia che io ho narrato.
Parlare di violenza non vuol dire affatto approvarla, o peggio, praticarla in prima persona, e poi, questo è uno spazio dedicato ad adulti, maggiorenni e vaccinati, dove se ne leggono di tutti i colori, non si tratta certo dell’antologia di terza media.
Capisco che un’escursione in quello che potremmo definire il lato oscuro dell’animo umano, sia inquietante, ma proprio per questo ritengo che possa valere la pena inoltrarsi in questi meandri, naturalmente in maniera virtuale.
Detto da uno che non ha mai torto un capello a nessuno.

John Babbacombe Lee

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