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Racconti di Dominazione

Taxi

By 15 Luglio 2005Dicembre 16th, 2019No Comments

Con disinteresse salì a bordo dell’auto continuando a cantilenare al cellulare opinioni, comandi, ipotesi, con una persona che, presubilmente, era ben disposta ad accettare tutto quello che diceva questa donna, senza commentare o negare una sua affermazione. Con lo stesso timbro indicò il luogo di destinazione: ‘Alla stazione, prego!’, non curandosi dell’insofferenza che provavo nel dover aspettare delle indicazioni per partire.
Forse &egrave l’aspettativa il punto di forza a cui fanno affidamento queste persone e la mancanza di questa sicurezza che produce loro panico.
Per la sua stessa indifferenza a tutto il mondo circostante, ne approfittai per sistemare lo specchietto retrovisore e cercare di delineare con più precisione la fisionomia di questa voce ronzante: una donna singolare, gonna corta, calze nere, camicetta bianca dal quale si intravedeva una sottoveste di velluto. Le sue gambe erano leggermente accavallate per lo spazio ristretto presente fra i sedili. Le sue mani disegnavano delicatamente nell’aria il fluire della conversazione: gesto apparentemente discordante con il suo atteggiamento inequivocabilmente pretenzioso, capace d’essere e stare al mondo.
Smise di telefonare. Depose il telefono. Guardò fuori dal finestrino. Mi lanciò un’occhiata e poi riprese a guardare il paesaggio cittadino che le scorreva sotto gli occhi, immergendosi nel tepore del suono ridondante del motore, lasciandosi scivolare la stanchezza della giornata, assaporando il flebile calore che emanava il clima serale. Si addormentò. Abbassai la radio. Cambiai direzione.
La sera era ormai calata. Ero in periferia. La stazione era dall’altra parte della città. Io ero lì, solo con lei assieme ai suoi sogni divenuti complici delle mie azioni.
Scesi dalla mia prigione che gli altri chiamano taxi, scesi normalmente come se nulla fosse. Chiusi la porta dell’auto. Mi guardai attorno: un vicolo silenzioso, leggermente oscurato dal resto dell’illuminazione stradale. Un’insegna luminosa in fondo al viale indicava un distributore notturno di tabacchi. Decisi di lasciarle un’ultima possibilità di risveglio e fuga. Andai a prendermi le sigarette.
Ritornai. Niente da fare, il suo sogno era terribilmente complice delle mie intenzioni, non voleva smetterla di farla sognare. Lei dormiva. Tranquilla. ‘ok.
Mi avvicinai alla portiera posteriore. Era appoggiata al finestrino, dormiva, profondamente, in una postura che rovinava la sua eleganza. Decisi che non era possibile, che lei, potesse restare in quella posizione: presi una bandana che avevo in tasca, me la avvolsi attorno al polso, afferrai la maniglia della porta. Un sospiro. La aprii di scatto. Lei rotolò per terra sbattendo di riflesso il palmo della mano per terra, con un’espressione incredula mi guardò, annebbiata, fece per dire qualcosa, presubilmente un perché di come, chi e dove fosse. Non fece in tempo ad elaborare una frase compiuta da esprimere. La presi con una mano per i capelli posizionandola a carponi e andai dietro di lei, feci presa con più forza facendola inginocchiare per terra ed appoggiando la sua schiena sul mio ventre. Con l’altra mano feci scivolare la bandana e la avvolsi attorno alle sue labbra, stringendo, con forza. Ora elaborava, ora sapeva esprimere. Urlò soffocata dietro la benda. Le diedi uno schiaffo, sbatté la testa contro la carrozzeria dell’auto e perse i sensi. Aprii il bagagliaio. La presi. La deposi. Chiusi lo sportello. Ripartii.

Il giorno seguente mi svegliai di buon umore. Era martedì, il giorno di pausa. Mi sono sempre chiesto quale infernale supplizio sia ritrovarsi a riposare tutti assieme il fine settimana. Tutti assieme si ritrovano a vagare senza una meta, senza uno scopo che non sia lavorativo, a gironzolare cercando di rilassare il proprio stress accumulato nei giorni successivi.
Mi alzai. Presi dalla credenza due tazzine e le posai sul tavolo. Preparai una moca per il caffé e accesi il fuoco. Aspettai che il caffé fosse pronto. Preparai due sedie separate solo da un tavolo, perfettamente opposte l’una dall’altra. Aprii un cassetto, presi una lunga corda e del nastro isolante. Li deposi sul tavolo.
Cominciai a sorseggiare il mio caffé valutando la perfetta simmetria delle sedie di fronte al tavolo. Pensai al paradosso fra un caffé e la sedia: perché mai bisognerebbe assaporare un caffé stando seduti? La funzione di un caffé non &egrave quella di riattivare le proprie forze fisiche e mentali? Trasportandomi in queste assurde congetture sorseggiai l’ultimo goccio dalla tazza. Presi le chiavi della porta dell’appartamento e scesi in garage.

Ero di fronte al bagagliaio del mio taxi. Presi le chiavi ed afferrai la maniglia, ma un’intuizione frenò l’apertura dello sportello e dissi a me stesso: ‘Se dorme ancora la lascio libera, altrimenti non ho scelta’. Aprii lo sportello: dormiva e si svegliò di colpo mugugnando. Peccato. Non puoi andartene.
La presi e a fatica dovetti trascinarla su per le scale della cantina: si dimenava in continuazione. Posso capirlo, la felicità di essere domati non può capitare sempre .
‘Stai tranquilla, con me sei al sicuro”
”tranquilla, ci sono qui io”.
Impossibile, nulla da fare. Non ne voleva sapere di salire le scale.
E allora, scendi.
Con un poderoso calcio la feci rotolare giù dalle scale. Salii e presi una robusta fune e tornai da lei. Si dimenava lentamente, addolorata dalla caduta e dagli ematomi che cominciavano a prendere colore sulla sua pelle, bellissima, pelle abbronzata e trattata con cura’
” vedi, ci sono qui io, non preoccuparti, segui i miei consigli e troverai giovamento dalle mie indicazioni. Non ti preoccupare di trovare una via di fuga, l’adeguamento &egrave la migliore soluzione”
”come? Vuoi dire qualcosa? Non sei ancora pronta per parlare, attendi”.
Gli legai strettamente caviglie e polsi. Delicatamente. La presi in braccio. Gli accarezzai il viso. Una volta, due volte. Salii le scale.
Entrati nell’appartamento la deposi sulla sedia che avevo preparato precedentemente. Mi guardava con un’espressione d’odio e paura. Io le sorridevo. Doveva sentirsi a suo agio. Le sciolsi gli arti e stranamente non fece resistenza. Forse aveva capito. La legai strettamente alla sedia: con la fune posta sul tavolo legai le sue caviglie alle gambe della sedia, presi un cilindro di ferro lungo una quarantina di centimetri e lo incastrai in mezzo alle sue cosce facendole divaricare. La minigonna nera fece resistenza man mano che sistemavo il cilindro metallico. Le dava un tono sensuale quella posizione, un misto d’erotico e sensuale. Mentre ammiravo quel capolavoro sentii un soffio nell’aria e un tonfo ridondante mi frastornò il timpano sinistro. La stanza cominciò a barcollare e non riuscivo a percepire i suoni. Mi misi una mano sulla guancia per addolcire il dolore e cominciai a realizzare:
‘pensavo di essere stato chiaro, che tu avessi capito. Invece no. No no no. Non ci siamo! Come ti sei permessa poi di darmi uno schiaffo, tu! E io che mi fidavo di te, che ti lasciavo libera! Ok allora dovrò essere più comprensibile, più deciso forse’. Lo vuoi”. Presi il nastro isolante e gli legai strettamente i polsi dietro lo schienale. Poi, assicurandomi che la presa fosse abbastanza stretta, risalii con il nastro lungo le braccia. Man mano che salivo la pressione del sangue le rendeva la pelle bluastra. Mi alzai e mi misi a passeggiare pensieroso per la stanza, giocherellando con il nastro. Di scatto andai verso di lei, freneticamente, con rabbia. Gli presi la testa, con una mano rovistai nella mia tasca e, guardandola fissa negli occhi, cominciai a dirgli:

‘Siete voi. Si siete voi che continuate a sputare fuoco sulla nostra debole indole. Siete voi che indifferentemente cercate conferma della vostra bellezza. Siete voi che infangate i nostri nomi per degli avventati incidenti sessuali. E noi? Io? Mi credono pazzo, ma non lo sono. No non lo sono. Non crederlo. Non fino a questo punto. Questa &egrave la realtà, e la realtà dice che un giorno, qualcuno, deve pagare. La vedi questa lama? La vedi! Fa paura, ne ho sempre avuto paura, ma non taglia. Tranquilla non taglia, non &egrave il tuo sangue che vogliono, che vogliamo, ma i tuoi sentimenti, le tue emozioni, le tue paure.’

‘Sai, mi sono sempre chiesto quanto tu sia fortunata, quanto tu possa essere gratificata nel dover sopportare l’insofferenza di tutte le tue complici’ si ho detto complici, non comprendi? Per forza, voi donne indifferenti non riuscite neanche a capire con quanta semplicità siete simili le une dalle altre. Quanto i vostri gesti scaturiscano similarmente un’erezione a qualsiasi uomo, ma tutte, proprio tutte, non ne siete a conoscenza’ ma non mi dire, non lo sapevate? Eppure &egrave una dote che avete in comune. Complici di un’erezione, ha ha ha!’

Mi tolsi la cintura di cuoio dai pantaloni. Alzai il braccio e sguainai un grosso fendente sulla sua coscia. Il colpo inferto dalla cintura le sgualcì una calza nera, facendone intravedere il rossore della pelle. Caricai un’altra volta. E un’altra volta. E una volta. Ancora. Una lacrima scese dal suo viso, stupendo. Un dispiacere scese nel mio corpo. Non riuscivo a controllarmi. Soffriva.
‘Ti fa male? Lo so, fa male. Ma internamente come stai? Come stai? Pensi di farcela? Ce la farai ad uscire? Ce la farai ad andartene? Non &egrave la sopravvivenza che cerchi? Ma a quale prezzo. Non &egrave la stessa cosa uscire da questa stanza con il proprio corpo a pezzi, ma cosciente, questa non &egrave la sopravvivenza, ma la conquista. Come stai internamente?’
Presi la cintura e la avvolsi attorno al suo collo. Mi collocai dietro di lei. La cintura cominciava a fare tensione. Raggiunsi il primo anello. Un gemito ruppe il silenzio che si era creato. Secondo anello. Cominciava a dimenarsi, spaventata. Terzo anello. Delle grida soffocate fuoriuscivano dal bavaglio. Quarto anello. La sua faccia cominciava a sfigurarsi, rossastra, le vene tempiali ad ingrossarsi. Mollai la cintura. Ricominciò a respirare tossendo. Mollai la presa. Tolsi la cintura. Delle grosse lacrime scendevano dai suoi occhi imbrattando la bandana che anatomicamente aveva preso forma sul suo viso. Le asciugai le lacrime. Non urlò. Respirava. Aria. Ossigeno. Puro. Conquistato.
Non disse una parola. Non poteva parlare. Non era pronta.
Le tolsi delicatamente il nastro attorno alle sue braccia. La guidai nei movimenti, mentre cercava di riprendere padronanza dei propri movimenti. La slegai completamente.
Si alzò dalla sedia, tramortita ma cosciente. Oscillando andò verso la porta. Si girò. Uno sguardo. Chiuse la porta dietro di se. Lasciò l’abitazione.

Il giorno dopo, un uomo, anzi un taxista, si svegliò di buon umore. Si svegliò di mercoledì, un giorno lavorativo. Pensò a quale stranezza &egrave la sua vita nel dover iniziare la propria settimana lavorativa quando il resto del mondo l’ha già iniziata da qualche giorno. Si alzò, prese dalla credenza due tazzine e le posò sul tavolo. Preparò il caffé. Nell’attesa, sistemò metodicamente due sedie l’una di fronte all’altra separandole solo da un semplice tavolo. Mentre stava pensando al paradosso presente fra una sedia, il caffé e la loro funzione ambigua, la polizia sfondò la porta del suo appartamento entrando con irruenza ed elencando una serie di delitti e diritti. Sbalordito, il nostro uomo, che tra l’altro faceva il taxista, disse fra un delitto e un diritto: ‘Ma scusate, io sono Dio!’.
Il caffé era pronto.

magister1972@yahoo.it

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