Skip to main content
Racconti di Dominazione

Tua schiava

By 14 Settembre 2011Dicembre 16th, 2019No Comments

Ho passato tutta la settimana a pensare che ti avrei detto di no.
Mille discorsi, mille frasi, avevo messo insieme nella mia mente, mano mano che pianificavo la mia ribellione.
Trovavo assurdo che una donna come me, giovane, bella ed intelligente, dovesse assoggettarsi al tuo volere, non c’era alcun motivo perché io continuassi a subire queste cose da te, poi, quando questa mattina mi hai telefonato dicendo che saresti passato a prendermi, non ho detto nulla, semplicemente mi sono vestita e sono rimasta in attesa che il citofono suonasse.
Mi sono vestita come mi avevi detto, con una gonna al ginocchio, come tu mi ordini sempre in questi casi.
Una bella giornata autunnale, fresca ma scaldata dal sole, l’ideale per trascorrere un po’ di tempo nella tua casa in montagna.
Mi piace quella casa, una vecchia costruzione di pietra in mezzo al bosco, un luogo tranquillo che non lascerebbe mai immaginare cosa vi accade in queste occasioni.
Tu tieni molto alla pulizia, alla tua e, di conseguenza, anche alla mia, per questo mi sono sottoposta a due clisteri e alla fine hai voluto controllare di persona che fossi ben pulita.
Sono rimasta nella vasca da bagno vuota, con il collant e le mutandine abbassate, tenendo la gonna sollevata con le mani, mentre tu mi allargavi le natiche per controllare che fosse tutto a posto, prima di inserire il plug.
è grande, quest’ultimo plug anale, è veramente largo, temo che non mi abituerò mai, anche se tu dici che a forza di portarlo il mio buco si adatterà.
Abbiamo mangiato fuori sulla veranda.
Quando vuoi sai essere dolce e premuroso, non trascuri nulla, neanche il più piccolo dettaglio, come la rosa che mi hai fatto trovare in un vaso, a centro tavola.
Mentre mangio continuo a sentire il plug che sembra volermi spaccare, aprire in due, ma so che questo è solo l’inizio, poi porterai la tua schiava nella tavernetta, la tua schiava che pensa tutta la settimana di ribellarsi, mai poi, quando viene il sabato, si lascia fare da te qualsiasi cosa, e gode per questo.
Tu lo sai, è questa la tua forza e la mia debolezza.
Il termosifone è di quelli vecchi, in ghisa, alti e stretti, lo hai riverniciato da poco, coprendo le macchie di ruggine. è l’unica cosa che posso osservare, visto che il mio viso deve stare ad un palmo dal radiatore.
Il collare di cuoio, che abbiamo comprato insieme in un negozio per animali, dicendo che avevamo un cane di grossa taglia, mi stringe la gola e la catena d’acciaio è annodata alla staffa del termosifone, impedendomi di allontanarmi.
Sono piegata in avanti in attesa della tua punizione.
Cosa ho fatto? Non importa la colpa, quello che importa è solo la punizione.
Le tue mani sollevano dolcemente la mia gonna e depositano la stoffa di lana pesante sulla mia schiena.
Devo stare con le gambe dritte e leggermente allargate, conosco bene la posizione e ormai non c’è bisogno che tu mi tocchi per farmela assumere.
Il primo colpo arriva leggero, neanche mi pare di sentirlo, attutito dal collant e dalle mutandine.
Mano mano che continui a sculacciarmi i colpi si fanno più forti, in realtà tu mi colpisci sempre alla stessa maniera, con la stessa intensità, ma è la mia pelle che si sensibilizza a darmi quest’impressione.
Quando avrai finito questa prima fase il mio sedere sarà violaceo e gonfio, pronto per gli altri trattamenti.
Comincio ad essere stanca, fatico a restare ferma, mentre ho l’impressione che il plug cerchi di uscire, ma non è così, perché nella parte finale tende a stringersi ed il mio sfintere si è serrato sulla strettoia, quando ti deciderai ad estrarlo dovrai fare un certo sforzo.
Hai finito, sento le tue dita che mi abbassano il collant e poi tirano giù lo slip.
Ti soffermi un attimo sulla mia vagina umida e poi ritrai la mano.
Devo stare attenta, non dovrò godere finché tu non mi darai il permesso, su questo sei sempre stato categorico.
Il bruciore delle sculacciate fa un bel contrasto con l’aria fredda di novembre che mi passa in mezzo alle gambe, poi sento il rumore. Un sibilo leggero, come una specie di fruscio e un brivido mi percorre la schiena.
‘Quello no, ti prego.’
E’ tutto come da copione, io ti supplico e tu ignorerai le mie preghiere, ma le parole mi sono uscite spontanee perché ho capito con cosa continuerai.
Avevo sperato la cinghia, invece userai quella specie di frustino, fatto con un ramo flessibile.
Certo, dovevo saperlo, prima di pranzo avevi scelto con cura nel bosco un ramo sottile e abbastanza flessibile e lo avevi ripulito con cura da foglie e rametti, fino a lasciare solo il tronco con la corteccia.
Sembra un oggetto innocuo, invece maneggiato con abilità, sulle mie natiche arrossate, mi farà gridare dal dolore.
La corteggia ruvida scorticherà la mia pelle irritata e le asperità dovute ai rametti che tu hai tagliato, mi feriranno. Piccole ferite, forse neanche uscirà il sangue, ma molto dolorose.
Ho gridato. Non serve perché la casa è isolata e la tavernetta è sotterranea e circondata da spessi muri di pietra.
Ho gridato perché non potevo non gridare, mentre sento come una lama di fuoco che mi attraversa il sedere.
Ti sento che aspetti.
Devo contare. Lo so, le sculacciate no, ma queste le devo contare.
è una maniera sottile per sancire la mia totale sottomissione.
Devo contare e basta, non posso dire nient’altro, posso gemere, gridare, ma non posso chiederti nulla, sarai tu a stabilire quando potrà bastare.
Così, a mezza voce, ho detto ‘uno’, e tu mi hai colpito ancora, allora ho detto ‘due’ e tu hai continuato.
Mi si piegano le gambe, vorrei sdraiarmi per terra ma non posso.
Con il ramo mi tocchi leggermente l’interno delle cosce ed io torno nella posizione corretta, tendendo i muscoli indolenziti.
Siamo arrivati a dieci, spero che sia finita, perché tu sei metodico, preciso e termini sempre con un numero tondo.
Invece continui.
Oddio! Non so se resisterò fino a venti.
Tu continui a colpirmi ed io a contare. Ho gli occhi pieni di lacrime, il sedere in fiamme e la vagina aperta e completamente bagnata.
‘venti.’
Ho detto quello che spero sia l’ultimo numero.
Ti prego, altre dieci no. Ma lo dico solo a me stessa, non ho il permesso di parlare.
Sento le tua dita armeggiare con il nodo della catena e tiro un sospiro di sollievo.
Una volta liberata rimango in ginocchio, con la catena che struscia per terra ed i capelli davanti agli occhi.
Sei seduto al centro della stanza e mi fai cenno di avvicinarmi.
Ho la vista annebbiata dai capelli e dalle lacrime ma non posso sbagliare e comincio ad avanzare verso di te, camminando sulle mani e sulle ginocchia, come se fossi veramente un cane. Lo faccio perché è quello che vuoi, ma anche perché non riuscirei a stare in piedi.
La gonna è ricaduta sul mio sedere martoriato ed io avanzo a passi lenti, prima una mano ed un ginocchio, poi l’altra e l’altro.
Il pavimento di cotto grezzo, è freddo ed umido al contatto della mia pelle e la lana ruvida struscia dolorosamente sulla mia carne piena di escoriazioni.
Deve essere bello per te vedermi avanzare a fatica, a quattro zampe, come un cane, con le calze e le mutandine abbassate fin quasi alle ginocchia.
Avanzo piano, verso la tua sagoma sfocata, che mi aspetta al centro della stanza.
Hai le gambe aperte ed i pantaloni abbassati e aspetti.
Il tuo pene aspetta le mie labbra e la mia lingua.
Sono arrivata, il mio viso si avvicina, non posso usare le mani, i cani non hanno mani.
La mia lingua scorre leggermente sul tuo sesso parzialmente eretto e vedo il fremito che lo scuote.
Ti piace e piace anche a me.
So già che oggi non dovrò bere il tuo sperma: il plug piantato profondamente nel mio ano mi dice che dovrò solo leccarlo e succhiarlo finché non sarà duro a sufficienza.
La mia lingua ti carezza i testicoli, poi risale lungo il tuo pene fino alla sommità.
Lo faccio più volte, finché non lo vedo ergersi dritto in mezzo alle tue gambe, allora mi abbasso, le mie labbra si aprono e lo faccio entrare.
Il suo sapore è forte, le prime volte mi disturbava, ora mi eccita, se non avessi la bocca occupata mi sentiresti gemere di piacere, come stai facendo tu.
Me lo lasci fare solo per pochi minuti, poi mi scansi bruscamente con una mano.
Sono in piedi, tu mi tiri per la catena e mi costringi ad avvicinarmi al tavolo.
La tua schiava è ubbidiente e preparata, sa esattamente cosa deve fare.
Il mio busto si piega sul tavolo, mentre tu mi fai allargare le gambe.
Sento di nuovo l’aria fresca sul sedere, perché mi hai sollevato la gonna.
Le tue mani mi allargano le natiche, poi con due dita afferri saldamente l’estremità del plug che sporge e tiri.
Il mio sfintere cede docilmente e sento il plug che esce lentamente dal mio corpo.
Non mi rivolgi mai la parola in questi casi, ricordo il mio vecchio padrone, che mi gridava frasi tipo ‘allarga le chiappe, troia, che ora ti rompo il culo’, tu no, tu non ne hai bisogno.
Il tuo pene mi penetra rapidamente, hai paura forse che il mio buco si richiuda?
Le prime volte faticavi, sia perché io non ero ancora domata a dovere, sia perché dovevo ancora allargarmi.
Mi avevi fatto vedere subito i tre plug che avresti usato su di me. Allora avevo pensato che il terzo, quello più grande, fosse solo uno scherzo, e che non sarebbe mai potuto entrare dentro di me, ora lo tengo dentro per ore.
Ti muovi veloce e sicuro, la tua schiava ti ha fatto entrare e ti lascia fare quello che vuoi, la tua schiava sta zitta, perché non deve godere, almeno per ora.
Ecco, so che stai per venire, ti ho sentito irrigidirti, poi il tuo movimento si fa più profondo ed io aspetto, aspetto che il tuo sperma caldo mi riempia.
Sono stata brava, tu non sai che le donne non solo sono capaci a simulare un orgasmo, per compiacere il loro partner, ma possono anche riuscire a godere senza farsi accorgere.
è difficile, ma oggi ci sono riuscita. Sono venuta, insieme a te e tu non ti sei accorto di nulla, troppo preso nell’impegno di incularmi.
Per un attimo mi viene l’idea di confessartelo, ma la paura che tu potresti frustarmi ancora mi fa desistere.
Lo fai di nuovo, sono rimasta piegata sul tavolo, te lo sei toccato un po’ con la mano, per farlo drizzare e mi hai di nuovo allargato le natiche.
è entrato ancora più facilmente, perché oltre che allargata, sono piena di sperma che continua ad uscirmi lentamente.
Questa volta duri di più, forse sei stanco, oppure vuoi assaporare il tuo piacere fino in fondo.
Quando hai finito, rimani solo pochi secondi appoggiato su di me, con la pancia che preme contro il mio sedere, poi mi fai tirare su.
è il mio momento: mi hai fatta girare, mi hai presa sotto le ascelle e mi hai sistemata a sedere sul tavolo.
Sono rimasta senza fiato quando sono atterrata bruscamente sul tavolo.
Prima ero così presa dal tuo pene che si faceva strada nel mio ano, che quasi avevo dimenticato le frustate.
Il dolore mi prende come un crampo alla pancia ma ora devo solo pensare al mio premio: la schiava ha il diritto di godere, ma anche l’obbligo.
è la parte finale della mia umiliazione, tu te ne stai seduto di fronte a me mentre le mie dita frugano nel mio sesso cercando di darmi l’orgasmo.
Ora posso dar fondo a tutto, mi muovo, gemo e grido di piacere, mentre tu mi guardi divertito.

La giornata è finita, stiamo tornando in città e mi sento sporca, appiccicata e dolorante.
Non ho avuto il permesso di lavarmi, mi hai tenuta solo un po’ a ‘scolare’, perché ci tieni molto alla tua macchina nuova e non volevi correre il rischio che ti sporcassi il sedile.
Ho potuto solo cambiare le mutandine con delle altre semplici, senza merletti e più comode, molto più indicate per ‘due belle chiappette frustate’, come le chiami tu.
Mi hai fatto pure mettere una specie di tampone fatto con la carta igienica, per evitare perdite.
Non vorrei, non dovrei stare seduta, ma in macchina non è possibile.
Quando mi sono sistemata sul sedile, credevo di morire, ora me ne sto ferma, cercando di assecondare in movimenti dell’auto e pensando alla brutta notte che mi aspetta.
Avrò tutta la settimana per pensare a come dirti di no, la prossima volta, fino a sabato mattina quando tu mi telefonerai. Mi hai lasciato cuocere a fuoco lento per due settimane.
Non ti sei più fatto vivo ed io sono rimasta per ore davanti al telefono temendo e desiderando una tua chiamata.
Forse ti sei stancato di me?
Hai una nuova schiava più brava?
Poi questa mattina ti sei fatto vivo.
‘Passo a prenderti tra venti minuti.’
Sei sempre parco di parole con me, solo lo stretto indispensabile.
Mi hai dato poche indicazioni sull’abbigliamento ed hai riattaccato.
Oggi è una brutta giornata, non c’è il sole come l’altra volta ed ha piovuto tutta la notte.
Fa freddo nella casa del bosco e, anche se hai acceso il riscaldamento, ci vorranno diverse ore prima di sentirne gli effetti.
Mi hai fatta sdraiare sul divano e mi hai colpito a lungo, prima con le mani e poi con una vecchia racchetta da ping pong che tieni sopra la mensola del camino.
Alla fine hai preso uno specchio per farmi vedere il risultato: non avevo mai visto il mio sedere così arrossato.
‘Spogliati, che andiamo a fare una bella passeggiata.’
Tieni in mano un vecchio sacco di iuta ed io ho già capito.
Lo sai che sono freddolosa, tanto freddolosa, ed hai aspettato una giornata come questa.
Io comincio a piagnucolare ma so già che non servirà a nulla.
Mi spoglio lentamente mentre tu mi guardi.
Sento freddo ma so che sarà molto peggio quando usciremo fuori.
Rimango ferma, nuda davanti a te, scossa da brividi di freddo, aspettando che tu mi porga il vestito scelto per la passeggiata.
Prima di infilarmi il sacco mi fai mettere le braccia dietro la schiena e mi leghi insieme gli avambracci.
Il sacco, a cui hai fatto un buco in fondo per far passare la mia testa mi ricopre, impedendo così di vedere le mie braccia da fuori.
Quel pezzo di stoffa ruvido e sudicio è un bel conforto, come se fosse un morbido cappotto di lana.
Il collare l’ho già indossato, manca solo il guinzaglio, quello lungo con l’arrotolatore, che usi per le nostre passeggiate.
Ecco sono pronta, nuda e scalza, con indosso solo un vecchio sacco che mi copre a malapena il sedere, collare e guinzaglio, come un cane.
E il plug.
Quello me l’hai fatto mettere appena arrivati a casa.
L’ho portato diverse ore, tutti i giorni, in queste due ultime settimane e forse avevi ragione quando dicevi che mi sarei abituata.
Fuori, per fortuna, ha smesso di piovere ma l’aria è umida e gelida.
Il vento si infila in mezzo alle mie gambe nude e risale attraverso l’apertura del sacco e mi fa rabbrividire perché sono bagnata, sono bagnata fradicia, perché le sculacciate ed i colpi dati con la racchetta da ping pong mi hanno eccitata da morire.
E poi so già cosa mi aspetta.
Il sentiero è ripido e tortuoso, parte da dietro la casa e si inoltra nel bosco di faggi e castagni.
Devo stare attenta a dove metto i piedi perché se dovessi cadere, con le braccia legate dietro la schiena, sbatterei la faccia per terra.
Io avanti e tu dietro, di qualche metro, tenuti in collegamento dal nastro rosso del guinzaglio.
I miei piedi affondano nel fango, calpestano foglie secche a rametti spezzati, mentre cerco di evitare le pietre appuntite e, soprattutto i ricci delle castagne pieni di aculei.
Avanzo a piccoli passi e sono così concentrata nell’impresa di evitare ostacoli e soprattutto di non cadere, che non sento più il plug ed il bruciore al sedere.
Solo le piante dei piedi mi fanno male, all’inizio appena un po’ di fastidio, poi, mano mano che salgo sento il dolore che aumenta.
Accidenti, l’ho preso!
Un guscio di riccio, secco e duro, nascosto in mezzo alle foglie, mi si è conficcato sotto al piede.
Con le mani legate non posso far nulla per toglierlo, se non sperare che si stacchi da sé.
Rimango in equilibrio sull’altra gamba, mentre cerco, scrollando il piede sollevato, di far staccare il riccio.
‘Cammina, non ti fermare!’
Devo proseguire, cioè devo poggiare nuovamente il piede a terra, così gli aculei si conficcheranno più profondamente ed il riccio non si staccherà più.
Esito, ma tu mi hai raggiunto e mi spingi leggermente sulla schiena, costringendomi a spostare in avanti il baricentro, così, per non cadere, devo mettere e giù il piede con il riccio attaccato.
Grido di dolore e faccio subito un altro passo mettendo l’altro piede su una pietra.
La superficie liscia e bagnata è molto scivolosa e succede la cosa che più temevo: perdo l’equilibrio.
Per fortuna riesco a girarmi e tocco terra con un ginocchio ed una spalla, finendo con la faccia nel fango solo alla fine della caduta.
Sono riuscita a non farmi male e, con la botta, il riccio si è staccato.
‘Su su!’
Hai infilato una mano sotto al collare e mi hai rimesso in piedi.
Manca poco, solo un centinaio di metri e riprendo a salire.
Per fortuna non ci sono più castagni, ma il piede ferito dal riccio mi fa un male cane, sicuramente qualche aculeo si è spezzato ed è rimasto dentro.
Mi sento la faccia piena di fango, il plug mi sta dando fastidio ed il sedere mi brucia da morire, ma devo proseguire.
Vedo la meta finale della passeggiata, una piccola radura con al centro un tronco morto.
Deve essere lì da cento anni, forse più, probabilmente schiantato da un fulmine.
è rimasto solo un tronco nero che si biforca a circa un metro e mezzo da terra.
La prima volta che siamo venuti qui hai messo un masso proprio davanti al tronco, per facilitare la mia salita ed ora mi aiuti a prendere posizione.
La pancia poggiata sulla biforcazione, le gambe penzoloni ed il busto proteso in avanti, sono pronta a subire la punizione conclusiva.
Ti sei messo davanti a me per farmi vedere bene.
Ti sfili con accurata lentezza la cinghia dei pantaloni e passi più volte le dita sul pesante cuoio marrone.
Un nodo nel legno del tronco è finito proprio a contatto del mio sesso e, quando provo a muovermi, mi scappa un gemito.
Tu intanto hai preso posizione alle mie spalle, sento le tue dita che sollevano delicatamente la stoffa del sacco, poi mi carezzano.
‘Hai un culetto delizioso’
Oggi sei in vena di complimenti.
Alla frase fa seguito la prima cinghiata ed io grido.
Sento l’eco della mia voce che si spegne lentamente.
Non avrà sentito nessuno, chi dovrebbe esserci qui in un fredda e piovosa mattinata d’inverno?
Come l’altra volta, come le tante altre volte che ci sono state e ci saranno, inizio a contare.
Le cinghiate, sulla mia pelle intirizzita, sono molto più dolorose ed io mi muovo leggermente ogni volta che mi colpisci ed il mio sesso si apre sempre di più.
Ti sei fermato a dieci, forse mi hai visto molto provata, o magari hai freddo anche tu e vuoi tornare a casa.
La tua mano mi passa in mezzo alle gambe.
‘Sei molto bagnata, troppo.
Stai attenta.’
Non devo venire, non prima di te e, soprattutto, potrò farlo solo quando mi darai il permesso.
Cominci a toccarmi.
‘Attenta, non devi venire, lo ricordi, vero?’
Accidenti, così no, per favore.
La tua mano si muove, prima mi carezza le labbra, poi comincia ad addentrarsi ed io gemo.
Ci sai fare, mi conosci fin troppo bene e riesci a trovare sempre la strada migliore per eccitarmi.
Non posso resistere, accidenti, tu lo sai benissimo, mi farai raggiungere l’orgasmo e poi mi punirai ancora, ecco perché mi hai dato solo dieci cinghiate.
Mi sforzo, chiudo gli occhi e mi mordo le labbra, ma le tue dita continuano implacabili e sento che mi apro e mi bagno sempre di più, mentre lentamente ti avvicini al mio clitoride, per il gran finale.
Non hai nessuna fretta, sai che l’attesa di sentire le tue dita che mi toccano in quel punto, mi distrugge e mi eccita allo stesso tempo, sei consapevole che più farai durare questo gioco e più potente ed incontrollabile sarà l’orgasmo che avrò.
Vengo subito, appena le tue dita lo toccano e allora tu ti allontani.
Mi lasci, ormai in preda all’orgasmo, appollaiata sulla biforcazione del tronco a muovermi ed a strofinarmi disperatamente sul legno annerito, senza più corteccia, mentre ti prepari.
‘Altre dieci e vediamo se ora ti comporti bene.’
Piango mentre la cinghia colpisce la mia carne, piango e cerco di rimanere indifferente.
Nuovo controllo, cerco di restare immobile mentre le tue dita saggiano le reazioni del mio sesso.
‘Brava, la tua patatina, si è messa tranquilla, finalmente’
Mi sfili il plug.
Esce facilmente e mi sembra che l’aria gelida irrompa liberamente nel mio ventre.
Non aspetti neanche un secondo e sento il tuo pene che si fa strada dentro di me, non ti vedo ma so che sei lì, in piedi, alle mie spalle.
Ti è sempre piaciuto ficcarmelo di dietro, mi hai detto un mucchio di volte che ti sembravo fatta apposta per prenderlo in culo, infatti non mi scopi mai, una volta mi hai detto che l’inculata è un atto di sottomissione per chi la subisce, come pure quando devo succhiare il tuo pene.
Mi hai spiegato che una scopata, invece, mette sullo stesso piano entrambi i soggetti, e questo non lo vuoi, al massimo mi permetti di masturbarmi davanti a te, per accrescere la mia umiliazione.
Sei venuto mentre pensavo a queste cose ed ora cerco di immaginare come continuerai, perché sento che non hai finito con me.
Mi fai scendere dall’albero e mi inginocchio davanti a te.
‘Fino in fondo oggi’, mi dici mentre mi costringi ad inchinarmi.
Il tuo pene sporco e bagnato entra nella mia bocca ed io inizio a succhiarlo avidamente.
Lo sento crescere e so dalle tue parole che questa volta dovrò appunto andare fino in fondo, cioè bere il tuo sperma, fino all’ultima goccia.
Sono stanca, indolenzita ed ho freddo ma tengo duro.
Ecco, è giunto il momento, ho avvertito la tensione dentro di te e poi è iniziato.
Le prime volte mi tenevi bloccata la testa, perché io non volevo e cercavo di ribellarmi, ora non più, la tua schiava è completamente domata.
Ho imparato a non soffocarmi e, allo stesso tempo a bere il tuo sperma, lo sento zampillare sul palato, ricadere sulla lingua e poi riempirmi la bocca, e allora lentamente lo ingoio, mentre tu continui ad inondarmi, poi, piano piano il flusso diminuisce, le contrazioni rallentano e tu ti allontani da me.
Sono rimasta in ginocchio, con la bocca semi aperta, da cui cola qualche ultima gocciolina del tuo seme.
‘Andiamo! è tardi.’
Io ti guardo perplessa. E io? Non fai godere un po’ anche me.
Mi osservi gelido, hai capito quello che intendevo anche senza che io dicessi una sola parola.
‘Hai goduto abbastanza prima, quando non dovevi, per oggi può bastare, poi questa sera, a casa, potrai masturbarti a volontà.’
Uno strattone al guinzaglio mi indica che la conversazione è finita.
Durante il tragitto di ritorno le posizioni sono invertite: tu avanti ed io dietro.
Cammini veloce e mi strattoni quando rallento, sei arrabbiato con me perché ho avuto un orgasmo senza la tua autorizzazione, devo stare attentissima a non cadere perché ho paura che, in tal caso, non aspetteresti che io mi rialzi, ma mi trascineresti tra pietre e fango fino a casa.
Quando rientriamo in casa vengo subito avvolta dal tepore del riscaldamento e del camino del soggiorno.
Ho fame e vorrei tanto lavarmi ma so già che è inutile chiedertelo e dovrò sedermi a tavola sporca di fango.
Durante il tragitto del ritorno lo sperma è uscito lentamente dal mio ano colandomi lungo le gambe ed impastandosi con la terra e le foglie secche.
Mi hai infilato di nuovo il plug per evitare che io ti possa sporcare casa, è come se fosse un tappo.
Ecco, ora sono seduta a tavola, completamente nuda, perché mi hai tolto il sacco e slegato le braccia.
Mangio avidamente e cerco di non pensare alla sedia.
Hai scelto per me, per il mio ‘culetto frustrato’, come lo chiami, una sedia impagliata e le corde ruvide, sotto il peso del mio corpo, mi entrano nella carne, mente il plug mi da un fastidio cane e ogni tanto mi muovo cercando una posizione migliore, ottenendo l’unico risultato di far sfregare la corda sulle mie ferite e farmi ancora più male.
Finito di mangiare ti accomodi sul divano, davanti al fuoco, mentre io rimango, cioè devo rimanere seduta.
Capisco che è ora di andare quando ti alzi e torni con i miei vestiti.
Prima di vestirmi mi sfili il plug, me lo fai leccare e me lo ficchi nella borsetta.
‘Ormai dovresti essere asciutta, non ci saranno problemi per la macchina, mi raccomando, in questi giorni portalo, non perdere l’allenamento.’
Mi rivesto davanti a te, mi infilo il collant sopra la mia pelle sporca e scorticata mentre tu mi osservi divertito e ridi del mio imbarazzo, del mio disagio e mi fai cenno di andare avanti perché dobbiamo tornare in città.
La cosa più difficile sono state le scarpe, perché i miei piedi gonfi e feriti si rifiutavano di entrarci dentro.
Quando mi sono alzata in piedi non sono riuscita a trattenere una smorfia di dolore, perché gli aculei spezzati del riccio strusciano contro l’interno della scarpa e mi provocano fitte dolorose ad ogni passo.
Davanti alla porta di casa mi abbracci, mi sollevi i capelli e mi baci sul collo, poi la tua mano scende lungo la schiena e mi carezza il sedere.
Un brivido di dolore e di eccitazione mi passa lungo la schiena e so che questa sera, dopo essermi lavata, mi metterò tranquilla a letto e comincerò a toccarmi, pensando alla giornata trascorsa ed alle tante che verranno.

Leave a Reply