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Racconti di Dominazione

Un genio impara presto

By 12 Febbraio 2006Dicembre 16th, 2019No Comments

Certamente molti non daranno credito a quel che sto per raccontare; e onestamente, fino ad un anno fa, se qualcuno fosse venuto a riferirmi storie simili, gli avrei risposto a muso duro: “Ma per chi mi hai preso?”. Siamo gente di buon senso, noi… Noi moderni, dico, noi “industrializzati”. Non &egrave facile fregarci – o così pensiamo. Anche se poi, dando un’occhiata tra le pieghe, ti accorgi che c’&egrave quello che “si fa fare le carte”, quello che si fa leggere la mano, quello che ha visto gli extraterrestri… E allora dico: ebbé, signori, non facciamo gli gnorri. Lo sappiamo tutti che i conti non tornano e che ci son troppe cose che non riusciamo a spiegarci; e quindi attenzione: quel che &egrave capitato a me può succedere a chiunque. E sotto sotto lo sapete bene…..

Dovete sapere che sono un autentico appassionato di tutto ciò che ha il sapore del tempo andato. Sì, son proprio uno di quei soggetti, talvolta considerati eccentrici dai più, che non si perde mercatini dell’antiquariato e si fa attrarre da vetrine che ostentano oggetti desueti e dall’apparenza malandata, che tuttavia affrontano sprezzanti la condanna del tempo con la fierezza dei sopravvissuti.
Lo scorso anno, una mattina di un sabato primaverile, mi trovai a curiosare tra i capannoni di una fiera specializzata. Diversi oggetti avevano attratto la mia curiosità, ma, chissà perché, fu uno di essi a colpirmi in modo particolare. Non si trattava di un pezzo di particolare pregio: era infatti soltanto un grammofono, anche piuttosto malridotto. Tutt’altra cosa, rispetto al candeliere del Settecento che avevo adocchiato con interesse qualche minuto prima! Eppure…

– A quanto lo vende? – chiesi a un uomo dall’aria astuta che si trovava dietro il bancone.

– Ah, quello &egrave un pezzo veramente di pregio – cominciò a dire costui, accompagnando le sue parole con gesti istrionici.

– Sì, ma… quanto?

– Beh, sa, non glielo posso dare per meno di mille euro… – buttò lì il venditore, con la faccia di chi sta facendo una vera concessione.

– Ma sta scherzando? – sbottai, sentendomi preso in giro. – Sarà anche un bell’oggetto, ma non vede che &egrave pieno di graffi e di bozzi?

– Ma che c’entra? – argomentò il venditore. – Lei lo vede così, ma &egrave un grammofono di gran marca… La conosce la “Triumphum”? Oggi roba così non ne fanno più!

– E ci mancherebbe – ironizzai. – Se non sbaglio, nel frattempo hanno anche inventato i CD…

– Ma lasci perdere! Questa &egrave roba solida, che dura – insisté il mio imperturbabile interlocutore: – le assicuro che questo non &egrave un macinino qualsiasi. Lei ha dei dischi a 78 giri?

– Sì, certo, qualcuno l’ho acquistato in fiere come questa, altri ce n’erano nel solaio di mio nonno…

– E allora, se compra questo grammofono, avrà il piacere di riascoltarli proprio come li sentivano a quei tempi… Ricrea un sound, amico mio: non so se mi spiego! Perché il mio grammofono funziona al-la per-fe-zio-ne!

– Sì, vabbé – replicai divertito dall’abilità dialettica del venditore, – però comunque il suo capolavoro di alta fedeltà ha delle ammaccature vistose: guardi qui. Un bello sconto me lo potrà fare! A me l’oggetto piace, non lo nego, ma mille euro, via… E su!

Il venditore m’indirizzò un’occhiata quasi offesa e ribadì:

– E’ il prezzo giusto, proprio all’osso.

Di fronte al mio silenzio perplesso, mi attaccò:
– Dice che sono troppi? Sono troppi, per lei? La pensa così, eh?

Infastidito dal suo tono, replicai secco: – Se lo vuol sapere, sì!

Di colpo sembrò cambiare atteggiamento e disse, conciliante e ipocritamente sorridente:
– Io le voglio anche venire incontro, perché &egrave simpatico…

– Ah, beh, lo vede? Ora stiamo ragionando… – commentai.

– Se tutti facessero come lei, però, io ci rimetterei – disse con un sorriso forzato. – Insomma, via, che ne dice se facciamo… ecco, 850 euro?

– Mm… si &egrave sforzato tanto, eh? – risposi sarcastico.

– Oh, insomma, mica posso svendere la mia roba! – ribatté il venditore, con un piglio drammatico degno di eccelsi attori.

– Va bene, allora lasciamo perdere… – minacciai, facendo mostra di volermene andare.

– E non faccia così, che diamine. Discutiamone, no? – reagì lui.

Per farla breve, riuscii a ottenere l’oggetto per 350 euro. Un bel colpo, eh? Comunque, mentre già stavo andando via fiero del mio acquisto, col grammofono in mano, il venditore mi avvisò:

– Le voglio dire che ha fatto un ottimo affare. Lei ha comprato qualcosa che… &egrave molto di più di un semplice grammofono. Se lo ricordi.

– Va bene – dissi distrattamente, commentando fra me e me: “Millantatore fino all’ultimo. Proprio il classico mercante!”

Appena a casa, posi il nuovo acquisto in bella evidenza su un vecchio tavolino di legno pregiato che si trovava al centro del salone. Gli detti una rapida spolverata, ripromettendomi di lucidarlo per bene il pomeriggio successivo, anche per trascorrere in modo diverso il monotono dopopranzo domenicale. Devo precisare che ero l’unico abitante della casa, e per giunta in quel periodo ero privo di qualsivoglia compagnia femminile: single a tutti gli effetti, dunque, per dirla in altri termini, dopo alcune storie brevi e poco significative. E, come si sa, &egrave proprio nei giorni di festa che la solitudine affettiva si fa sentire più pesantemente.
Dopo la spolverata “di benvenuto”, però, mi venne comunque voglia di saggiare le capacità del mio nuovo “ospite”, che avevo con tanta abilità strappato allo scafato mercante. Perciò andai a cercare in soffitta i vecchi dischi a 78 giri che possedevo: dopo un’accurata valutazione, scelsi quello che riproduceva un’aria della “Boh&egraveme” che mi piace particolarmente e tornai in salone per gustarmi la musica. Ma fu grande la mia meraviglia quando, accostandomi al grammofono, notai che
aveva già sul piatto un disco che non avevo mai visto e che certamente non era mio.

“Sicuramente me l’ha venduto il mercante insieme all’apparecchio” riflettei: “eppure avrei giurato che non c’era, fino a poco fa. Che strano… Comincio ad avere vuoti di memoria?”

Sull’etichetta color ruggine del disco sconosciuto c’erano strane scritte che non riuscivo a decifrare: erano in una lingua che non conoscevo.

“Sarà turco? sarà ungherese? Boh!” pensai.

Tuttavia, ben deciso ad ascoltare la ‘mia’ “Boh&egraveme”, tolsi dal piatto del grammofono l’intruso e vi posi il mio disco. Applicai al braccio una delle puntine che possedevo (frutto anch’esse di mie affannose ricerche nell’affascinante dedalo degli antiquari) e azionai la manovella, constatando che tutto sommato gli ingranaggi interni erano in buono stato. Appoggiai quindi delicatamente la puntina sul bordo del disco e mi preparai ad ascoltare. Il suono usciva abbastanza pulito: avevo fatto evidentemente un buon acquisto e mi complimentai con me stesso. Però, dopo circa 30 secondi di musica, mi sembrò di udire una voce metallica che si sovrapponeva all’incisione. Possibile che provenisse dal grammofono? Non poteva venire da fuori: le finestre erano chiuse. TV e radio erano spente. Accostai dunque l’orecchio alla tromba che fungeva da altoparlante: la voce dai toni metallici sembrava provenire di lì; e certamente non c’era nell’incisione originale. Che fosse un’interferenza magnetica? un segnale radio captato accidentalmente?

“Ma sì, sarà così” mi dissi. “Anche se mi sembra strano che un fenomeno del genere si verifichi con questo vecchio aggeggio…”

Man mano che passavano i secondi, tuttavia, la voce metallica aumentava d’intensità e in breve finì per coprire quasi del tutto la musica. A un tratto arrivai a distinguere le parole che diceva e capii anche che si trattava di una voce femminile.

– Ti prego, cambia disco! – diceva con un tono supplichevole. Sì, diceva esattamente così! Dunque si stava rivolgendo proprio a me! Ma no, non poteva essere: si trattava senz’altro di una coincidenza; un’interferenza radio, senza dubbio, nella quale, per pura combinazione, il parlante usava quel termine, riferito a chissà cosa… Eppure la voce insisteva, implorava:

– Ti prego, cambia disco!

Per quanto assurda fosse la situazione, mi decisi a interloquire con quella voce, parlando nella tromba del grammofono:

– Ma scusa, dici a me?

– Sì – rispose la voce: – ti prego, metti sul piatto il disco che c’era prima e ascoltalo.

– Ma tutto questo non ha senso! – commentai. – Sicuramente sto sognando, o sono impazzito…

– Ma no, ti prego: fai come ti dico…

– Senti, fammi capire: tu mi vedi? Perché io credo che le cose stiano così – dissi: – qualcuno mi sta facendo uno scherzo e ha piazzato microfoni e telecamere nascoste. Dai, di’ la verità!

– Non capisco quel che dici – replicò la voce. – Ti prego, fammi uscire di qui. Metti l’altro disco!

– Smettetela, tanto lo scherzo non vi &egrave riuscito – insistei.

Frattanto, il disco era terminato e anche la voce aveva smesso di parlare.

– Ci sei? Dove sei andata? – domandai, sempre rivolto all’altoparlante del grammofono. Ma nessuno mi rispose.
– Ma insomma, chi cazzo &egrave che si sta divertendo? Siete solo degli stupidi! – m’innervosii. Silenzio. A dire il vero, la cosa cominciava a inquietarmi: non riuscivo a capire se si trattasse solo di uno scherzo di cattivo gusto o se fosse qualcosa di peggio… Ma cosa? Davvero non sapevo cosa pensare: ed era proprio questo a mettermi in agitazione.
Tanto per provare a fare qualcosa, e a capirci qualcosa, volli assecondare la richiesta della vocina e misi sul piatto del grammofono il disco con la strana etichetta color ruggine. Azionai di nuovo la manovella, posizionai la puntina… e mi posi in ascolto. La voce femminile riprese a parlare, stavolta in modo più chiaro, poiché non era coperta dalla musica.

– Mi senti? – disse. – Ti chiedo di farmi uscire, vedrai che non te ne pentirai: io sono un genio e ho il compito di esaudire i tuoi desideri.

A queste parole, non riuscii a trattenere una risata:
– Ah, ah! Ma che cazzo dite? Sono scherzi del piffero, i vostri. Secondo voi io credo ai genii? Ma per chi mi avete preso? Sì, d’accordo, l’avete pensata bene la cosa, con la voce registrata sul disco e tutto il resto. Ma adesso piantatela, eh!

– Ma non &egrave uno scherzo! – insisté la vocina. – Sono sicura che se mi fai uscire e dai un’occhiata alla mia faccia, ti convincerai che dico la verità.

– Insomma! – m’infuriai. – Adesso state esagerando! Basta, mi avete rotto le scatole, chiaro?

– Ti prego… – implorò la voce. – Io sono vera, non sono registrata: sto parlando con te, non vedi? Perché non vuoi credermi?

– Ma cosa vuoi? Chi sei? – dissi esasperato e inquieto.

– Te l’ho detto: sono un genio e ti chiedo di farmi uscire da questa strana scatola.

– Ma scusa – obiettai, – se &egrave vero che sei un genio e che hai poteri speciali, come mai non riesci a uscire di lì? Lo vedi che mi prendi per il culo?

– Ma no, ma no! – s’innervosì la vocina. – Noi dobbiamo obbedire a determinate leggi; possibile che voi uomini del XXI secolo non sappiate nulla di queste cose? Io non posso uscire a mio piacimento: sono tenuta a farlo solo quando lo decide il mio padrone.

– Il tuo padrone? E chi &egrave?

– Ma sei tu! Oh, insomma! – piagnucolò la vocina, disperata. – Ti prego, fidati: tirami fuori e vedrai che ti renderò felice.

– Mah… Se lo dici tu… – commentai, poco convinto. – E come devo fare per farti venire fuori?

– Semplice: devi battere tre volte le mani, pronunciando il mio nome.

– Ah sì… Facile, in effetti. Però, aspetta: io non lo so il tuo nome.

– Già. Ma io non posso dirtelo – dichiarò la vocina.

– Ma a che gioco giochiamo? Mi avete proprio rotto, eh! – esclamai spazientito. – Adesso ci mettiamo anche a fare gli indovinelli?

– Ma dai… Non hai proprio pazienza!

– Eh già. Guarda un po’!

– Se mi fai finire di parlare, posso dirti che il mio nome lo puoi leggere nel solco del disco, alla luce di una candela.

– Ah… e adesso devo pure mettermi a cercare la candela? – sbuffai. Ma mi rassegnai e mi misi a caccia. Quando finalmente, dopo innumerevoli cassetti rovistati e polvere sollevata a chili dagli angoli più impensabili della casa, tornai in salotto con una candela storta e per metà consumata, il disco si era ovviamente fermato. Comunque accesi la candela, la inclinai un po’ verso il solco del disco e provai a vedere se si leggeva qualcosa. Macché!

“Va bene, proviamo a riavviarlo” pensai, “così magari quei buontemponi mi parlano di nuovo… e vediamo come va a finire ‘sta carnevalata”.

Rimesso in moto il grammofono, la voce tornò a parlare e spiegò:

– E’ adesso che devi leggere sul solco, con il disco in movimento.

– Vabbé – dissi, e mi apprestai a leggere, pensando: “Chissà che diavoleria tecnologica hanno escogitato…”.
Effettivamente notai che si leggeva qualcosa, sia pure con difficoltà. Compitai, man mano che riuscivo a decifrare le lettere:
– A… S… T… R… I… D. Ah! – feci – &egrave così che ti chiami: As… trid? Sì, dico bene: Astrid?

– Sì, adesso batti le mani e di’ il mio nome.

Pur sentendomi un cretino, feci quel che la voce mi chiedeva e, dopo aver battuto per la terza volta le mani scandendo: “Astrid!”, vidi comparire, accanto al tavolo che reggeva il grammofono, uno strano fumo biancastro, che si fece a poco a poco più denso, per poi diradarsi progressivamente, svelando la presenza di una figura femminile.

– Ciao, padrone. Sono io, Astrid… – disse lo sconosciuto essere. La sua apparizione mi turbò, in effetti: non sapevo cosa pensare… Possibile che fosse solo un trucco ben orchestrato? E da chi, poi? Io comunque non credevo certo all’esistenza di spiriti, folletti, genii e quant’altro. Ero scombussolato, inutile negarlo; la ragazza, poi, chiunque fosse, era di gradevolissimo aspetto: dell’apparente età di venticinque anni, visetto tondo e grazioso, nasino piccolo e gentile, capelli biondi raccolti in una piccola coda che le arrivava appena alla schiena, occhi verdi e profondi, mani lunghe dalle dita sottili. Indossava una lunga veste dal taglio démodé, di un colore azzurro pallido, che le copriva interamente il corpo dal collo alle caviglie, ed era scalza.
Non volendo credere di trovarmi davanti ad un essere che non apparteneva alla specie umana – e forse neppure al nostro mondo – mi rivolsi a lei con queste parole:

– Dai, dimmi chi &egrave stato a organizzare tutto: sono stati quei due pazzoidi di Pepi e Gilda? Di’ la verità: sono stati loro, eh?

Astrid mi osservò con un’aria tra il dolce e l’imbambolato e rispose:

– Non so chi siano, davvero… Io sono Astrid, te l’ho detto, il tuo genio personale, da oggi in poi. Sono uno spirito, ma per regolamento sono tenuta ad assumere sembianze umane per poter dialogare agevolmente col mio padrone. Per la precisione, ho trecentoventi anni di età.

– Ma cosa stai dicendo? – reagii nervoso. – Basta, smettiamola con questa storia! OK, siete bravissimi a organizzare scherzi e trucchi, meritereste di lavorare al cinema, va bene? Però adesso basta!

– Insomma, sei duro, padrone, scusami l’ardire – mi redarguì con tatto lei. – Cosa posso fare per farti capire chi sono veramente?

– Ma chi saresti? Chi?

– Ripeto ancora una volta: sono il tuo genio personale e sono qui per esaudire ogni tuo desiderio.

– Ah sì? E come mai hai scelto di metterti proprio al mio servizio?

– Non l’ho scelto io: sei tu che, comprando quel grammofono, come lo chiamate, hai acquistato il diritto di avermi al tuo servizio.

– Mmm… Ma io non ho mai sentito parlare dell’esistenza di genii di sesso femminile.

– E invece ci sono. Siamo tantissime, sai?

– E comunque – obiettai – potrei non volere un genio. Chi ti ha detto che ti voglio al mio servizio? Nessuno mi ha avvertito, quando ho comprato quell’aggeggio, che dentro c’eri anche tu. Il contratto quindi non &egrave valido, &egrave nullo. Guarda che faccio l’avvocato e queste cose le so bene. Caschi male, se credi di fregarmi in qualche modo.

– Ti prego, padrone, mettimi alla prova – mi supplicò il genio. Non sapevo davvero cosa pensare; ad ogni modo, non me la sentivo di trattar male una creatura così incantevole.

– Va bene – dissi – voglio proprio metterti alla prova. Dammi il tempo di pensare cosa posso chiederti…

“Dunque” riflettei, “voglio vedere dove vogliono arrivare con questa farsa… Intanto, giacché ci sono, esprimerò desideri impegnativi: se una cosa va fatta, va fatta come si deve, no? Comunque stiano le cose, io casco bene: se &egrave tutta una burla, più complicato &egrave il desiderio, più ci sarà da divertirsi a vedere come se la cavano ‘sti stronzi; se invece Astrid dice la verità, soddisfo i desideri più grandi della mia vita. Mica male, eh?”

Arrivai alla conclusione che fossero solo quattro i desideri da esprimere, quattro ma buoni: la ricchezza, la giovinezza, la salute e l’amore. “Sono questi” mi dissi “i desideri più importanti dell’uomo. Tutti gli altri desideri ‘minori’ sono in fondo inclusi in quei quattro”.

– Ci ho pensato – annunciai finalmente.

– Bene, padrone! – replicò Astrid con un sorriso raggiante. – Ti ricordo però che, per regolamento, puoi esprimere un solo desiderio al giorno.

– Ah, questo regolamento! – sbuffai. – Anche dalle vostre parti si vive di leggi e norme? Ma chi le scrive, da voi?

– Non lo so, padrone – disse lei allargando le braccia. – So solo che &egrave così e che non possiamo sgarrare.

– Che fanno? Vi multano? Vi arrestano?

– No. Semplicemente, rendono nulla la nostra richiesta: se non rispettiamo le regole, ci tolgono l’energia, punto e basta.

– Ah, ho capito. Un po’ come succede a chi da noi non paga la bolletta della luce – ironizzai.

– Allora, sono pronta, padrone – dichiarò Astrid. – Qual &egrave la tua prima richiesta?

– Voglio essere ricco, ricchissimo. Non voglio avere nessuna preoccupazione economica per il resto dei miei giorni.

– Sta bene – disse il grazioso genio e, assumendo un’espressione concentrata, girò vorticosamente su se stessa per qualche secondo, quindi alzò le braccia verso il soffitto e pronunciò alcune parole incomprensibili.

– Ecco fatto, padrone. Ora sei ricchissimo – annunciò con un’espressione fiera e felice.

– Ma davvero? – feci io, visibilmente scettico.

– Come? Non mi credi? – si offese la creatura. – Allora guarda dentro il materasso, dentro i cuscini, compresi quelli del divano, e in tutti gli armadi.

– Perché? – chiesi stupito.

– Come perché? Te li ho riempiti di soldi! – rispose Astrid, col tono di chi sta dicendo la cosa più ovvia del mondo.

Poiché mi rifiutavo di andare a verificare nei posti che lei aveva indicato, prese ella stessa uno dei cuscini del divano, ne aprì la cerniera e mi fece vedere che al posto dell’imbottitura c’erano delle banconote. Ne presi qualcuna e la esaminai con attenzione: si trattava, a quanto mi sembrò di capire, di marchi tedeschi fuori corso, dell’epoca della grande inflazione degli anni Venti.

– Ma che &egrave ‘sta roba? – protestai. – E tu mi hai riempito la casa di questa carta che non vale niente?

– Già… Forse hai ragione. L’ultimo mio padrone abitava a Colonia intorno al 1925. E’ da allora che non sono in attività, non conosco altre monete.

– Ma se &egrave per questo – dissi, – ti faccio vedere io qualche banconota che usiamo oggi. Ti può essere d’aiuto?

– Come no? Te le riproduco alla perfezione.

– Ehi, un momento – obiettai: – non &egrave che per caso poi risultano false e vado a finire in galera?

– No, no, stai tranquillo: saranno banconote vere, frutto di tuoi legittimi guadagni. Nessuno avrà niente da eccepire. Questo &egrave un prodigio, non una stamperia clandestina.

– E comunque – aggiunsi – non mettermele nei materassi e nei cuscini. Non si usa più, oggi, sai?

– Ah… Non sapevo.

– Facciamo così – proposi: – anziché darmene tante tutte insieme, fammele trovare nelle tasche della giacca che di volta in volta indosserò. Ogni volta che metterò la mano in tasca, troverò la quantità di moneta di cui avrò bisogno. Si può fare?

– Certo – mi assicurò Astrid.

– Sai – spiegai – questo anche per non dare nell’occhio. Non voglio che nessuno sappia che sono ricco. Quel che m’interessa &egrave non avere preoccupazioni; ma continuerò a fare il mio lavoro e la vita di sempre.

Ormai, senza quasi avvedermene, sognavo ad occhi aperti: mi ero convinto che Astrid fosse davvero quel che diceva di essere. Le mostrai una banconota da 50 euro ed una da 100, che avevo nel portafogli; e questo a lei fu sufficiente per compiere l’incantesimo. Da quel momento in poi, ogni volta che mettevo le mani in tasca, trovavo gruzzoli di banconote. Inutile dire che quella sera andai a dormire felice. Astrid per la notte rientrò nella sua “tana”; la mattina dopo, per tirarla fuori, mi bastò rimettere in funzione il grammofono col misterioso disco dall’etichetta color ruggine. Dopo aver fatto colazione, le ricordai:

– Oggi mi devi un altro desiderio.

– Al tuo servizio, padrone.

– Voglio che tu mi ringiovanisca e che mi faccia rimanere eternamente in quello stato.

– Mm… come sarebbe? Ma tu non sei vecchio, padrone – osservò il genio.

– Certo, lo so che ho solo trent’anni, ma voglio che tu mi faccia sembrare ventenne, capito?

Eh già: non si &egrave mai soddisfatti di quel che si ha… Forse, se avessi avuto vent’anni, quel giorno le avrei chiesto di farmi sembrare un quindicenne.

– Sta bene – disse Astrid e, dopo i suoi consueti gesti magici, mi annunciò:

– Sei stato esaudito, padrone.

– Mm… io non avverto nessun cambiamento.

– Guardati allo specchio, per favore – mi esortò cortesemente Astrid.

Seguii il suo consiglio e notai che effettivamente dal mio viso erano sparite alcune rughette che erano subdolamente comparse, un po’ per volta, nell’ultimo decennio; e poi… miracolo! Avevo riacquistato tutti i capelli che avevo perso, e quelli bianchi che avevano cominciato, da un paio d’anni, ad affacciarsi, si erano volatilizzati!
Ero talmente entusiasta che non seppi trattenermi dal correre incontro ad Astrid per abbracciarla: stringendola fra le braccia mi accorsi con piacere che la ragazza (se così si poteva definire) manteneva appieno quel che l’aspetto pareva blandamente promettere – le forme c’erano, eccome, sotto quel camicione informe. Eppure avevo paura di desiderarla: mi faceva senso fantasticare su un essere che non era in realtà una donna e che per giunta contava ben trecentoventi primavere (benché le portasse bene…).
Mi staccai quindi da lei con imbarazzo e inquietudine e mi misi immediatamente a pensare ad altro.

Anche il terzo desiderio – la salute – venne esaudito senza problemi, il giorno successivo. Arrivò dunque il momento del quarto.

– Sei pronta? – domandai al genio, la mattina, subito dopo la colazione.

– Certo – confermò lei.

– Ascoltami: voglio che s’innamorino perdutamente di me tutte le donne che mi capiterà di desiderare da questo momento in poi. Tanto per cominciare, voglio che s’innamori di me Mara, la mia collega, a cui faccio il filo da parecchio tempo. La voglio vedere sbavare di desiderio, ai miei piedi.

Astrid mi guardò smarrita e per la prima volta mi parve incerta e seriamente imbarazzata.

– Che c’&egrave? – le domandai. – Come mai non fai i tuoi gesti magici? Ho detto qualcosa che non va?

– Beh, vedi… – spiegò il genio, con lo sguardo basso e le guance rosse – Non mi &egrave consentito esaudire questo tuo desiderio. Sono mortificata, padrone, mi dispiace davvero…

– Cosa? – saltai su deluso e irato. – Come sarebbe? Io credevo che voi genii foste tenuti ad esaudire qualsiasi desiderio degli umani: così ho sempre sentito dire, fin da bambino. E allora? Mi spieghi un po’ questa faccenda? Perché non puoi?

– Non ci &egrave permesso influire sul cuore e sui desideri degli altri. Mi rincresce, padrone, te lo giuro, ma &egrave così.

– Mi avete imbrogliato! – strillai. – Tu non me l’hai mica detto, questo, quando mi hai pregato di farti uscire dal grammofono! Era tuo dovere avvertirmi. Sono stato raggirato! Vatti a fidare dei genii…

– Padrone, ti supplico: sono disposta ad esaudire qualunque altro desiderio. Ti darò completa soddisfazione, te lo prometto! – implorò.

– Ma cosa vuoi che me ne faccia di “qualunque altro desiderio”? Io voglio l’amore delle belle donne, capisci? Tu non ti rendi conto di quanto siano importanti, per noi umani, l’amore… il sesso…

Astrid se ne stava lì, con gli occhi bassi, mortificata, senza sapere più cosa dire. Poi, ad un tratto, come se fosse stata improvvisamente illuminata da un’idea, sembrò rianimarsi: sollevò lo sguardo su di me e, con aria seria, propose:

– Padrone, ti ho promesso che ti avrei dato completa soddisfazione; ebbene, non voglio mancarti di parola. Sono disposta a fare qualcosa che non ho mai fatto per nessuno: se vuoi, farò con te ciò che le donne degli umani fanno coi loro uomini.

Là per là mi parve di non aver capito bene, tanto la cosa mi sembrava incredibile, surreale.

– Cosa? Cosa faresti, tu? – chiesi con aria frastornata e lievemente imbronciata.

– Guarda che io sono una donna a tutti gli effetti, quando assumo sembianze mortali – tenne a precisare lei.

– Ma se hai più di trecento anni! – sottolineai.

– E cosa conta? Forse non ti piaccio? – domandò, assumendo per la prima volta, proprio come certe donne, un’aria civettuola. La cosa mi parve buffa e simpatica.

– Mm… sì che mi piaci… – ammisi. – Sai, quando ci siamo abbracciati, credo due giorni fa, mi sono accorto che insomma… Ne hai di… argomenti…

Ero diventato rosso per l’imbarazzo: cosa mi stava succedendo? Desideravo Astrid?

– Certo io non ho esperienza di queste cose – soggiunse – anche perché noi non abbiamo rapporti carnali coi nostri simili e, a quel che ne so, accade molto raramente che un genio e un essere umano… intreccino i loro corpi per… dedicarsi a pratiche amorose. Ricordo che il vecchio saggio che mi ha istruito mi disse qualcosa in proposito, una volta: disse che sono tentazioni pericolose e che non &egrave bene che un genio ed un essere umano si lascino andare alla passione, poiché le conseguenze possono essere incontrollabili e devastanti.

– Ah sì? – feci, un po’ spaventato. – Perché? Cosa può succedere?

– Mah – minimizzò Astrid – il vecchio saggio non ce l’ha mai detto. Ma sai, lui ci educava così: ci spaventava con certi discorsi, per metterci sulla retta via e fare di noi dei perfetti genii. Spesso esagerava.

– Ah, capisco. Faceva come certi nostri genitori e maestri.

– Sì, padrone. Non ci pensare. Io sono a tua disposizione. Tocca il mio corpo, tocca la mia pelle… – m’incitò.

Come potevo resistere a quell’invito? Io già da un bel po’ stavo ardendo dal desiderio. Ed era da qualche settimana che non sentivo l’abbraccio, l’odore, il calore di una donna…
Mi avvicinai dunque a lei, quasi tremante per l’emozione e l’ardore; strinsi le sue braccia e lei rimase lì, immobile, ad attendere le mie mosse: la sentivo veramente tutta mia, completamente disponibile e disposta a soddisfare qualsiasi mia voglia. L’abbracciai quindi con energia, per sentire il suo corpo incollato al mio; le toccai le tette e le sentii piene, carnose, morbide, ben al di là di quanto avessi immaginato sino a quell’istante. A partire da lì, abbandonata ogni remora, mi feci guidare soltanto dai desideri che sorgevano prepotenti nella mia mente e che neppure io avevo mai sospettato di possedere.

– Ora farai tutto quello che ti dirò, senza protestare – mormorai.

– Sì, padrone – sussurrò Astrid, con un tono docile e sottomesso che m’inebriò oltre ogni dire.

– Ti voglio in ginocchio qui davanti – le ordinai.

Senza esitazione, Astrid ubbidì e mi guardò in viso coi suoi occhi che sembravano immensi, in attesa di istruzioni. Io mi sbottonai i calzoni, li feci scendere sulle caviglie e, abbassando piano le mutande, le chiesi:

– Allora, l’hai mai visto, questo?

Astrid, osservando il mio serpente che stava già cominciando a sollevare la testa, fece cenno di no; non sapevo se stesse dicendo la verità – alla sua età, suvvia! – ma non sembrava comunque turbata: le importava soltanto soddisfarmi, essere perfetta per me.

– Prendilo in mano, avanti! – le ingiunsi. – Voglio vedere come te la cavi.

Il mio grazioso genio afferrò dunque l’uccello con la sua bella mano e cominciò a stimolarlo con un certo timore: sembrava proprio dunque che non avesse molta esperienza.

– Muovila un po’ di più, quella mano – le dissi.

Prontamente ubbidì al comando e la guardai mentre percorreva in su e in giù la mia asta con la sua mano affusolata, che si faceva sempre più sicura e rapida.

– Adesso rallenta, rallenta un po’ – ordinai, mentre il membro mi si gonfiava, felice dell’insospettata perizia della mia partner. Astrid sembrava osservare con curiosità il fenomeno del progressivo aumento di dimensioni del mio pene. Il suo stupore mi eccitò ancora di più.

– Ti piace, eh? Ti piace? Adesso lo dovrai assaggiare, sai? – le annunciai.

– Cosa devo fare, padrone? – mi domandò lei, con evidente perplessità. – Non ho capito…

– Ora che &egrave abbastanza duro, te lo devi mettere in bocca – le spiegai. – E poi me lo devi succhiare e leccare. E cerca di farlo come si deve, chiaro?

Con aria alquanto incerta, avvicinò la bocca alla punta del mio bastone; quindi, sempre tenendo l’asta con la mano, cominciò a succhiare la cappella, prima timidamente, e poi con crescente audacia.

– Sì, avanti, così, brava… succhia! Di più! – le ordinavo, mentre sentivo l’eccitazione che saliva vertiginosamente in me, sicché le parole lasciarono presto posto ai gemiti di godimento. Astrid non aveva più bisogno del mio incitamento: a quanto pareva, aveva imparato in fretta, e cominciava a prenderci gusto. Di sua iniziativa mi scappellò l’uccello, lo osservò curiosa e compiaciuta, e poi lo infilò per metà in bocca. Sentii la sua lingua che me lo esplorava, senza più alcuna inibizione, in lungo e in largo; la sentii soffermarsi sotto il frenulo e mi sembrò di impazzire per il piacere. Lei di sotto mi lanciò un’occhiata d’intesa: era evidentemente contenta di essere riuscita ad apprendere così velocemente l’arte di soddisfare il suo padrone…
Si sfilò l’arnese dalla bocca e mi leccò l’asta, di sotto in su, come fosse un ghiacciolo; poi fece scivolare lentamente la lingua attorno al glande; quindi gratificò ancora l’asta di un’intensa leccata e poi scese a leccarmi anche le palle; le prese in bocca una alla volta e le succhiò. Era davvero brava! Nessuna donna aveva saputo portarmi ad un tale livello di eccitazione. E ancora, si avventò ispirata sulla cappella e prese a succhiarla con voracità, tenendo sempre ben salda la base del mio
strumento con la sinistra; lo sfilò poi nuovamente dalla bocca, mi lanciò un’occhiata lubrica e tornò a leccarmi lentamente, ma intensamente, l’asta a partire dal basso.

– Mi fai impazzire, sei fantastica!… – non potei trattenermi dall’esclamare, dopo un intenso gemito di piacere.

– Sì, &egrave bellissimo, padrone… non immaginavo – replicò Astrid. – Adesso che vuoi che faccia?

– Mettiti su quel divano, lì, a quattro zampe, con la veste sollevata – ordinai. – Ti voglio a culo scoperto.

Lei obbedì; io mi accostai alle sue spalle, col bastone ancora gonfio di voglia, e glielo feci sentire lungo il suo solco intimo.

– Ah, sei già bella bagnata… Allora anche tu ti stavi eccitando, eh? – commentai.

– Sì, mi piace, padrone – rispose. – Ora che farai?

– Adesso vedrai, tu non ti preoccupare – dissi. Quindi glielo infilai e, fradicia com’era, non fece alcuna fatica ad accoglierlo. Cominciò subito a gemere, evidentemente eccitatissima.

– Sì, sì, padrone, ti prego! Più dentro, ancora di più! – m’incitò appassionatamente.

– Ora sentirai come ti sbatto! Te la sfonderò, genio o non genio! – replicai pieno di voglia.

Presi infatti a montarla con veemenza, sbattendo ritmicamente, per la foga, le mie cosce contro le sue natiche.

– Dai, te lo devi prendere tutto dentro, hai capito? – dissi. – Altro che genio: sei la mia sgualdrina, hai capito?

– Siiiì, padrone… – mugolò Astrid, – non so cosa sia, ma suona bene! Sento il tuo affare che s’ingrossa dentro di me. Mi piace, mi piace, lo voglio il tuo uccellone, padrone! Lo voglio sempreeee!

Le sue parole ebbero il potere di gasarmi ulteriormente, sicché accelerai il ritmo della penetrazione.

– Dammelo, dammelo, padrone! – continuava a dire lei, quasi urlando.

– Ora ti sfondo! E ti inondo, te la allago, la tua fichetta! – esclamai a mia volta, senza neppure rendermi conto di quel che dicevo. Sapevo solo che mi sentivo eccitato come non mai e avevo quasi l’impressione che il pene fosse sul punto di esplodermi, tanto era duro e teso. La vulva di Astrid doveva avere davvero qualcosa di magico, tanto sembrava calda e accogliente… Mi eccitava sapere di avere a mia completa disposizione una donna così conturbante e “caliente”. L’idea di avere una specie di schiava sottomessa alle mie voglie mi stimolava: del resto, fino a quel momento non ci avevo mai pensato, neppure nei miei sogni erotici più spinti. Mi stupivo perciò io stesso delle fantasie che lei aveva suscitato in me.

– Mmm… non ho mai goduto così! Mi fai impazzire, padrone! – esclamò Astrid.

– Te lo senti tutto dentro, eh? Dimmelo ancora che lo vuoi sempre, sgualdrina!

– Sì, padrone, &egrave la verità: lo voglio sempre il tuo uccello dentro di me; giorno e notte, padrone. Sfondami… cosiiiiì!

– Da oggi sarai la mia puttana – le annunciai: – il tuo ruolo qui sarà quello di soddisfare i miei capricci più folli, tutte le volte che vorrò. Dovrai metterti degli abiti sexy che io ti darò, e quando torno a casa, voglio che tu venga ad accogliermi camminando a quattro zampe. Ogni volta che te lo chiedo, mi devi mostrare il culo e io decido là per là se prenderti senza complimenti o toccarmi mentre lo muovi per me. A tavola mi servirai con le tette scoperte, in modo che io possa palpartele a mio piacimento. La notte, invece, dopo aver fatto l’amore con me, dormirai sul tappeto accanto al letto, come una cagna. Hai qualcosa in contrario, genio del cavolo?

– No, padrone… Mi sto eccitando a sentirti parlare così…

– Te l’ho detto che sei una cagna in calore – commentai, e accelerai il ritmo della penetrazione; e man mano che aumentavo la foga dei miei colpi, aumentavano anche i gemiti di piacere di Astrid, che alla fine venne quasi urlando. Subito dopo, sentii che anch’io ero giunto al limite ed estrassi il membro dal suo nido caldo; e dicendo: – Tieni, schiava, questa &egrave la tua doccia – le schizzai il seme sulla schiena, sulle chiappe e sulle cosce.
Astrid si passò una mano sulle parti inondate e la intrise del mio sperma; quindi, si sedette sul divano e, lanciandomi uno sguardo impertinente e provocante, prese a leccare dalla sua mano il bianco caldo liquido.

– Non sapevo che servire un padrone potesse essere così eccitante… Mi piace soddisfarti – disse Astrid, che aveva preso ad osservarmi l’uccello e aveva notato che si stava già risvegliando. – Mmm, visto che ti diventa così duro – commentò – vuol dire che ti piace il tuo genio… la tua Astrid… Più te lo vedo crescere e più mi scaldo… Avrei voglia di sentirmelo ancora dentro, padrone!

– Invece adesso lo prenderai in bocca, puttana! – annunciai.

– Sì padrone – disse docile e, inginocchiatasi nuovamente davanti a me, afferrò il membro con la destra e lo portò alla bocca. Riprese a succhiarmelo con una voracità sorprendente e in pochi secondi me lo fece diventare di marmo. Mi dilettavo ad osservarla, per moltiplicare l’eccitazione: il mio uccello era per metà nella sua bocca e lei sembrava gustarlo tra le labbra come un ghiacciolo; ma era tutt’altro che freddo! Ad un tratto prese a fare su e giù con la bocca: il serpente di marmo
entrava ed usciva da quella guaina umida e in movimento, e davvero mi sembrava di essere altrove, in una sorta di cielo dei gaudenti, per l’intenso piacere che provavo. Poi, senza rilassarsi un attimo, reggendo l’asta alla base, cominciò a leccarmela di sotto in su; quindi soffermò la lingua all’altezza della cappella e stuzzicò il frenulo con irresistibili rapide slinguazzate che assomigliavano allo scodinzolare di un cane. Mentre era intenta a inebriarmi con questo sapiente gioco, sollevò lo sguardo verso il mio viso ed i suoi occhi esprimevano un’impertinente e disinibita esaltazione. E forse fu quello sguardo, unito ai suoi colpi di lingua, a catalizzare il mio secondo orgasmo:

– Vengooo – sussurrai invasato e le schizzai il frutto del piacere in piena faccia. – Ti piace farti lavare così dal tuo padrone, eh?

Astrid annuì estasiata e prese a leccarsi lentamente, languidamente, lo sperma che incontrava nel raggio della lingua.
Il mattino dopo, al risveglio, feci alzare la donna-genio dal tappeto sul quale era rimasta stesa tutta la notte e le ordinai di seguirmi in bagno. Le dissi quindi di far uscire l’acqua alla temperatura ideale dal rubinetto della doccia e le annunciai:

– Ti occuperai tu di lavare il mio corpo, come un’antica schiava avrebbe fatto per il suo padrone…

Per prima cosa, dunque, mi aiutò a spogliarmi: mi sbottonò la camicia del pigiama, me la sfilò, poi mi abbassò i pantaloni chinandosi per accompagnarli sino alle caviglie; e infine mi tolse anche quelli, lasciandomi completamente nudo. Quindi si occupò di aprire il rubinetto nel vano doccia e mi avvisò:

– E’ tutto pronto, padrone.

La raggiunsi sotto l’acqua che scorreva abbondante. Mi frizionò accuratamente, facendo in modo che ogni minima parte del mio corpo fosse raggiunta dal liquido elemento: sentii scorrere le sue mani dal collo alle braccia, poi sotto le ascelle, lungo il petto, giù per le gambe sino ai piedi; e ancora, dietro la schiena, sulle natiche e più giù sino ai calcagni. Già quel trattamento era irresistibile, sentivo i muscoli del mio corpo rilassarsi al tocco di quelle mani leggere e premurose ed un fremito di piacere mi percorse la schiena e il cervello. Astrid ripeté poi lo stesso percorso all’atto dell’insaponatura; ma stavolta si soffermò maggiormente su ogni singola zona del corpo. Sentii le sue mani lavorare sotto le ascelle e poi scendere a insaponarmi i fianchi, per risalire a strofinarmi accuratamente il petto, facendo in modo che il sapone penetrasse sotto la peluria. Quindi mi fece voltare e m’insaponò la schiena; poi le sue mani scesero a occuparsi delle natiche, che vennero strofinate con particolare cura. Essendo però quella una delle mie zone più… sensibili a certi stimoli, cominciai a quel punto ad eccitarmi all’inverosimile e l’uccello prese rapidamente a ingrossarmisi, raggiungendo in breve la posizione orizzontale di semierezione. Mi voltai di nuovo verso Astrid, perché procedesse a sciacquarmi, ed ogni volta che lei si muoveva per frizionarmi, il mio uccellino, continuando pian piano a crescere, le sbatteva contro lo stomaco. A un tratto mormorò:

– L’ho lasciato apposta per ultimo, padrone… Ora &egrave arrivato il suo turno – e, toltasi in un attimo la veste ormai semibagnata dagli schizzi d’acqua, cominciò a insaponarmi il sesso con movimenti accurati e lenti. L’insaponatura assunse presto il sapore di un massaggio intimo, complice. Sentivo la sua mano stuzzicarmi il membro e al tempo stesso vedevo le sue tette bianche e piene; colto da un impulso irresistibile, presi a palpargliele, prima lievemente, poi sempre più intensamente. Frattanto lei continuava a far andare la sua mano su e giù lungo l’asta, stringendomela sempre più e accelerando il ritmo. Con l’altra mano, prese a insaponarmi le palle, poi me le strizzò delicatamente e ripetutamente. Non resistevo più; le dissi:

– Ora sai cosa devi fare, vero? Inginocchiati e prendilo in bocca!

A queste parole, Astrid lanciò un gemito di piacere, quindi diede pronta esecuzione al mio ordine. Messasi in ginocchio davanti a me, prese subito in bocca la mia cappella e si dette a succhiarla con avidità spasmodica. Con una mano continuava a tastarmi le palle.

– Fallo andare più a fondo: voglio che ti arrivi in gola – ordinai.

Astrid si adeguò all’istante: vidi che faceva sparire il duro serpente nella sua bocca per quasi i due terzi della sua lunghezza; era impressionante la sua… abnegazione. E mi faceva andare notevolmente su di giri.

– Puttana – sussurrai con tono di simulato disprezzo. Fece più volte su e giù con la testa, facendo scivolare sulla lingua e tra le labbra il mio membro; queste ultime lo stringevano con passionale delicatezza e di tanto in tanto si soffermavano a ciucciare voracemente la punta. L’eccitazione era tale che il respiro quasi mi si bloccava.
A un tratto cominciai a muovere il bacino, in modo da imporle il mio ritmo.

– Uso la tua bocca come voglio, sgualdrinella! – esclamai e lei, senza scomporsi, lasciò che l’uccello le stantuffasse la bocca in modo sempre più violento; ormai le tenevo ferma la testa con entrambe le mani e arrivai a farle entrare quasi interamente l’uccello nella cavità orale, durante gli affondi.

– Vedi che anch’io mantengo le promesse? – la schernii. – Ti avevo detto che te l’avrei fatto arrivare in gola, no?

L’orgasmo giunse improvviso: le venni in bocca senza neanche preavvisarla.

– Puliscimelo per bene con la lingua – le ordinai. – Voglio che tu ingoi tutto il mio seme, fino all’ultima goccia…

Mi godetti dunque anche questo ultimo, sensuale e gradevolissimo spettacolo: Astrid intenta a leccarmi il pene da cima a fondo, con estrema cura e attenzione, per ripulirlo dal mio stesso sperma. La giornata era cominciata più che bene…

E da quel giorno sottoposi Astrid a una sorta di tour de force erotico, in cui ciascuno di noi sosteneva un ruolo preciso; lei accettava tutto di buon grado, senza tentennare né protestare mai. Davvero i genii hanno una fibra inesauribile ed una dedizione a tutta prova. Quando tornavo a casa dopo il lavoro, spesso la chiamavo e le imponevo di presentarsi al mio cospetto camminando a quattro zampe; la obbligavo a togliermi le scarpe e a baciarmi i piedi in segno di saluto. Quindi, dopo avermi fatto calzare le pantofole, poteva finalmente alzarsi, per togliermi la giacca. Talvolta, prima di cenare, quando ne avevo voglia, la costringevo a inginocchiarsi, a sbottonarmi i calzoni, tirare giù la zip e frugarmi nelle mutande e poi, una volta che aveva messo allo scoperto il mio arnese già semirigido, le ordinavo di succhiarmelo. Era una specie di aperitivo, per me. Astrid diventava ogni giorno più brava, più calda, più scatenata e meno impacciata. Le chiedevo di tutto: spesso, per esempio, la costringevo a leccarmi i glutei, perché era una cosa che mi eccitava follemente. E mi capitava di chiederglielo nei momenti più impensati: mentre guardavamo la TV, o dopo cena, o prima di uscire insieme la domenica. Semplicemente, quando ne avevo voglia, mi scoprivo il sedere e le dicevo seccamente:
“Leccamelo”.
Quando invece avevo voglia di fare l’amore, le dicevo: “Allarga le cosce”. E qualche volta la voglia mi veniva mentre eravamo in pubblico, per esempio durante una delle nostre gite domenicali, o al ristorante. In questi casi, mi bastava bisbigliare ad Astrid: “Appartiamoci”. E lei, con i suoi poteri, trasportava entrambi in un posto identico a quello nel quale ci trovavamo, ma completamente deserto. Ad esempio, se eravamo in un ristorante pieno zeppo di avventori, lei faceva in modo che ci ritrovassimo in una sala del tutto identica, con gli stessi muri, le stesse finestre, la stessa luce, gli stessi tavoli, le stesse sedie, ma senza la minima presenza umana. E a quel punto, poteva capitare che le ordinassi di stendersi su un tavolo e di allargare le cosce. E Astrid, dopo essersi sdraiata su un tavolo in fondo alla sala, sollevava un po’ la gonna corta che le avevo regalato, abbassava le mutandine e metteva in mostra il suo intimo bosco.

– Ce l’ho già bagnata, padrone. Controlla, se vuoi – mi provocava. Era irresistibile in quella posa oscena e disinvolta. Mi accostavo a lei e le passavo una mano tra i peli pubici; lei già cominciava a fremere per la voglia. La mia mano scendeva lentamente, tastava il terreno, il suo caldo campo da seminare… Le sfioravo le grandi labbra, tra i suoi mugolii sempre più intensi; il clitoride attendeva impaziente le mie attenzioni. Me ne impossessavo, ci giocavo delicatamente, con disinvoltura, e mi gasavo nel vedere Astrid contorcere il viso per l’eccitazione.

– Ho liberato la grande zoccola che c’&egrave in te – commentavo, per gettare benzina sul fuoco e vederla eccitarsi sempre più. Quindi le ficcavo un dito nella vagina, già incredibilmente bagnata, e mi deliziavo nel vederle uscire gli occhi dalle orbite, per il folle piacere che provava. In quei momenti la sentivo più che mai in mio potere e il fatto che io, umile mortale, avessi davanti con le cosce spalancate, completamente offerta a me, una sorta di donna sovrumana, vellicava la mia vanità e mi esaltava. Già a quel pensiero me lo sentivo diventare duro nelle mutande…
Le dita nella passera diventavano due: preparavano il terreno all’arrivo del vero padrone del campo. Poi introducevo un altro sottile ospite e cominciavo a possederla così, con tre dita, che muovevo su e giù, sempre più rapidamente. In preda a un ardore esplosivo, afferravo una sedia, la gettavo per aria, quindi mi calavo i pantaloni e mettevo a nudo l’uccello, pronto ormai a fare la sua parte. Astrid a sua volta, carica quanto e più di me, dava un calcio ad un’altra sedia, che cadeva rumorosamente al suolo.

– Sì, fammelo sentire, fammelo assaggiare… – mi spronava. E io glielo infilavo nel nido che lo attendeva, senza cerimonie, e la sbattevo con energia.

– Fammi godere! – le dicevo, aumentando il ritmo. La sentivo ansimare; poi i sospiri diventavano quasi urla. Le mettevo le mani sulle tette e gliele strizzavo, mentre la sbattevo. Il tavolo si metteva a cigolare sinistramente, quasi ad annunciare il suo imminente cedimento. Quindi mi veniva un’altra idea: mi andavo a sedere su una sedia a caso tra le tante e ordinavo ad Astrid di raggiungermi. Io me ne stavo seduto, col sesso duro all’insù, e lei doveva impalarcisi sopra. Si posizionava adeguatamente, poi cominciava a dar vita ad un atletico smorzacandela; andava su e giù col bacino e col busto, accogliendomi ritmicamente nella sua tana di donna. Le tiravo su la maglietta per vedere le sue tette danzare mentre lei si dimenava sul mio bastone. Gliele stringevo, quelle tette, le stuzzicavo i capezzoli coi pollici, poi le mettevo un dito in bocca e glielo facevo ciucciare. E intanto Astrid continuava il suo galoppo a cavallo del mio pene, ormai pregno degli umori copiosi della sua micetta.

– Me lo sento nella pancia, padrone, mi sta sfondando – gemeva, poi reclinava il capo all’indietro e ansimava, dimenandosi con crescente vigore, sempre più prossima all’orgasmo, che annunciava con un urlo roco. Io venivo poco dopo di lei e donavo tutto ciò che avevo alla sua passerina.

– Anche stavolta te l’ho inondata per bene, puttana, non sei contenta? – le sussurravo, aggiungendo: – E adesso puliscimelo bene, ché dobbiamo finire di pranzare.

Lei quindi si poneva in ginocchio tra le mie gambe e me lo leccava, fino ad ingoiare ogni residuo del mio seme. Poi dava l’ultimo tocco: prendeva un fazzolettino di carta e mi asciugava l’uccello, per togliere anche la sua saliva. Fatto ciò, tornavamo ai nostri posti iniziali; Astrid batteva due volte le mani e ci ritrovavamo per incanto nel ristorante pieno di gente, in attesa che il cameriere venisse a servirci il dessert…

*

Passavo ormai quasi tutto il mio tempo libero con lei: non uscivo quasi più, non vedevo più gli amici e, quando qualcuno di loro mi telefonava per organizzare una serata, rispondevo evasivamente che avevo un altro impegno.

– Abbiamo capito, sai? Hai qualcuna che non ci vuoi presentare… – insinuò uno di loro scherzosamente.

Risposi con una risatina, senza confermare né smentire. Anche se avessi voluto, come avrei potuto dir loro la verità senza correre il rischio di esser preso per pazzo? Avrei mai potuto rivelar loro cosa avevo trovato nel mio grammofono? Una vicina di mezza età, avendo notato la presenza di Astrid durante il giorno a casa mia, mi chiese, non potendo reprimere la sua curiosità:

– Ma chi &egrave quella signorina che sta da lei? La sua nuova fidanzata? Mi sembra molto carina, molto a modo…

Non potendo negare la presenza del mio genio, sorrisi e le lasciai credere quel che voleva.

Giorno dopo giorno Astrid si faceva sempre più esperta, sempre più passionale. In realtà, nonostante le apparenze, lei prendeva attivamente parte al nostro gioco, si sentiva pienamente coinvolta ed appagata, e me lo faceva capire in mille modi. Per più di un mese ci capitò di fare l’amore almeno due volte al giorno, qualche volta anche di più. A lungo andare, però, subentrò in me un po’ di stanchezza. Una sera in cui ero tornato a pezzi dal lavoro, a letto mi addormentai mentre Astrid me lo ciucciava ancora mezzo moscio. Il mattino dopo mi accolse con il broncio:

– Ma come, padrone? Ti sei addormentato sul più bello? Non ti piaccio più?

– Ma no – le spiegai, – che dici? Ero solo stanco morto. Ci rifaremo stasera.

E quella sera me la cavai, ma iniziavo ad avvertire una strana sensazione: mi pareva quasi di non poter più smettere il gioco che avevo cominciato, di doverlo portare avanti anche contro la mia volontà; mi stavo accorgendo che, in realtà, ero ormai condizionato dalle aspettative di Astrid e dalla sua impetuosa e incrollabile voglia di far l’amore con me. E questa consapevolezza mi bloccava: c’era qualcosa in me che si ribellava a quello che ormai sentivo, pur senza volerlo ammettere apertamente neppure con me stesso, come un legame soffocante.
E così diminuii a poco a poco le mie richieste di “servigi” al genio: cominciai col cancellare la fellatio prima dei pasti; quindi eliminai la “corvée della doccia”, che tanto mi era sembrata piacevole le prime volte; poi smisi di farmi servire a tavola da Astrid a seno scoperto…
Una sera, rientrando a casa, la trovai come sempre a quattro zampe; e come sempre eseguì con zelo e passione il rituale dell’accoglienza che le avevo insegnato, ma notando la mia freddezza, o la mia mancanza di entusiasmo, mi chiese premurosa:

– Padrone, qualcosa non va? Sei come distante, perso nei tuoi pensieri… Ho sbagliato qualcosa?

– No, Astrid – cercai di rassicurarla. – Assolutamente niente. Sei perfetta.

– E allora che c’&egrave? E’ da un po’ di tempo che ti vedo… come dire?… distaccato, assente… A volte mi sembra quasi che tu non sia soddisfatto di me. Quando facciamo l’amore, ultimamente, non ti sento coinvolto, partecipe; hai smesso anche di incitarmi, non mi dici più quelle frasi porche che mi eccitavano tanto. Di’ la verità, padrone, cosa ti succede?

– Ma niente, niente – risposi evasivo. – Forse &egrave solo colpa delle preoccupazioni che sto avendo sul lavoro. E’ un periodo… Passerà. Però tu, per favore, non mi assillare, eh! Non starmi così addosso…

– Va bene, padrone. Come vuoi…

Sul suo volto lessi chiara la delusione, ma per la prima volta mi parve d’intravedere anche una punta di stizza.

“Ma guarda un po’!” pensai. “Adesso sta’ a vedere che non sono più libero di fare quel che mi pare, a casa mia. Non l’ho mica sposata, dopotutto! E non stiamo neanche insieme, nel vero senso dell’espressione, se la dobbiamo dire tutta…”.

La verità &egrave che non avevo la forza di dirle di andar via e di lasciarmi in pace per un po’: non sapevo come avrebbe potuto reagire. Ma di fatto la sua continua presenza, le sue premure, la sua stessa docilità mi opprimevano, mi asfissiavano. Non potevo neppure chiedere consiglio a nessuno: se avessi parlato a qualcuno di Astrid, spiegando chi era veramente, avrei rischiato solo di farmi deridere o di farmi scambiare per un visionario; e d’altra parte, se pure qualcuno fosse stato disposto a prendermi sul serio, che consiglio avrebbe potuto darmi? Quante sono le persone che hanno avuto la ventura di intrecciare una relazione di sesso con uno spirito? Maturai dunque una decisione e un giorno le comunicai:

– Da stasera, torni a dormire nel tuo rifugio… lì nel grammofono, insomma.

Con aria mesta e abbacchiata Astrid replicò:

– Lo sapevo che non mi vuoi più… Me n’ero accorta da un pezzo.

– Ma no, Astrid, non &egrave che non ti voglio… Tu sei straordinaria, fantastica; non so come farei senza di te, dico sul serio.

– E allora come mai mi rimandi a dormire là dentro? – ribatté il genio con logica stringente.

– Te l’ho detto… E’… un periodo così… Voglio i miei spazi, starmene un po’ solo, almeno la notte. Cerca di capirmi.

– E tu puoi capire me? – reagì, spiazzandomi. – Puoi capire quello che ormai provo per te? Io ti desidero… sempre, in ogni ora del giorno e della notte; io desidero starti sempre accanto, lo capisci?

Colto di sorpresa dalla sua reazione, mi sentii smarrito e aggredito al tempo stesso; perciò istintivamente contrattaccai con vigore:

– Ma stiamo dando i numeri? – urlai. – Insomma, chi &egrave il padrone, qui? Tu o io? Tu devi fare soltanto quello che ti dico: &egrave chiaro? E senza discutere! Quindi, se ti dico che vai a dormire nel tuo rifugio, tu ci vai e senza fare tante storie. Mi sono spiegato?

– Obbedisco – disse Astrid con freddezza: era palesemente contrariata.

Ero comunque contento di aver trovato le parole per dirle che volevo la mia libertà; col tempo – mi dicevo – si sarebbe adeguata e la nostra relazione avrebbe potuto proseguire su binari più accettabili. E poi, diamine, ero pur sempre io il padrone: era lei che si doveva adeguare a me, e non viceversa! Ad ogni modo, Astrid si mostrò gentile come di consueto, quel giorno, anche se non spiccicò parola; e la sera andò a rintanarsi nel grammofono, obbedendo al mio comando. Io mi coricai più sollevato, con l’animo di chi si sente finalmente libero da un peso, e convinto che avremmo fatto pace e che la convivenza sarebbe tornata presto serena. Mi
addormentai dunque tranquillo e caddi quasi subito in un sonno profondo.

In sogno immaginai di fare l’amore con Mara, la collega che desideravo, assolutamente non ricambiato. Come avviene nei sogni, la scena era caotica e mi rimasero impressi solo pochi frammenti: ricordo che insinuavo la mano attraverso lo spacco della sua gonna e mi ritrovavo ad accarezzarle la gamba velata da una sensuale calza scura, di cui sentivo al tatto il fine tessuto. Poi insinuavo l’altra mano tra i suoi capelli corvini e ci ritrovavamo subito dopo a baciarci sulla bocca e lei era talmente presa di me che sembrava quasi volesse risucchiarmi con quel bacio, vorace in modo esagerato e irreale. Ma dopo qualche altro secondo di immagini rapide e confuse, mi svegliai di soprassalto. Anche se al buio ovviamente non distinguevo nulla di primo acchito, capii che c’era qualcosa di strano: sentii infatti una mano percorrermi la coscia destra, dal lato interno, con una carezza languida che saliva verso l’inguine. Prima ancora che avessi il tempo di mettere bene a fuoco la situazione, la mano era arrivata a toccarmi i genitali attraverso la stoffa del pigiama. Cominciò ad accarezzarmi dolcemente ma insistentemente il pene, già in erezione per via del sogno, e sentii un gemito alla mia destra; lo riconobbi: era senz’altro il gemito di godimento di Astrid!

– Tu sei qui? Che ci fai? – dissi con disappunto. – Io non ti ho chiamato.

– Padrone, ho voglia di te – mormorò Astrid con tono roco e sensuale.

– Allora non ci siamo capiti… – provai a contestare.

– Dai, che ce l’hai già duro – fece notare lei, continuando a massaggiarmelo sfacciata: – mi desideravi anche tu, ammettilo… Non ce la facevi più senza la tua Astrid.

Provai a resisterle ancora un po’, ma in quelle condizioni non era proprio possibile: era lei ad avere, per così dire… il coltello dalla parte del manico. Il pene, stimolato dalla sua mano, e dalle frasi oscene che lei mi sussurrava, era arrivato in breve a estendermisi fiero sino al suo limite, sulla pancia.

– Sono tutta bagnata, padrone, toccami… senti come ti desidero… – bisbigliò Astrid, e cominciò a darmi piccoli baci sull’orecchio, e poi sul collo. Intanto la sua mano si era insinuata nei calzoni del pigiama e aveva preso possesso del mio membro, cominciando a fare su e giù lungo l’asta sempre più rapidamente.

– Daiii, padrone, toccami… – continuava a ripetermi nell’orecchio tra un bacio e l’altro.

– L’hai voluto tu, bagascia! – esclamai infoiato e con la mano le cercai la micetta: in effetti la trovai già abbondantemente bagnata; vi infilai due dita e presi a stantuffarla così, con vigore. La sentii gemere ed ansimare sempre più esaltata.

– Ora ti aggiusto io: te la sfondo una volta per tutte! – dissi e, saltandole letteralmente addosso, le infilai l’uccello carico di voglia nella passera e mi misi a penetrarla con tutta l’energia che avevo. Ad ogni affondo lei reagiva estasiata con potentissimi “Siiiiì” che sembravano alzarsi al cielo. Ad un tratto, notando che la mia esaltazione stava raggiungendo il culmine, mi chiese:

– Stai per venire, padrone?

– S… sì – risposi, con l’eccitazione che mi spezzava la voce.

– E allora dammelo in bocca, &egrave lì che lo voglio stasera, il tuo latte caldo…

– Ti accontento subito – dissi, e prontamente spostai il mio arnese dalle sue labbra intime a quelle pubbliche (ma non meno ardite e impertinenti) e lasciai che queste me lo succhiassero ritmicamente, sapientemente. Di tanto in tanto Astrid si sfilava il gingillo dalla bocca e se lo passava intorno alle labbra, come se fosse stato un enorme stick di rossetto, o sulle guance, gemendo per il piacere, poi tornava a succhiarlo con crescente foga. Vederla così intenta e oscena mi faceva impazzire: non ci misi molto, perciò, a venirle in bocca e sulla faccia. Lei mi ripulì l’uccello, com’era abituata a fare, e poi mi guardò con aria estasiata e vagamente trionfale. Aveva ottenuto ciò che voleva…

Mi resi presto conto che non era possibile limitare l’esuberanza di Astrid. Un giorno, a pranzo, lei si allontanò un attimo da tavola per andare in cucina e qualche secondo dopo sentii le sue mani che armeggiavano sulla mia patta: per farmi una “sorpresa”, si era materializzata a mia insaputa sotto il tavolo e si era subito indirizzata verso la cerniera dei miei pantaloni… Appena mise le mani sul mio uccello, la sentii esclamare:

– Gli facciamo prendere un po’ d’aria, padrone?

E subito dopo, al posto delle mani, sentii la sua bocca che me lo avvolgeva…
Io ormai evitavo sempre più di chiederle di fare alcunché, sperando che prima o poi si stancasse. Ma lei, dalla notte in cui me l’ero ritrovata nel letto, si era abituata, quando non riceveva alcun ordine da me, ad agire di sua iniziativa. Una sera, mentre ero al telefono, mi sentii tastare le chiappe: era ovviamente Astrid, che mi si era avvicinata silenziosamente alle spalle.

– Daiii, padrone, vieni a fare qualcosa con me – mi sussurrò nell’orecchio libero, mentre la sua mano mi pizzicava impudentemente le natiche. Troncai imbarazzatissimo la telefonata, accampando una scusa. Mi voltai piuttosto seccato verso la “molestatrice” ed esclamai:

– La devi smettere! Ma che modi sono, mentre sto telefonando?…

Ma lei, prima che io finissi di parlare, mi mise la mano sull’uccello e iniziò a palparmelo.

– Ho voglia di te, padrone… – sussurrò provocante, aggiungendo all’effetto uno sguardo malizioso.

*

La situazione stava completamente sfuggendomi di mano: decisi che dovevo fare assolutamente qualcosa per tentare di rimettere in riga il mio disinvolto genio. La chiamai, una mattina, determinato.

– Sì, padrone! – accorse lei sorridente.

– Eh, padrone un corno! – esordii. – Ho l’impressione che tu mi pigli solo per il culo, con questo “Sì padrone”.

– Ma no, padrone! Perché? – fece, mortificata.

– Insomma basta! – sbottai. – Io qui dentro non mi sento più padrone di un bel niente, se lo vuoi sapere! Tu non mi ubbidisci più, fai sempre di testa tua… Mi sono stufato!

– Non &egrave vero! Perché dici così?

– Come, non &egrave vero? Hai anche il coraggio di negarlo? Certo che hai una bella faccia tosta: e chi l’avrebbe mai immaginato?

– Ma perché? Che ho fatto? – insisteva a lamentarsi Astrid.

– Mi stai sempre addosso, stai sempre lì a provocarmi… L’altra sera ho dovuto troncare in fretta e furia una telefonata importante perché tu mi stavi infastidendo – dissi, e quasi urlando aggiunsi: – Ma dove vuoi arrivare? Che diamine ti sei messa in testa?

– Io non ti stavo infastidendo – puntualizzò lei. – Io ti desidero, come fai a non capire? Dovresti sentirti fiero del mio amore, invece di aggredirmi così.

– Ah sì? – ribattei. – Se permetti, decido io come voglio sentirmi, va bene? E da oggi tu devi rientrare nei ranghi: mi hai sentito bene? Voglio essere obbedito alla lettera. E non tollererò più che tu prenda iniziative senza un mio ordine.

Astrid assunse allora un’aria di sfida e una posa che non aveva mai preso in mia presenza: le mani a pugno poggiate sui fianchi, mi osservò con uno sguardo torvo.

– Cosa c’&egrave? Che vuol dire quella faccia? Ti ribelli? – le domandai.

– No – sibilò dura, poi aggiunse con un tono di vaga minaccia: – Non schiacciare chi ti ama, non lo disprezzare. Stai molto attento.

– Cosa vuoi dire?

– Niente – rispose freddamente. – Attendo tuoi ordini… padrone.

Per la prima volta, da quando la conoscevo, aveva pronunciato quest’ultima parola con un certo sprezzante sarcasmo.
Un brivido freddo mi attraversò la schiena; ma non potevo, non dovevo darlo a vedere. Non potevo, non dovevo più cedere.

– Giacché la metti su questo piano, ebbene ti ordino di tornartene immediatamente nel grammofono. Mi hai sentito? – le ingiunsi, sforzandomi di mantenere il controllo dei nervi e di ostentare calma e inflessibilità. Astrid rimase lì a fissarmi imperterrita, coi pugni sui fianchi.

– Quando ti dò un ordine, devi scattare, hai capito? – ribadii, avvicinandomi furente a lei. – Io sono il tuo padrone, o l’hai dimenticato?

– Come vuoi – disse tra i denti il genio e si trasformò in una nube di fumo bianco, che venne in pochi secondi risucchiata dalla tromba del grammofono.

Ad essere sincero, l’atteggiamento di Astrid mi aveva impaurito; rimasi a lungo a riflettere sulle mosse da adottare per prevenire eventuali spiacevoli ritorsioni da parte sua. Il problema era che io assolutamente non sapevo come muovermi, né ero in grado di capire cosa lei intendesse fare. Mi ripetevo soltanto questa frase: “Devo metterla in condizione di non nuocere”. Facile a dirsi! Ma come si fa a contrastare un essere immortale? Che armi, che protezioni potevo adottare per difendermi da lei? Certo, avrei potuto mettere in vendita il grammofono: chiunque l’avesse acquistato, avrebbe a sua insaputa acquisito anche lo scomodo diritto di essere il padrone di Astrid. Ma era una strada che richiedeva tempo, tra pubblicazione dell’inserzione, appuntamento con i possibili acquirenti… Astrid avrebbe potuto, nel frattempo, architettare chissà quale vendetta. No, dovevo agire subito. Ad un tratto, mentre ero assorto in questi pensieri, il mio sguardo cadde sul disco dall’etichetta color ruggine, che se ne stava placido accanto al grammofono, e mi sovvenni di un certo discorso di Astrid:

– Mi raccomando, padrone – mi aveva detto un giorno: – non perdere mai quel disco, non buttarlo, non romperlo.

– Perché? – le avevo domandato, curioso.

– Perché… Contiene la mia essenza. Devi sapere – mi aveva spiegato – che per noi genii l’essenza corrisponde a quello che voi umani chiamate “cuore”. Nell’essenza sono custoditi i nostri sentimenti e anche il nostro codice morale. L’essenza non viene mai posta nel nostro corpo, ma viene racchiusa in un oggetto, che viene dato in custodia al nostro padrone. Questo perché sta a lui decidere la nostra sorte; custodendo la nostra essenza, il padrone si assume la responsabilità di custodire noi e la nostra energia. Non fare quella faccia: lo so che &egrave difficile da capire; ma tu fidati: custodisci con cura quel disco. In un certo senso, &egrave come se fosse la chiave che apre e mantiene in vita la comunicazione fra te e me.

– Non capisco tutta questa storia, ma lo farò senz’altro – le avevo assicurato.

– E’ una cosa seria, padrone – aveva insistito. – Un tempo io dimoravo in un astuccio di perle e la mia essenza era stata posta in un libro; la mia padrona di allora, però, una notte, in uno scatto d’ira, diede alle fiamme proprio il libro…

Ricordo che a questo punto Astrid aveva sgranato gli occhi con un’espressione turbata, interrompendo bruscamente il suo racconto e, nonostante le mie sollecitazioni, si era rifiutata di riferire il seguito.
Un’idea cominciò a frullarmi nella testa… Forse c’era un modo per liberarmi della presenza del mio ormai ingombrante genio. Più ci pensavo e più mi convincevo di aver trovato la soluzione dei miei problemi. Quindi, col cuore che mi batteva forte, avvertendo tutta l’importanza di un gesto che avrebbe rappresentato per me la liberazione da un incubo, afferrai il disco con entrambe le mani e lo scagliai con violenza sul pavimento. Come ben si sa, i dischi a 78 giri sono particolarmente fragili, e quello, benché magico, non faceva eccezione alla regola: non appena toccò il suolo, andò in frantumi. Mi ero già preparato a fare salti di gioia, ma non ne ebbi il tempo, perché alla rottura del disco seguì un assordante e acuto sibilo, che sembrava provenire dal grammofono. Non osavo certo avvicinarmi a quest’ultimo per verificare… Il sibilo pian piano si trasformò in una specie di cupo rombo, dai toni sempre più bassi, tanto che ad un certo punto cominciarono a tremare i vetri delle finestre. Mi sembrava di essere accanto ad un aereo in fase di decollo: il rumore era praticamente identico. Cominciai a provare fastidio fisico, sentivo lo stomaco in subbuglio. Poi di colpo il rombo si trasformò in un urlo rabbioso, rauco, impressionante: le grida di guerra dei Maori, in confronto, sembravano
nenie infantili. Il terrore aveva reso bianca la mia faccia; e le ginocchia mi tremavano. Non avevo mai avuto tanta paura in tutta la mia vita. Dopo l’urlo, si udì un forte tonfo, simile ad un colpo di timpano in “fortissimo”; e subito dopo, dall’altoparlante del grammofono cominciò ad uscire un fumo rossastro, impressionante. Quando questo si diradò, vidi comparire Astrid, con lo stesso abito con cui si era presentata la prima volta al mio cospetto; ma stavolta il suo viso aveva un’espressione adirata: i suoi occhi, un tempo sempre miti, avevano mutato completamente aspetto e ora non promettevano nulla di buono, emanavano solo cattiveria e sete di vendetta. Mi osservava fiera, impettita, con le braccia conserte.

– Non dici niente? – mi provocò. – Tu non riesci neanche a immaginare quello che sta per capitarti – aggiunse cupa.

Io non riuscivo a proferire parola: ero letteralmente annichilito dal terrore.

– Tanto per cominciare – annunciò – ti sistemerò in prima fila, in posizione giusta per assistere allo spettacolo che darò in tuo onore. E se dico che “ti sistemerò”, c’&egrave un motivo: non potrai muoverti da quella posizione finché non te lo concederò io; sai, non amo vedere il pubblico che si alza durante i miei spettacoli – concluse con un tocco di humour noir.

Immediatamente dopo tali parole, batté le mani due volte, pronunciando frasi incomprensibili. Mi trovai quindi in una situazione assurda, difficile da comprendere per chi non l’ha vissuta: non riuscivo assolutamente più a muovere nessuna parte del mio corpo, neppure il più insignificante muscolo; ero diventato di pietra, anzi forse di legno, visto che mi erano anche cresciute strane radici dalle gambe e dai piedi, che si erano conficcate in profondità nel pavimento, nel giro di non più di tre secondi.

– Sei in una posizione ideale, invidiabile – commentò beffarda la mia aguzzina. – Ora vedrai cosa ti ho preparato…

Senza perdersi in ulteriori convenevoli, fece schioccare le dita della mano destra, pronunciando un’altra frase misteriosa, e avvenne un altro fatto sconvolgente: una statuetta alta circa venti centimetri, che avevo acquistato anni prima da un antiquario, e che riproduceva un capitano di ventura dell’epoca rinascimentale, prese vita. Sì, proprio così: la vidi prima stiracchiarsi, come se si fosse svegliata da un lungo sonno, e poi mettersi a camminare; Astrid si accostò alla mensola sulla quale si trovava la statuetta e invitò quest’ultima a saltarle sulla mano. Il prode soldato eseguì il salto; quindi Astrid lo depose per terra e fece schioccare le dita della mano sinistra. In pochi attimi l’ometto in formato tascabile s’ingigantì, fino a diventare un robusto omaccione alto circa un metro e 80, dotato di spalle poderose e mani enormi. Fa impressione vedersi all’improvviso comparire in casa un energumeno del genere in abiti del Cinquecento, ve lo posso garantire…

– Non immagini qual &egrave lo spettacolo che voglio offrirti? – mi schernì Astrid, lanciandomi uno sguardo carico di maligna soddisfazione.

Non potevo far altro che assistere impotente alla scena: lei e l’uomo appena nato alla vita mi mostravano il loro profilo, a tre metri da me, e stavano una di fronte all’altro, lei sulla sinistra e lui sulla destra. Il mio ex-genio s’inginocchiò davanti al prestante capitano e, dopo aver frugato nelle sue parti basse, ne mise allo scoperto l’attrezzo virile. Era un aggeggio di tutto rispetto, già a giudicare dalle dimensioni che presentava in fase di riposo. Astrid se lo guardò ammirata e poi, tenendolo appoggiato sul palmo della mano, prese a omaggiarlo con leccate lunghe e lente, che andavano dalla cappella alla base dell’asta. A poco a poco, stimolato così efficacemente, l’uccello alzò la testa; si sollevò dalla mano di Astrid, prendendo quota e ingrossandosi, e lei imperterrita continuò a leccarlo con vera dedizione, ma trasferendo i suoi omaggi di lingua prima sul fianco e poi sul lato posteriore dell’arnese, che quando l’erezione si fa seria si mostra impudico agli sguardi. Il sesso del capitano, nella postura da battaglia, era enorme, impressionante.

– Questo sì che &egrave un vero uccello – fece Astrid, lanciandomi uno sguardo lascivo. – Guarda com’&egrave grosso… Immagina cosa mi farà quando me lo metterò tutto dentro la passerina… Mmm…

Avrei voluto piangere per la rabbia, ma non ci riuscivo, né riuscivo a urlare, benché ci provassi con tutte le mie forze: ero proprio diventato una statua; una statua pensante e senziente, però, per mia somma sventura. Frattanto lei continuava a leccarsi quel trofeo inverecondo e di tanto in tanto dava qualche intensa succhiata alla punta. Provò anche a metterselo in bocca, ma bastava forse solo un quarto di quel lungo bastone a riempirgliela tutta.

– E’ troppo grosso, pensa che non riesco a farlo entrare più di così: guarda – commentò, sempre rivolgendosi implicitamente a me, con deliberata crudeltà. E se lo succhiava, se lo leccava; ci strofinava sopra le guance, le labbra; gemeva vogliosa. Il dolore e la disperazione mi dilaniavano con atroce violenza, soprattutto perché non mi era concesso di sfogarli neppure con un lamento. L’omone si limitava a grugnire per dimostrare il proprio compiacimento: la magia di Astrid non gli aveva concesso l’uso della parola (e forse neppure quello dell’intelligenza).

– Guarda, guarda lì – gli disse lei, indicando nella mia direzione: – lo vedi quello? E’ un nostro amico: &egrave curioso di vedere da vicino quanto ce l’hai grosso; dai, accontentiamolo, poverino…

Il capitano accennò una risata ebete e si fece condurre per mano da Astrid, che lo piazzò a pochi centimetri da me e riprese a massaggiargli il ramo rosso e gonfio, che rasentava le dimensioni di un manganello.

– Lo vedi? Lo vedi bene com’&egrave grosso? – continuò a provocarmi la mia aguzzina. – Guarda come ci gioco… E’ un piacere, tenerlo in mano, un giocattolo così… Oddio, mi sto bagnando tutta, mmm! Sto già pensando a come mi farà godere tra poco…

Stavo impazzendo; non avrei mai pensato, prima di allora, che un uomo potesse arrivare allo stadio di sofferenza che stavo attraversando. Non so spiegarvi cosa si provi nell’essere costretti ad assistere immobili e muti ad un’esibizione di pura cattiveria, com’era quella di Astrid.

– Vieni, torniamo là – disse lei, riaccompagnando il capitano nel punto della stanza in cui avevano cominciato a fare i loro giochi. – Spogliati – gli ordinò, e lui, docile, si denudò. – Ora stenditi per terra a pancia in su: capito?

L’omone fece un cenno di assenso con la testa, ostentando un sorriso da idiota, e si distese, come gli era stato comandato.

– Stai a guardare, tu! – esclamò sprezzante la donna-genio, rivolta a me. – E spero che lo spettacolo ti diverta abbastanza…

Dette queste parole, si inginocchiò tra le gambe del capitano e riprese a succhiargli la mazza: sentivo distintamente il rumore che faceva la sua bocca intenta all’opera; l’uomo grugniva e gemeva sempre più scompostamente, evidentemente eccitatissimo.
Astrid si sfilò quindi la sua veste, rimanendo nuda (gesto che mi procurò un’altra intensa fitta al cuore), e si accoccolò sul membro dell’omone, disponendosi a cavalcarlo. Man mano che l’uccello le penetrava nella vulva, Astrid mugolava sempre più forte.

– Siiiiì, siiiiì, così, mmmmm… – gemeva, reclinando la testa all’indietro, con gli occhi chiusi, e dimenandosi, persa nella beatitudine che le dava quell’oggetto mostruoso di carne che scivolava dentro di lei.

– Dentro, dentro, dentrooo – sospirava, aumentando il ritmo e il vigore della cavalcata. Il pene del capitano, sia pure a fatica, si faceva strada nella caverna accogliente di Astrid.

– Fammelo sentire tutto, tutto dentro lo voglio! – diceva lei. – Fammi sentire finalmente cosa vuol dire farsi sfondare da un bell’uccellone!

E dopo qualche secondo aggiunse, con una smorfia che esprimeva, insieme, dolore ed estasi: – Oddio… Ahia, com’&egrave grosso! Mi stai spaccando tutta, oddio… Fa male ma &egrave bello, &egrave bellissimo… Mmm, &egrave favoloso, siiì… Ahh!

Andò avanti così, tra gridolini di dolore e gemiti di godimento, finché ad un tratto prese ad accelerare il ritmo col quale si impalava sull’uccello, e venne, lanciando un grido roco e intenso, liberatorio; quindi si alzò dalla sua scomoda ma fruttuosa posizione; notai che il capitano non era ancora venuto e ce l’aveva ancora in tiro. Lei, in ginocchio accanto a lui, cominciò a massaggiarglielo con mano veloce, e, appena avvertì le contrazioni che annunciavano l’avvicinarsi dell’orgasmo, prese in bocca la cappella e bevve il liquido che il capitano le elargì con potenti colpi di bacino. Poi, come usava fare con me, gli ripulì per bene l’organo esausto dai residui del gelatinoso liquido, a colpi di lingua.

– Ti &egrave piaciuto? – mi chiese, voltando la testa nella mia direzione. – Io ho goduto veramente tanto… – aggiunse, passandosi lascivamente una mano sulla passerina.

Io in quel momento desideravo piangere, desideravo esplodere, desideravo prenderla a schiaffi, ma non ero in grado di fare proprio nulla. Nulla! Mi ridussi a supplicarla col pensiero, nutrendo l’insensata speranza che potesse captarlo, in qualche modo, e impietosirsi.

“Ti prego” mi figuravo di dirle, “dammi le lacrime perché possa almeno inghiottirle; dammele, fai sfogare la mia disperazione!”.

Ma Astrid non poteva ascoltare i pensieri: era uno dei pochi poteri che non aveva. Però, certo, poteva intuire la mia sofferenza; e anzi immaginarmi prostrato, annichilito, in quel momento credo la esaltasse.
Fece rivestire il bellimbusto, e schioccando le dita lo rispedì a fare la statuina sulla scansia che l’aveva ospitato per anni. Si rivestì a sua volta e poi si avvicinò lentamente a me, fissandomi negli occhi con uno sguardo divertito.

– Stai tanto male, eh? Soffri, poverino? E quanto? Quanto soffri, caro? – mi dileggiò sfacciata. Mi accarezzò con teatrale beffarda dolcezza una guancia. – Credi che sia tutto finito, povero pulcino? – continuò. – Ma guarda che devo ancora scatenarmi: questo era solo il prologo dello spettacolo, l’antipasto… Ti ho preparato spiritualmente a ciò che ti aspetta. E solo io deciderò quando fermarmi.

Mi lanciò uno sguardo compiaciuto e con un mezzo sorriso mi chiese:

– Vorresti il diritto di replica, eh? Tu credi che io non ti faccia parlare perché ho paura di te? Io?

Scoppiò a ridere, quindi riprese:

– Ora ti dimostro che posso permettermi anche di ridarti la parola. Non ti servirà a nulla.

Dopo questa affermazione, Astrid pronunciò qualche strano suono dei suoi e mi toccò la bocca con un dito.

– Dài, avanti. Di’ quello che pensi di me. Dillo – mi esortò.

E io avvertii un’irresistibile voglia di sfogare con le parole tutto il dolore che avevo accumulato.

– Sei una bestia, una lurida vacca! – urlai. – Sì, una bagascia! E stavolta lo dico sul serio. Non &egrave più un gioco, questo.

– Lo so – confidò placida Astrid.

– Sei una carogna! – incalzai. – Vorrei proprio metterti le mani addosso, schifosa! Come ti sei permessa di fare i tuoi porci comodi in casa mia? Davanti a me? Sei un verme da schiacciare sotto i piedi. E lo farò, io ti giuro che lo farò!

– Fammi vedere come fai – mi sfidò lei.

– Lo sai che non posso… maledetta! Sì, maledetta! Che tu sia stramaledetta!

– Ora basta! – tuonò Astrid. – Ti ho ridato la parola e tu l’hai usata solo per investirmi con la cattiveria di cui sei pieno. Stavo quasi per graziarti, ma davanti al tuo comportamento sono costretta ad andare fino in fondo. Tu non mi dài scelta. Smetterò solo quando il tuo atteggiamento cambierà e striscerai ai miei piedi chiedendomi perdono.

Tentai di versarle ancora addosso parole intrise di rancore e di furore, ma mi accorsi che la voce mi era stata nuovamente sequestrata. Con quest’ultima falsa concessione, l’essere tremendo, che mi teneva alla sua merc&egrave, si era soltanto voluto concedere un divertimento in più.

– Ora ti darò qualche altro saggio della mia arte – annunciò. – Sono certa che finirai per ammirare la mia bravura. Rituffiamoci nelle danze! – esclamò, e cominciò ad aggirarsi per la stanza, gettando occhiate di qua e di là, come se cercasse qualcosa.

Cominciò poi a sfogliare freneticamente un libro, e di colpo il suo viso parve illuminarsi: “Eccolo!” gridò contenta, e venne verso di me, indicandomi un’illustrazione che si trovava nel pesante volume che aveva tra le mani. Si trattava dell’immagine di un essere inesistente, una sorta di umanoide, partorito dalla fantasia di un disegnatore specializzato nel fantasy.

– Guarda com’&egrave caruccio! – osservò Astrid. – Era proprio quello che cercavo…

Dopo queste parole, agitò la mano più volte e poi indicò l’illustrazione, pronunciando strane parole. In pochi secondi, realizzò dunque un altro incantesimo agghiacciante: si creò nell’aria una specie di enorme bolla di sapone di colore verde, che dopo qualche volteggio si posò infine per terra. La bolla quindi svanì, lasciando apparire in sua vece un essere indefinibile, uomo ed incubo nello stesso tempo. Pur avendo le braccia, le gambe, il corpo e la testa di un uomo, e pur camminando in posizione eretta, quell’apparizione aveva infatti strane caratteristiche che la facevano assomigliare a un essere alieno: occhi insolitamente piccoli, che irraggiavano uno sguardo di selvaggia fissità, vagamente inquietante; e, cosa che faceva particolare impressione, era fornito di strani baffi bianchi e spioventi, che parevano, piuttosto, vibrisse. Inoltre, la bocca ed il mento erano sporgenti e somigliavano proprio al muso di un roditore. L’umanoide sembrava uscito – così mi venne da pensare, osservandone il volto – da un quadro di Bruegel il Vecchio. E, fatto che mi parve singolare, perlomeno in relazione alla sua origine, quell’essere era comunque vestito.

– Chi l’avrebbe detto che sarebbe venuto su così? No? – fece Astrid, rivolta a me.

“Ma cosa ti salta in mente? Cosa vuoi fare, ancora?” avrei voluto dirle.

– Non male, comunque – commentò, tastandogli le braccia e passandogli poi una mano tra i radi capelli. – Lo riconosci, quello? – aggiunse, indicando me. – E’ il padrone di casa: il libro dal quale sei uscito appartiene a lui. Perché non lo vai a salutare?

L’alieno (non saprei definirlo altrimenti) venne verso di me e mi osservò con attenzione e curiosità. Quindi corrugò le sopracciglia, assumendo un’espressione che mi parve ostile, e dopo avermi osservato ancora, atteggiò la bocca in una smorfia che poteva essere un ghigno e che, mettendo in mostra i suoi denti insolitamente aguzzi, aveva il potere di proiettare sul suo volto una luce sinistra.

– Non ti piace, eh? – gli chiese Astrid. – Cosa vuoi farci? Consolati pensando al divertimento che sto per darti. Lui però deve guardarci bene. Portalo di là con noi.

Detto ciò, la traditrice fece scomparire le radici che erano cresciute dalle mie gambe; dopodiché, l’essere mi sollevò da terra e mi appoggiò sulla sua spalla: a causa della rigidità del mio corpo, sembrava quasi che stesse trasportando un manichino. Con me in spalla, seguì Astrid, che gli fece strada fino in camera da letto. Fui depositato giusto ai piedi del mio accogliente giaciglio. Mi chiedevo perché ci fossimo trasferiti lì.

– Ancora una volta sei in prima fila! – ironizzò Astrid, lanciandomi un’occhiata di derisione. L’alieno, che si trovava alle sue spalle, accanto al letto, prese quindi a baciarla sul collo. Il mio ex genio lo lasciava fare, compiaciuto, chiudendo gli occhi. Il discutibile partner le diede baci dietro l’orecchio e sulla nuca; Astrid cominciò a gemere eccitata. Frattanto, le mani dell’alieno scendevano audaci lungo i fianchi di lei; poi lui le sollevò la veste da dietro e, anche se da quella posizione non potevo vederlo, mi resi conto che le copriva di baci la schiena nuda, scendendo sempre più giù… A un tratto, quando dovette arrivare a baciarle le natiche, Astrid ebbe un sussulto per la piacevole sorpresa, ed emise più di un languido sospiro, finché lui insisté a dedicarsi a quella zona del suo corpo. Quindi, lui le tirò la veste in su, facendole capire che voleva togliergliela, e lei glielo concesse. Ora Astrid era di nuovo nuda, a pochi passi da me, e il suo partner continuava a baciarle la schiena; poi vidi spuntare le sue mani che cercavano il seno di Astrid. Trovatolo, presero a palparlo, a massaggiarlo, e lei sembrava gradire immensamente quelle attenzioni. Ad un certo punto, lui la voltò verso il letto e le fece capire cosa voleva: lei lo assecondò, chinandosi in avanti e puntellandosi con le braccia sul letto: capii che il partner la voleva prendere da dietro. Infatti, si abbassò i calzoni e mise allo scoperto il suo affare già duro e dritto, forse non lungo come quello del capitano, ma certamente molto grosso, soprattutto quanto a diametro. Appena lo appoggiò sulla fichetta di Astrid, questa sospirò estasiata, irrigidendosi tutta, e disse:

– Mmm, ti prego, fai piano! Con una mazza così, mi puoi fare molto male…

Lui rispose solo con un grugnito, accompagnato dal suo sinistro ghigno, poi cominciò a infilarglielo nella passera. Astrid reagì alla penetrazione emettendo un intenso mugolio di approvazione, seguito da alcuni “Ah!” di dolore.

– Oooh, &egrave tanto grosso, mi sento squarciareeee… – disse, mentre il partner accelerava il ritmo dei suoi colpi, che divennero presto tanto forti da causare un leggero spostamento del letto.

– Mmm, siiì, sei grande, mi fai godere… – sospirò Astrid e voltò la faccia verso di me, per ostentare la sua soddisfazione, mentre il gingillo dell’essere insolito la stantuffava a suo piacimento. – E’ proprio bravo, sai? – mi comunicò, per straziarmi ulteriormente il cuore. – Col suo uccello mi riempie tutta… – aggiunse, passandosi sensualmente la lingua sulle labbra.

Quindi l’indefinibile partner sfilò il suo membro dalla vagina di Astrid, ma era tutt’altro che sazio, tant’&egrave vero che l’arnese svettava fiero e sembrava ancor più grosso di prima: semplicemente, aveva deciso di continuare facendo cambiare posizione al mio insaziabile ex-genio. Lei infatti si girò, appoggiò la schiena sul letto e sollevò le gambe; il voglioso essere se le poggiò sulle spalle e glielo rimise nel buchetto umido da quella posizione, ancor più gasato. I suoi colpi ripresero più intensi, accompagnati da suoni gutturali che sembravano esprimere forte compiacimento.

– Sì, sì, che meraviglioso bastone che hai fra le gambe, mmm! Sono tutta piena di te… Voglio il tuo latte! Dammelo, ti prego, dammelo! – lo incitava Astrid, scatenata.

E ghignando, l’alieno si dava davvero da fare per soddisfarla: il letto cigolava a più non posso e i gemiti della traditrice si susseguivano sempre più forti e sembravano riempire la stanza. Poi ad un tratto l’alieno cominciò a gemere anch’egli, ma con voce rauca: compresi che era prossimo all’orgasmo. Poco dopo, infatti, contrasse il viso e lanciò un lungo grugnito, riempiendo di seme la vagina di Astrid.

– Mmm, ce ne avevi proprio tanta! – commentò lei. – Me la sento inondata, la passerina. E me la stavi quasi rompendo, con quel mandolone grosso che ti ritrovi… Però non mi basta ancora, so che puoi fare di più – lo sfidò, – anche per dimostrare a questo signore di cosa sei capace.

Naturalmente, “questo signore” ero io. Astrid non perse tempo: si mise a sedere sul letto, afferrò il sesso del partner e cominciò a massaggiarglielo, per fargli riprendere quota. Ogni tanto dava qualche leccatina alla punta, e l’alieno sembrava gradire, a giudicare dalle sue gioiose esclamazioni gutturali. La mano di Astrid si faceva sempre più veloce ed energica e in poco tempo il pene si risollevò completamente, tornando a impressionarmi per il suo spessore non comune.

– Ho voglia di sentire il tuo liquido bello caldo fra le mie tette – disse lei, provocante. Ben contento, il partner le rispose con il suo insopportabile ghigno. Astrid si stese al centro del letto e lo scherzo di natura (o della fantasia) si inginocchiò a gambe larghe su di lei, all’altezza del busto. Quindi sistemò lo strumento al calduccio fra le tette della traditrice e, tenendole ben strette, cominciò a muovere il bacino, in modo che l’affare le scivolasse ritmicamente fra le mammelle.

– Mmm… come ce l’hai caldo… – sussurrò lei, sempre più scatenata. – E’ un piacere coccolartelo. Me lo terrei sempre così, tra le tette, per riscaldarmi…

Lusingato, l’umanoide andò su di giri e si mosse furiosamente, fra gli incitamenti osceni di Astrid, finché non venne di nuovo, con un urlo davvero belluino, che mi riempì di sgomento. Astrid non sembrò scomporsi affatto e, anzi, si passò una mano tra i seni, compiaciuta, per raccogliere il bianco succo e spalmarselo sulle braccia e sulla pancia.

– Prima di andartene, devi ripulirmi – disse al partner con un mezzo sorriso divertito ed eccitato.

La lingua del prestante alieno le percorse in lungo e in largo il corpo e lei accolse le leccate tra risatine e caldi sospiri. Quindi, stufa del gioco, lo congedò schioccando semplicemente le dita: in un istante, il suo partner fu avvolto da una bolla, simile a quella con la quale si era materializzato, che si rimpicciolì e andò a spiaccicarsi sulla pagina del libro dalla quale l’alieno era scaturito. Astrid si lasciò andare ad una fragorosa risata, poi si stiracchiò pigramente e si voltò verso di me.

– E’ troppo divertente. Adesso sì che mi godo la vita, caro mio! – affermò, poi aggiunse: – Però tutto quel movimento mi ha stancata; penso proprio che dormirò una mezz’ora.

Detto ciò, si voltò dall’altra parte, dandomi le spalle, e dopo cinque minuti la sentii russare. Dormiva placida e appagata, nonché nuda, sul mio letto. Guardavo il suo bel culetto, che ogni tanto si muoveva durante il sonno, e le sue gambe snelle, ed ero assalito da contrastanti sentimenti: nostalgia e desiderio di lei, rabbia (aveva avuto la faccia tosta di insozzare il mio letto con lo sperma di un altro!), tristezza, disperazione… La odiavo e nel contempo desideravo averla di nuovo tra le braccia.
Paralizzato dal suo crudele incantesimo, fui costretto, mio malgrado, a vegliare sul suo riposo. Era già buio quando si risvegliò. Per prima cosa, dopo essersi stiracchiata, si voltò a guardarmi e mi rise in faccia.

– Mi fa proprio piacere avere un guardiano personale, che vigila mentre dormo. E’ così rassicurante… – dichiarò. Poi si alzò, mi si avvicinò e accarezzandomi il viso aggiunse: – Sai che fai un bell’effetto, come scultura ornamentale? Dài un certo tono di classe a questa camera. Finalmente hai uno scopo, nella vita: dovresti esserne contento. Finché mi andrà, ti terrò qui dentro, poi, se mi stufo, ti trasferisco in salotto. Ma non &egrave escluso che un giorno io decida di venderti, magari a un collezionista. Che c’&egrave? Ti dispiace? Ti sei affezionato a me? E fai male!

Si stiracchiò ancora e annunciò:

– Vado a farmi una doccia. Hai impegni per stasera?

Mi guardò poi in faccia e rise oscenamente, prima di voltarsi e uscire dalla stanza, lasciandomi solo con la mia angoscia. Non so per quanto tempo aspettai che tornasse, coi pensieri che mi si accavallavano disordinatamente nella testa, rendendo ogni minuto insopportabilmente lungo. Quando ricomparve nella stanza, nel vederla rilassata, mi riempii di speranza. Forse finalmente si sarebbe impietosita e avrebbe sciolto il maledetto incantesimo che mi aveva sottratto ogni libertà e dignità. Ma l’illusione durò poco. Con una faccia apparentemente annoiata, Astrid venne verso di me e mi disse:

– Adesso ti faccio vedere a cosa può servire una bella statuina inutile come te!

Non mi lasciò il tempo di domandarmi cosa avesse in mente, perché immediatamente mi mise un braccio intorno alla vita e mi sollevò agevolmente, come fossi una sagoma di cartone. Mi scaraventò poi sul letto, e mi sistemò in posizione supina.

– I tuoi amichetti non sono bastati a calmarmi i bollori – disse Astrid, togliendomi rapidamente di dosso i vestiti. – Ormai tu mi hai viziata. E poi, se non assaggio il tuo pisello, non mi sento soddisfatta.

In pochi attimi mi ritrovai nudo e spaesato: non potevo credere che volesse approfittare di me, ridotto da lei in quelle condizioni. Non potevo muovere un muscolo, né parlare, però potevo sentire le sue mani che mi sfioravano e mi accarezzavano lascive. Le sensazioni piacevoli che provavo in quei momenti erano bilanciate da un senso fastidioso di disfatta e umiliazione.

– Forse, se calmi la fame della mia micetta, posso anche tornare sulle mie decisioni, e ridarti la libertà – disse Astrid, mettendosi a cavalcioni su me, pronta allo smorzacandela. I suoi occhi brillavano in una maniera innaturale, e sembravano riflettere un senso di potenza ed un’incrollabile, spietata determinazione, provocandomi un brivido di paura lungo la schiena.

Poco dopo, sentii la sua mano intorno al mio membro; i suoi movimenti pazienti e insistiti riuscirono a portarlo a un’erezione di straordinarie dimensioni. Sentivo infatti il mio sesso teso molto più del solito. Astrid cercò poi la posizione giusta e accostò la punta dell’asta all’imboccatura della sua passera: percepii che era bagnata fradicia, e non rimasi insensibile a quella constatazione, perché sentii il pene crescere ulteriormente; ormai mi faceva quasi male, tanto era teso. Il mio ex-genio cominciò a muoversi, impalandosi sul mio bastone, prima con calma, poi sempre più vigorosamente, ed io vedevo ballare le sue tette bianche e lisce, immaginando di poterle toccare. Avrei dato qualsiasi cosa, in quel momento, perché quel mio semplice desiderio si potesse realizzare. Ma Astrid non pensava più ad appagare il suo ex-padrone: pensava solo alla propria soddisfazione, a giudicare dall’espressione impudica ed estasiata del suo volto, mentre si dimenava frenetica sul mio uccello.

– Così, così, bella statuina! – esclamò invasata. – Fammi sentire che persino un pezzo di legno come te &egrave felice di farmi godere! Così lo voglio: dritto come un ramo. E non puoi far niente per negarmi questo piacere!

Le sue risate si mescolarono ai gemiti lussuriosi. Guardavo i suoi bei capelli biondi ricaderle sulle spalle ogni volta che s’impalava sulla mia asta, e mi chiedevo come potesse tanta bellezza combinarsi con una sorda crudeltà.
Avvertii di lì a poco montare dentro di me l’orgasmo, e con rinnovato stupore – data l’immobilità pressoché totale del mio corpo – constatai la piena vitalità del mio membro virile, che gettò il suo seme abbondante nella vulva di Astrid; e lei lo accolse ad occhi chiusi, con un’esclamazione di pura soddisfazione. Si allontanò poi da me, ripulendosi con calma, e disse:

– Vado a farmi un’altra doccia. Certo che ne avevi, di roba, nelle palle. Dovresti anche ringraziarmi, visto che mi preoccupo di svuotarti un po’.

Poi tornò vicino a me e aggiunse, stringendomi il naso tra pollice e indice: – Credo che da ora in poi dovrai abituarti a questo uso, bastoncino mio!

Per almeno una settimana, da quella sera, le mie giornate si svolsero in maniera sempre uguale: immobile per tutta la mattina nella stanza da letto accanto alla finestra, aspettavo che Astrid si degnasse di prendermi in considerazione. Verso mezzogiorno mi portava da bere una sostanza indefinibile, che rassomigliava ad un intruglio iperenergetico, e mi spiegava che ormai ero una specie di pianta, che non aveva bisogno di un nutrimento più sostanzioso. Mi portava poi in bagno, mi lavava e mi faceva fare i miei bisogni – ormai modesti, tanto che mi ero convinto che il mio ex-genio, in qualche modo, avesse modificato il mio metabolismo, trasformandomi davvero in una specie di vegetale, che di umano aveva soltanto il pensiero e l’uccello. Non perdeva l’occasione, in quei momenti, per deridermi.

– Tu guarda come ti sei ridotto! – ripeteva spesso. – A che ti &egrave servito darti tante arie, padrone? – e questa parola la pronunciava con uno speciale sarcasmo.

Ogni sera poi si trastullava buttandomi supino sul letto, senza troppi complimenti, e mettendosi a cavalcare furiosamente il mio sesso sempre turgido e voglioso. Non capivo neppure io dove trovassi l’energia per essere sempre perfettamente in tiro ogni volta che la mia aguzzina voleva sollazzarsi.
Dopo vari giorni di quel trattamento, cominciai a temere sul serio che le mie tribolazioni fossero destinate a non avere più fine. Astrid si premurava persino – onde evitare seccature – di assumere le mie sembianze e di recarsi al lavoro al mio posto. Una sera, mentre s’impalava in maniera travolgente su quello che lei chiamava “il mio bastoncino”, si vantò divertita del fatto che nessuno, nel mio ufficio, si fosse accorto che da un po’ di tempo non fossi io la persona che si presentava là tutte le mattine con la mia faccia, la mia corporatura e la mia voce.

– Dovresti farmi i complimenti – disse il mio ex-genio: – sono così brava a impersonare te, che nessuno riesce neppure lontanamente a sospettare che ci sia qualcosa che non va. Ho imparato anche a ragionare come te, a usare il tuo stesso modo di esprimerti e di muoverti. Non credevo che potesse essere così divertente. Mi dispiace per te, ma non penso che ti libererò tanto presto dall’incantesimo: ormai ci ho preso gusto, bastoncino mio!

Una sera squillò il telefono, mentre Astrid era in camera con me, e lei alzò la cornetta e rispose usando la mia voce. La cosa mi impressionò, perché ebbi per un attimo la sgradevole impressione di essermi sdoppiato. Mentre parlava al telefono, si divertì a masturbarmi lentamente, e in quei lunghi istanti mi venne da pensare che forse ero ancora lontano dall’aver raggiunto il fondo del mio personale abisso. Quando terminò la conversazione, mi riferì ridendo che chi aveva telefonato era un mio caro amico, il quale, non avendomi sentito da tempo, voleva informarsi sulla mia salute.

– E quello dice di essere un tuo amico? – rise Astrid. – A che ti servono gli amici, se non sanno nemmeno riconoscere la tua voce? Gli ho raccontato un bel po’ di stronzate, come hai sentito, e se le &egrave bevute tutte tranquillamente. Che babbeo!

Nonostante i miei sforzi per non cedere alle sue provocazioni, sentii una lacrima spuntarmi tra le ciglia. Nemmeno i miei amici potevano far nulla per me! Era la dura realtà, e dovevo accettarla. Come se non bastasse, incurante del mio stato d’animo, Astrid pretese poco dopo di fare sesso con me – o meglio di usarmi a suo piacimento – come ogni sera. E non solo non potetti far nulla per impedirglielo, ma il mio organo virile rispose alle sue sollecitazioni in maniera particolarmente pronta, e lei lo sottolineò, strofinandoselo con lubrica voracità sulle cosce, sul seno e sulle guance, prima di cominciare la solita sfrenata galoppata.

In un’altra occasione, Astrid ebbe anche l’ardire di rispondere con la mia voce ad una telefonata di mia sorella, che chiamava preoccupata, non avendomi sentito da parecchi giorni. Quella sera però, forse proprio in virtù di quella telefonata, qualcosa cambiò, rompendo la perfetta monotonia delle mie giornate da “bella statuina”. Infatti, inaspettatamente, il mio ex-genio, anziché sbattermi sul letto, mi annunciò:

– Stasera esco, forse farò tardi. Non stare in pensiero!

Con una sardonica risata lasciò poi la stanza. Sentii i suoi passi allontanarsi, seguiti dal rumore della porta di casa: era uscita davvero, non c’era dubbio. Che cosa poteva significare? Per capirlo, non mi restava che attenderla, per un tempo che si prospettava interminabile. La sentii rientrare a notte fonda: mi era difficile stabilire che ore fossero, ma, a giudicare dal silenzio della strada, dovevano essere suppergiù le tre. Capii che non era sola: la sentii infatti ridacchiare e scherzare, e poi udii altre voci. Percepii quindi rumori di bicchieri e bottiglie: evidentemente Astrid ed i suoi ospiti stavano scolandosi qualcuna delle mie bottiglie di liquore, in salotto! Dopo una ventina di minuti li vidi entrare in camera da letto: con il mio ex-genio c’erano quattro prestanti giovanotti dalle facce poco rassicuranti, ed una ragazza dagli occhi furbi; era graziosa, quest’ultima, anche se aveva l’aria di chi la sa lunga; sui ventidue-ventitré anni, capelli castano-chiari e ricci che le toccavano le spalle, bassina, aveva un sedere abbondante, che ispirava il desiderio di affondarci le mani…

– Ehi, fateci vedere cosa sapete fare, voi due, oltre che provocarci per farcelo diventare duro! – esclamò uno dei ragazzi, rivolto alle donne. Tutti risero sguaiatamente, chiaramente influenzati dall’alcool che avevano in corpo.

Astrid, che quella sera indossava uno degli abiti sexy che le avevo regalato (non mi ero accorto che l’avesse indossato, prima di uscire), cominciò lentamente a spogliarsi, fra le risate e gli incitamenti degli altri. Quando mostrò il suo corpo coperto solo da un body nero sottile e trasparente, i ragazzi lanciarono un: “Uh-uuhhh!” di approvazione.

– Che classe! – commentò uno di loro.
– Che strafiga! – chiosò un altro.

– E tu? – fecero poi, rivolti all’altra ragazza. – Tocca a te, adesso…

La bassina, dal canto suo, sembrava non aspettare che quel segnale, per dimostrare di cosa fosse capace: cominciò infatti a far dondolare il busto e il fondoschiena come in un’immaginaria sensuale danza; poi, sempre continuando a muoversi in quel modo, si sfilò la maglietta, mettendo in mostra un provocante reggiseno di pizzo rosso, che rivelava la presenza e la consistenza di un paio di tette di tutto rispetto… Tra i fischi di approvazione e di incitamento, la ragazza continuò lo spogliarello, sfilandosi i jeans attillati, e così notai che aveva l’ardire d’indossare, su quel culetto straripante, un perizoma, che rendeva più interessante lo spettacolo.

– Bella chiappona! – l’apostrofarono i giovani, ridendo.
– Ehi, quando giri per strada, su quel culo dovresti mettere il segnale di carico eccessivo! – scherzò uno di loro.
– Nu-de! Nu-de! – cominciarono a scandire i ragazzi.

La bassina stava per sfilarsi il reggiseno, quando, lanciando casualmente un’occhiata nella mia direzione, ebbe un sobbalzo.

– Ma chi &egrave? – chiese spaventata, indicandomi.

– E che vuoi che sia? – replicò Astrid, rassicurandola. – E’ solo un manichino. Mi diverte tenerlo lì.

– Ah sì? – fece l’altra. – Ma sai che sembra proprio vero? E’ impressionante: sembra un uomo.

– Se vuoi – le suggerì il mio malefico ex-genio, – puoi toccarlo. E’ stato fatto in Cina con una tecnica innovativa. Prova e vedrai che ti sembrerà proprio di toccare un uomo vero…

La ragazza mi si avvicinò e mi tastò le braccia.

– Uao! – commentò. – E’ perfetto… quasi impressionante!

Quindi mi accarezzò il petto, attraverso la camicia.

– E’ incredibile! – esclamò. – Ragazzi, sembra vero!

– Ehi, sentite – propose uno dei giovani: – mi &egrave venuto in mente un gioco. Che ne direste se Celia finisse di spogliarsi strusciandosi su quel manichino, facendo finta che sia un uomo?

– Sì, mi sembra un’idea divertente – convenne un altro.

– Celia – aggiunse un terzo, – ti vogliamo molto porca, come in un film porno: fai conto che quel pupazzo sia il tuo partner. Scatenati, mentre noi ci facciamo una sega di gruppo.

– Vaiii! – esclamarono quindi in coro, entusiasti dell’idea.

La ragazza, di cui finalmente conoscevo il nome, si calò subito nella parte assegnatale. Mentre si slacciava lentamente il reggiseno, prese a muovere sensualmente il corpo, leggermente inclinata all’indietro, sfregando il suo ventre sul mio. Quindi, messe a nudo le tette, e gettato dietro di sé con gesto plateale l’indumento che le ricopriva, mi sbottonò la camicia, scoprendomi il petto, e poi mi mise le braccia intorno al collo, fissandomi negli occhi, e cominciò a strofinarmi addosso il seno. Lo sentivo morbido, caldo, scivolare sulla mia pelle… Impazzivo!

– Uao, ragazzi, &egrave da sballo ‘sta situazione, sembra di abbracciare un uomo! – commentò Celia, mangiandomi con gli occhi. Il suo alito sapeva di alcool. Travolta dall’entusiasmo, e dalla voglia di esibirsi davanti ai suoi amici infoiati, la ragazza si strinse a me, incollando praticamente il suo corpo al mio, e continuò a far dondolare le anche e il bacino, sensuale e sfrenata. Sentivo i pesanti apprezzamenti dei ragazzi. Lei, eccitata dai loro commenti e sentendosi al centro dell’attenzione, si lasciò andare sempre più alle sue fantasie; in punta di piedi, data la sua statura, prese a baciarmi all’impazzata sul collo, con tocco lieve delle labbra; quindi, quasi appendendomisi alle spalle per raggiungere il mio orecchio destro, cominciò a mordicchiarmi il medesimo: sentivo i suoi denti stringermi il lobo sempre più forte…
Temevo che, in un impeto di esaltazione erotica, arrivasse a farmi male, ma non potevo reagire, non potevo fiatare.

– Dài, facci guardare bene il tuo culone! Che aspetti a toglierti le mutandine? – reclamò a gran voce uno dei giovanotti in calore.

Detto, fatto: Celia si sganciò da me e, sempre guardandomi negli occhi, fece calare lentamente il perizoma, fra gli “Yu-uhh!” di giubilo dei suoi compari.

– Voi non ci crederete, ma io sono già bagnata… – confessò la ragazza che, pur parlando agli amici, continuava a fissare me, come se con quelle parole volesse provocarmi, sperando di trasformarmi in un uomo in carne ed ossa e soprattutto… in tiro. La strana circostanza mi stimolava e mi scaldava oltre ogni dire.

– Vedi? Adesso sono tutta nuda per te… – mi sussurrò maliziosa, cominciando ad accarezzarmi il petto.

– Celia, io scommetto che tu riesci a farlo diventare duro anche al pupazzo – la stuzzicò uno degli “spettatori”.

– Come no? – si associò un altro.

– E certo! Se si bagna solo all’idea di farsi il manichino… – commentò un terzo.

Tra le loro oscene risate, la ragazza prese a leccarmi il petto.

– Mmm… – osservò, – sei freddo come la plastica, ma sai di uomo. Non so come abbiano fatto a fabbricarti, ma ti hanno fatto a regola d’arte…

Sempre più eccitata, mi coprì il petto di piccoli baci caldi e vogliosi. Quindi si chinò a baciarmi anche lo stomaco, i fianchi, la pancia…

– Vai fino in fondo, Celia! – la incitò uno dei ragazzi. – Controlla se ha anche il pisello di un vero uomo. Vogliamo vedere come glielo succhi!

Evidentemente su di giri, la ragazza non se lo fece ripetere: s’inginocchiò davanti a me, mi sbottonò i calzoni, me li tirò giù, poi mi abbassò anche le mutande e… si meravigliò nel constatare che ero dotato di un regolamentare pene, anche se il suo stato non era all’altezza della mia eccitazione.

– Ragazzi, &egrave incredibile! – esclamò Celia. – Ha anche il suo bel bastoncino!

Proprio così! Usò la stessa espressione che amava adoperare il mio ex-genio.

– Prova a toccarglielo – le suggerì Astrid: – sentirai com’&egrave realistico. Ti sembra di toccare un uccello vero.

La ragazza accettò immediatamente il consiglio e allungò una mano a toccarmelo. Palpò il glande, poi spinse le dita più su, per tastare il centro dell’asta.

– Assurdo! E’ proprio come uno vero! – constatò a bocca aperta. – E ha perfino i peli, tutto…

Non contenta, mi soppesò le palle e fece scivolare il pollice sullo scroto.

– Anche la pelle &egrave perfetta – osservò. – E’ una vera figata, non l’avrei mai immaginato.

– Ti provoca un non so che, dentro, vero? – la stuzzicò Astrid.

– Beh, guarda, io mi ero già bagnata, ma adesso poi… – ammise Celia. – Peccato però che sia moscio. Se fosse duro e dritto, mi manderebbe in estasi; me lo succhierei e me lo spupazzerei senza tanti complimenti, ti giuro.

– Le sorprese non sono mica finite – le rivelò Astrid con un ambiguo sorriso: – all’interno il pupazzo ha un ingegnoso meccanismo idraulico che, se stimolato a dovere, permette all’affarino di ingrossarsi e di irrigidirsi, a perfetta imitazione di quello degli uomini.

– Ma dici sul serio? – le chiese Celia, allibita e incredula.

– Garantito! – assicurò il mio ex-genio. – Prova… Che aspetti?

Trepidante, Celia mi avvolse il sesso con la sua mano e cominciò a sfregare il pollice sulla punta del glande, forse per sperimentare la reazione che suscitava. Con suo sommo stupore, il membro rispose alla stimolazione e cominciò ad espandersi e a irrigidirsi.

– Mmm… &egrave incredibile… Diventa duro! – attestò Celia, con gli occhi che le si illuminavano.

Tutti gli spettatori si fecero attenti: la cosa diventava interessante e insolita, per loro; convinti di assistere ad una sorta di prodigio della tecnologia, rimasero ad osservare impalati le prodezze di Celia, alle prese – essi pensavano – con un affare meccanico, una diavoleria moderna, che rendeva la situazione innaturale, e di conseguenza, ai loro occhi, morbosa e particolarmente stuzzicante.
La ragazza, incoraggiata dalla risposta del mio pene, cominciò a manipolarmi laggiù seriamente, il che ebbe l’effetto di far aumentare rapidamente la mia eccitazione.

– Funziona, ragazzi… Guardate! – esclamò Celia, con la voce tremante per l’emozione. E in effetti il punteruolo ormai era in piena erezione, tanto che con la mano lei riusciva a stringerlo solo per metà della sua lunghezza. Si alzò dunque in piedi e riprese a strusciarmisi addosso, baciandomi il petto e continuando a darmi strizzatine all’uccello. L’eccitazione le stravolgeva il viso; chiudeva gli occhi e gemeva, lasciandosi completamente andare. Sentivo il profumo dei suoi capelli e avvertivo una forte tentazione di baciarla, a mia volta, e di stringerla fra le braccia, ma ahim&egrave ciò non mi era concesso. Si dondolava sinuosa, si contorceva mollemente e, afferrandomi il sesso, se lo strofinava sullo stomaco; si abbassava un po’ e se lo infilava tra le tette calde, emettendo gridolini di soddisfazione. Vedevo i capezzoli grossi e scuri che le ornavano il seno e il desiderio mi montava folle alla testa: il desiderio di palparglieli, di leccarglieli… Poi si voltò, mostrandomi la schiena e quel magnifico culo abbondante, il cui volume faceva da contrasto alla piccola statura della donna. Con la mano cercò ancora il mio attrezzo, se ne impossessò di nuovo e se lo strofinò sulle chiappe, quasi sussultando per il piacere. Indietreggiò quindi lentamente, sino a far aderire il suo corpo al mio; con le mani cercò le mie natiche e, aggrappandosi ad esse, prese a sfregare la schiena e il sedere su di me, e specialmente sul mio uccello, alzandosi e abbassandosi lentamente, continuamente. Il suo odore, il suo movimento, i suoi sospiri mi entravano nel cervello fino a stordirmi i sensi e i pensieri.

– Oddio… ho voglia di sentirlo in bocca – disse a un tratto Celia. Si voltò dunque e si accoccolò ai miei piedi, e afferrandomi il pisello alla base con entrambe le mani, se lo infilò in bocca e cominciò a succhiarlo come se fosse stato un poppatoio. Il suo viso era rosso, accaldato, e la fronte imperlata di sudore. Notai che i ragazzi, coi loro uccelli al vento, partecipi, si stavano nel frattempo deliziando a più non posso. Astrid invece si godeva lo spettacolo serafica, con un sorriso soddisfatto stampato sul volto.
Celia mi ciucciava, affamata di me, e di tanto in tanto sollevava lo sguardo verso il mio viso, come per controllare le mie eventuali reazioni: evidentemente sperava che io prendessi vita, in qualche modo.

Ad un tratto, Astrid le disse:

– Dài, lascialo stare, adesso. In fondo &egrave solo un manichino: non vorrai sprecare la serata con lui? Vieni a giocare con noi!

Quasi a malincuore, Celia smise allora di succhiarmi l’uccello e si allontanò da me.

– Però mi devi dire dove li vendono, perché ne voglio uno anch’io: non mi sono mai eccitata tanto – confessò al mio ex-genio.

Le due donne si stesero sul letto e gli uomini si piazzarono ai lati del medesimo e s’inginocchiarono: due di loro si dedicarono ad Astrid e gli altri due a Celia. Non capii molto di quella confusa situazione: vidi soltanto che mentre un ragazzo leccava le gambe del mio ex-genio, l’altro le sbaciucchiava le tette, dopo averle tolto il body. Celia e i suoi due “cavalieri” erano più lontani, rispetto alla mia posizione, e perciò non vedevo cosa stessero facendo. Sentivo però i gemiti delle donne e gli incitamenti osceni degli uomini. Ma la testa mi scoppiava per la voglia che non ero riuscito a soddisfare: il membro continuava a pulsarmi duro e implacabile. A un certo punto mi parve di vedere che uno dei “cavalieri” di Astrid, alzatosi in piedi, le metteva il suo uccello in bocca, mentre l’altro, anche lui in piedi, strusciava il proprio lungo la coscia della donna. Cominciai ad avvertire uno strano capogiro; poi improvvisamente mi capitò qualcosa che mi sorprese e mi sbalordì, pur dopo tutte le stranezze alle quali mi aveva abituato Astrid: mi ritrovai infatti, sicuramente per opera della sua magia, chiuso nel bagno di casa mia, insieme a lei. E potevo finalmente muovermi! Avrei certamente voluto prendere a schiaffi la traditrice, ma in quel momento il mio duro compare aveva bisogno di conforto e premure femminili: e Astrid, china in avanti e appoggiata al lavandino, mi stava offrendo generosamente le sue chiappe.

– Avanti, spingimelo dentro, che aspetti? – m’incitò, senza troppi giri di parole.

Dunque l’accontentai, con la mente unicamente rivolta alla soddisfazione delle mie voglie. Non mi feci altre domande; e rinviai eventuali ritorsioni per il male subìto ad altre occasioni. Mi misi a sbatterla senza complimenti, come ai “bei tempi”. Le mie cosce urtavano sulle sue natiche, ad ogni affondo, e le sue grida si facevano
sempre più forti. Ma sul più bello, mentre la stantuffavo, scomparve, subito rimpiazzata da Celia, che senza scomporsi mi s’inginocchiò davanti e riprese il suo gioco con la bocca, che aveva interrotto controvoglia poco prima. Mi succhiava con calore e con ingorda passione. Ad un tratto, si sfilò il mio flauto dalla bocca, alzò la testa e se lo strofinò sulla gola, sospirando smaniosa; quindi svanì, prontamente sostituita da Astrid, di nuovo piegata a novanta gradi, con le chiappe davanti al mio uccello.

– Sbattimi – m’incitò nuovamente.

Avrei voluto dirle: “Ma che… stai combinando?”, ma ero troppo gasato per pensare ad altro che a soddisfarmi. Ripresi perciò a montarla da dietro.

– Sei sempre il mio stallone… – mormorò Astrid infoiata e queste parole ebbero il potere di farmi arrivare rapidamente all’orgasmo; ma un attimo prima della mia eiaculazione, invece che nella sua vagina, il mio bastone si ritrovò ancora una volta nella bocca di Celia, che aveva ripreso “in corsa” il posto dell’altra donna. Fu lei perciò a bere il mio sciroppo denso; e mi ripulì anche diligentemente l’uccello a colpi di lingua. Era brava, in questo, forse persino più di Astrid.

– Ti starai domandando cosa sta succedendo, vero? – mi sussurrò quindi con un sorrisetto, portato a termine il compito.

– Beh, certo, se qualcuna di voi avesse la bontà di spiegarmi… – replicai alquanto nervoso.

Celia cercò di trattenere una risata, quindi disse:

– Hai ragione, meriti una spiegazione. Beh, ecco… devi sapere che io… sono una collega di Astrid.

– Non mi dire che anche tu…? – feci, incredulo.

– Sì, sono anch’io un genio – confessò la ragazza. – E per giunta mi trovo nella sua stessa sgradevole condizione.

– Cio&egrave?

– Cio&egrave… anch’io ho smarrito la mia essenza e quindi adesso vago un po’ sbandata, soggetta ai miei umori più deleteri, e ai miei istinti peggiori, con rari momenti di lucidità e di padronanza di me. Astrid si &egrave rivolta a me perché ho più esperienza; in questo periodo difficile ci sosterremo a vicenda.

– Ma siete condannate a rimanere in eterno in questa condizione? – domandai, mentre un sentimento di pietà per la loro sorte cominciava ad affacciarsi in me.

– No, non in eterno – mi rassicurò Celia, – ma solo finché i saggi che governano il nostro mondo non avranno deciso di concederci una nuova essenza.

– Ma perché non possono darvela subito? In fondo… &egrave colpa mia se Astrid ha perduto la sua essenza; io ho rotto il disco. Lei mi aveva anche avvisato…

– Vedi – mi spiegò la ragazza, – secondo le leggi che governano noi genii, se un padrone si comporta in quel modo, vuol dire che noi non abbiamo saputo capirlo e servirlo in modo adeguato.

– Non posso fare proprio nulla? – chiesi, provando tutt’a un tratto un indicibile rimorso.

– Devi solo avere pazienza. Un giorno il caos si dissolverà – rispose Celia, sorridendo serena.

Ripensando a ciò che era accaduto quella notte, non potei comunque trattenermi dal sorridere a mia volta.

– Che c’&egrave? A che pensi? – mi chiese il genio.

– Al fatto che… sei una brava attrice. Tu sapevi fin dall’inizio chi fossi io in realtà, ma hai finto benissimo davanti a quei ragazzi. Complimenti… – dissi.

Celia rise e rivelò:

– Sì, okay, sapevo tutto. Con Astrid ci eravamo sbronzate e volevamo divertirci a spese di quegli allocchi raccattati in un bar. E un po’ volevamo prendere in giro anche te. Hai una faccia divertente.

– Ah… Ma adesso dove sono quelli là?

– Tranquillo! Astrid li ha già congedati a modo suo… Adesso però vuol farti un regalo. L’ultimo, prima di andar via.

E, prima ancora che io potessi chiedermi di cosa si trattasse, Astrid mi riapparve davanti, accanto all’amica.

– Ti manderò da una persona che da tempo desideri… conoscere meglio – mi annunciò il mio ex-genio, forse di nuovo in servizio. – Non mi sarebbe concesso, ma ormai ne ho fatte tante…

Un attimo dopo, mi ritrovai in una stanza che non conoscevo, non completamente al buio: infatti, dalla finestra penetravano le luci di un’insegna luminosa. Potei quindi capire che si trattava di una camera da letto; e qualcuno stava russando, fortunatamente senza eccessivo fragore. Mi accostai al letto, per cercare di identificare il dormiente. Non distinguevo bene le sue forme, perciò dovetti avanzare sino a pochi centimetri dallo sconosciuto (o dalla sconosciuta). Temevo che si svegliasse e che mi sorprendesse lì. Col cuore in gola, aguzzai la vista e riuscii a capire che si trattava di una donna; e con qualche sforzo in più, arrivai a stabilire che… ma sì, si trattava di Mara, la collega che da tempo desideravo conquistare! E ora mi trovavo nella sua camera da letto! Che fare? Era un’occasione unica… Dovevo farmi influenzare dalle convenzioni e dalle buone maniere, oppure dovevo dar retta soltanto ai miei desideri? Già: che fare? Tanto per cominciare, sollevai il lenzuolo che la copriva e notai che non aveva niente addosso. Dormiva supina e il respiro le faceva salire e scendere con regolarità le tette non grandi, ma sode e ben fatte. Quella visione mi fece eccitare. Ruppi dunque gli indugi e mi distesi accanto a Mara, carico di emozione, mettendole una mano sulla passerina.

Constatando l’assenza di reazioni da parte sua, presi ad accarezzargliela, con tocco prima lieve e incerto, poi sempre più audace e intenso. Mara a un certo punto sospirò e si voltò su un fianco, mostrandomi le spalle. Quindi io, preso ormai da autentica frenesia, cominciai a baciarle la schiena, e portai i baci sempre più giù, sino ad arrivare alle chiappe. Nel frattempo, spinsi di nuovo la mano al di là delle cosce, per riappropriarmi della passera: trovatala al tatto, ripresi a stuzzicargliela e nel contempo non smettevo di baciarle il fondoschiena. La donna ebbe un sussulto, seguito da un: “Mmm” di approvazione; incoraggiato, le feci sentire sulla calda pelle delle cosce e dei glutei il mio attrezzo già duro; quindi le allargai appena un po’ le gambe, quel tanto che bastò per infilare tra esse l’uccello e, muovendo poi il bacino, feci scorrere avanti e indietro il mio salsicciotto racchiuso nel piacevole sandwich delle sue gambe. Mara sospirò ancora e capii che voleva cambiare posizione; lasciai dunque che si rimettesse supina, poi le allargai con cautela le gambe, mi sistemai adeguatamente e cominciai a leccarle la patata; con la punta della lingua le stuzzicai con accortezza il clitoride e Mara recepì prontamente lo stimolo, perché fu percorsa da un fremito e nel sonno si lasciò andare ad un mugolio. Insistei, e lei sembrò scaldarsi progressivamente; la sentivo agitarsi, contorcersi. Quindi, con le dita le allargai piano la lunga feritoia sotto il pube e vi infilai la lingua; la sua intimità s’impregnava di umori, man mano che la stimolavo. Finalmente le sentii sussurrare nel sonno:

– Dammelo, lo voglio dentro… ti prego…

Dopo un attimo d’incertezza, dovuto alla paura che si fosse svegliata, risalii lungo il suo corpo, sistemai il mio strumento di carne all’imboccatura della sua caverna e m’impegnai in un “su e giù” dei più classici, prima con delicatezza, perché lei non si destasse, poi, travolto dalla foga del piacere, con vigore. Finalmente lo facevo con Mara! Non riuscivo neppure a crederci, sembrava un sogno… E chissà che sogno erotico stava facendo, mentre mi davo da fare su di lei; e chissà chi era il protagonista maschile di quella fantasia. Ma non m’importava; l’essenziale per me era farlo dal vero, almeno una volta, con lei. E comunque stava gradendo le mie attenzioni; eccome se le gradiva… Era bagnata, smaniava, si contorceva. D’un tratto però ebbi paura di venirle dentro; chissà cosa sarebbe potuto succedere, se lo avessi fatto. Forse Astrid intuì le mie preoccupazioni, poiché mi ritrovai in extremis tra le sue braccia, sul letto di casa mia. Continuai dunque a pompare nella vulva del mio ex-genio, per qualche secondo, finché non venni.
Astrid rise di gusto, poi, accarezzandomi la fronte, mi comunicò:

– Scommetto che ti &egrave piaciuto il mio ultimo regalo. Da domani non ci vedremo più, padrone.

– Questa &egrave l’ultima notte che passiamo insieme? – chiesi con tristezza.

Astrid annuì e rispose:

– Comunque voglio che ti rimanga impressa…

Stavo chiedendomi cosa intendesse dire, quando sentii una mano che afferrava con delicatezza la mia virilità e si dava da fare a titillarmela. Nella penombra, distinsi il volto di Celia, che mi sorrideva. Dunque era ancora con noi… Mentre l’eccitazione, grazie a lei, stava tornando a espandermisi nel corpo e nella mente, Astrid si chinò su me e prese a baciarmi il collo e il petto. Capii finalmente che tipo di nottata volesse regalarmi il mio ex-genio, con l’aiuto della sua collega.
Stremato, mi addormentai molto più tardi, tenendo fra le braccia le mie due amiche non umane. Risvegliarsi nel letto vuoto fu dunque doloroso, per me. Un folle e irripetibile periodo della mia vita era terminato, e non sapevo se sarei mai riuscito a raccontarlo a nessuno.
Le ultime parole che mi aveva detto Astrid, prima che io cascassi nel sonno, mi tornarono alla mente più volte, da quella notte:

– Non so se potrò mai tornare da te. Però tu spera; e anch’io lo farò.

*

A cosa servivano la gioventù e la ricchezza, che Astrid mi aveva donato, se non potevo più rivedere lei? Era questo il mio desiderio più importante, e me ne rendevo conto solo allora. Dopo quella notte, ho passato mesi molto tristi. Non volevo vedere nessuno, non volevo sentire niente. Ogni tanto, mi mettevo in salotto a contemplare il grammofono, ormai freddo e inutile, come tutti gli oggetti che mi circondavano. E quando la vicina di tanto in tanto mi chiedeva: “Ma quella notte che ho sentito tutto quel rumore e quelle voci, cos’era? Ha dato una festa, per caso?”, io le rispondevo che non era stata una festa ma un addio. E lei, chissà perché, ogni tanto tornava a farmi la stessa domanda, come se non riuscisse a convincersi…

Un giorno poi, qualche settimana fa, una macchina mi stava investendo; e sicuramente sarei stato travolto, se qualcuno non mi avesse dato una forte spinta, che all’ultimo istante mi ha sballottato, proiettandomi fuori della traiettoria del veicolo che sopraggiungeva. Certo &egrave che in quell’attimo mi &egrave parso di intravedere la veste di Astrid; e tra la folla che poi mi si &egrave avvicinata per soccorrermi, mi &egrave sembrato di scorgere il sorriso del mio ex-genio, e la sua mano che mi
faceva “Ciao”.
Non lo so, sarà anche stata un’allucinazione, o la voglia di sentirla ancora accanto, ma io ora ho fiducia. So che un giorno la rivedrò. E il grammofono, sia ben chiaro, non lo venderò mai. Mi ricorda quelle sue parole: l’unico disco che vorrei possedere, per riascoltarlo senza mai stancarmene:
“Però tu spera; e anch’io lo farò”.

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