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Racconti di Dominazione

voglio il divorzio

By 15 Maggio 2014Dicembre 16th, 2019No Comments

La prima telefonata era una come tante; la solita ragazza appena sposata che non andava d’accordo con il marito, che “non lo riconosceva più”, che “la vita con lui &egrave ormai impossibile”. Una delle tante che si erano rivolte al mio studio legale per separarsi. Una delle tante, dicevamo, anche se forse più fastidiosa delle altre.
“E’ tutta colpa sua! E’ lui che &egrave cambiato, io ha fatto di tutto per salvare la nostra storia ora lo voglio subito fuori di casa e che mi paghi il mantenimento”
Io paziente a spiegarle che con dieci mesi scarsi di matrimonio, senza figli, entrambi impiegati con un buon stipendio e di giovane età era ben difficile ottenere l’assegnazione della casa (tra l’altro di proprietà del marito) e un assegno di mantenimento; ma lei niente. “Non capisco, la colpa &egrave sua, io ci avevo investito tanto in questo matrimonio, ho sofferto troppo, merito un risarcimento”
Questo &egrave quello che odio delle separazioni: la gente non &egrave in grado di ragionare serenamente e si rifiuta di accettare lo stato dei fatti. Mi viene voglia di mandarla a quel paese ma sto al gioco.
“Per ottenere la casa e un assegno di mantenimento si dovrebbe addossare a lui la colpa della separazione: ha avuto una relazione extraconiugale?”
No, fa l’ingegnere edile e quando non &egrave in cantiere, dove non c’&egrave neppure una donna, &egrave a casa.
“Butta via i soldi, magari giocando d’azzardo?”
No, anzi, &egrave molto attento.
“Allora &egrave patologicamente tirchio?”
No, non ha fatto mai mancare nulla in casa.
“Beve?”
No, &egrave astemio. Caspita, &egrave praticamente un santo, allora comincio a scivolare lentamente nel surreale, forse così capirà.
“Fa uso di droghe?”
Per carità, no, &egrave contrarissimo.
“Passa la serata davanti alla televisione con una birra in mano?”
No.
“Si lava poco, emana cattivi odori?”
No.
“Le chiede di fare cose strane a letto?”
No.
“La maltratta?”
Ah, questo si!
“E come?”
Uno schiaffo, sei mesi fa’ La mia pazienza &egrave al limite ma continuo ad assecondarla. Le spiego che uno schiaffo isolato sei mesi fa non significa nulla e che si potrebbe parlare di maltrattamento solo se la schiaffeggiasse almeno una volta alla settimana (ho già perso mezz’ora con questa, la schiaffeggerei io volentieri) e poi ci sarebbe il problema della prova: vivono soli, uno schiaffo non lascia segni; se le avesse fatto un occhio nero avrebbe potuto farsi medicare al pronto soccorso e si sarebbe procurata al tempo stesso la prova della violenza del marito. Sembra convinta. Le spiego i documenti che deve procurarsi e fisso un appuntamento presso il mio studio dopo 15 giorni. Dimentico la questione ma dopo alcuni giorni mi piove in studio. “E’ la Sig.ra Michela ***. Sembra agitata” dice la mia segretaria. Finisco il mio lavoro e dopo una buona mezzora vado a riceverla in sala d’attesa.
Mi aspetta in piedi accanto alla porta. Sulle prime non mi fa alcuna impressione: non particolarmente alta, capelli neri alle spalle si mangiucchia le unghie della mano destra. Avvicinandomi, però, noto alcuni particolari interessanti: veste una camicetta bianca dalla scollatura generosa che mostra due seni abbondanti quasi sorretti dal braccio sinistro che tiene conserto sul petto. Veste poi una gonnellina di seta leggera poco sopra il ginocchio che scopre un bel paio di gambe nude (al diavolo reggicalze e autoreggenti, io vado pazzo per le gambe nude) abbastanza inusuali vista la stagione (siamo a fine settembre). Scambio di presentazioni e la faccio accomodare nella mia stanza. La invito a sedersi ma preferisce rimanere in piedi. “non &egrave come al bar” dico “si paga lo stesso anche se si sta seduti”.
Abbozza un sorriso imbarazzato e si siede sulla punta della sedia protendendosi in avanti ed offrendo così un bel panorama della scollatura. Si scusa per essere arrivata così inaspettatamente ma era successa una cosa straordinaria. Dopo la nostra telefonata si era messa in testa di incastrare il marito, voleva arrivare allo scontro fisico per poi chiamare la polizia e denunciarlo. Aveva cominciato a prenderlo a male parole per ogni cosa, usciva la sera senza dire dove andava (peraltro, si recava a casa dei suoi genitori) e tornava nel cuore della notte. All’inizio il marito era rimasto stupito di questo nuovo atteggiamento, poi aveva cominciato a rispondere alle sue offese fino alla sera precedente. Lui l’aveva aspettata sveglio e quando era tornata alle 4 del mattino era scattata una lite furibonda al culmine della quale l’aveva picchiata e poi buttata fuori di casa. Era tornata a casa dei suoi e ci era dovuta andare a piedi dato che portafoglio e telefonino erano rimasti a casa. Non era andata al pronto soccorso ma appena alzatasi era venuta da me.
Ma tu guarda che stronza – ho pensato – l’avrei menata anch’io’ Ma andiamo avanti ad approfondire l’argomento. Visto che non era andata al pronto soccorso, le chiedo di raccontarmi in dettaglio i fatti della sera prima.
Appena tornata a casa, suo marito le aveva chiesto dove era stata. Lei, come al solito, si era rifiutata di rispondergli; lui allora l’aveva insultata. Alt, dico io, cosa ha detto di preciso? Può essere importante anche per presentare una querela. Si ritrae un attimo e arrossisce violentemente poi, con lo sguardo basso e con un fil di voce,
“Mi ha detto che non dovevo permettermi di andare in giro la notte vestita da troia e che, se lo facevo, mi avrebbe trattata come tale”
“Ma lei come era vestita?”
(che domande sto facendo? Ormai ho perso completamente il controllo’). Non sembra essersi accorta dell’assoluta inutilità della domanda e mi risponde con naturalezza (sembra aver ripreso un po’ di coraggio..) che si era vestita in modo provocante per farlo arrabbiare e che indossava quella stessa maglietta scollata che indossava al momento, una minigonna in pelle, calze a rete e scarpe con i tacchi alti. Va bene, andiamo avanti. Dopo aver detto quella frase l’aveva afferrata per un braccio e le aveva tirato un ceffone. Allungo la mano come per alzarle il viso dicendo:
“Mi faccia vedere se ci sono ancora segni”
Lei anticipa il movimento alzando il mento ma non evita il contatto con la mano che, sfiorandolo appena con due dita, le sposta il viso da destra a sinistra. Non sembra stupita dell’iniziativa e si lascia osservare docilmente senza però alzare lo sguardo.
“No, – mi dice – sul viso non sono rimasti segni”
“E dove sarebbero rimasti?”
“Sulla schiena e sulle gambe”
“L’ha picchiata sulla schiena e sulle gambe?”
“Beh, sì. Dopo aver preso quello schiaffo sono caduta o meglio mi sono seduta sul divano ma lui, come preso da un raptus, mi ha presa per i capelli e mi ha buttata sullo schienale della poltrona. Poi ha preso a picchiarmi furiosamente con la mano. Mi ha picchiata prevalentemente sulla schiena ma, mentre la “schiena” era protetta dalla minigonna in pelle, le calze hanno attutito ben poco. E’ per questo che i segni più evidenti sono sulle gambe.”
Non sapeva quanto era durato il tutto, si ricordava solo che, dopo un po’, suo marito l’aveva ripresa per i capelli e l’aveva letteralmente trascinata fuori di casa sul pianerottolo chiudendosi la porta alle spalle. Si era quindi ritrovata improvvisamente a terra e sola. Aveva provato a farsi aprire la porta ma non c’era stato verso.
C’era qualcosa che non quadrava in questa storia: lui così tranquillo, così corretto (fedele, educato, persino astemio..); lei così insoddisfatta del rapporto. Lui &egrave scoppiato di fronte alle sue provocazioni? Forse’ Ma &egrave meglio approfondire la cosa. Chiedo se ricorda altri particolari, se lui le ha detto altre cose; no, nient’altro.
“Anche quando la picchiava non diceva nulla?”
“Beh, sì, mi insultava..”
“E cosa le diceva di preciso?”.
Abbassa ancora lo sguardo e si strige nelle spalle, fa per ritrarsi scivolando lungo il sedile della poltrona ma di nuovo scivola verso la punta. Sussurra:
“Mi diceva quello di prima'”
“Le diceva di non vestirsi come una troia?”
“Beh, più o meno..”
“Mi scusi – la incalzo – ma deve essere più precisa altrimenti non andiamo da nessuna parte”
“Mi diceva puttana, troia ne hai avute abbastanza? ne vuoi ancora?”
“Bene, e lei cosa faceva?”
“Io? Nulla'”.
“Come nulla? Suo marito la stava picchiando e lei non faceva nulla?”
“Nno'”
“Mi faccia capire; suo marito la teneva ferma in qualche modo?”
“No”
“Avrebbe potuto andarsene?”
“Beh, sì’ ma ero stupita e terrorizzata dalla reazione”
“Già, certo, allora avrà urlato, gli avrà detto di smetterla?
“No, direi di no”
“E’ rimasta zitta mentre suo marito la picchiava?”
“No
“E allora cosa ha detto?”
“Sì”
“Sì cosa?
Abbassa ancora lo sguardo e, con un fil di voce: “Sì ancora, gli dicevo che ne volevo ancora”.
Dopo quella frase &egrave caduto un silenzio pesante. Mentre la osservo nascondere il viso nelle mani, posso sentire i rumori della strada e il calpestio dei passanti ignari di quanto sta accadendo in questa stanza. Ho di fronte una donna che ha provato emozioni forti che mai prima in vita sua aveva immaginato di provare (o forse le aveva sognate, ma le aveva rinchiuse dietro ad una porta che si era appena aperta di schianto). “Sì ancora” solo due parole che, se ieri sera potevano essere ancora negate (era “stupita e terrorizzata”), oggi erano state appena scientemente confessate. Era il primo passo su una via sconosciuta che andava incoraggiato.
Decido di rompere il ghiaccio: “E perché ne voleva ancora?”
Silenzio, solo pochi sospiri’ E’ il momento di scuoterla: “Quando faccio delle domande esigo delle risposte! E mi guardi in faccia quando parlo con lei!”
Abbassa le mani e solleva lentamente lo sguardo: “Sì, mi scusi..”
“Ebbene, perché ne voleva ancora?”
“Non lo so'”
“Non ci credo. Lei si veste da puttana, si comporta da puttana, insolentisce suo marito, lo provoca e non sa perché? In questi giorni ha cercato spasmodicamente di farsi picchiare da suo marito con la scusa del divorzio e non sa perché?”
“Sì, &egrave vero, all’inizio volevo farlo per il divorzio ma poi ho scoperto che mi piaceva provocare mio marito e poi da quando mi ha fatto ricordare di quello schiaffo di sei mesi fa, ho capito che mio marito poteva essere diverso: più autoritario, più volitivo, più uomo. Speravo che cambiasse'”
“Beh mi sembra che sia cambiato’ E anche lei &egrave cambiata: le &egrave piaciuto essere presa per i capelli e le sono piaciute le sculacciate ricevute; tanto da chiederne ancora, non &egrave vero?”
Arrossisce e abbassa lo sguardo. Non dice nulla; la incalzo: “E non &egrave finita. Ora le piace “provocare” vestendosi da puttana e non si limita a suo marito; da quando &egrave qui non ha cessato un attimo di mostrarmi la sua scollatura e quando le ho solo toccato il viso si &egrave subito eccitata”
“Ma avvocato'” dice portandosi istintivamente le braccia al petto.
“Basta con la commedia! Le dico io cosa farà adesso: ora tornerà a casa sua e pregherà suo marito di perdonarla e di riprenderla con sé. Sembra un brav’uomo e credo quindi che per lei non sarà difficile convincerlo. Quanto al suo inqualificabile comportamento, ci penserò io a castigarla a dovere”.
Sembra definitivamente domata, attende ad occhi bassi gli eventi tenendo le braccia tese ai fianchi con le mani appoggiate sul sedile della poltrona. Prendo il telefono e chiamo la segretaria: “Claudia, vieni qui!”
Dopo pochi secondi Claudia si presenta nella mia stanza. E’ una bella ragazza ma un po’ volgare (l’ho scelta apposta così, fa colpo sui clienti). Oggi porta una minigonna attillata e una maglietta che mette in risalto un bel paio di seni, ai piedi un paio di sandali aperti con il tacco alto.
“Dica, avvocato” mi fa con quel suo fare perennemente provocante.
“Portami subito la bacchetta per le punizioni”
La ragazza impallidisce, cambia subito atteggiamento, balbetta: “Avvocato, no’ La prego’ settimana scorsa mi ha già’ Non ho fatto nulla’ ”
Interessante qui pro quo: “Questo lo vedremo. Adesso fila a prenderla o &egrave peggio per te”
La Sig.ra Michela *** non sembra aver prestato attenzione alla conversazione; lo sguardo &egrave perso nel vuoto e la respirazione si &egrave fatta pesante.
Dopo pochi secondi Claudia &egrave tornata ad occhi bassi e tremante con la bacchetta in mano.
“Eccola avvocato'”
“Lasciala qui e vai ad aspettarmi accanto alla tua scrivania”
Per nulla sollevata, Claudia lascia la stanza.
Mi alzo impugnando la bacchetta per le due estremità e mi porto dietro alla Sig.ra *** che seguita a guardare ostinatamente in basso. Prendo una sedia e la colloco accanto alla sua di traverso rispetto al piano della scrivania. Le metto una mano sulla spalla e dico:
“Ed ora a noi. Si inginocchi sulla sedia”
Si alza con un sospiro più profondo e lentamente appoggia prima un ginocchio poi l’altro sulla sedia lasciando scivolare a terra i sabot.
Faccio scivolare la punta della bacchetta sotto l’orlo della gonna e inizio a sollevarla.
“Avanti. Si sollevi la gonna”
Esita, fa per scendere dalla sedia. Scatta rapida una frustata sulla pianta dei piedi. Urla. Il colpo non era forte ma si deve essere sentito.
“Non si azzardi più a spostarsi da quella sedia senza il mio permesso o il prossimo colpo sarà sui polpacci e le garantisco che rimarrà il segno”
Non accenna più a muoversi. Solo i piedi continuano a sfregarsi tra di loro.
“Allora vuole sollevare questa gonna? Non glielo ripeterò un’altra vola”
Porta immediatamente le mani ai fianchi e fa scivolare lentamente la gonna all’insù scoprendo man mano le cosce e il culo.
Un tanga nero minimo lascia completamente scoperto il culo che non porta alcuna traccia delle sculacciate della sera prima mentre la parte superiore delle cosce &egrave appena arrossata (il maritino non ha la mano pesante’).
Senza neppure che glielo avessi chiesto, infila i pollici sotto i bordi del tanga e lo abbassa sino alle ginocchia. Si piega poi in avanti appoggiando le mani sulla scrivania, presentando così il culo in tutto il suo splendore pronto per essere sottoposto al morso della bacchetta.
Rimango alcuni secondi ad osservare la scena, unico rumore il respiro affannoso di Michela, poi allungo la mano fino a toccare il suo sesso già completamente aperto come un fiore impudico e comincio ad accarezzarla sempre più profondamente. Comincia ansimare e a muovere il bacino. Con il pollice comincio a massaggiarle l’ano che dopo pochi secondi si apre inghiottendolo avidamente. Continuo ancora per un po’ a massaggiarla e a spingerle il pollice nel culo. Sento il suo piacere crescere pian piano fino quasi all’orgasmo ma, pochi secondi prima del momento di non ritorno, tolgo la mano e le infliggo una secca bacchettata in mezzo al culo. Emette un gridolino roco, più di delusione per il mancato orgasmo che per la sensazione di dolore provata che anzi, da come protende il culo verso di me, sembra aver ulteriormente aumentato la sua eccitazione.
Riprendo ad accarezzarle le natiche dove comincia ad affiorare una sottile linea rossa poi passo di nuovo a tormentarle il sesso. Di nuovo riprende ad ansimare e a muovere i fianchi ma ora mi sono spostato al suo fianco e posso colpirla ogni volta che si avvicina all’acme del piacere, sospendendo la stimolazione manuale. Di lì a pochi minuti il culo di Michela &egrave intessuto di una lieve trama di segni rossi ed emana una piacevole calore. La sua respirazione &egrave ridotta ad un rantolo soffocato, il sesso &egrave completamente aperto e inondato dei suoi umori. Mi preparo per il gran finale: mentre la penetro analmente con due dita, faccio piovere una cascata di leggere e veloci bacchettate sul culo. Michela non resiste e prende a masturbarsi furiosamente fino a che le forti contrazioni dello sfintere non denunziano un orgasmo intenso e profondo.
Michela si &egrave accasciata sulla scrivania, il suo respiro &egrave ancora ansimante ma più lento e regolare.
“Si alzi e si ricomponga”, le intimo.
La ragazza si rialza stancamente, scende dalla sedia e resta in piedi di fronte a me col viso basso e le mani sulle natiche nude (ora sì) doloranti.
Senza profferir parola con la punta della bacchetta facilito la caduta a terra degli slip; poi le allontano le mani dal culo lasciando così cadere la gonna a coprirle il sedere martoriato.
Resto alcuni istanti ad ammirare questa ragazza scalza appoggiata al bordo della scrivania, i suoi capezzoli eretti visibili attraverso la camicetta, il suo dolore palpitante che prende lentamente il sopravvento sul piacere ma che in qualche modo ne perpetua il ricordo.
Si china per raccogliere il tanga ma la fermo e, puntandole la bacchetta sotto il mento, la faccio rialzare.
“Queste le lascia qui. Oggi abbiamo scherzato ma da domani incomincerò ad insegnarle che cos’&egrave la vera autorità. L’aspetto domani sera alle 19 in punto. Ora torni a casa, si scusi con suo marito per il comportamento che ha tenuto in questi giorni, lo ringrazi per la punizione ricevuta e gli prometta che non si ripeterà più.
Può andare”
Resta un attimo immobile, solleva lo sguardo come per dire qualcosa ma poi lo riabbassa per cercare i sabot che prontamente infila prima di imboccare la porta della stanza. Poco prima di uscire, si ferma e si gira: “Mi scusi avvocato e’ grazie di tutto. A domani sera”.
La osservo allontanarsi lungo il corridoio massaggiandosi una natica e non posso fare a meno di pensare che diventerà un’ottima schiava, ribelle al punto giusto.
Ma abbiamo perso fin troppo tempo, ora &egrave bene tornare al lavoro: ho una segretaria che attende in ginocchio accanto alla sua scrivania la giusta ricompensa p L’autobus affollato arranca con difficoltà nel traffico cittadino di questa sera di fine settembre portandomi con sé verso una destinazione che non &egrave più la mia. Già, ma qual &egrave la mia destinazione? Prima sembrava facile: la scuola, l’università, un buon lavoro, una famiglia, la felicità… Come desidera ogni brava bambina, educata sin da piccola a questo ineluttabile destino. Già’ ma io non sono una brava bambina, o, almeno, credo proprio di non esserlo. Altrimenti non mi troverei su questo autobus senza mutandine e con il culo dolente (eppure così appagata’) per le frustate ricevute.
Quando &egrave cominciato tutto ciò? Difficile dirlo. Forse dall’esaurirsi di tutte le prospettive, di tutti gli obiettivi. Laureata in lettere, impiegata con scarse prospettive di carriera, appena sposata con Marco, il mio ragazzo fin dal liceo, decisa, d’accordo con mio marito, a non avere figli, la vita mi sembrava sostanzialmente già finita in un pantano di giorni uguali l’uno all’altro.
Mi vedevo imprigionata nel ruolo della mogliettina insoddisfatta tra lavoro e casa e mi vedevo con sgomento assumerne, anche contro la mia volontà, le abitudini e la mentalità: i pettegolezzi sul lavoro, le lunghe serate davanti alla televisione, le cene dai miei genitori e dai suoceri. Le amicizie risalenti all’epoca della scuola si erano sfilacciate e i pochi incontri (ormai quasi solo casuali) erano solo occasione di tristi raffronti tra la mia situazione e quella delle mie compagne di allora, ora brillanti professioniste con luminosi avvenire.
Tutto ciò aveva generato in me un senso di insoddisfazione e di ribellione nei confronti dello status quo che i corsi di training autogeno, autoaiuto, autotutto non mi avevano certo aiutata a superare e, forse, contribuivano ad esasperare.
Ad un certo punto, mi sono convinta che la causa di tutto doveva essere Marco, mio marito, che, con il suo atteggiamento pantofolaio non mi dava sufficienti stimoli e mi manteneva legata ad una realtà che odiavo sempre di più. Naturalmente le mie colleghe sul lavoro (tutte zitelle o divorziate insoddisfatte) non facevano che confermare questa mia impressione.
Questa situazione aveva fatto rapidamente degenerare la mia vita familiare: a casa ero silenziosa e scontrosa e non perdevo occasione per accusare mio marito per ogni stupidaggine.
Avevo ormai accumulato un bel po’ di tensione quando una mia collega, la Gloria, nel corso delle mie solite lamentazioni sull’inettitudine di mio marito, mi fa:
“Senti Michela, guarda, per me &egrave l’ora di farla finita. Quando ho deciso di piantare quello stronzo di Matteo mi sono rivolta all’avvocato ***. Mi sono trovata bene. Se vuoi ti lascio il suo numero.”
Prendo quel numero di telefono e per tutto il pomeriggio penso a quello che mi aveva detto la Gloria. Fino a quel giorno mi ero limitata a lamentarmi e a cercare delle soluzioni tenendo fermo il mio matrimonio, non avevo mai pensato alla separazione. Eppure sembrava proprio l’uovo di Colombo: il problema era mio marito. Se volevo rivivere, se volevo uscire dal vicolo cieco dove mi ero cacciata, dovevo allontanarmi da lui e farmi una nuova vita. E poi la colpa era sua se mi ritrovavo in quello stato; era lui che mi aveva rovinato l’esistenza rinchiudendomi in una gabbia di noia e banalità. Se quindi il nostro matrimonio naufragava, la colpa era solo sua e ne doveva pagare le conseguenze.
Verso le 17 prendo la decisione: chiamo l’avvocato.
Dopo pochi squilli con il cuore in gola, mi risponde una voce femminile. Dico chi sono, spiego da chi ho avuto il numero e mi faccio passare l’avvocato.
Scambiate le presentazioni di rito passo ad esporre il mio problema, già tante volte oggetto di discussione con le mie colleghe. La parte la conosco ormai a memoria: mano a mano che l’esposizione procede aumenta la mia rabbia nei confronti di Marco e, nel contempo, aumentano la foga e l’enfasi del racconto per un finale ad effetto nel quale espongo le mie confuse richieste di “risarcimento” per il fallimento della mia vita.
Dall’altra parte, lo confesso, mi aspettavo la stessa comprensione e appoggio che questa performance suscitava nel mio uditorio abituale. Incontravo invece solo obiezioni, prospettazioni di difficoltà ed inviti a trovare un accordo con mio marito.
Non ero preparata ad un simile scenario e l’unica reazione che mi &egrave venuta lì sul momento &egrave stata quella di rincarare la dose e di rifiutare i consigli datimi.
Tutto questo però non mi aiutava e mano a mano che la conversazione procedeva vedevo le mie assurde pretese fare i conti con la realtà.
Per ottenere la casa e un assegno di mantenimento sembra si debba addossare all’altro coniuge la colpa della separazione provando fatti precisi che abbiano reso la vita matrimoniale insopportabile.
L’avvocato snocciola veloce tutti i principali casi: relazioni extraconiugali, prodigalità, alcolismo, tossicodipendenza’ Ma Marco non rientra certo in queste categorie.
Messa di fronte ai fatti faccio fatica a dire cosa c’&egrave davvero che non va nel comportamento di Marco.
Beh, certo, però Marco mi maltratta’
“E come?” dice l’avvocato.
Non riesco a spiegarlo e allora mento:
“Uno schiaffo, sei mesi fa'”
Subisco ancora le obiezioni dell’avvocato che mi spiega come uno schiaffo isolato dato sei mesi prima non sia sufficiente e come servano episodi più recenti magari comprovati da un certificato del Pronto Soccorso.
Rinuncio ad insistere oltre e mi segno l’appuntamento per formalizzare il mandato.
Mentre torno a casa, però, non posso trattenermi dal pensare a quanto mi era stato detto dall’avvocato: Marco non era certo il marito-mostro dei film-verità televisivi e neppure l’infaticabile adultero delle commedie americane e dei periodici da parrucchiere ma proprio questo suo amorfo “non essere” era ciò che io detestavo e che mi faceva sentire invischiata in una vita che non era la mia.
Era però chiaro che questo stato di cose, da un punto di vista legale, non aiutava la mia posizione. Era necessario provocare un fatto positivo che mettesse Marco dalla parte del torto: solo in questo modo avrei potuto (lo capisco solo adesso) evitare una (per me) penosa separazione consensuale nella quale avrei dovuto spiegare di persona a Marco le ragioni della mia decisione invece di affrontare un’esaltante guerra per la difesa dei miei diritti, primo atto della mia nuova vita attiva.
Non era però facile provocare questo “casus belli”: Marco non era mai stato portato per la violenza. D’altro canto, questa circostanza mi rassicurava sul fatto che, se proprio dovevo farmi picchiare (perché di questo si trattava), non mi avrebbe fatto troppo male.
In fondo un schiaffo sarebbe stato sufficiente: cinque dita stampate in faccia, un po’ di confusione, una corsa al pronto soccorso e il gioco era fatto; mi sarei procurata quanto mi serviva per cacciare Marco dalla mia vita.
Non restava quindi che provocare Marco fino ad arrivare al confronto fisico. Gli ormai consueti litigi non erano sufficienti e non potevo certo essere io a mettergli le mani addosso.
Mi sono quindi determinata a far leva sull’unico lato del carattere di Marco che non avevo ancora sollecitato a dovere: la gelosia.
Mi sono quindi procurata ai grandi magazzini alcuni capi d’abbigliamento “tattici” (minigonne minime, camicette che lasciano poco all’immaginazione, calze a rete e scarpe con tacchi vertiginosi).
Quella sera ero terribilmente agitata, ho indossato una minigonna minima, una camicetta che lasciava ben poco all’immaginazione, calze a rete, scarpe con tacco vertiginoso e’ un lungo impermeabile. Da principio non volevo farmi vedere vestita così da Marco, ma poi ho aperto il soprabito ed ho attraversato l’ingresso sotto il naso di Marco che ha fatto appena in tempo a balbettare un “dove vai vestita così?” e ad incassare un “cazzi miei!”.
Appena fuori dalla porta ho provato un enorme senso di euforia: avevo preso in mano la mia vita, mi sentivo capace di tutto.
Salita in ascensore mi sono guardata allo specchio: non c’&egrave che dire, il mio look abituale ne usciva completamente stravolto. Abituata a vedermi con abiti più che sobri e, sul lavoro, con anonimi tailleur, questi vestiti esaltavano la mia femminilità in modo addirittura imbarazzante. Mi sorprendevo ad ammirare le mie gambe affusolate fasciate dalla minigonna superaderente, il seno prorompente dalla scollatura generosa e’ a piacermi.
In strada coglievo gli sguardi degli uomini scorrere sulla mia pelle, sentivo i loro pensieri che mi spogliavano e’ mi eccitavo.
Mi sono quindi diretta presso la biblioteca pubblica aperta sino a tardi dove non conoscevo nessuno e ho passato la serata a leggiucchiare periodici infagottata nel soprabito.
Sulla via dl ritorno, ho deciso di prendere l’autobus, lo stesso autobus sul quale sto viaggiando ora. E’ stato qui che me ne sono accorta: ero vestita come una puttana. Ad un primo momento di sgomento in cui mi sono infagottata nel soprabito &egrave subentrato uno stato di eccitazione che mi ha portato a riaprirlo, ad accavallare le gambe scoprendo le cosce fin quasi alle natiche e a flirtare oscenamente con gli altri sparuti (e disorientati) passeggeri dell’autobus.
Quando sono scesa dall’autobus avevo finalmente capito: liberarmi da Marco e dalla mia vecchia vita voleva dire liberarmi di tutti i pregiudizi e gli stereotipi che fino a quel momento mi avevano imprigionato la mente.
Vestirmi e comportarmi così significava uccidere definitivamente la triste impiegatuccia rispettabile per godermi appieno la mia nuova vita facendo le cose che avevo sempre voluto fare senza farmi condizionare dai giudizi e dai pregiudizi della gente che mi divertivo a sfidare apertamente.
Le sere successive ho più volte ripreso quell’autobus con abiti sempre più succinti ed atteggiamenti sempre più sguaiati. Mi beavo degli sguardi affamati degli uomini sulle mie forme generosamente esposte ma anche degli sguardi di disapprovazione e/o d’invidia delle donne. Nelle serate in cui l’autobus era maggiormente affollato avevo goduto nel sentire le mani di estranei sfiorare la mia pelle, palparmi senza troppa dissimulazione il culo.
La mia vita era già cambiata e avrei quasi dimenticato il motivo per quale tutto ciò era cominciato se non fossi dovuta tornare a casa tutte le sere e sottopormi ad estenuanti discussioni con Marco che diveniva sempre più polemico nella misura in cui io divenivo sempre più sprezzante nei suoi confronti fino a ieri sera quando la mia vita ha cominciato a prendere una piega del tutto inaspettata.
Ero tornata più tardi del solito proprio per vedere se Marco mi avrebbe aspettata sveglio. Era sveglio e mi aspettava seduto in poltrona visibilmente alterato. Sulle prime mi sono comportata come al solito: senza neppure salutarlo mi sono avviata verso il bagno ma lui, alzandosi di scatto, mi aveva preso per un braccio chiedendomi con aria minacciosa dove ero stata fino quell’ora. Io gli urlavo di lasciarmi andare immediatamente, che non si doveva permettere di mettermi le mani addosso e altre cose di questo genere.
Improvvisamente (ma tutto si &egrave svolto in pochi secondi’) Marco senza dire nulla mi molla un secco manrovescio in pieno viso. Non era forte ma &egrave stato come un campanello di fine ricreazione: sono ammutolita immediatamente e mi sono lasciata cadere sul divano proteggendomi la guancia con il verso della mano. Anche se tutto era cominciato proprio per arrivare a questo, non mi aspettavo più una simile reazione e comunque mi rendevo conto con mio sommo sgomento di non essermi affatto preparata a gestire questa situazione. Me ne sono quindi rimasta lì per qualche frazione di secondo lasciando l’iniziativa a Marco; mi guardava con occhi roventi pieni di rabbia e non sembrava aver ancora sfogato tutta la rabbia accumulata in questi giorni (o settimane, o mesi?).
D’un tratto si &egrave avvicinato a me, mi ha detto che non dovevo permettermi di andare in giro vestita come una troia e che mi avrebbe trattata come tale. Mi ha quindi afferrata per i capelli facendomi alzare in piedi e poi chinare sullo schienale della poltrona. Subito sono cominciati a piovere sonori schiaffi sul culo e sulle cosce intercalati da insulti ed esclamazioni (troia, puttana, non ti azzardare più, e così via).
Mio marito aveva ragione: mi ero comportata come una puttana e anche in quel momento la mia posa, seppure forzata, lasciava ben poco alla fantasia. Ma tutto quello che stava succedendo lo stavo vivendo come naturale prosecuzione delle mie “passeggiate” serali: avevo immaginato più e più volte che qualcuno mi prendesse come mi stava prendendo Marco ed ora il desiderio si stava realizzando. Avrei voluto che Marco mi possedesse brutalmente lì seduta stante, avevo cominciato ad ansimare ad ogni colpo e ad ondeggiare sui fianchi. Quando mi chiedeva se ne avevo prese abbastanza o se ne volevo ancora ero completamente presa da queste sensazioni e mi sembrava quasi naturale rispondere di sì. Quel comportamento, però, accresceva la rabbia di Marco che aumentava sempre di più la violenza delle botte. Dopo un po’, però, il dolore ha preso il sopravvento sul piacere e ho ripreso ad urlargli di smetterla ma a quel punto Marco mi ha di nuovo afferrata per i capelli e mi ha trascinata fuori di casa chiudendosi la porta alle spalle.
Sulle prime ho provato a suonare il campanello per farmi aprire ma temevo che i vicini si svegliassero e che mi vedessero in quello stato, vestita in quel modo. Ero sola fuori di casa senza soldi, senza chiavi e senza cellulare…
Mi sono incamminata senza neppure sapere perché verso casa dei miei lungo le strade deserte alla luce dei semafori lampeggianti. Lungo la strada, rivedevo davanti ai miei occhi quello che mi era successo in quei giorni come un sogno dal quale faticavo ad uscire.
Giunta a destinazione sono entrata da una porta sul retro fortunatamente rimasta aperta e mi sono recata nello scantinato; quasi meccanicamente mi sono spogliata di quei vestiti come se fossero dei costumi di scena e mi sono coricata su una branda nella speranza di prendere sonno e di svegliarmi poi nel mio letto ma non riuscivo a chiudere occhio: continuavo a pensare a quello che Marco mi aveva fatto, lui solitamente così tranquillo, alla sua mano che mi afferrava per i capelli prendendo così il controllo di ogni mio movimento, ai miei vestiti da puttana, alle imprecazioni e agli insulti nei miei confronti, al mio culo proteso a ricevere le sue botte, al dolore e alla paura provata mentre ero fuori dalla porta e per la strada.
D’improvviso in questo marasma di pensieri e di immagini ho creduto di trovare il bandolo: sì certo, il divorzio, io avevo messo su tutto questo per rompere con Marco, per rompere con la mia squallida vita precedente ed ora avevo raggiunto il mio intento. Non solo avevo rotto con Marco ma era stato lui a mettermi le mani addosso e a buttarmi letteralmente fuori di casa.
Non restava che recarsi quanto prima dall’avvocato per trascinarlo in Tribunale e mettere fine a tutta questa assurda vicenda.
A mattinata inoltrata, mi sono rivestita con alcuni vecchi capi d’abbigliamento che erano stati riposti in cantina e mi sono subito dall’avvocato.
Appena arrivata, ho subito vuotato il sacco: racconto del mio progetto di provocare Marco e di tutto quello che &egrave successo dopo. Il racconto mi aiuta a dare un filo logico al susseguirsi degli eventi: avevo fatto tutto questo per liberarmi di Marco e per rifarmi una vita.
Ma le cose non erano così facili: dopo aver finito il mio racconto, l’avvocato ha voluto che lo ripetessi con maggiori dettagli. Ho rivissuto così passo a passo gli ultimi giorni, quanto mi era piaciuto vestirmi e comportarmi così, il senso di libertà provato nelle mie fughe serali, nel mostrare il mio corpo in pose provocanti a sconosciuti, nel rompere le convenzioni sociali, nel comportarmi come una “cattiva ragazza” e’ nel ricevere la giusta punizione per tutto ciò.
Sì, &egrave vero, mi &egrave costato più fatica ammettere a me stessa di aver goduto (e di aver goduto profondamente) sotto gli schiaffi di mio marito che di essermi comportata come una puttana.
Eppure era così semplice. La mia vera realizzazione passava per il riconoscimento dei miei bisogni fondamentali: essere oggetto del desiderio degli uomini, essere desiderata e bramata. Le sculacciate di mio marito altro non erano che espressione massima del suo desiderio di possedermi, di non volermi dividere con altri, di plasmarmi e di correggermi proprio come si fa con gli animali domestici.
Ed &egrave sull’onda di questi pensieri che ho ammesso davanti all’avvocato di aver chiesto a mio marito di prolungare la mia punizione.
La mia ammissione ha come congelato il tempo: il dialogo si &egrave interrotto in un silenzio irreale, quando però l’avvocato ha ripreso a parlare ormai nulla poteva essere come prima.
Il suo tono di voce era più secco e sprezzante, la calma e la ragionevolezza nell’argomentare si erano trasformate in fredde lame che rivoltavano la mia coscienza; le mie fantasie, le mie autoillusioni venivano smontate mettendo a nudo la mia vera natura profonda: in quel momento ho finalmente capito di essere un femmina, nel senso più animale del termine, che trae piacere (e forse anche ragione di esistere) dall’offrire il proprio corpo reso oggetto del piacere e del possesso altrui. Era dunque questa la mia libertà: quella di fami “prendere”, usare come un oggetto da chiunque; libera dalla morale, dal pudore, dalle convenzioni sociali, dalla mia stessa volontà e dai miei stessi desideri.
Ero finalmente pronta ad accettare sino in fondo tutte le conseguenze di quella sconvolgente scoperta: avrei fatto come diceva l’avvocato, sarei tornata da mio marito e l’avrei implorato in ginocchio di perdonarmi ma non avrei certo smesso di metterlo alla prova’
Ero inoltre pronta a subire la punizione in serbo per me: il mio comportamento degli scorsi giorni era stato inqualificabile e trovavo giusto (‘ e terribilmente eccitante!) essere punita per questo’
Mentre ero assorta in questi pensieri, la segretaria aveva posato sulla scrivania di fronte a me una lunga bacchetta di bambù, l’avvocato l’aveva afferrata, mi aveva fatto inginocchiare su una sedia accanto alla sua scrivania ed appoggiare i gomiti sulla scrivania stessa.
Il fare tremante e trepidante della segretaria era chiaro segno che la ragazza aveva con ogni probabilità già assaggiato il morso di quella bacchetta sulla sua pelle e non doveva certo conservarne un piacevole ricordo come del resto era “normale”: ero io ad essere anormale o ad essermi messa in una situazione “anormale”? Che fine avrei fatto imboccando quella strada sulla quale stavo muovendo i primi timidi passi?
In quel momento, ho sentito la punta della bacchetta sfiorarmi la coscia e il secco ordine di sollevarmi la gonna. Mi si chiedeva di mostrare le mie parti intime ad uno sconosciuto e di lasciarmi battere da lui!! Dovevo essere impazzita, anzi ero certamente impazzita ma potevo sempre porre fine alla situazione andandomene.
Ho fatto per scendere dalla sedia cercando col piede destro i sabot che erano caduti mentre mi inginocchiavo quando ho sentito un sibilo fendere improvvisamente l’aria e poi uno schiocco secco colpire la pianta del piede sinistro. Un istante dopo si &egrave sprigionato un dolore lacerante che mi ha strappato un urlo acuto.
Ho subito ripreso la posizione in ginocchio sulla sedia limitandomi a sfregare tra di loro i piedi cercando di allontanare il bruciore intensissimo che promanava dal piede sinistro: quella secca frustata aveva completamente cancellato i miei dubbi e mi aveva fatto definitivamente riassumere il mio ruolo.
Come un automa ho fatto scivolare l’orlo della gonna lungo le cosce fin sopra la schiena e, sempre in automatico, ho abbassato gli slip sino alle ginocchia, esponendo così il mio culo nudo al morso della frusta quale consapevole offerta di me stessa al mio destino.
Per interminabili minuti sono rimasta in attesa del sibilo, di quel sibilo che avrebbe bruciato le mie carni e mi avrebbe fatta contorcere come un animale in calore’
Inaspettate, invece, ho invece sentito due dita sfiorarmi leggere il sesso che si &egrave immediatamente aperto lasciandole scivolare profondamente all’interno.
La sorpresa mi ha fatto subito eccitare: il mio respiro si &egrave trasformato in un rantolo roco e il mio bacino si muoveva quasi involontariamente favorendo la penetrazione.
Un altro dito ha cominciato a tentare il mio orifizio posteriore che, di lì a poco, lo ha lasciato agevolmente entrare.
Sotto l’effetto di quella doppia stimolazione, la mia eccitazione cresceva rapidamente. Pochi secondi prima di raggiungere l’acme, però, la stimolazione si interrompeva improvvisamente e, altrettanto improvvisamente, giungeva una secca bacchettata che mi lasciava una striscia palpitante di dolore in mezzo al culo.
Il dolore bruciante della bacchettata, però, non riusciva a sovrastare il piacere sospeso che spingeva il mio corpo a protendere di nuovo il culo desiderando ardentemente che la stimolazione interrotta riprendesse al più presto.
Il desiderio &egrave stato presto appagato: la mano ha subito ripreso quella doppia penetrazione tornando a riempirmi dolcemente la vagina e l’ano; la mia eccitazione ha ripreso così a crescere rapidamente ma, ancora, a pochi attimi dal culmine, una nuova frustata si &egrave abbattuta sul culo facendomi regredire ad uno stadio anteriore.
E’ strano: il dolore istantaneo &egrave subito cancellato dal riprendere della stimolazione ed ogni nuova frustata mi incita ad offrire sempre più oscenamente il mio corpo.
Le serie si fanno sempre più brevi e frequenti e, alla fine, non posso fare a meno di masturbarmi senza ritegno mentre l’avvocato mi batte con la bacchetta come se fossi una cavalla da incitare al galoppo.
Di lì a poco, tutti i muscoli del mio corpo si contraggono in un orgasmo eccezionale che mi ha fatto cadere spossata ed ansimante sulla scrivania.
Mano a mano che la tensione dell’orgasmo svaniva acquistavo sempre più coscienza del dolore bruciante promanante dalle mie natiche ed ho cominciato a massaggiarmele scoprendo col tatto le prominenze ed i segni lasciati dalla bacchetta.
Con un secco ordine, mi si impone di ricompormi: mi alzo e rimango a viso basso di fronte a Lui.
Prima di andarmene faccio per raccogliere gli slip caduti ai miei piedi ma mi vengono sottratti. Li potrò riavere solo domani sera quando tornerò per continuare nella mia educazione’
Ora &egrave tutto più chiaro, la destinazione della mia vita &egrave più definita. Questo autobus preso nella morsa del traffico mi sta conducendo verso la mia vera realizzazione.
Sono ormai giunta alla mia fermata e scendo con il cuore sollevato: rivedrò Marco, lo scongiurerò in ginocchio di perdonarmi, lui mi perdonerà ma non sarà certo l’ultima volta che sarà costretto a farlo’

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