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Racconti Erotici Lesbo

Un’estate con Marina

By 3 Aprile 2022No Comments

El monte de Venus ubi habitat la donna Herodiades

Stava riprendendo una videocamera montata su un cavalletto con una fotocamera portatile. Gli obbiettivi erano perfettamente allineati mentre si muoveva lentamente verso la videocamera. In soffitta aveva trovato una vecchia macchina fotografica, di quelle con il rullino. L’aveva smontata e posizionata ai piedi del cavalletto. Erano gli unici oggetti presenti nella stanza, continuava a girarci intorno probabilmente senza neanche un’idea precisa su quello che avrebbe voluto fare. La luce entrava da una finestra dietro il cavalletto.
A metà mattinata siamo andate al mare, sul molo. Abbiamo camminato attraverso il bosco fino a raggiungere la spiaggia. La vedevo camminare a fatica sulla sabbia con le infradito rosa ai piedi. Gli occhiali da sole neri e una borsa di paglia sottobraccio da cui spuntava una stuoia. Prima di spogliarsi è rimasta seduta sugli scogli per un po’, aspettando che il sole la riscaldasse. Soffiava un vento leggero dal mare verso la spiaggia. Cercavo di raggiungerla sugli scogli, di tanto in tanto mi fermavo a guardare le onde e riprendevo a camminare verso di lei. Si era stesa ad abbronzarsi nuda, le mani lungo i fianchi e le ginocchia piegate. Non appena mi ha visto si è voltata a pancia sotto per farsi massaggiare la schiena con l’olio profumato. Scendevo con le mani lungo i fianchi facendole passare sulle gambe e risalivo lentamente fino al collo. Si è di nuovo voltata sulla schiena. Le ho allargato leggermente le gambe e ho infilato dentro le dita. Attraverso le sue gambe, vedevo le onde inseguirsi fino a infrangersi sulla spiaggia. Ho lasciato il pollice fuori massaggiandola sempre più velocemente, appena ho sentito i muscoli contrarsi le ho infilate dentro tutte, seguendo il movimento anche con la lingua. Si è alzata e si è messa seduta sulla mia bocca. Le tenevo una mano sul culo, con l’altra mi stavo masturbando.
“Ha chiesto se hai sete”
“Si molta”.

Dopo aver fatto il bagno siamo tornate alla casa dietro il bosco e ci siamo messe a guardare delle foto che aveva scattato sul tavolo della cucina. Il silenzio era quasi assoluto, sentivo il ticchettio dell’orologio appeso alla parete, due cavalli rampanti al centro del quadrante a cui mancavano le lancette. Tra uno scatto e l’altro dei suoi ingranaggi era possibile sentire il rumore della polvere fluttuare nell’aria e posarsi sugli oggetti lì intorno. Eravamo sedute una di fianco all’altra. Lei prendeva le foto sparpagliate sul tavolo e me le metteva sotto gli occhi una alla volta.
“Vuole sapere se ti piacerebbe essere fotografata”
“Non lo so”.
“Ora vuole sapere se vorresti essere scopata mentre qualcuno ti sta strangolando”.
L’ho guardata negli occhi e ho sorriso. Nella prima foto si vedeva un gatto nero seduto sul davanzale di una finestra. Guardava fuori, il sole entrava dai vetri. Nella foto successiva un primissimo piano di un fiore rosa. Il colore molto intenso. Una ragazza molto giovane appoggiata contro una parete bianca. Indossava occhiali da sole e si copriva i seni con le mani facendo sporgere i gomiti piegati. Sorrideva verso l’obbiettivo, in testa portava un cappello delle SS. Mi ha ricordato la locandina di un vecchio film. Avevano scattato la foto per gioco, subito dopo aveva chiesto alla ragazza di leccarla. Era venuta sulle sue labbra mentre pensava alla canzone che in quel film si sentiva durante la scena che avevano cercato di imitare nella foto. Due donne sedute sul dondolo nella veranda di un giardino. Il dondolo era rivolto verso l’obbiettivo. Dormivano con una gamba piegata appoggiata allo schienale, l’altra lasciata ciondolare. La loro posizione era quasi speculare, entrambe indossavano dei pantaloncini di jeans molto attillati, sbottonati fino in fondo. Una mano infilata nei pantaloncini. Alle loro spalle il sole filtrava attraverso i rami degli alberi. Sulla sinistra un pappagallo bianco le guardava appollaiato sopra una gabbietta appesa al balcone di legno. La coda lunghissima striata di arancione e rosso. Lo sportello della gabbia aperto. Anche questa mi ricordava un vecchio film. Le ho chiesto di spiegarmi la foto.
“Preferisce che sia tu a spiegarla”.
“Le ragazze si stanno masturbando nel sonno, le loro inibizioni sono abbassate. Speculari una all’altra, spingono chi guarda a riflettersi nella foto cercando di immaginare le loro emozioni. In pieno giorno, suggerisce l’idea che si tratti di una cosa assolutamente naturale”.
“Vuole sapere del pappagallo”.
“Non saprei, il fatto che si trovi al di fuori della gabbia mi fa pensare alla liberazione di qualcosa di inoffensivo e piacevole, è un animale allegro dopo tutto”.
“Ha detto allegro, ma non troppo”.
Nella foto successiva due ragazze nude erano inginocchiate una di fronte all’altra al centro di una barca a remi. Non c’erano remi sulla barca, si trovavano in mezzo ad un fiume che scorreva lento nel bosco. Una aveva le mani ammanettate dietro la schiena. L’altra le teneva sui suoi fianchi. Si stavano baciando leccandosi le labbra a vicenda. Le ho messo una mano in mezzo alle gambe, infilandola nei pantaloncini. Aveva la fica bagnata. Si è avvicinata in modo che potessi masturbarla più facilmente ed è scoppiata a ridere.
In un’altra foto si vedeva una donna in mezzo ad un prato. Stringeva tra le mani una vecchia bicicletta. Il sole in parte coperto dalle nuvole metteva in risalto il corpo della ragazza in controluce. Il vestito bianco quasi trasparente. Guardava in un’altra direzione senza mostrare il volto all’obbiettivo. In primo piano l’erba dorata del prato ondeggiava per il vento. Stavo ancora guardando la fotografia quando mi ha preso per mano trascinandomi dietro la casa, nella rimessa mi ha fatto vedere una bicicletta identica a quella della foto. L’ho spinta contro il muro e le ho abbassato i pantaloncini. Mi ha di nuovo lasciato bere dalla sua fica. Muovevo la testa in modo che mi bagnasse i capelli. Mentre le tenevo dentro la mano fino al polso ha alzato una gamba appoggiando il piede alla mia spalla ed è venuta. Dopo esserci spogliate siamo rientrate in casa e ci siamo messe a leccarci, sul pavimento. Ci siamo addormentate.

Al mio risveglio ero rimasta sola con Marina.
“Ti ha detto cosa ci fa su quest’isola?”
“Si”
“Ti ha anche spiegato come ci è arrivata?”
“Si”.

Eravamo affamate. Abbiamo preso un cesto di mele e abbiamo cominciato a mangiarle, una dopo l’altra.
Quando è ritornata stavo guardando un temporale dalla finestra. Mi ha messo una mano sulla spalla e ha iniziato a baciarmi sul collo.
“Vuole scopare, ha chiesto se vuoi salire in camera per andare a letto”.
“Ti è venuta voglia per il temporale?”
“Ha detto che è colpa dell’odore che ha la pioggia”.
Il temporale è andato avanti fino a sera, mi ha ripreso per un po’ con la videocamera mentre mi masturbavo ed è venuta a sdraiarsi nel letto. I lampi illuminavano la stanza, non c’era più la corrente. Prima di mettersi a letto aveva acceso delle candele appoggiandole sul pavimento. Sentivo il profumo di cera diffondersi nella stanza. Mi ha aperto le gambe e ha infilato le sue in mezzo, premendo la fica contro la mia. Si è girata per baciarmi. Quando ho visto davanti ai miei occhi il suo viso le ho passato l’indice sul sopracciglio.
“Vorrebbe sapere se ti piacciono le sue sopracciglia”.
“Si, sono molto sensuali”
“Prova a descrivermi il suo volto”
“Non ne sono capace”.

Il mattino seguente siamo di nuovo andate al mare. Marina non aveva voglia di andare a prendere il sole, così siamo rimaste a passeggiare lungo la spiaggia.
“Perché mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto farmi strangolare durante il sesso?”
“Perché è quello che prova quando ti guarda. Si sente mancare il fiato. Una sensazione che la terrorizza, ma al tempo stesso la eccita. Si placa solo quando inizi a scoparla”.
Ci siamo fermate a guardarla mentre fissava le onde tenendosi il cappello di paglia che aveva preso prima di uscire. Cercava di non farselo portare via dal vento.
Quando siamo tornate a casa abbiamo trovato il fuoco acceso nel camino e un paio di guanti da motociclista sul tavolo. Di fianco una bottiglia di liquore senza etichetta. Un liquore rosso alle spezie. Ho messo l’acqua per il bagno e mi sono riempita un bicchiere. Dopo qualche ora, sono tornata di sotto con i capelli ancora bagnati. Marina era sdraiata nella veranda sul pavimento di legno.
“Vuoi scopare?”
“Non lo so. Prova di nuovo a descriverla.”
“Ha un viso molto particolare. Non so altro. Sembra capace di capire al volo le emozioni. Potrebbe essere un’attrice. Pensa di non essere molto intelligente”
“Non è così”
“Lo so “.

Siamo state da Horiente, ha resuscitato i buoi. Solo che il giorno dopo non erano più buoni a lavorare.

Verso sera stavamo facendo l’amore davanti al camino acceso. La stanza era illuminata solo dalla luce del fuoco. Marina era sopra di me, si muoveva avanti e indietro sulla mia bocca tenendosi con le mani alle mie ginocchia piegate. Le passavo le mie sulla schiena sperando che aspettasse prima di chinarsi in avanti per leccarmi. Ho avuto l’impressione che qualcuno ci stesse osservando. Quando sono riuscita a guardare verso la porta spalancata sul cortile ho potuto scorgere soltanto la sagoma di una donna che si stava voltando per andarsene. Marina si era sdraiata di fianco a me, si scaldava vicino al fuoco. Ho accarezzato i suoi fianchi sfiorando inavvertitamente un oggetto appoggiato sul pavimento che non riuscivo a riconoscere. L’ho raccolto per capire cosa fosse: un elastico per i capelli, decorato con due ciliegie rosse di legno. Lei lo ha preso infilandolo a metà sul palmo della mano e ha cominciato a passarmelo sul corpo. Abbiamo atteso che il fuoco si consumasse bevendo il liquore alle spezie. Prima di andare a dormire Marina mi ha chiesto: “Perché va sempre via? Non capisco perché non resta qui con noi. Fino a qualche giorno fa credevo di saperlo, ora non riesco più a ricordare il motivo per cui si deve allontanare continuamente.”
“Pensi che lei lo sappia?”
“Si”.

Durante la notte ho avuto un incubo. Sognavo di essere ai tempi dei nazisti. Avevano appiccato il fuoco alla casa durante un rastrellamento. Cercando un nascondiglio insieme ad un’altra donna, riuscivamo a trovare rifugio in un armadio con un grosso specchio sulle ante. Ricordo l’odore di naftalina al suo interno mentre ci tenevamo abbracciate per farci coraggio. Li sentivo nella stanza mettere tutto a soqquadro. Ero convinta che di lì a poco sarebbero andati via quando il calcio di un fucile ha iniziato a sfondare le ante rompendo lo specchio. Mi sono svegliata in una pozza di sudore proprio mentre un braccio mi afferrava per trascinarmi fuori dall’armadio. Ho cercato Marina di fianco a me, ma il letto dalla sua parte era vuoto, le lenzuola fredde.
L’ho trovata al buio in cucina, impegnata a trasmettere un messaggio con un telegrafo, non c’erano fili attaccati al telegrafo, ma sapevo che stava funzionando ugualmente. Sono uscita nella rimessa e ho staccato la corrente. Quando sono tornata in cucina era ancora lì, con le mani sotto il tavolo e l’espressione di un bambino che si aspetta di essere sgridato.
“Non importa, in ogni caso non fa nessuna differenza, solo non posso lasciartelo fare”.

Il giorno dopo siamo di nuovo andate a scopare sul molo. La stavo bevendo toccandomi il corpo e ho sentito delle mani aggiungersi alle mie.
“Non capisce che cosa ti dia tanto piacere nel fare sesso in questo modo”
“Dille che è l’unica cosa in grado di soffocare i miei pensieri”.

Dopo essere stata sottoposta alla prova dell’acqua, la vostra sorella ci ha raccontato come vi siate recate da Horiente.
Siamo state da Horiente ogni Giovedì notte, ci ha spiegato come aumentare i raccolti e come allevare i nati con la camicia.

Stava leggendo un libro con la copertina rossa seduta vicino al camino, tenendolo aperto sulle ginocchia. Ogni volta che verso sera tornavamo dalla spiaggia trovavamo il fuoco acceso nel camino. Marina si stava masturbando seduta nella veranda. Mi sono avvicinata al camino, ma lei non mi ha prestato attenzione. Continuava a leggere sorridendo. Marina è rientrata in casa.
“Vorrebbe chiederti se ti piacerebbe farla bere come fai tu.”
“Non lo so, quando mi fai domande come queste non riesco a non pensare al tornado qui vicino. Pensi che si stia avvicinando?”
“Non si sposterà mai di un millimetro. Il suo posto è quello”.

Siamo andate a fare un bagno. Abbiamo lasciato le luci spente e ci siamo messe nella vasca dopo aver acceso delle candele. Continuavamo a ridere senza motivo e a massaggiarci a vicenda. Mi sono alzata in piedi nella vasca, le ho messo una mano dietro la nuca. Aspettavo l’orgasmo senza pensare a nulla, come se lei non fosse nemmeno presente. Appena sono venuta si è alzata per baciarmi, ma è scoppiata a ridere cercando di succhiarmi un labbro. Il suo corpo ancora caldo ha impedito ai brividi di allargarsi sulla schiena. Marina si è avvicinata a noi, era vestita come se stesse per uscire. Ci ha messo una mano sulla schiena e l’ha lasciata scivolare in basso.
“Vorrebbe continuare a scopare fino all’alba, ma devo portarti in un posto”.

Ci siamo addentrate nel bosco, la luna piena illuminava il sentiero come se fosse stato giorno. Abbiamo continuato a camminare fino ad un’inferriata verde mezzo arrugginita. Un enorme Fico diffondeva un profumo intenso e dolciastro, l’aria era impregnata dell’aroma dei suoi frutti maturi. Superato il cancelletto abbiamo raggiunto un edificio illuminato con delle lanterne, di fianco all’ingresso si vedevano alcune locandine di film appese in una bacheca. Siamo entrate passando davanti al bancone per i biglietti, era deserto. Marina ha preso due pacchetti di gelatine nere ricoperte di zucchero e mi ha fatto passare oltre sollevando un pesante tendone di velluto, sentivo il suono ovattato degli altoparlanti, mi aveva portata in un cinema all’aperto. Abbiamo camminato in mezzo ai seggiolini di ferro verdi come l’inferriata all’esterno fino a raggiungere la prima fila. Lì alcune persone stavano guardando il film senza fare caso a noi. Mi sono seduta di fianco ad un uomo con un giubbotto di pelle e occhiali scuri. Stava fumando un sigaro alla menta tenendo le gambe distese con i piedi uno sopra l’altro. Marina si è seduta più in là.
“Conosci questo film? E’ stato girato quando eri molto piccola. Qui sei nella casa in cui abitavi”.
Sullo schermo si vedeva una bambina con i capelli lunghi biondi e la frangetta sulla fronte. Stava giocando in giardino con un cagnolino.
“Come fai a sapere che si tratta di me?”. Volevo alzarmi per chiederlo a Marina, ma lui mi ha fermata.
“Non chiedere a lei. Noi stiamo guardando un altro film. Ognuno vede il suo.” Dal fondo della fila una ragazza con gli occhiali a specchio ha detto: “Full Metal Jacket. Il soldato Joker ha appena rimorchiato una prostituta”.
“Io vado pazza per Jodorowsky”. Ha aggiunto un’altra con i capelli lunghi biondi e uno strano accento. Il viso ricordava il muso di un felino.
Mi sono voltata di nuovo verso l’uomo con il sigaro, ma quella con gli occhiali a specchio ha aggiunto: “Con lui perdi tempo. Guarda sempre lo stesso, il suo preferito: Gli Aristogatti”
“Se tanto mi dà tanto, io godo e me ne vanto”. Ha confermato lui.
“Un computer non è in grado di elaborare un’immagine di sé. Per questo sappiamo che non possiede una coscienza. Tuttavia, come possiamo esserne sicuri se non siamo in grado noi stessi di stabilire che cosa sia la coscienza? Non è possibile conciliare l’individuo e la collettività. Se non trovi qualcuno che faccia da tramite non riuscirai mai a lasciare quest’isola”. Mi ha messo una mano sotto il vestito, la ragazza seduta dall’altro lato ha fatto lo stesso. A quel punto ho ripreso a guardare il film e mi sono addormentata sommersa da una piacevole malinconia.

Quando mi sono svegliata avevo la sensazione di essere sola in casa. Sono scesa in cucina dopo essermi vestita, ho cercato Marina in giro per casa, ma non sono riuscita a trovarla. C’era qualcosa di strano in quella stanza, ancora non avevo messo a fuoco di cosa si trattasse. Ho visto la borsa appesa all’appendiabiti, le stuoie erano al loro posto al suo interno. L’ho afferrata al volo e sono uscita, volevo trovare Marina.
Una voce nella mia testa ha urlato: l’orologio!
Ci stavo pensando mentre cercavo Marina sulla spiaggia, ero quasi sicura che l’orologio senza lancette appeso in cucina fosse sparito, sostituito da un grosso specchio ovale. Uno di quelli in cui ci si può specchiare per intero. Non sono riuscita a trovarla da nessuna parte, stavo per rincasare quando l’ho vista sul molo. Era seduta su uno scoglio, nel punto più distante dalla spiaggia con lo sguardo fisso verso il mare aperto. Mi sono incamminata per raggiungerla, ma proprio in quel momento lei si è alzata e mi è venuta incontro.
“Pensavo fossi sparita anche tu, mi hai fatto preoccupare.”
“Non credere sia così facile andarsene di qui. Torniamo indietro?”
“Penso di essere stata in un cinema ieri sera, ma non riesco a capire se ci sono stata veramente o se era parte di un sogno.”
“Ti senti bene? Vuole sapere se ti senti bene.”
“Sì, ho solo fatto un brutto sogno, tutto qua.”

Dopo pranzo ci stavamo annoiando, non sapevamo come passare il pomeriggio. Abbiamo fatto l’amore sdraiate nella veranda, ma non riuscivo ancora a smettere di pensare a quello strano sogno.
“Non ti va? Non capisce che ti prende”.
Ricordavo benissimo quel giorno e il cane. Non ricordavo più il suo nome, ma sapevo che era rimasto con noi per lunghissimo tempo. Cercavo di non pensarci, mi avrebbe messo di cattivo umore. Per distrarci le ho proposto di salire in soffitta e metterci a rovistare in quei vecchi scatoloni accatastati nel sottotetto. Abbiamo passato alcune ore tra giocattoli rotti, disegnini ritagliati per essere usati come bambole e oggetti di ogni tipo. In una scatola da scarpe abbiamo trovato delle foto, una mi ha colpito in particolare. Era una foto di classe, sembrava scattata negli anni ’60. Un gruppo di ragazze in piedi davanti alla macchina fotografica, la prima fila seduta su una panca da palestra. Avevano tutte il volto sorridente e la divisa di una scuola femminile, non riconoscevo nessuna di loro, eccetto una. Non sapevo nemmeno io come facessi a conoscerla visto che la foto in corrispondenza del suo viso era rovinata. Mi sono accorta che lei era rimasta a fissarmi per tutto il tempo. Sotto le foto abbiamo trovato un libro con la copertina rossa, “Il gioco di Diana”. Il titolo era stampato all’interno su una pagina mezzo ammuffita. L’ho aperto a caso e ho iniziato a leggerlo.

Alcuni vengono da Horiente con maschere di animale, lupi, cavalli, cinghiali, buoi. Nessuno da Asino, non è permesso. Ci ha insegnato a salutarla e a preparare…
“Sai di cosa si tratta?”
“No, non lo so, come posso saperlo?”
Sapevo che stava mentendo. In uno dei capitoli che avevo iniziato a leggere una donna di nome Pierina raccontava delle sue visite notturne ad una specie di chiesa. Si trattava di una congrega di qualche tipo. Più avanti spiegava come le avessero insegnato a raccogliere le erbe per ricavarne infusi e tisane, e curare le malattie più comuni. Il giovedì notte era stata da Horiente, erano entrate in una cantina e insieme ad altri avevano bevuto tutto il vino dalle botti. Un gruppo di uomini mascherati l’aveva stesa su una tavola e si erano uniti a lei facendole perdere la verginità. Per questo Pierina era stata condannata ad essere incatenata ai ceppi.
Quando siamo tornate di sotto ero esausta, non sapevo neanche se sarei riuscita a restare a parlare con Marina prima di andare a letto. Ci siamo sdraiate nella veranda, un gruppo di nuvole stava passando davanti alla luna. Il riflesso della sua luce le faceva assomigliare alla testa di un cane addormentato. Una testa gigantesca che lentamente si stava dissolvendo sotto un riflesso bianco.

Donne di fori, banchettavano nei castelli o sui prati. Avevano zampe di gatto o zoccoli equini. Si congiungevano continuamente come animali.

Mi ha svegliato nel cuore della notte per condurmi un’altra volta al cinema in mezzo al bosco. La luna stava scendendo dietro la foresta, sembrava che i rami prendessero vita assumendo delle fattezze umane. Non avevamo ancora raggiunto l’inferriata quando mi sono accorta di una donna sulla nostra sinistra, giaceva sdraiata sopra una grossa roccia completamente nuda. Non ci siamo fermate. Dopo qualche metro ho provato a voltarmi per essere sicura di quello che avevo visto. Intorno a lei c’era un gruppo di uomini vestiti con abiti scuri, quasi invisibili nel buio del bosco. Si stavano masturbando sul suo corpo. Lei si passava le mani sul seno e sulle gambe, ma più che dal loro seme sembrava trarre piacere dalla luce della luna che la investiva in pieno. Il film come la volta precedente era già cominciato. Vedevo le teste degli spettatori sporgere sopra i seggiolini, da uno di questi salivano delle nuvolette di fumo denso verso lo schermo. Mi sono di nuovo seduta di fianco all’uomo con il giubbotto di pelle.
Ero in palestra dopo la scuola, insieme alla mia compagna di banco, fine anni ‘80. Ridevamo sedute vicino ad una cesta piena di palloni da basket. Mi faceva vedere una cassetta che aveva duplicato per me, tirandola fuori dalla tasca di un giubbotto di pelle verde chiaro con una spilla tonda sul colletto. Una di un gruppo musicale credo, due ragazzi biondi al centro con i capelli lunghi. Nel film mi avvicinavo per baciarla, di punto in bianco. Lei rideva tirandosi indietro. Quando però le infilavo una mano sotto la minigonna di jeans diventava improvvisamente seria. Mi lasciava fare per un po’, ma ad un certo punto si alzava di scatto e correva via. Nella scena successiva si vedeva l’incendio di Dresda durante la Seconda Guerra Mondiale. Poi io che vomitavo nel bagno della scuola. Mi sono voltata verso l’uomo con il giubbotto di pelle, mi aspettavo che dicesse qualcosa. Invece è rimasto a guardare lo schermo e ha continuato a fumare senza dire niente. La ragazza con lo strano accento ha mimato con le mani un uccello che spicca il volo. L’altra con gli occhiali a specchio era seduta nel posto subito dopo il suo.
“Ti piace l’odore del Napalm al mattino?”. Vedevo sui suoi occhiali il riflesso del film. Anche lei non mi ha prestato attenzione, parlava senza voltarsi. Era poco tempo dopo la palestra. Stavo facendo l’amore con due ragazze, c’era anche un ragazzo. Cercava di prendermi da dietro senza riuscirci. Non so per quale motivo esattamente, forse volevo evitare di continuare a guardare il film, ma mi sono alzata per tornare a casa. L’uomo con il giubbotto di pelle stava bevendo del latte dalla bottiglia.
“E’ crema di crema alla Edgar, roba che ti fa robusto!”
Mentre parlava si è rovesciato il latte addosso, lasciandolo colare sul mento. Sono scappata correndo in mezzo ai seggiolini, in una delle file centrali una ragazza bionda teneva in mano una bambolina di gomma di Topolino, le muoveva le braccia mentre una donna inginocchiata ai suoi piedi la leccava in mezzo alle gambe.
Una volta a casa sono salita di corsa in camera e mi sono messa sotto le coperte senza spogliarmi. Ero sicura che avrei fatto quel sogno con i nazisti, invece mi sono addormentata subito e ho continuato a dormire fino a pomeriggio inoltrato.

Le ho cercate inutilmente per tutto il resto della giornata. Mi ero vestita in fretta dopo essermi fatta una doccia, avevo la sensazione di dovermi sbrigare anche se non sapevo spiegarmi per quale motivo. Quando ha iniziato a fare buio ho smesso di cercarle. Sono tornata indietro convinta che le avrei trovate ad aspettarmi, ma mi sbagliavo. Il fuoco era acceso come al solito, mi sono scaldata di fianco al camino e ho deciso di fare un ultimo tentativo nella rimessa dietro la casa. Non erano neanche lì. La bicicletta di Marina era appoggiata come al solito sul muro di fianco alla porta sul retro. La ruota di un carro, una barca a remi coricata su un fianco. Stavo per tornare dentro, ma qualcosa mi ha trattenuto. Al centro del cortile avevano messo insieme una pira, ammucchiando in cerchio una serie di pali di legno. Ho sentito il bisogno di tornare in casa per bere un bicchiere del liquore alle spezie.
Guardavo continuamente verso la porta sperando di vederle entrare da un momento all’altro. Non è stato così. Mi sono addormentata di fianco al camino, seduta sul pavimento con le ginocchia tra le braccia.
Il calcio del fucile rompeva lo specchio picchiando furiosamente contro le ante dell’armadio. Marina mi stava abbracciando in lacrime, il suono di un telegrafo ha coperto quello dei colpi contro l’armadio e ho iniziato a strangolarla.
Mi sono svegliata di soprassalto, il fuoco era ormai quasi spento, la stanza illuminata soltanto dalla luce della luna. Stavo per mettermi a cercare il libro con la copertina rossa nel cassetto del tavolo in cucina, quando mi è venuto in mente che forse le avrei trovate nel cinema all’aperto. Sono passata davanti allo specchio, prima di uscire. Non volevo vedermi riflessa, ho girato la testa da un’altra parte.
Entrata nel cinema ho riconosciuto subito l’uomo con il giubbotto di pelle, seduto in prima fila come le altre volte. Ero sicura che la persona di fianco a lui fosse Marina. Aveva la testa appoggiata alla sua spalla. Nella fila dietro di loro ho visto la ragazza bionda con lo strano accento. Guardava il film seduta con le gambe accavallate, era completamente nuda. In braccio teneva un maialino, mentre lo accarezzava dolcemente mi ha strizzato l’occhio. Mi sono avvicinata all’uomo seduto vicino Marina, la donna con gli occhiali a specchio era seduta sui talloni di fronte a lui, gli stava succhiando il cazzo. Ha alzato lo sguardo verso di me.
“Il cervo va preso con un colpo solo, altrimenti non è leale”. In quel momento l’uomo con il giubbotto di pelle le è venuto in faccia. Le sue labbra si sono distese in un sorriso, mentre si leccava lo sperma che colava dagli occhiali da sole. Ho avuto l’impulso di andarmene, solo che dietro di me la ragazza con la bambolina di Topolino camminava nuda al centro del corridoio, muovendosi lentamente con le ginocchia rigide e le braccia protese in avanti. Mi sono affrettata a sedermi di fianco a Marina. Fortunatamente il seggiolino vicino al suo era libero. Rannicchiata contro la sua spalla speravo di passare inosservata.
“Questo è quando ci siamo conosciute. Ricordi?”
“Sì”.
Ero nuda in camera da letto, sembravo sul punto di piangere. Guardavo la neve fuori dalla finestra. Forse Marina era in strada, ero convinta che fosse quello il motivo per cui mi sentivo triste. La stavo guardando dalla finestra mentre mi lasciava sola. Nella scena successiva i nazisti incendiavano una pira come quella che avevo trovato sul retro della casa, gettandovi sopra dei libri. Uscivo di casa per cercarla, ancora nuda. Le strade erano deserte, camminavo a lungo sotto la neve prima di trovarla. Mi fissava da dietro la vetrina di un negozio. Sono andata verso di lei, la vedevo allontanarsi dietro il vetro. Con le mani appoggiate di fianco agli occhi guardavo dentro il negozio, solo per accorgermi che non c’era nessuno al suo interno. Lasciavo scivolare le mani sulle guance. L’inquadratura ritornava nella mia camera, venivo ripresa di spalle mentre giravo la testa per guardarmi la schiena. In quel momento mi sarei accorta di un segno che mi aveva lasciato proprio sopra una scapola. Una lettera maiuscola forse. Ho desiderato fare l’amore con Marina, ma l’uomo di fianco a lei si è alzato in piedi.
“Vuoi provare il mio tappeto magico?”

La mattina seguente sono andata a fare il bagno da sola, vicino al molo. Sapevo che non le avrei riviste fino a sera. Nel pomeriggio ho ripreso a leggere il libro trovato in soffitta. Mi sono seduta nel frutteto vicino ad un melo. Era carico di piccoli frutti, alcuni erano già caduti a terra e stavano marcendo intorno alla pianta. Saltavo da un capitolo all’altro, senza seguire un ordine preciso. Nuvole dense di pioggia si alzavano alle spalle del bosco passando con la loro ombra sull’isola. Una giovane donna raccontava di un cavallo, senza sella ne briglia. La seguiva mentre camminava nel cuore della notte attraversando una foresta. Erano giunti fino ad un fienile abbandonato dove lei si era addormentata. Alle prime luci dell’alba si era svegliata di fianco ad un uomo nudo con cui si era unita subito dopo. Altre donne lasciavano i mariti addormentati nei loro letti per uscire di nascosto e recarsi da Horiente. Quasi sempre il giovedì notte. Gli era stato insegnato come avere cura del corpo e trarne piacere per puro e semplice divertimento. Stavo ancora leggendo quando mi sono accorta di essere osservata. La ragazza con lo strano accento che avevo incontrato nel cinema era ferma sul limite del bosco. Indossava un vestito rosso lungo. Le spalline abbassate in modo che le lasciasse scoperti i seni.
Si è voltata addentrandosi tra gli alberi. Ho usato una foglia come segnalibro e mi sono incamminata per seguirla. All’interno del bosco non riuscivo più a trovarla. Sapevo che era ancora presto, ma non riuscivo a resistere all’idea di rivedere Marina. Ho pensato di cercare il cinema all’aperto, anche se temevo che a quell’ora non sarei stata in grado di trovarlo, per qualche specie di incantesimo forse. Ho percorso il solito sentiero, il cinema era lì al suo posto. L’inferriata verde e il cancelletto socchiuso. Sono rimasta sotto il Fico qualche minuto per riempirmi i polmoni del suo profumo.
I seggiolini di ferro erano tutti vuoti. Mi sono seduta nella prima fila, decisa a riprendere la lettura del libro fino a quando non avesse fatto buio, ma mi sono addormentata. Ho riaperto gli occhi davanti al film già cominciato. Il primo spettacolo, la luce del giorno era ancora troppo forte e le immagini si proiettavano sullo schermo completamente sbiadite. Qualche posto più in là Marina stava mangiando popcorn da un enorme secchiello bianco e rosso. Si è avvicinata per sedersi di fianco a me, lasciando un seggiolino vuoto nel mezzo in modo da poterci appoggiare i popcorn. Il film era muto: alcuni studenti della Gioventù Hitleriana facevano ginnastica in una palestra. Subito dopo una scena in cui io e Marina ci stavamo baciando in una camera da letto. Entravamo in un grosso armadio a specchio per scopare. Da una fila dietro la nostra ho sentito la voce dell’uomo con il giubbotto di pelle.
“Hai mai fatto caso a come alcune canzoni dei Deep Purple fossero già simili allo speed metal degli anni ’80? Non ho mai avuto troppa simpatia per l’impegno sociale di Dave Mustaine, però bisogna dire che lo speed come lo suonavano loro nei primi album non è riuscito a farlo nessun altro. Le chitarre sembravano ancora quelle dei gruppi rock degli anni ’70.
Usare l’imitazione per definire la personalità è un’azione tipica della coscienza. Un computer può soltanto produrre delle copie. Riesce persino a imparare archiviando i propri errori, ma non è in grado di elaborare un’immagine di qualcosa imitandola. Secondo Edgar Allan Poe i poeti inglesi non hanno saputo produrre liriche paragonabili a quelle dei Greci, anche se i loro versi erano comunque degni di nota. I suoni dei loro monosillabi erano troppo vicini a quelli della lingua inglese. In altre parole, cercando di imitare uno stile ne hanno prodotto uno nuovo”.
Il calcio del fucile ha iniziato a far tremare l’armadio, ho visto aprirsi uno squarcio nel legno mentre mi tenevo abbracciata a Marina. Una mano in un guanto da motociclista si è infilata in mezzo, il braccio in un giubbotto di pelle è rimasto aggrappato all’anta con il gomito piegato. Ho visto un occhio avvicinarsi alla fessura per guardare dentro, subito dopo la mano mi ha afferrata e sono svenuta.
Mi sono risvegliata nella casa vicino al mare. Sono scesa in cucina e mi sono avvicinata allo specchio ovale. Marina stava venendo verso di me. Ho teso una mano per toccarla e l’ho appoggiata contro la superficie liscia dello specchio. Mi sono portata la mano alla bocca tenendola ferma di fianco alle labbra, continuavo a fissarla. Ho passato un dito sulle sopracciglia, sul viso. Lei ha fatto lo stesso.
Sul tavolo le foto erano ancora sparpagliate da quando ci eravamo sedute a guardarle. Le ho raccolte e sono uscita per dirigermi verso il tornado. Ho raggiunto l’ingresso all’interno di un oratorio fatiscente, nel bosco. La donna con lo strano accento mi aspettava, era in piedi su un lato della porta e teneva in mano una cesta. Quando mi sono avvicinata mi ha fatto vedere cosa conteneva.
“Castagne d’India? Non sono commestibili lo sai?”. Ho sfiorato i ricci con la mano, cercando di non pungermi.
“Lo so, sono amarissime”.

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