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Sensazioni

La Caduta. Dell’inferno di Eria e del proseguire della caccia.

By 22 Febbraio 2022No Comments

Eria ringhiò la sua sfida al cielo mentre emergeva dall’acqua. Aveva nuotato, lottato contro le correnti, conteso la propria sopravvivenza all’oceano. Si abbatté sulla spiaggia, tossendo un fiotto d’acqua salmastra. Era viva. Si alzò e forzò il corpo stanco a restare in piedi.
Ora stava da vedere se anche Alexander Varus era ancora dal giusto lato della tomba, e soprattutto, se la lama era ancora nelle sue mani. Trovò uno suo coltello poco distante.
Il fato l’assisteva avrebbe detto qualcuno, ma lei conosceva la verità.
Si guardò attorno. La spiaggia pareva un campo di battaglia. Morti e rottami ovunque.
Il naufragio si era consumato, ma tra tutti quei morti doveva esserci qualcuno vivo!
Vagò di corpo in corpo, costatando decessi senza provare nulla se non irritazione.
La trovò poco dopo. Una giovane, il viso sfregiato da graffi, una gamba piegata innaturalmente. Sicuramente doveva essere stata bella, almeno un tempo.
La ragazza giaceva sul bagnasciuga, apparentemente inerme. Eria si avvicinò.
Non era brutta: era una bella giovane. In un altro momento, in un altro luogo, Eria l’avrebbe potuta considerare più che una mera fonte di informazioni.
La donna strinse il pugnale, l’ultimo rimastole, nel pugno serrato. Scosse con l’altra mano la giovane. Nessuna reazione. La girò. Morta? Sì. Apparentemente sì. Cercò il battito a lato del collo. Niente. L’irritazione crebbe ancora ma Eria si limitò a espirare, calmandosi.
Avrebbe dovuto cercare quel giovane e lo avrebbe trovato, avesse dovuto rivoltare quel lembo di terra come un guanto.
Strinse il pugnale. La caccia non era finita. Si fece forza per proseguire, guardandosi attorno. Cibo. Cibo, acqua, informazioni e un po’ di riposo, questo le serviva. Lo avrebbe trovato. Sarebbe sopravvissuta, a qualunque costo.
Vide qualcuno. Un uomo, distante. Pareva anziano, in là con gli anni, avvolto in semplici vesti in lana. Osservava quella strage come allucinato, chinandosi sui corpi. Sorrise: avrebbe iniziato da lui. Lo raggiunse furtiva, il passo lieve come la brezza.
Quando se la trovò davanti, l’uomo non ebbe il coraggio di urlare, ma guardandola mormorò una supplica ai suoi Dei.
Nel cielo, corvi gracchiarono, come ad assaporare il pasto imminente.

L’uomo e la moglie erano stati collaborativi, molto. Non c’era stato bisogno di molto dolore, ma la loro paura per lei era come vino pregiato, un nettare da gustare con reverente lentezza. Eppure sapeva che il tempo ora come ora era dalla sua.
L’uomo, un tale Jacobus, aveva parlato della città fondata dai discendenti di un uomo chiamato Cassius e i suoi. Eria aveva assorbito la storia con poco, pochissimo interesse.
Mutamenti, nascite, morti… Erano tutti eventi di assoluta e totale ininfluenza per lei.
Lei, che aveva trasceso i limiti della carne mortale….
Spronati a descrivere l’insediamento, Jacobus e Tia, sua moglie, si erano rivelati una preziosissima fonte di informazioni. Eria ora sapeva come fosse fatto il villaggio e come entrarvi. Il fatto che non avesse visto grandi scontri era solo un ulteriore vantaggio.
Poi giunse un problema, un inconveniente.
L’inconveniente era stato un uomo armato di spada, una guardia cittadina. Lui e altri due erano giunti nel pomeriggio a chiedere notizie di Jacobus e sua moglie e a verificare se ci fossero stati altri superstiti al naufragio.
Il terzetto aveva trovato la coppia stesa a terra nel sangue. Rapidamente si erano divisi per cercare gli assassini, ritenendo di poter contare sul loro addestramento.
Il primo, un giovincello di appena vent’anni, era spirato quando la donna gli era caduta addosso da sopra un albero, affondandogli la lama nel torace e recidendo l’arteria succlavia. Non aveva fatto a tempo a urlare ma il rumore aveva attirato il secondo e il terzo uomo. Trovato il corpo, i due non si erano divisi, ma poco era cambiato.
Eria li aveva travolti. Anche con una lama sola, era una guerriera pura che dell’arte della lama aveva fatto motivo di vita e vanto, oltre ad avere un’esperienza esponenzialmente maggiore di quei dilettanti che, stando a Jacobus, non vedevano una guerra da mesi.
Aveva tenuto in vita l’altra guardia il tempo necessario da capire le ultime cose, carpendo le informazioni mancanti per infiltrarsi nel villaggio. Aveva poi dedicato i giorni successivi a nutrirsi, curarsi ed esplorare l’isola, comprendendo che era piccola e spoglia.
Pregustava ora la fine della caccia. Forse, se Varus le avesse ceduto la Lama, forse gli avrebbe permesso di vivere, per raccontare chi era lei. Ma ne dubitava.
L’agonia altrui, la paura e il terrore erano nettare per lei. Godeva di simili emozioni negli altri quanto avrebbe potuto godere del sesso, o di un banchetto. Si avvicinò alla fortezza. Nessun travestimento, abiti pratici e comodi e nessuna corazza. La palizzata, presidiata da due guardie, pareva invalicabile.
Illusione della sicurezza, così come a Licanes, a Ulthas e in mille altri tempi e luoghi.
Attese che le guardie si muovessero, memorizzò percorsi e punti sguarniti.
Osservò chi pareva vigile e chi non. Pianificò il tutto con cura.
La sua paziente attesa diede frutto ed eliminate le sentinelle esterne, penetrò nel perimetro. Falciò rapidamente una guardia assonnata mentre si faceva strada in quel villaggio, ignaro della sua presenza, inerme. Purtroppo, non durò.
L’uomo che uscì dalla casa la vide e urlò un allarme. Non servì: Eria lo spacciò con un rapido fendente, senza neanche rallentare.
La donna dentro la casa urlò. Urla, urla e furore. Come a Licanes e in ogni altro luogo dove la furia della guerra era riuscita a giungere.
Ma per lei, era la norma. Non attese le guardie e non fuggì: caricò il gruppo di uomini con un ghigno. Qualcuno di loro pareva persino confidente ma la sorpresa albergava chiara sui loro volti. E con essa, la subitanea, sottile paura.
Perché solo una pazza si sarebbe lanciata contro di loro con un coltello in pugno.
Solo una pazza avrebbe osato andare in battaglia senza armatura.
E solo una pazza avrebbe riso come lei stava ridendo. Il primo affondò la lancia.
La mano di Eria sferzò l’asta dell’arma, deviando l’affondo. Afferrò l’arma sotto il braccio e impresse la torsione. Sbilanciò l’uomo, deviando nel contempo le altre lance ed evitando di esporsi. Balzò in avanti. Giunse a contatto. Il primo ad attaccare fu il primo a morire.
Gli altri improvvisamente conobbero il panico: troppo vicina, troppo agile e loro troppo goffi. I fendenti della guerriera piovvero su di loro con metodo e le guardie caddero.
Improvvisamente, Eria vide due figure in fuga. Sorrise, con un ghigno.
Alexander Varus e una donna. Forse la lacchè di Aristarda Nera? Poco importava.
Le urla e i passi attorno indicavano l’arrivo di altri nemici. Afferrando una lancia, Eria sorrise. Che Varus fuggisse pure con tutto l’agio: conosceva quei mari. Li conosceva bene.
Trapassò il petto di un soldato con la lancia, sollevandolo da terra mentre si dimenava.
Gli altri due, dietro di lui, osservarono la fine fatta dal compagno e dagli altri.
Eria sorrise. Bevve la loro paura. Fu scossa da un tremito di delizia.
-Scappate.-, sibilò. I due fuggirono gettando le armi. Panico. Panico in tutto il villaggio.
La gente fuggiva verso le colline, verso i due edifici che lei sapeva essere templi, e verso quello più umile che riconosceva essere il palazzo del consiglio, in pietra antica.
-Venerano ancora gli antichi dei ma da essi non hanno ottenuto alcuna virtù.-, disse, sprezzante. Notò un giovane. Stringeva un coltello. La fissava con ira.
-Vattene.-, disse soltanto. Il giovane strinse la lama. Davvero? Quel ragazzo voleva morire?
Avanzò di un passo. Percepì la paura del ragazzo. Montava. Come un’onda, acquisiva forza a dispetto delle fragili dighe di volontà che il giovane aveva eretto. Non era un guerriero.
-Non ti ucciderò, ma vattene ora.-, disse. Lui attaccò con rabbia. Lo fece nel modo sbagliato, al tempo sbagliato, con il ritmo sbagliato. Sbagliò tutto ciò che poteva sbagliare.
Eria avrebbe potuto ucciderlo sei volte. Prima che il fendente partisse, durante l’assolutamente patetico attacco, durante la schivata da lei eseguita o durante il riposizionamento. Magari anche dopo, durante l’affondo successivo con un urlo che la fece solo ridere sguaiatamente. Ma non lo fece. Schivò l’affondo afferrando la mano del giovane, torcendo per costringerlo a mollare la lama. Tirò il giovane verso di sé, appoggiandogli la lama alla gola. Lui parve perdere tutto il coraggio. Tremava.
-Sei un idiota. Ne conoscevo altri come te. Uno solo ebbe la forza di essere ciò che doveva.-, sibilò, -Tu non sei lui. E neppure lo diventerai.-. Il giovane si fece forza. Cercò di divincolarsi, fallì. E infine, parlò, in bilico tra disperazione, rabbia e accettazione.
-Hai ucciso mio padre!-, ringhiò. Eria annuì.
-Ne uccido molti, di padri e figli, di mariti e amanti. Tu non vuoi morire.-, disse.
-Maledetta! Sii tu maledetta per tutti i tuoi anni a venire!-, ringhiò lui. Lei sorrise.
-Entro certi limiti, lo sono già.-, disse. Era divertita, intrigata.
“È forse questo il mio limite?”, si chiese, “L’essere immortale mi ha privata di questo?”.
Il fuoco nel cuore di quel giovane, così simile a…
Bandì quei pensieri. Aveva una missione, un obiettivo. Assaporò la paura di lui, per un attimo ancora, inebriandosi di un nettare inconcepibile alla mente dei mortali.
-Non morirai per mano mia.-, disse. Poggiò le labbra su quelle del giovane. Lui cercò di resistere, ma lei sorrise. A contatto com’erano, avvinghiati e intimi come amanti, era impossibile non accorgersi quanto fosse combattuto. Odio e lussuria, finanche lì.
Eros e Tanathos erano binomio, dualità assurda ma totale, e tanto perfetta da far male. Ora anche quel giovane ne aveva avuto un assaggio. Eria sapeva, con assoluta certezza, che sarebbe vissuto. Che non avrebbe vissuto una vita mortale, come le altre.
E che mai, mai più, avrebbe riprovato qualcosa di simile. Assorbì quel momento, mentre si staccava e rifilava una ginocchiata al giovane, che colto ai testicoli si piegò, come un giunco. Non paga, la donna lo colpì alla nuca con l’impugnatura del pugnale.
Stramazzò al suolo. Il tutto era durato pochissimo. Ma per lei…
Per lei era un eco da un passato tanto distante da essere quasi indistinto.
Nel fremito di quella che poteva vivere solo come una tempesta di sensazioni squisite, si fece largo il passato, con una veemenza che la lasciò basita.
Ricordò. Per un breve, straziante istante, ricordò. Una vita prima, intere esistenze prima.
Urlò di rabbia al cielo stellato. Urlò di disperazione per quel fato ingrato.
Oh, come ricordava! Come non poteva evitare il ricordo!
Persa nell’istante dovette apparire vulnerabile. Due nemici si fecero d’appresso.
Ed Eria reagì. Schivò l’affondo di uno e applicò una leva rapida, mentre il coltello abbandonava la sua mano per andare a conficcarsi nel corpo dell’altro.
Concluse la proiezione scagliando il malcapitato a terra, trafiggendolo con la sua stessa lancia un istante dopo e recuperando il coltello dall’altro morto.
Ma nonostante quell’ennesima vittoria, il passato non la lasciò andare, non tanto facilmente. E che ricordi le giunsero!
Battaglie di anni, secoli prima. Gli occhi di un uomo, così diversi e uguali ai suoi!
Parole nel silenzio, improvvisamente… Lame sotto cieli crudeli.
Stragi e tradimenti, e ancora quegli occhi, e quella bocca sulla sua!
I pensieri le vorticavano in testa. Marciò lungo la strada. Falciò un uomo dagli occhi grigi, senza quasi percepirne la presenza. Il ricordo non voleva lasciarla.
Ringhiò di rabbia incoerente mentre avanzava. Trovare la Lama, riprenderla.
Riprendere il controllo. Prendere l’Impero. Regnare, come sarebbe dovuto essere.
Come non era stato. Regnare…
Le mani di quell’uomo sui suoi seni, oltre ogni possibile previsione, così sbagliato…
E così maledettamente giusto… Le sue mani sul suo petto a graffiare, ad ascoltare il cuore.
Un cuore che avrebbe dovuto sradicare dalla sua sede, ma che invece…
Regnare… Sì!
La sua lingua nel suo centro più segreto, a disegnare arabeschi di liquido piacere, la sua gola arrochita da versi di godimento che non avrebbe mai più creduto possibile esprimere.
Regnare! Si strappò alla memoria, un grido immane sulle labbra.
-Ti odio…-, mormorò a qualcuno morto da molto tempo.
Era falso. Ed era vero. Lo odiava. Lo aveva odiato come nessuno mai, ma solo dopo averlo amato come non ricordava di aver potuto fare con nessuno, mai prima né dopo.
E tutte le donne e gli uomini, prima e dopo, erano stati solo una mera esperienza, piatta, priva di reale profondità, meno che un rito, mera prassi, una misera medicina insapore, ricordo vacuo di quel momento così splendido.
-Muori!-, ringhiò qualcuno. Evitò la lancia ma non senza sentirne la punta graffiarle il costato. Fese dinnanzi a sé, aprendo una seconda bocca nel collo di quell’ennesimo uomo.
La loro tecnica era patetica, la loro ira era una pallida eco della sua, la loro vita…
Quella forse era la sola cosa che lei non poteva vantare. Una vita mortale, l’unica vera.
Ma nessuno di loro era una minaccia. Nessuno in assoluto. In condizioni normali, sarebbe già stata in grado di prendere la lama e avrebbe già abbattuto Alexander e la ragazza che era con lui. Tuttavia non era in condizioni normali, eppure la sua capacità, affinata in secoli di guerra e pratica l’avevano portata a un livello che rendeva l’abbattimento di un nemico poco più che un automatismo. Abbatté un altro nemico con pochissimo sforzo.
-Dov’è il vostro dio ora?-, chiese a tre guardie mentre scappavano.
Individuò i due in fuga. Uscirono da un varco nella palizzata. Sorrise.
E ancora, giunsero i ricordi. Fiamme, morte, urla. Un’eternità prima.
I ricordi pressavano ancora. Implacabili e ben più temibili dei suoi nemici in carne ed ossa.
Perché i nemici più temibili, forse alla fine erano dentro di lei, e dentro tutti quanti.
Alla luce della luna piena, conscia di essere una visione infernale per chiunque, fissò la barca che si allontanava in fretta.
“Puoi fuggire sino ai confini del mondo, ma non andrai mai abbastanza lontano!”, giurò.
Dietro di lei, le grida si erano placate. Eria non ne era pienamente cosciente. Sentiva solo…
Un senso di sicurezza? Predestinazione? Possibile? Osservò la barca sapendo senza poter dire esattamente come che anche i fuggitivi sapevano. Si sarebbero incontrati di nuovo.
Si volse verso il villaggio. Non aveva fretta. Conosceva bene le leggende e sapeva dove sarebbero andati i fuggitivi. Povero Alexander! Povero illuso. Non sapeva.
Forse la ragazza che era con lui era Vera Nemlia, le era parsa di vederla sulla nave, in tal caso avrebbe anche potuto essere interessante. La prima guardia di Aristarda Nera si era rivelata tanto interessante quanto coriacea. Era una dei suoi nemici. Una Justicar.
Camminò lenta, combattendo con i ricordi. Erano ancora forti. A tratti tornavano, spalancando abissi dentro di lei, suscitando un’ira e un dolore inconoscibili a quei miseri uomini e donne che, terrorizzati, si erano asserragliati nei templi degli Dei.
Camminò sentendo il vento sulla pelle esposta, il calore del sangue dei nemici sul viso.
Oh, quante e quante notti simili aveva conosciuto! Ma nessuna come quella…
Nessuna come quando vide la fine del suo sogno. E capì di dover fare ciò che andava fatto.
Si ricordava assai bene come fosse accaduto, ne covava l’acredine come aveva fatto da principio, un odio potente come alla nascita, antico e indomabile.
D’altronde, aveva mai conosciuto altro? Sì! Sì, l’aveva fatto.
Con la mente, ritornò al passato, prima della morte di quel sogno, prima della consapevolezza che lei mai, mai sarebbe stata benedetta con una simile grazia.
Il prima era un conflitto costante. Prima con i nemici della sua gente, fiera guerriera tra le fila di eserciti gloriosi, poi con quella stessa gente. E infine…
Infine fu il vagare, il maledire il cielo e gli dei per l’assenza di un significato, di un fine.
Poi la speranza. L’accettazione. Il ritorno. L’amore.
E che amore fu! Sollevato dalla pace, dalla speranza di unità!
E poi, il tradimento.
Strinse i pugni, sentendo le unghie affondare nella carne, scossa dall’odio, dalla rabbia.
Come aveva potuto!? Come aveva osato?
Era stato lì che aveva iniziato. Che il suo odio, come un’onda anomala l’aveva travolta.
Ricordava la lama nella sua mano. Lo sguardo di quell’uomo. Il dolore…
Ricordava di aver urlato, piangendo mentre si rendeva conto di ciò che aveva fatto, di ciò che era divenuta. E mentre le lacrime le solcavano il viso, accettò quieta il fato.
La reclusione fu dovuta. Era fuggita nel Tempio della Dea del Kelreas. E lì era rimasta.
Salvo pochissime eccezioni, da lì aveva diretto i suoi seguaci che aveva lentamente organizzato, una Stirpe occulta, avvolta nell’ombra, ammantata di regalità negata.
E poi, li aveva conosciuti. Guerrieri dalle lame argentee, avvolti in manti scuri.
Justicarii. Parlare con loro non aveva avuto senso. E di fatto, era incominciata la lotta.
Nessuna vera battaglia, solo schemi dentro schemi, pedine mosse come su una scacchiera.
Piani lunghissimi, diversioni, scaramucce, assassinii e caos. Spesso i Justicarii riuscirono a vedere eletto un loro alleato al Trono Imperiale, ma Eria si era assicurata che tali regni non perdurassero mai. Finché, non le era giunta notizia.
Una profezia detta da un anziano sacerdote che lei stessa ebbe modo di incontrare.
Il tempo della Stirpe, il suo tempo, era prossimo. Ma solo se l’Abraxes fosse stato in mano sua. Amsio Calus, uno dei pochi membri della Stirpe ad aver accuratamente celato il suo segreto agli occhi dei Justicarii, aveva a lungo tramato. Le iniquità di Septimo, il sacrilegio, tutto previsto, da tempo. La guerra civile che avviluppava l’Impero di Roma era stata prevista, finanche architettata, in parte. Una purga in cui affossare tutti coloro che non avrebbero accettato il regno della Stirpe. Ma anche quel conflitto era secondario.
La lama, la Prima Lama, solo quella contava.
Era stato furbo Socrax a sottrarla! Ancor più furbo ad avvalersi della sua fama per non poter essere attaccato e della protezione di pochi, occulti alleati per non farsela sottrarre!
C’era un motivo tuttavia per volere quella lama, e non era solo per il suo essere una reliquia. C’era ben altro!
-La riavrò.-, sussurrò al vento notturno. Si volse verso la città. Avanzò. Prese una torcia.
La popolazione era nei templi. Erano pochi. Un villaggio di così poche anime…
Eria osservò le porte del tempio di Yneas. Era convenzione rifugiarsi tra le mura dedicate al Dio dei Morti, affinché la falce della fine non toccasse coloro che qui trovavano rifugio.
E se fosse stata una guerra, tale convenzione sarebbe stata onorata. Aprì le porte.
-Ti prego…-, mormorò un sacerdote. Era un vecchio. Dietro di lui, dentro il tempio, c’erano gli altri. Donne e bambini, anziani, giovani, feriti e storpi.
Una stirpe patetica e misera. Priva della forza che aveva un tempo millantato.
-Ti supplico, lasciaci vivere… noi non ti abbiamo fatto nulla! Come puoi… come puoi volere la nostra morte? Siamo gente pacifica…-, sussurrò il prelato.
Eria annuì. “È proprio questo il punto. La vostra pace è falsa”.
Agì fulminea, abbattendo il sacerdote con un colpo di lama. Gemiti, urla.
-Maledetta!-, ringhiò qualcuno. –Che Yneas ti prenda!-, mormorò qualcun altro.
Eria sorrise. Aveva alzato il cappuccio, ma sentiva comunque il terrore, l’oltraggio degli uomini e delle donne che aveva davanti. Rinfoderò il pugnale.
-Chiunque voglia vivere, deve solo superarmi. Chiunque ci riuscirà avrà salva la vita.-.
Le sue parole suonarono così pacate da apparire un sogno. Una giovane si alzò.
Aveva circa ventisei anni. Era una bella ragazza, dal viso piacevole, gli occhi azzurri e i capelli biondi. Eria sorrise. La giovane si guardò attorno, nervosa. Palesemente.
Eppure, aveva scelto di alzarsi. Rispettabile. Fece un respiro e scattò. Non verso Eria.
Lei la lasciò correre, il tempo si dilatò come un nastro di velluto mentre lo scatto della ragazza prendeva velocità, il sorriso lento si disegnava sui lineamenti, speranza, cieca.
Poi, finì. Eria si mosse. Colpì al fianco. La ragazza incespicò, s’interruppe, la respirazione alterata dalla botta al fianco. La guerriera non si fermò: afferrò il braccio della giovane e applicò una leva rilanciando la ragazza all’interno del tempio.
La bionda si rialzò. Voleva riprovarci. Palese. Eria annuì. Lasciò che riprendesse fiato.
Stavolta si lanciò verso di lei. Il pugno della ragazza fu prevedibile, le bastò deviarlo per sbilanciarla. Un calcio al ginocchio la fece cadere ai piedi della guerriera.
-Ancora.-, sibilò Eria. S’inebriava di quel momento. La ragazza ringhiò qualcosa. Lacrime di furore e disperazione le scorrevano sul viso. Si alzò. Si vedeva che il ginocchio la reggeva appena. Eria aveva colpito con scientifica precisione, sapendo di condannarla a lottare contro un dolore del genere, oltre che contro di lei. Una battaglia senza speranze.
La giovane però pareva di diverso avviso. Attaccò a pugni, in modo talmente goffo da essere quasi comico, presa dalla rabbia cercò di mordere Eria. La donna rise.
Poi colpì, seriamente. Il primo colpo fu di taglio al viso. Bloccò il resto degli attacchi sempre più fiacchi della giovane. Proseguì con due colpi rapidi ad altezza delle reni.
La giovane si piegò, sofferente. La guerriera sciabolò alle caviglie, facendola cadere mentre con la palma della mano imprimeva una spinta. Il tutto era durato pochi istanti, nulla più.
La ragazza crollò a terra, cercò di alzarsi ancora. Eria rise di nuovo, crudelmente.
Indovinava i suoi pensieri e sentimenti. “Perché?! Perché non posso batterla?”.
Ne sentiva l’odio, la paura, il timore non di morire, ma semplicemente non poter vincere.
-Un fiore tra le erbacce.-, sussurrò Eria. La giovane la guardò senza capire, spiazzata.
Proprio come gli altri non capiva. Almeno lei non era rimasta inerme.
-Su cinquanta anime, o più, solo due mi hanno sfidata. Solo due hanno osato davvero.-, sussurrò, -Solo due hanno mostrato di non essere pecore.-.
Le sue parole giunsero agli altri, attoniti, come araldi di dolori ancora a venire.
-Perché solo due? Dov’erano gli altri? Dove sono i guerrieri?-, chiese ad alta voce.
-Li hai uccisi!-, esclamò una donna in lacrime, -Li hai uccisi tutti!-.
-Erano deboli.-, rispose lei, -Indegni. Colui che non ha la volontà di combattere non dovrebbe farlo in primo luogo. Colui che non può tenersi stretta la vita se la vedrà strappata.-.
-Perché io non lo sono?-, chiese la giovane di poco prima. Eria sorrise, bonaria.
-No.-, disse, -Lo sei ma almeno non fingi. Non sei stata una mera preda.-.
-Noi vogliamo solo vivere in pace…-, sussurrò un anziano avanzando verso di lei nonostante la paura evidente. Le ricche vesti evidenziavano il suo essere guida, ma meno degli sguardi della gente, -Dicci cosa vuoi e lasciaci in pace.-.
-Ciò che voglio è ben lontano da qui. Ciò che voglio è una nave. Ciò che voglio è rendervi ben chiara la verità che Janus ha cercato di rendervi palese, e che il vostro avo non riuscì a capire.-, la lama di Eria si mosse. L’anziano cadde a terra, tenendosi debolmente il collo.
Le grida ripresero, Eria alzò la torcia. Bevve il loro terrore, la loro paura. “Pecore…”.
-La verità è che voi non siete lupi, siete pecore. Dinnanzi al richiamo del Fato avete chinato il capo, scegliendo l’oblio. I vostri avi l’hanno fatto e anche voi ora. Se queste morti vi fossero care, se foste adirati, o anche solo bramosi di non svanire anonimamente nella nebbia del tempo, forse agireste! Fallireste, poiché io sono colei che ha preso le vite di campioni ed eroi da tempo immemore e voi non siete nulla in confronto, ma almeno avreste osato sfidare il dominio della stasi e dell’immobilismo a cui avete scelto di condannarvi. Avete avuto secoli interi per evolvere, per prosperare, per conquistare, ma non avete osato farlo! Siete indegni, sotto ogni punto di vista.-, disse.
-Non ne hai il diritto!-, urlò un ragazzo. Lei sorrise. Rinfoderò la lama.
-Allora vieni a togliermelo, il diritto. Un diritto non è dato: è preso. Solo così ha valore.-, rispose aprendo le braccia in un gesto di offerta. Il giovane esitò, sotto lo sguardo di tutti.
-Vedi? Non ne hai il coraggio. Sei un debole. Un vigliacco.-, le parole di Eria sferzarono il giovane che si nascose il viso tra le mani. Un gemito strozzato gli proruppe dalla gola.
-Noi vogliamo solo vivere in pace…-, mormorò una donna.
-La pace è per chi la merita! La vita è per chi la merita! La morte non aspetta, non chiede permesso né perdono! La pace è una menzogna che vi impedisce di vedere il vostro vero essere, di comprendere che tutta la vita è lotta. I predoni di Gunkal, che forse ricorderete, sono stati più degni di vivere di voi. Ma non temete…-, Eria sorrise di nuovo.
Afferrò la ragazza scagliandola fuori dal tempio. Un giovane cercò di superarla. Lei lo trapassò al collo e lo ributtò contro una parete con un calcio. Nell’urto con alcune giare d’olio sacro, queste sparsero il proprio contenuto sul terreno. La gente rumoreggiò, protestò. Due tentarono di raggiungere la guerriera, e la salvezza. Fallirono: il coltello di Eria abbatté la giovane mentre fuggiva, mentre la torcia colpiva l’altro al viso, dandogli fuoco. Urlò uscendo nella notte, cercando di spegnere le fiamme, rotolando sul terreno, per poi restare immobile.
-Perché divenite degni di vivere solo quando ormai la morte vi sta di fronte?-, chiese Eria.
Non si aspettava risposte: lanciò la torcia a terra ed eseguì una capriola. Fu fuori.
Il tempio prese a bruciare. La gente dentro urlò, pregò, tentò di fuggire. Eria li osservò.
-Perché?-, chiese il giovane che aveva risparmiato. Piangeva, come la ragazza. Eria sorrise.
-Perché posso, e perché così ho scelto. Perché così dev’essere.-, sussurrò.
-Non ti hanno fatto niente…-, mormorò la giovane, orripilata.
-Non hanno fatto niente. Si vivevano addosso, coltivando un’illusione patetica, marcendo nella stasi dell’esistenza fine a sé stessa.-, la voce di Eria assunse una sfumatura molto, molto calma, come se stesse parlando del colore del cielo. Si abbassò sulla giovane che cercò di tenerla lontana. Sforzo inutile. Le labbra della donna sfiorarono quelle della ragazza, forzarono le sue, la costrinsero a lasciarsi andare a un bacio da vampira.
Eria dentro di sé sorrise, consapevole che in fondo, ciò che aveva fatto li aveva liberati.
Quei due non sarebbero morti, a meno che non avessero osato attaccarla.
-Ora l’illusione è finita.-, mormorò Eria. Si alzò, camminando verso l’esterno.
Da qualche parte, qualcuno urlava, pregava. Da qualche parte, forse, qualcuno era ancora vivo. A lei non importava. Aveva fatto ciò che doveva.
Chi sarebbe sopravvissuto avrebbe ricordato, avrebbe capito. E se forte, avrebbe prosperato, poiché così era scritto. Lei si era limitata a cancellare le menzogne. Affinché la verità potesse emergere.
Ora doveva partire. La Prima Lama era ancora alla sua portata, poiché sapeva dove si stesse dirigendo Alexander. Volutamente o no, seguiva una rotta nota.
Una rotta che lei stessa aveva a suo tempo percorso e che ora avrebbe nuovamente battuto.
Si avvicinò al molo e trovò una barca. Sorrise. La caccia continuava.

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