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Sensazioni

La Caduta. Oltre il Confine. Naufrago, cattura e fuga.

By 15 Febbraio 2022No Comments

Quasi che il mare m’avesse rifiutato mi svegliai sulla spiaggia, riemergendo da un sogno vuoto, un buio imperscrutabile. Attorno a me, relitti, corpi. Nessuno di vivo? A parte me?
La coscienza, i ricordi, tutto prese a tornare. Cercai la Prima Lama.
Eccola. Poco distante dalla mia mano inerme, quasi che una maligna volontà o la mano del Fato avesse impedito che quella reliquia fosse persa nei liquidi abissi dell’esterno oceano.
Mi alzai. Sboccai acqua, succhi gastrici. Sentii caldo sulla testa. Toccai. Dolore. Sangue.
Una botta. Presa durante la tempesta… La tempesta che ci aveva travolti, tutti.
Amici, nemici. Lealisti, predoni, pii o maligni, tutti annichiliti dalla mano degli abissi.
Dov’ero finito? Dov’erano gli altri? Amea, Izabel, Fatma, Tork…?
Fatma! La cercai. I resti di navi costellavano la spiaggia dalla bianca sabbia, i corpi inerti di uomini, gettati come marionette a cui erano stati tagliati i fili erano grotteschi al confronto col paesaggio magnifico.
-Ti prego… ti prego…-, sussurrai mentre giravo un corpo, un altro e un altro.
In quella provincia d’Ade parevo il solo in grado di respirare.
Mi fermai davanti al corpo di un uomo grosso, riconoscendovi Tork. Il capitano era impalato da una lama che gli spuntava dal petto, in corrispondenza del cuore.
Gli occhi aperti, pareva persino in pace. Glieli chiusi, passandogli una mano sul viso.
Cercai ancora. Percorsi la spiaggia verso est. Altri relitti, e altri corpi.
Una donna giaceva a terra. Mi avvicinai. Era Amea. Ma quando la voltai, il taglio profondo sul petto alla base del collo non mi lasciò illusioni. Aveva gli occhi chiusi.
Mi alzai, continuai a cercare. Dovevo trovarla!
-Fatma!-, chiamai. Doveva essere viva! Almeno lei! Era l’unica innocente!
-Fatma…-, sussurrai. Cercai oltre dei resti, sollevando corpi, pezzi di legno.
Infine la vidi. Adagiata sulla spiaggia. Mi precipitai al suo fianco.
-No… no… no!!!-, le urla emersero dalla mia gola arrochita come entità dotate di volontà.
Cercai febbrilmente una pulsazione sulle vene del collo, senza trovarla.
E solo allora scoppiai a piangere, disperato, straziato. Quante vite! Quante vite era costata la mia codardia! Avrei dovuto dare il coltello ad Aristarda? O cederlo a Septimo?
Sarebbe cambiato qualcosa? Socrax mi aveva avvisato, ammonito. Piansi.
Piansi come un uomo non può permettersi, prostrato sul corpo di quella giovane che aveva pagato con la vita la mia sopravvivenza, come anche la sua città e la sua gente.
-Dovevi prendere me!-, ringhiai al cielo, -Dovevi prendere me!-, urlò.
Il cielo, vuoto, silente, non parve reagire. Urlai ancora, la voce inarticolata che squarciava il silenzio di quel luogo ameno, violato dalla mia disperazione.
-Perché?-, chiesi, il capo chino a fissare il viso di Fatma. Aveva sofferto? Aveva avuto rimpianti? Pregai, pregai davvero gli dei, quali che fossero, che per lei ci fosse stata pietà.
-Perché non c’è altra scelta.-, rispose una voce. Mi volsi verso di essa. Vera Nemlia, priva dell’armatura e delle armi, almeno così pareva, mi fissava. Mi alzai. Estrassi la lama.
-Ferma! Stai ferma!-, protesi il braccio armato verso di lei.
-Tu non sei un assassino, Alexander.-, rispose Vera, avanzando.
-C’è una prima volta per tutto, dicono.-, risposi. Ero stufo, così mortalmente stufo.
-Non per questo.-, replicò Vera Nemlia, -Non lo vuoi.-.
-Cosa ne sai?! Lo sai cosa voglio? Voglio che questa lama dannata sparisca dall’esistenza!-, ruggii io, -Voglio che venga fusa! Voglio che scompaia, che non sia mai esistita, così che tutte le morti avvenute a causa sua…-, il dolore mi strinse la gola, impedendomi di continuare. Chiusi gli occhi, li riaprii. Era ancora tutto vero. Troppo vero.
-Vorrei che finisse! Ne valeva la pena, Vera? Ne valeva la pena? Questo pezzo di metallo valeva quelle vite? Valeva la sua?-, indicai Fatma, -Valeva quelle dei tuoi uomini?-.
Nessuna risposta. Continuai, incurante, inarrestabile.
-Quanti altri? Tutta Fez? La guerra civile nell’Impero? Allora? Quanti altri? Quanti ancora?!-. Alzai la Prima Lama al cielo, stanco e svuotato. Aveva ancora senso vivere?
-La vuoi, Vera Nemlia? Allora eccotela! Avanti! Vieni a prenderla! Forza! Non mi dirai che la prima servitrice di Aristarda Nera ha paura di un ragazzo senza addestramento militare!-, risi senza allegria, stanchissimo. Se mi avesse attaccato avrebbe vinto.
-Allora? Cosa stai aspettando, donna? Vieni a prenderla!-, la esortai.
Lei scosse il capo alzando le mani in un gesto di tregua.
-Io non la prenderò da te in questo modo, Alexander.-, disse. La fissai.
-Come sarebbe? Non era quello che volevi? La fine della guerra civile. Chi ha questa reliquia stringe nel suo pugno il fato dell’Impero, non è così?-, chiesi.
-Sì. Ma non la voglio, non così.-, rispose Vera, fissandomi negli occhi.
-Aristarda ti ha mandato a prenderla, no?-, chiesi, confuso più che furioso.
-No. La mia signora voleva che tu venissi riportato indietro, e voleva la lama, ma sono convinta che non volesse la tua morte affinché io recuperassi quell’arma.-, disse la bionda.
-Beh, guardati attorno! Quanti ne sono morti per questa?-, chiesi, -La tua signora è responsabile di queste morti, come anche Septimo. Come forse anche io.-.
-Sì.-, ammise Vera Nemlia con voce calma, -Ma ciò non toglie che io non ti prenderò quell’arma. Ti fu affidata, vero?-, chiese. Io sbattei gli occhi. Annuii.
-Da Socrax.-, ammisi, -Dal mio mentore.-.
-Socrax fu anche il mentore di Aristarda. E per me, fu un fratello.-, la mano di Vera scoprì la spalla sinistra della sottoveste. C’era un tatuaggio. Aguzzai la vista. Un Tantō.
-Non è possibile.-, mormorai, comprendendo.
-È così. Socrax era uno di noi. Un Justicar. La nostra fratellanza si batte contro la Stirpe da secoli. E ora, lo scontro finale si avvicina. E quella lama è il perno dello scontro.-, spiegò Vera, -Chi brandisce quella lama, decide il destino dell’Impero, hai detto bene. Ciò che non sai è che se a farlo sarà la Cerchia, il mondo non conoscerà pace.-.
-E darla a te sarà più saggio? Aristarda saprà resistere alla tentazione?-, chiesi.
-Sì.-, rispose Vera, -Perché se avesse voluto il contrario lo avrebbe già fatto. In più modi.-.
Assorbii quell’ennesima risposta. Espirai piano. Ero esausto. Avevo sete, fame e sentivo la stanchezza schiantarmi come un macigno. Era veramente così?
Avevo realmente giudicato male Aristarda Nera? Veramente sarei dovuto rimanere?
Tutte quelle domande persero d’importanza in pochi istanti.
Il suono di passi dietro di noi fu molto, molto più eloquente. E ci costrinse a sospendere qualunque altra considerazione.

I nuovi arrivati ci circondarono. Le loro armi erano primitive: lance e archi. Erano uomini dai visi brutali. Il colore della loro pelle però era simile a quello dei Licanei.
-Chi siete?-, chiese il primo di loro nella lingua corrente di Licanes, usandone la variante antica. Con mia sorpresa, riconobbi la parlata degli Esuli, di coloro che, sfidando i mari al fianco delle guerriere del Kelreas giunsero sulle italiche rive, all’alba di Roma.
-Cittadini di Roma.-, risposi, -Io sono Alexander Varus, e lei è Vera Nemlia. Siamo i soli superstiti del naufragio.-. Parlottare tra gli uomini. Quello che aveva parlato, un biondo dal fisico asciutto e la corazza in bronzo, annuì.
-Roma…-, disse, -Non conosco questa città. Ma i vostri nomi sono licanei. Mi dite forse…-, si fermò. E anche io mi stupii al pensiero. Un eco del mio stupore si palesò sui lineamenti di Vera Nemlia. Ecco chi erano quegli uomini!
La ciurma ribelle, i rivoltosi di Cassius, coloro che tradirono Janus e che furono banditi.
Abbandonati su isole infertili, a patire, a crearsi il futuro che avrebbero voluto!
-… Che siete discendenti di Janus, colui che abbandonò il nostro nobile condottiero?-.
La domanda riverberò, per un lungo istante nel silenzio stupito.
Io persi la parola. Come avrebbero reagito sapendoci romanei, discendenti delle genti di Janus, dei Cimanei e del Kelreas? Come avrebbero reagito al sapere che l’Impero da Janus profetizzato era divenuto un campo di battaglia? Come avrebbero reagito al sapere che tale regno era tanto vasto e forte da poter fronteggiare i barbari?
-Invero, lo siamo.-, disse Vera Nemlia, -Ma non siamo lui, e il tempo è passato. V’invitiamo a dimenticare i passati dissapori, poiché noi non ne serbiamo memoria se non nel mito.-.
Io sospirai: immaginavo che ora le risposte possibili sarebbero state solo due.
-Dimenticare?-, chiese qualcuno, -Come fummo dimenticati noi? Come i nostri avi furono banditi? Dimenticare? Questo chiedi, falsa licanea?-, chiese un altro. Lance dalle punte bronzee furono puntate ai nostri petti, frecce incoccate agli archi.
-Legateli.-, ordinò il capo del drappello. Gli altri eseguirono, -Li porteremo a Cassia, dove decideranno gli anziani della loro sorte.-.

Ero paralizzato dallo stupore e dal terrore. Il villaggio di quelle genti era simile in tutto e per tutto alla perduta Licanes, ma considerevolmente arretrato sotto più profili, tuttavia permanevano molti aspetti delle antiche usanze. Per iniziare il palazzo degli anziani era ai livelli più alti dell’insediamento, le mura erano piantonate da sentinelle e l’interno della città pavimentato. Bestie pascolavano in recinti appositi, verdure crescevano negli orti. Una struttura faceva da tempio al Dio della Guerra, le porte sbarrate. Un’altra invece ospitava il culto di Yneas. Il Dio dei Morti, la statua in legno mirabile attraverso le porte del tempio, osservava con cipiglio indifferente il nostro incedere.
Altri templi degli Dei minori erano schierati a breve distanza. Un sacerdote calvo con il cranio tatuato di simboli devozionali ci osservò, apparentemente curioso.
-Incredibile.-, mormorò Vera legata al mio fianco, -È Licanes come anticamente era.-.
-Già. E noi siamo nei casini. Non ci perdoneranno per essere chi siamo.-, dissi io, cupo.
-Forse no. Ma portiamo notizie, possiamo usarle.-, disse lei.
-Silenzio!-, ordinò un uomo, la lama snudata. Notai la forma: una lama licanea.
No, per quella gente le antiche usanze non erano mito, erano realtà, fatto certo, dogma.
Anche gli abitanti li osservavano, curiosi, dubbiosi, sorpresi. Non doveva accader spesso.
Fummo condotti in un edificio vasto, interamente in pietra e malta. Quivi, assiepati su scranni, erano gli anziani, i corpi magri, le vesti ricche, i visi nobili.
Pareva di essere tornati indietro nel tempo. Era quella Licanes? Era stata così?
Quale il sacro patto? Quale il segno divino, la luce della civiltà che aveva illuminato l’umanità spingendoli a creare una simile gloria? E qui si era ripetuto?
No, decisi, coloro che vedevo erano eredi di nostalgia, gravati dal dolore dei loro avi, prigionieri di rabbia e colpa, figli non voluti del fato.
Scambiai uno sguardo con Vera. Ne saremmo usciti in due, o saremmo morti entrambi.
-Onorevoli anziani.-, iniziò il capo del drappello di armati, -M’inchino a voi, o guida del popolo, affinché ci traghettiate oltre la notte ed elargiate consiglio al fine di dirimere codesta questione.-.
-Ti ascoltiamo, Rufius.-, disse la voce unica dell’assemblea all’unisono.
-Vi sono codesti stranieri, unici superstiti del naufragio che fu avvistato sulle coste. Si dicono venuti in pace, ma essi sono invero cittadini di Roma, città che dicono fondata dagli Esuli di Licanes guidati da Janus il Tiranno, dalla sua sgualdrina del Kelreas e da altre genti.-, a quelle parole l’assemblea rumoreggiò.
-Non abbiamo fatto alcun male!-, protestò Vera.
-La vostra sola vita è offesa per noi.-, disse un anziano, lapidario, -La colpa del vostro avo ci rese banditi, esuli di esuli.-. Io espirai, cercando di concentrarmi.
-Serve invero un giudizio.-, disse uno degli anziani, -Finché non potremo pronunciarci, siano essi rinchiusi in una cella separata e siano guardati affinché alcuno faccia loro del male, anzitempo quantomeno.-.
Così avevano parlato. Fummo tradotti in carcere.
Il carcere era un luogo asciutto, privo di un tetto, esponeva al freddo della pioggia come al caldo del sole. Ci gettarono là, dopo averci tolto le armi, tutte. Guardai la Prima Lama venire posta in una cassa e ivi chiusa.
Il primo giorno passò nel silenzio, mio e di Vera. Ci diedero del cibo: verdura e cereali cotti.
Ci diedero dell’acqua, appena due litri.
-Che ne sarà di noi?-, chiesi all’alba del secondo giorno. Avevo dormito pochissimo.
-Decideranno. E vedremo.-, disse lei. Io la guardai.
-Non hai paura?-, chiesi, -Non temi per la tua vita?-.
-Tu?-, domandò lei in risposta. Io m’immersi nelle mie emozioni.
No. Non temevo. Avevo visto bruciare Fez. Avevo assistito a morti e orrori per quella lama maledetta. La morte sarebbe potuta divenire una liberazione. Scossi il capo.
-Non la temo più. Sono… consapevole. Dovrò morire. Mi spiace solo che sia qui, ma se questo è il fato…-, dissi infine. Vera annuì.
-Parli come Socrax. Anche lui amava la vita. Ma era conscio dell’imminente fine.-, disse con un sorriso triste, -Gli volevo bene.-.
-Socrax fu… un maestro. Il migliore che io possa ricordare di aver avuto.-, dissi io.
-Era un uomo buono. Tradì la Stirpe per i Justicarii. Mi addestrò, fui la prima allieva.-, raccontò Vera, -Mi condusse a conoscere la verità. Questo mondo è nel caos. L’ordine non può essere semplicemente dato, a volte va imposto. A volte, il male va combattuto. Questo è il nostro credo. E io e gli altri ci atteniamo ad esso.-.
-Perché me lo dici?-, chiesi, confuso, -Non sono forse tuo prigioniero?-.
-No, Alexander. Saresti ben libero di andartene. La lama però è un fardello. Tu lo sai e io lo so.-, rispose Vera Nemlia, -Socrax l’affidò a te, ma non è giusto che tu viva così.-.
-Non posso cederla. Spero tu comprenda. Dovrai uccidermi per prendermela.-, dissi.
Ancora, quella lama dopo tutto quello che aveva causato, restava la sola costante della vita.
Vera annuì, solenne. Capiva. Capiva bene. Non parlammo oltre. Passò un’ora, due, tre. Sei.
Ci muovevamo poco, facevamo brevi esercizi ginnici nel poco spazio concessoci.
Il secondo giorno trascorse, il sole ci scaldava impietosamente.
-Quanto ci mettono a pronunciarsi?-, chiesi. Vera, seduta sui talloni, parve non sentirmi.
-Ci stanno mettendo un secolo.-, dissi.
-Sì. Vogliono che noi paghiamo, anche così. È tutto per farci scontare i torti di Janus.-, rispose la giovane. Io scossi il capo. Mi era inconcepibile. Pagare per eventi tanto antichi…
A tanto arrivava il loro odio? Mi lasciava basito. Avevo spesso letto di racconti di lunghe vendette, odio radicato nei decenni, finanche nei secoli, ed avevo sempre ritenuto che ciò fosse mero poema, ma ora capivo: il cuore degli uomini era indurito dalla memoria del dolore, dalla consapevolezza di un orgoglio mai capito ma accettato, unico baluardo forse contro il caos soggiacente.
Vera si alzò, stirando le gambe. Era una bella donna, piacevole a vedersi e non dubitavo che presso i nostri lidi aveva goduto di numerose attenzioni di uomini, e forse anche di donne. In quel momento però, non era il suo fisico ad attirare la mia attenzione.
-Socrax era uno di voi, giusto? Un Justicar.-, iniziai. Vera Namlia annuì.
-Ve ne sono altri come voi?-, chiesi. Lei annuì, piano.
-Sì. Ve ne sono. Alcuni nascosti, altri no. La Stirpe ci attaccò. Distrusse il nostro tempio, annientò i nostri neofiti. Ma riuscimmo a fuggire, a svanire nelle ombre.-, sussurrò.
-Come fecero a trovarvi?-, chiesi. Vera sospirò, come a ricordare ciò le dolesse.
-Fu un tradimento, a condannarci.-, sussurrò, -Un’infamia tra le più basse.-.
Io annuii. Attesi che dicesse altro, trepidante, palesemente attratto dal racconto.
-Giunsero in una notte senza luna, a centinaia, a migliaia. Un esercito. Attaccarono da ogni direzione. Tenemmo a bada il loro impeto per un po’, poi un traditore incendiò una delle sale interne. La sua defezione fu scoperta, e fu punito. Ma fu tardi.-, disse Vera, -I nemici irruppero nella nostra fortezza, e fuggimmo, sparpagliandoci.-.
-Tu c’eri?-, chiesi. Lei scosse il capo.
-Io, come Socrax, venni dopo.-, disse, -Socrax ebbe due maestri. Anthia e Ulius, due Justicarii che io conobbi. So che Anthia è ancora viva, da qualche parte. Ulius fu ucciso dalla Stirpe in Ferencia. E io divenni apprendista di Socrax, che mi destinò a un semplice compito: vegliare su Aristarda, in ogni modo.-.
-Perché allora sei qui? Solo per un suo ordine?-, chiesi io.
-Amo Aristarda come nessun’altro. Quando ho visto i suoi occhi quel giorno, quando l’ho vista guardare il corpo di Socrax, sapevo di dover andare. Di doverle portare delle risposte. Di doverlo fare, Alexander. Capisci?-, chiese Vera di rimando. Sì. Capivo. Annuii.
-Talvolta, il dubbio ferisce più di una lama.-, dissi. Nella mia voce c’era il peso della consapevolezza, ero ben conscio dell’averlo provato. La fissai.
-Ciò non toglie che siamo prigionieri qui. Ci uccideranno?-, chiesi. Le guardie, se ce n’erano, erano all’esterno, o molto silenziose. Era possibile che fossero dietro qualche angolo, o in attesa, ma ne dubitavo. Vera scrollò le spalle.
-Non ne sono certa. Potrebbero.-, ammise. Io mi accorsi improvvisamente di una cosa.
Non volevo morire: non ero pronto a morire, non sapevo se mai sarei stato pronto.
Vera lo vide. Notai la sua espressione cambiare. Mi abbracciò, stretto. Quel contatto fu inaspettato, e piacevole. Ma sentii le sue labbra sul mio orecchio.
-Non temere.-, disse, -Non temere. Ho un piano.-. La strinsi di più, come ad accertarmi di non star sognando. Lei lasciò che l’abbraccio finisse, con calma. Notai che sorrideva.
Sorrisi a mia volta. E per un istante, abbracciai la speranza.

Passammo quel giorno a non fare altro che parlare. A lungo. Intanto però notai che Vera faceva delle cose, gettava sguardi attorno a sé, osservava, disegnava ghirigori sul pavimento della cella. Rapidamente notai che stava contando.
Decisi di non chiedere, non perché non volessi sapere, ma perché volevo evitare di giocarci la possibilità. Chiedere implicava parlare e parlando, qualcuno avrebbe ascoltato.
Fu a notte fonda che giunsero. Erano un trio di uomini. Spogli delle corazze, indossavano vesti di canapa e i loro occhi erano accesi d’odio guardandoci.
-Eccoli qui. I prodi eredi di Janus!-, esordì uno calvo.
-Non sembrano poi granché.-, disse un altro. A questo invece una cicatrice da lama aveva aperto uno sfregio lungo la guancia. Nessuna particolare facezia nel suo tono.
-Beh, la ragazza non sembra male. Almeno le donne sembrano non aver perso bellezza dalle scelte infauste di quell’uomo.-, mormorò il terzo, un giovane biondo con una caraffa in mano. Io feci scena muta, rimanendo a guardarli, Vera fece lo stesso.
Avevano dei pugnali alla cintola. Armi che, se usate con perizia e in spazi stretti, erano letali. Io sapevo, con assoluta chiarezza, che se Vera fosse riuscita a prendere una di quelle armi, saremmo stati apposto.
-Nulla da dire?-, chiese il biondo scatarrando sul pavimento.
-No.-, rispose Vera, calmissima e indifferente. Lo guardava come si guarderebbe una crosta di feci su una latrina. Il biondo avvampò.
-Ma senti questa puttanella!-, esclamò, -L’avete sentita?-, chiese agli altri.
-Per me…-, il Calvo sorrise, apparentemente deliziato, -Ha bisogno di una lezioncina.-.
-Oh sì…-, mormorò lo Sfregiato, -Ne ha bisogno.-, aggiunse. Ma i suoi occhi non ridevano.
-Come la lezioncina che Cassius cercò di dare a Janus? Datemi un’arma e vediamo se il fato vi vedrà giustificati nel vostro odio!-, li sfidò Vera con un ghigno.
-Le donne… tutte molto capaci a farsi valere a parole. Ma il vostro posto è uno solo: sotto un uomo.-, rispose il biondo. Vera, in piedi, gli arrivava al viso.
-Troppo facile, tre armati contro una e senz’armi.-, rispose. Io mi astenni dal commentare.
Notai però le armi. I pugnali erano ancora nei foderi. Mi concentrai sui nemici.
Il Biondo era alticcio e non rappresentava un gran problema. Il Calvo pareva abbastanza prestante e attento, ma la vera minaccia era lo Sfregiato: era palese che avesse visto la morte e la guerra da vicino. Per allucinato o distratto che potesse sembrare era quello da tenere maggiormente d’occhio. Gli altri due erano dei novellini, lo vedevo da come il Biondo imprecava e rumoreggiava e da come il Calvo ridacchiava nervosamente.
Ma lo Sfregiato no: era serio. Poteva fare la parte del pivello con loro, ma si vedeva che non sottovalutava la situazione.
I tre ci osservavano, curiosi, apparentemente deliziati dall’intera situazione. Non mi sfuggì che lo Sfregiato stava più indietro degli altri due. Il Biondo di contro pareva quello più lanciato, i suoi occhi parevano spogliare Vera Nemlia, indugiando sulle rotondità.
-Però è un bel pezzo di donna…-, disse leccandosi le labbra.
-Sì, scommetto che non è più vergine da un po’, eh?-, chiese il Calvo con un sorrisetto.
Lo Sfregiato, scena muta. Io espirai. Non si metteva bene. Strinsi i pugni. Vera era…
Una nemica, una che voleva la Prima Lama…
E una donna. Soprattutto una donna in pericolo. Fu quello a farmi decidere.
Il biondo si avvicinò di un passo. Vera alzò le mani, un gesto difensivo.
-Non lottare, troietta.-, disse il biondo con un ghigno, -Non ti farò… troppo male.-.
Mi avventai su di lui. Niente tattica, nessuna pianificazione. Sferrai un pugno che giunse improvviso, colpendo al volto. Il Biondo ringhiò qualcosa. Sentii delle braccia strapparmi da lui, gettarmi contro il muro. La botta mi stordì. Da lontano sentii il suono di carne contro carne. Un ceffone, palese. Il Calvo si chinò su di me. Il suo alito puzzava d’alcool.
-Rilassati, eroe. La tua amica ci soddisferà, ma può darsi che rimanga qualcosa per te.-, sibilò con una risata secca. –Bestie! Siete delle bestie! Come Cassius!-, ringhiai.
Gelo, improvviso. Il Calvo ora non sorrideva più. E neanche il Biondo. Lo Sfregiato invece ebbe appena un movimento.
-Muovetevi a concludere! Cutius starà domandandosi perché ci mettiamo tanto!-, li esortò.
-Sto facendo… E stai ferma!-, inveì il Biondo.
Assestò un altro schiaffo a Vera, che si afflosciò. Strappò la veste della donna con un ghigno. O almeno ci provò. Non era molto forte…
-Il vostro fondatore si rivolterà nella tomba!-, gli urlai io, -Non siete diversi dai Cimanei!-.
L’allusione al Mito di Licanes e alla sua caduta fu efficace: il Calvo si avvicinò.
-Che ne dici di tacere, saputello? O vuoi che cominci da te?-, chiese.
Ero terrorizzato, ma la rabbia mi impediva, semplicemente mi impediva di stare zitto.
-Figlio di un cane! Bastardo!-, le parole mi uscirono senza che potessi fermarle, -Che Yneas vi trascini urlanti all’inferno!-. Il biondo, perso nel tentare di aprire le gambe di Vera, non mi badò. Il Calvo sì. Estrasse il pugnale, lo sguardo folle d’ira.
-Ora hai passato il segno, marmocchio.-, disse avanzando verso di me.
Lo Sfregiato agì, rapidissimo. Bloccò il polso del Calvo che ebbe solo un istante per essere stupito prima di essere spinto via.
-Basta così.-, ordinò lo Sfregiato. Strappò il biondo da Vera. Mi accorsi che questa era ancora illesa, salvo per le percosse. Osservava la scena, come me.
-Marcus, che cazzo fai?!-, chiese il Biondo dimenandosi. Il pugno dello Sfregiato lo mandò quasi k.o. Il Calvo sorresse il suo compare, indirizzando uno sguardo furioso ma perplesso al loro compagno.
-Volete proprio che Citius ci becchi? Gli avevamo detto dieci minuti! Dieci! Sapete cosa succederebbe se…-, lo sguardo dello Sfregiato puntava verso il Biondo, almeno così mi pareva. Io trattenni il fiato.
-Va bene, hai ragione…-, sussurrò il Calvo, apparentemente domo. Il Biondo invece pareva tutto fuorché convinto. Fece per ribattere ma il Calvo gli tappò la bocca.
-Ha ragione.-, tagliò corto. Uscirono, non senza lanciarci occhiatacce.
Io chiusi appena gli occhi, ringraziando gli Dei clementi che le mie preghiere fossero state ascoltate. Vera si alzò. Non aveva che pochi segni temporanei delle percosse, salvo lo strappo ai vestiti, comunque minimo. Avrebbe potuto andarci molto peggio.
Io la guardai. Lei mi guardò. Colsi qualcosa in quello sguardo. Gratitudine?
O forse era solo la felicità di chi ha evitato il peggio?
Mi assopii pochi minuti dopo, senza avere risposta.

Fu poche ore dopo che venni scosso da una mano. Aprii gli occhi. Vera mi sorrideva nel buio. Mi prese la mano. Pianissimo, la passò lungo il suo fianco sino all’orlo del chitone.
-Cos..?-, chiesi. Mi fece cenno di tacere. La mia mano fu introdotta tra il tessuto e la pelle, appena sopra il gluteo e la coscia, sentivo i suoi muscoli, il suo calore.
L’erezione che mi venne fu naturale e mi fece improvvisamente vergongare, ma non potei impedirla. Vera, accompagnando sempre la mano, la portò sino a lato della coscia.
E fu lì che capii: la mia mano non toccava più solo la sua pelle.
Toccava del materiale. Duro. Metallo, rivestito da pelle. L’impugnatura di un pugnale.
-Come?-, chiesi sussurrando. Lei sorrise. –Trucchetti.-, disse, -Ora zitto, la ronda.-.
Io non l’avevo sentita, ma udii il passo pesante del soldato appostato fuori, era forse il famoso Citius? Vera mi abbracciò. Io improvvisamente capii che se ci avesse perquisiti avrebbe capito che avevamo quel coltello. Non potevamo rischiare. Non ancora.
Vera risolse il problema: mi baciò, aggressivamente, con una passione che non avrei creduto possibile. D’istinto la strinsi, abbandonando il pugnale e risalendo con la mano.
Sentii la sua lingua nella mia bocca, il suo respiro col mio, il suo corpo sul mio.
Impossibile che non si fosse resa conto delle reazioni che aveva suscitato in me.
-Uhm… piccioncini. Godetevela finché dura!-, disse la guardia con tono divertito. Sentimmo i passi e poco dopo era uscito. Aprii gli occhi.
-È andato…-, sussurrò Vera mentre ci staccavamo. Io annuii. Stavo tremando e il corpo mi pareva vibrare. Il cuore batteva forte, il mio sesso era rigido e fiero.
-Vera…-, iniziai. Non sapevo cosa dire. Lei annuì.
-Dobbiamo fuggire. Dobbiamo fuggire stanotte.-, sussurrò. Io annuii.
Ogni altra considerazione, incluso il marasma di sensazioni che provavo, il ricordo di Fatma e l’eccitazione che sentivo svanirono. Rimase solo la consapevolezza dell’adesso.
Fuggire avrebbe richiesto prudenza. Evocai rapidamente i ricordi del luogo. L’ostacolo maggiore erano le palizzate che chiudevano l’insediamento da ogni alto.
Eppure, dovevamo riuscire ad andarcene: sentivo che il giudizio degli anziani non sarebbe stato clemente, lo sapevo bene. Ci preparammo, cercando di non dare nell’occhio. Altri giunsero a osservarci, con curiosità alcuni e con rabbia altri. Un ragazzino mi tirò del fango. Per loro dovevamo essere una novità, i fallimentari discendenti di Janus…
Quale superbo intrattenimento per loro! Non potevano immaginare…
La promessa di Janus, di un regno che fosse al di là di ogni dire si era concretizzata, ma questo quella gente non l’avrebbe saputo mai.

Quando imbrunì, ci fu servito un pasto diverso. Più sontuoso.
C’era pesce e verdura, e acqua in abbondanza. Non facemmo complimenti.
-Perché?-, chiesi. Vera non fece domande. La guardia, un uomo corpulento, sorrise.
-Il consiglio ha deliberato: verrete giustiziati domani.-, annunciò.
-Ma non abbiamo fatto niente!-, esclamai. L’uomo aveva un ghigno di feroce soddisfazione.
-Janus abbandonò i nostri avi su questi scogli perché essi avevano solo voluto una vita tranquilla…-, disse. Io scossi il capo, incredulo.
-Janus diede una possibilità a Cassius e ai suoi! Li lasciò vivere!-, replicai, sforzandomi di instillare qualche senso di empatia e compassione in quell’uomo.
-Lo fece.-, ammise l’uomo, -Forse fu un errore. Forse uccidendoli avrebbe evitato di dar vita alla nostra infelice schiatta.-. Gli occhi grigi e acquosi parevano attraversati da emozioni che non riuscivo a discernere con la dovuta chiarezza.
-Fatelo anche voi… Permetteteci di andarcene! Mostratevi magnanimi e sono certo, il fato vi sarà benevolo…-, implorai. L’uomo scosse il capo.
-Il consiglio ha deciso.-, rispose dopo alcuni istanti. Lo guardai uscire.
Espirai appena, consapevole che la pietà non albergava nei loro cuori.
-Sono cresciuti con le favole in cui Janus era il cattivo, il nemico, il bastardo che condannava il buon Cassius e i veri licanei all’esilio perenne…-, sospirò Vera.
-Questo sposta ma non modifica il problema…-, dissi io. La giovane annuì.
Dovevamo andarcene. Alla svelta.

Non fui sorpreso al sentire passi giungere. Il Biondo e il Calvo erano tornati.
Erano soli. Bene, ma non benissimo. L’assenza dello Sfregiato li avrebbe resi spregiudicati.
Vera intuì. Mi gettò un’occhiata. Lessi preoccupazione, ma anche consapevole, assoluta determinazione. Io mi alzai.
-Resta seduto.-, disse il Calvo, -Oggi ci divertiamo. Chissà che non vi piaccia!-.
Eruppe in uno sghignazzo demente. Il Biondo fissava Vera con lascivia palese.
-Ora non c’è più nessuno a proteggervi.-, disse.
-Non fatelo.-, la voce della giovane non tradiva emozione alcuna, non era una supplica.
Era un avvertimento, un consiglio. Un monito. Che i due non vollero cogliere.
-Io ho ancora un conto da saldare con questo sbruffoncello.-, gli occhi del Calvo mi fissarono con gioia feroce mentre si fregava le mani.
-Divertiti.-, rispose il Biondo. Si rivolse a Vera Nemlia. –Tu, troietta, apri le gambe, da brava. Se ti rilassi vedrai che ti piacerà essere presa da un vero uomo.-, si massaggiò tra le gambe con un sorriso. Vera arretrò, verso il muro.
-Stai lontano da lei, bastardo!-, ringhiai io. Il Calvo sorrise.
-Pensa a te stesso.-, disse. Io espirai. E improvvisamente qualcosa mi balenò in mente.
Fu una realizzazione istantanea, un secondo di pura comprensione. Il pugno che mi arrivò non la fermò. Mi piegai contro il muro, espirando dolorosamente il fiato rimasto nei polmoni. Il calvo rise.
-Oh… coraggio! Fammi divertire, stronzetto! O Janus vi ha insegnato a dimenticare come si combatte?-, chiese. Udii un rumore di tessuti lacerati. Il Biondo ridacchiò.
Parte di me orripilò. Parte di me voleva urlare, gridare e piangere.
Ma un’altra parte, molto più forte, s’impose. Non l’avrei fatto. Non avrei urlato, non avrei pianto. Non più. Non c’erano più lacrime da versare, ma in compenso c’era la rabbia.
E non era la pretenziosa ira del marmocchio privato del balocco, bensì quella di un uomo che non intendeva tollerare quell’ennesimo scempio.
Il Calvo caricò il calcio. Calciò. Mi mossi all’ultimo. Schivai.
-Ah!-, esclamò lui. Ancora convinto di vincere. Sferrò un pugno. Parai. Come mi avevano insegnato, colpii. Il mio pugno arrivò a bersaglio sul viso dell’uomo.
-Bastardo!-, ringhiò lui. Io non risposi. Non avrei sprecato altro fiato.
Il Biondo si dimenava su Vera che cercava di resistere, goffamente.
Evitai il pugno successivo, ma non il calcio. Dolore sciabolò lungo la mia gamba destra.
Il pugno successivo mi prese in faccia. Mi chinai appena. Il Calvo fece per infierire.
Reagii: il mio pugno successivo affondò nello stomaco dell’uomo. Preso alla sprovvista si piegò in avanti. Continuai con una serie di ganci al viso e ai lati del cranio.
Traumi multipli: l’uomo barcollò. Si allontanò. Estrasse il pugnale.
-Avanti, puttanella…-, mormorò il Biondo. Assestò un ceffone a Vera. Lei parve cedere.
Lui sorrise. Si afferrò il membro, preparandosi a violare l’intimità della donna.
Io guardavo quel pugnale. Non avrei avuto speranze, questo mi era chiaro.
Ma non sarei morto supplicando. Non l’avrei permesso. Cercai di sgombrare la mente.
Di restare lucido. Poi lo sentii. Metallo contro carne, nella carne. Anche il Calvo si girò.
Vera aveva agito: aveva atteso che il Biondo si fosse disteso su di lei, convinto della sua vittoria, poi aveva colpito con la cattiveria di un demone. La pugnalata era affondata nel collo dell’uomo, definitiva e letale come mai se la sarebbe aspettata.
Il Calvo urlò qualcosa. Strinse il pugnale. E io agii a mia volta: lo immobilizzai con una presa. Vera Nemlia, l’abito stracciato a esporre le cosce e quasi l’intimità, il viso freddo di furia implacabile, il pugnale fumante di sangue e morte, si alzò. Piantò la lama nel cuore del Calvo, insensibile alle sue suppliche, tappandogli la bocca con una mano.
Mi accorsi di tremare, di sentirmi fisicamente male all’idea dell’uccidere ma anche di essere in balia di fiotti di adrenaline rilasciate dall’azione appena avvenuta.
-Dobbiamo muoverci.-, mi spronò Vera. Mi passò il pugnale del Calvo. Non aveva saputo usarlo, ma darmelo non era che una precauzione. Annuii stringendo l’arma.
Mi parve come non mai aliena e distante. Vera uscì piano dalla cella, sfruttando l’apertura.
Quanto tempo prima che la guardia arrivasse? Quanto prima che scoprissero la fuga?
Decisi di non pensarci. Seguii Vera sino alla porta che si aprì all’improvviso.
Ad aprirci fu la guardia, l’uomo dagli occhi grigi. Ci fissò, stupito.
Vera era chiaramente pronta a colpire, ma l’uomo scosse il capo, alzando le mani.
-Andate verso ovest. C’è un pertugio nel muro, il risultato di un piccolo terremoto di pochi giorni fa. Non è ancora stato riparato. Il molo è poco distante, ci sono attraccate delle barche. Prendetene una. Fuggite. E che gli Dei vi siano propizi.-, disse.
-Le nostre armi…-, iniziai io. Non mi sognavo di lasciare l’Abraxes, la Lama della Fondatrice laggiù. L’uomo sorrise. Mi allungò la reliquia.
-L’ho custodito. Volevo tenerlo, ma… non credo sia una buona idea.-, confessò. Annuii.
Non aveva la minima idea di quanto avesse ragione e paradossalmente neppure io.
-Grazie. Che gli Dei ti accompagnino.-, dissi. Improvvisamente, un grido squarciò la notte.
-Andate! Non so chi sia, ma andate!-, esclamò l’uomo.
Io e Vera ci affrettammo verso il pertugio, oltre di esso vi era, in lontananza, il molo.
E la barca ivi ormeggiata pareva attendere solo noi. Salimmo a bordo. Sciolsi le cime.
Non pensai di essere con quella donna, solo in parte mia alleata e non ponderai la mia prossima mossa, o le scelte a venire. Poiché, alla luce di una luna piena, tra urla e grida d’allarme, mi accorsi dell’inevitabile realtà. Qualcuno, qualcosa era giunto là, sull’avamposto degli eredi di Cassius, un’entità che pareva sfuggita agli incubi più oscuri.
-È lei…-, sussurrò Vera. Triplicò gli sforzi affinché la barca lasciasse in fretta la riva.
-Lei?-, chiesi io. Mi gettò un remo.
-Rema! Rema! Dobbiamo andare!-, esclamò. Sul suo volto vedevo un’emozione nuova.
Paura. Paura e timore. Una prima assoluta. Era contagiosa e mi affrettati a eseguire mentre il cuore batteva forte per la paura.
Quando fummo lontani abbastanza, la vidi.
Emerse dalla barricata, la luce della luna la illuminava quasi ne fosse stata figlia.
Il cappuccio era scivolato sulle spalle, scoprendo il capo. Capelli neri incorniciavano il nero volto, nero come la tenebra più fitta, gli occhi verdi come smeraldi dall’Ade.
Il sangue che la lordava pareva nero sul nero del suo incarnato. La lama che aveva in pugno… Quella mi colpì particolarmente. Sebbene non potesse raggiungermi, sentii la paura stringermi con dita gelide il cuore palpitante in petto. Sapevo che mi aveva visto.
-Chi è?-, sentii la mia voce chiedere.
-Una demone. Un terrore infernale. Il male che la Stirpe ha come idolo, demiurgo e signora. Una guerriera la cui lama ha strappato vite a decine di migliaia.-, mormorò Vera.
Anche la sua voce pareva soffocata, quasi che non riuscisse a parlare o a esprimersi.
Io mi volsi verso di lei.
-Cosa possiamo fare?-, chiesi. Lei non parve pensarci.
-Rotta verso il mare aperto. Tieni il nord-est. Segui la stella chiamata Sulia. In breve tempo arriveremo su un’altra isola.-, disse.
-Come lo sai?-, chiesi io. Vera non rispose. Non subito.
-Questi luoghi per te sono luoghi del mito, ma non lo sono per me, né per lei.-, sussurrò.
La risposta originò solo più domande e io mi limitai a remare, mentre Vera, mostrando capacità marinare che mai avrei sospettato in lei, dirigeva la vela a cogliere la brezza notturna e indirizzava la nave verso la rotta scelta.

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