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Trio

Il venerdì

By 3 Agosto 2009Dicembre 16th, 2019No Comments

IL VENERDI’.

Hanno affittato per l’estate una villa situata sulle dune, a poca distanza da un borgo, su un litorale famoso per i suoi stabilimenti balneari.
A nord e a sud del borgo, la riviera continua per centinaia di chilometri, alternando centri di villeggiatura con alberghi, ristoranti, bar, balere a tratti ancora disabitati dell’originaria macchia mediterranea.
Marco non è ricco: è un letterato che lavora per il cinema e intanto cerca di portare avanti il suo primo romanzo.
La villa, molto costosa, l’ha presa in affitto per due motivi: l’uno di lavoro e l’altro sentimentale.
Il motivo di lavoro è che su quella stessa spiaggia passa l’estate il regista con il quale sta scrivendo una sceneggiatura.
Il motivo sentimentale è di far piacere alla moglie, Daniela.
La moglie ha un amante e Marco lo sa.
Quest’amante ha anche lui una villa dove abita solo, a circa trenta chilometri di distanza da quella di Marco e di Daniela.
Tra Marco e la moglie è stato convenuto che ogni venerdì sera lei si recherà dall’amante e vi resterà fino alla domenica sera.
Marco ama appassionatamente la moglie e Daniela afferma invariabilmente di amarlo.
Ma ambedue si tradiscono a vicenda, con questa differenza, però, che Daniela tradisce il marito perché gli piace ora un uomo e ora un altro; Marco invece tradisce Daniela perché Daniela lo tradisce.
Altra contraddizione: Marco ama la moglie ma non la desidera o, per lo meno, l’ama molto di più di quanto la desidera.
Con qualsiasi altra donna che lo attrae, anche con amanti occasionali o, addirittura, con prostitute, lui prova un piacere più schietto e p’ù acuto, invece con la moglie il suo desiderio è in qualche modo deviato verso la contemplazione disinteressata e inappagabile della bellezza di lei.
Se pensa a lei, non ricorda particolari fisici ma soltanto l’aria di bellezza che emana dalla sua persona e la circonfonde.
Perfino, mentre la guarda che gira nuda per la camera da letto, prima di coricarsi, si accorge di non provare il turbamento che gli ispirano donne molto meno belle di lei.
Ma l’ama, anche se la sa infedele e soffre di aver dovuto accettare quel suo soggiorno settimanale con l’amante.
Questa sofferenza è raddoppiata dalla consapevolezza della contraddizione tra gelosia e mancanza di desiderio.
Con che diritto è geloso di Daniela, visto che non la desidera? Perché soffre tanto ad immaginarla tra le braccia di un altro? Daniela, ex modella, è alta, con spalle larghe, collo lungo, testa piccola, viso esiguo e molto bianco, enormi occhi neri.
Ricci neri le incorniciano il volto e le ricadono in disordine sulle orecchie e sulla nuca.
I seni sono piccoli, alti, con capezzoli larghi e rossi; la schiena magra, maschile; la vita snella; le natiche ridondanti e sferiche, sotto l’insellatura delle reni; il ventre, piatto con un pube nero e arruffato che sporge.
Ha gambe lunghe, cosce grosse, stinchi magri e piedi grandi che ad ogni passo poggiano la palma intera sul suolo.
E un corpo che la natura pare aver stilizzato consapevolmente, al modo di quelli delle figure femminili dipinte sui vasi greci arcaici.
Marco suole dire che ha il corpo di una danzatrice della corte del re Agamennone.
Danzando, danzando, Daniela ha attraversato i secoli ed è giunta fino a lui.
La moglie accoglie questi complimenti eruditi con indifferenza.
E incolta e, al contrario di Marco, per lei amore e desiderio sono la stessa cosa.
Salvo che per il patto del week-end, la loro vita al mare è del tutto simile a quella degli altri villeggianti.
La mattina, Daniela e il marito si alzano presto; Daniela prepara con cura la colazione che poi consumano sulla terrazza, quasi senza parlare, guardando al calmo mare estivo e alla spiaggia ancora deserta.
Poi Marco va dal regista e lavora alla sceneggiatura fino a mezzogiorno.
A quest’ora torna alla villa e raggiunge la moglie sulla spiaggia dove lei sta già distesa immobile, al sole, con i seni nudi e gli occhiali neri sugli occhi.
Marco le si stende accanto e prende anche lui il sole, leggendo un libro o i giornali che ha comprato or ora dopo aver lasciato il regista.
Anche adesso quasi non si parlano; ogni tanto si alzano, camminano insieme sulla spiaggia ormai affollata, entrano tenendosi per mano nel mare, nuotano per un poco, poi tornano sulla spiaggia e si stendono di nuovo al sole.
Molto tardi, stancati dai bagni e bruciati dal sole, tornano alla villa.
Daniela prepara un pranzo di pomodori e di formaggi freschi.
Poi mangiano sulla terrazza guardando al mare che si increspa e scintilla sotto il maestrale.
Dopo il pranzo, vanno in camera e si stendono nudi l’uno accanto all’altro, sul grande letto matrimoniale.
Forse questo sarebbe il momento più favorevole per fare l’amore; Marco sa che la moglie non si rifiuterebbe; ma in realtà lo fanno raramente; e, quando lo fanno, Marco si accorge con stupore che il solo piacere che riesce a provare è nel far provare piacere alla moglie.
Daniela, invece, prova un piacere diretto e molto forte e non lo nasconde; anzi quasi si direbbe che lo ostenta con gemiti, contorsioni, ansimare affrettato e profondo; e Marco si rende conto con lucidità che lei è sincera quando afferma di amarlo, perché per lei l’amore è, appunto, questo piacere così ostentato e così sentito.
Dopo la siesta Marco torna dal regista e lavora con lui fino alla sera.
Non cenano quasi mai a casa ma vanno con il regista e sua moglie o con pochi amici in uno dei tanti ristoranti del litorale.
Queste cene sono allegre, rilasciate, serene.
Non tanto tardi, tornano alla villa; spesso è a quest’ora, invece che durante la siesta, che Daniela si concede docile e pronta all’abbraccio del marito.
Il giorno dopo la loro vita ricomincia, eguale.
Ma il venerdì tutto cambia.
Verso sera, Daniela si chiude nel bagno e si prepara per andare alla villa dell’amante.
Marco siede su una poltrona vicina al letto, un giornale o un libro in mano, gli occhi sull’uscio del bagno e si dice: “Voglio mettermi alla prova; mia moglie va dal suo amante; voglio vedere se riesco ad abituarmi a quest’idea, a non soffrire”; e invece si accorge quasi subito che non è cosi; soffre come le altre volte, anzi soffre ogni venerdi sera un po’ di più.
Il giornale spiegato sotto i suoi occhi gli appare pieno di notizie incomprensibili presentate con titoli importanti; il libro, un romanzo o un volume di versi che in altro momento lo distrarrebbe, gli cade di mano.
Fissa la porta del bagno dal quale giungono rumori diversi e ambigui e cerca di non interpretarli oppure di interpretarli sarcasticamente: “Ecco, mia moglie si lava, si profuma, appresta i tre orifizi del suo corpo per ricevere il prezioso seme settimanale di cui, a quanto pare, non può fare a meno.
Ecco, ha finito di vestirsi e adesso, preparata e pronta, sta per apparire sulla soglia, e io la guarderò e soffrirò come un cane.” Ed è vero: soffre e soprattutto soffre di pensare con volgarità e disprezzo della persona per cui sa di provare rispetto e venerazione.
Dalla porta chiusa giunge adesso il rumore della chiave che gira e Daniela appare, come ha preveduto, pronta ad andarsene, con una grande borsa di corda grezza in cui mette i costumi da bagno e qualche indumento intimo, appesa al braccio.
Indossa invariabilmente un vestito rosso fiamma, strettissimo e lunghissimo, simile ad una guaina, che nel fondo si orna di volanti che oscillano intorno le scarne caviglie; un vestito che lui non le ha regalato, dono, come lei gli ha rivelato tranquillamente, del rivale.
Dice, serena: ‘Allora io vado.” “Arrivederci.” “Ma che fai cosi solo? Va’ da Piero.” Piero è il regista.
“Cosi almeno non mangi tutto solo.” ‘Non ho fame.
E poi in tutti i casi non andrei da Piero, finirà per pensare chissà che cosa vedendomi sempre solo ogni venerdì sera.” “Non gli hai detto che passavo il week-end con mia madre, a Roma?” “Si, gliel’ho detto, ma non mi va lo stesso.
Parla sempre della sceneggiatura e a me saltano i nervi.” “Allora va’ da Rossana, lei ti aspetta sempre, non è cosi?” Rossana è una vedova ancora giovane che abita con la sua bambina in una villa non tanto lontana da quella dell’amante di Daniela.
E’ una donna casalinga e affettuosamente lasciva.
E’ vero, l’aspetta sempre, ogni sera; ma lui non vuole andarci, benché abbia fatto in passato qualche volta l’amore con lei, propr’o perché Daniela lo incoraggia: “Grazie, non ho bisogno dei tuoi consigli.” “Ma Rossana ti terrà compagnia, magari farete l’amore.
Dici sempre che in amore è più brava di me.” “E’ brava, ma non ho voglia.” “Via, non fare il muso.
Cosa sono due giorni? Allora, ciao, ci vediamo domenica sera.” Con queste parole gli sfiora la fronte con un bacio, quindi con pochi passi dei lunghi piedi di danzatrice esce dalla camera per la porta finestra che dà sul parcheggio della villa.
Marco la vede aprire lo sportello della sua macchina tutta nuova, pulita e lucida, assestarsi di profilo, le mani sul volante.
Qualche volta, dopo aver acceso il motore, lei si gira e gli sorride; più spesso non lo fa.
La macchina si muove, parte, scompare con un rombo sommesso a cui si mischia lo scricchiolio della ghiaia sotto le ruote.
Marco resta solo.
Di solito, dopo la partenza di Daniela, esce dalla camera e va a sedersi in una sdraia, sulla terrazza, di fronte al mare.
Fuma, guarda la distesa nera del mare sulla quale brillano qua e là le luci quiete delle barche dei pescatori e pensa ad Daniela.
La vede, con gli occhi dell’immaginazione, filare dritta sull’autostrada nella macchina piccola e agile, suo dono recente per il ventinovesimo anniversario di lei.
Corre veloce verso il piacere e gli pare che pcrsino nella corsa della sua macchina metta un ritmo di danza.
Corre attraverso i gruppi sfavillanti di luminarie degli alberghi, dei ristoranti, dei bar, poi corre per lunghi tratti bui di macchia disabitata.
Corre inflessibilmente, arriva e…
Adesso lui la vede già a cose fatte cioè ad amplesso avvenuto.
Sta seduta su una sdraia accanto all’amante, magari mano nella mano, silenziosa, intenta come lui a guardare al mare nero sparso delle luci ammiccanti e tranquille dei pescatori.
E Marco si accorge di soffrire indicibilmente per quest’immagine casta e appagata, molto più che se se la figurasse nuda, supina su un letto, con l’uomo tra le gambe spalancate.
Si, soffre della loro felicità e, soprattutto, del carattere normale e, in qualche modo, coniugale di questa felicità.
Quest’idea che la moglie e l’amante si amino allo stesso modo che lui e Daniela si sono amati e tuttora si amano, gli riesce talmente insopportabile che ad un tratto non ce la fa più, si alza, va nel soggiorno a prendere una bottiglia di whisky, la sua bevanda preferita.
Poi torna alla sdraia, e col proposito lucido e dichiarato di ubriacarsi, tracanna in un solo sorso uno, due, tre bicchieri con molto whisky e poco ghiaccio.
Non è abituato a bere; dopo il terzo bicchiere, è già ubriaco.
Allora si alza, va nella camera da letto, si butta tutto vestito sulle lenzuola, si addormenta di un sonno pesante e disperato.
Durante la notte, si sveglia, confusamente si spoglia, si riaddormenta.
Il giorno dopo, che è sabato, e cosi anche la domenica, per fortuna il regista lavora: debbono finire la sceneggiatura entro l’estate e sono ancora indietro.
Automaticamente e rabbiosamente, come un robot che, per qualche mai visto artificio, abbia un cuore umano, lui si dedica in quei due giorni al film, con uno zelo e un’inventiva che, però, non gli imrediscono di soffrire.
Mentalmente, si paragona ad un cavallo a cui un cavaliere spietato strazi i fianchi con speroni insanguinati e corra cosi più del solito, fino al momento che crolla e non si muove più.
Il crollo avviene la domenica sera, dopo due giorni passati al tempo stesso a soffrire e a discutere sulle vicende del f’lm.
O meglio, crolla l’automa che scrive la sceneggiatura e rispunta fuori il marito di Daniela.
La nota, inevitabile angoscia, gli fa battere il cuore, gli fa mancare il respiro.
Siede nella sdraia come le altre sere, al buio, di fronte al mare; ma questa volta non beve; tende invece le orecchie nell’ansiosa attesa del rumore della macchina della moglie sulla ghiaia del viale.
E infatti, puntualmente, dopo l’ora della cena, ma prima di mezzanotte, il cigolio della ghiaia risuona discreto, intimo, familiare; poi il rombo della macchina si spegne; lo sportello viene sbattuto con moderato vigore.
Dopo un poco, ecco, Daniela appare, lo saluta con un “ciao” tranquillo, siede a sua volta nella sdraia accanto alla sua.
Lei sta al patto convenuto tra loro che ambedue devono parlare del week-end con serenità e oggettività.
E infatti subito si informa: “Che hai fatto? Sei poi andato da Rossana?” “No, non ne avevo voglia, non le ho neppure telefonato.” “Noi siamo stati a Terracina, a cena, in un ristorante che non ha che pizze, una lista di venti generi di pizze.
La pizza ai quattro formaggi, secondo me, è la migliore.
Hai mangiato solo o con qualcuno?” “No, solo.” “Al ritorno dal ristorante, ci siamo fermati in un tiro a segno, lui è più bravo di me.
Ha vinto un cane di peluche e me l’ha regalato.
Ce l’ho nella macchina.” “Chissà che orrore è.” “Questo avveniva venerdì sera dopo che ti ho lasciato.
Sabato sera, invece, siamo andati ad una festa.
C’era molta gente.” “Quanta?” “Ma, non so, un centinaio di persone.” “Sei andata con lui?” “Certo, con chi avrei dovuto andare? Lui è molto noto come pianista Tutti mi prendevano per sua moglie.” “Tu cosa dicevi quando ti prendevano per sua moglie?” “Cosa volevi che dicessi? Li lasciavo dire.” “Poi, cosa avete fatto?” “Siamo rimasti alla festa fino quasi all’alba.
Eravamo rimasti in pochi.
Siamo tornati a piedi alla villa, camminando lungo il mare.
Era bellissimo, cominciava a far giorno.
Io, poi, ero ubriaca per via dello champagne.
E tu cosa hai fatto sabato sera?” “Anche io mi sono ubriacato, ma con il whisky e da solo.
Sono stato seduto non so quanto tempo sulla terrazza a guardare il mare.” Questo dialogo avviene la terza domenica sera, cioè dopo circa venti giorni che stanno al mare.
E ancora giugno; Marco sa che l’amante di Daniela resterà nella sua villa fino a ottobre; e sa pure che il regista ha deciso di restare anche lui per tutto il mese di settembre.
Tutto ad un tratto, dopo il racconto della festa a cui Daniela ha partecipato con l’amante, all’idea insopportabile che la moglie sta facendo col rivale non soltanto le cose eccezionali e violente dell’amore, ma quelle normali e tranquille della vita quotidiana, Marco si domanda con angoscia se, stringendo il patto con Daniela, non ha presunto delle proprie forze.
Come potrà reggere ancora per tanto tempo alle partenze del venerdì precedute dai lunghi ed eloquenti preparativi nel bagno, e ai ritorni delle domeniche, con quei racconti piatti ed ambigui di ciò che lei e l’amante hanno fatto nei giorni precedenti? Di questo passo, si dice, lei con quel suo tono di notiziario balneare, dopo avergli parlato della festa alla quale si è recata col rivale, forse gli racconterà anche quello che ha fatto con lui dopo la festa e prima di andare a dormire.
E vero che fino ad ora si è tenuta alla vita quotidiana, ma nulla vieta di pensare che un giorno gli dirà che hanno fatto l’amore e il modo in cui l’hanno fatto e insomma tutto quanto.
Ora lui, per fortuna, non riesce ad immaginarlo, quest’amore.
Tanto più vuole evitare che lei, con quella sua spietata oggettività, glielo descriva nei particolari.
E allora, prima che questo avvenga, non gli conviene forse rompere il patto e chiedere ad Daniela che veda l’amante quando vuole ma non così regolarmente e soprattutto che non gliene parli mai più, cioè, insomma che abbia uno dei soliti adulteri borghesi, segreti e furtivi, con un marito che sa e non sa ma non desidera sapere e una moglie affettuosa che procura di accontentare il marito? Così viene il quarto venerdì senza peraltro che Marco abbia preso una decisione.
Poi, la notte di venerdì, succede qualche cosa di imprevisto, di insignificante e di decisivo.
Poiché, dopo i soliti preparativi, Daniela se n’è andata, Marco scopre che la bottiglia di whisky, con la quale è solito ubriacarsi subito dopo la partenza di lei, è finita.
E tardi e i negozi chiudono alle otto; ma i bar restano aperti la notte.
Come spinto da una molla che sia rimasta piegata molto tempo, lui esce subito dal soggiorno, corre alla propria macchina, vi sale, parte.
La macchina risale il breve viale di accesso, sbuca sull’autostrada, comincia a correre sul rettifilo.
Adesso, l’idea di andare a comprare il whisky in un bar, tornare alla villa e ubriacarsi, si palesa come una maschera provvisoria dietro la quale si nasconde un’intenzione diversa.
Quasi subito se ne rende conto: lui non sta andando in cerca di un bar; in realtà sta dirigendosi verso la villa del rivale.
Non sa quello che farà, ma sa di certo che farà qualche cosa.
Forse si nasconderà sulla spiaggia, dietro le dune e spierà la felicità di Daniela; forse si presenterà alla villa e improvviserà la scena tradizionale e scontata, ma sempre efficace, del marito che sorprende la moglie infedele; forse non farà nulla: si limiterà ad arrivare nei pressi della villa e poi devierà per andare da Rossana.
Affettuosa, sensuale ed esperta, Rossana sostituirà Daniela, gliela farà dimenticare almeno per quella notte.
Intanto corre sull’autostrada spingendo alla massima velocità il vecchio motore della sgangherata utilitaria.
La strada è piena di macchine che vanno e vengono nella tiepida notte estiva.
Quelle che lo precedono gli ammiccano al buio coi rossi fanali posteriori; quelle che gli vengono incontro l’abbagliano con i fari.
Ogni tanto attraversa un centro di villeggiatura tutto rutilante di luci.
Ogni tanto corre tra le tenebre della macchia disabitata.
E la corsa solita di tutte le notti quando va e viene dalla villa del regista; ma questa volta il motivo è diverso.
Ecco, dopo la lunga corsa senza pensieri, lo spiazzo a cui era diretto: il parcheggio con le pagliarelle; poche macchine parcheggiate; il grande bar con l’insegna “Mimosa” composta di tante lampadine colorate.
Marco introduce con cura la macchina nel parcheggio, si dirige verso il bar.
Non sa ancora con precisione cosa farà.
Ma nel momento stesso che varca la soglia del bar, improvvisamente decide: telefonerà alla villa del rivale, ingiungerà ad Daniela di raggiungerlo al bar, l’aspetterà.
Che cosa le dirà? Anche questo è affidato al caso: le dirà che non vuole più stare al patto; oppure che vuole separarsi da lei; oppure ancora che sta per fare ciò che lei gli ha raccomandato di fare: andare da Rossana, consolarsi con lei.
Il bar è quasi vuoto; il barman legge il giornale seduto di profilo dietro il banco; la cassiera pare ascoltare il fracasso del juke-box acceso a tutto volume; alcuni ragazzotti tormentano con oziosa e svogliata pazienza i flipper allineati contro le pareti.
Marco va direttamente alla cabina telefonica; forma il numero; aspetta.
Una voce d’uomo, gentile e ben educata, gli chiede chi desidera.
Marco risponde che vuole parlare con la signora Daniela.
L’uomo domanda: “Chi debbo dire?” Alla risposta: “Il marito”, l’altro, prontamente, l’informa: “Gliela chiamo subito.” Dopo un poco, infatti, Marco sente la voce della moglie: “Ah, sei tu? Dove sei? A casa?” “No, al bar qui accanto, il bar Mimosa.” “Che c’è?” “C’è che vorrei vederti un momento.” “Vedermi? Sono appena arrivata, ma se è importante, vengo.
” “E importante.” “Allora aspettami lì, al bar, vengo subito.” Marco esce dalla cabina, va ad inerpicarsi su un alto sgabello, al banco, e ordina un whisky.
Quindi si assorbe in un’analisi minuziosa del comportamento di Daniela.
Non c’è dubbio che è stata sollecita, gentile, forse persino contenta.
Perché? I motivi principali di questo insperato contegno possono essere tre.
Perché è contenta di stare con l’amante ed estende la propria contentezza anche a lui.
Perché vuole fare ingelosire l’amante mostrandosi affettuosa con lui.
Perché, per qualche sua ragione che ignora, è semplicemente contenta di vederlo.
Marco analizza le tre ipotesi senza venir a capo di nulla.
Intanto beve un primo whisky, poi un secondo, poi un terzo, alfine ne ordina un quarto.
Ma ecco Daniela.
La vede subito perché siede sullo sgabello del banco con la testa voltata verso l’ingresso.
Ancora una volta non può fare a meno di ammirare il passo slittante dei lunghi piedi calzati di sandali senza tacchi, al di sopra dei quali i volanti dello stretto e lungo abito rosso ballano e ondeggiano.
Che può importare ad una donna così che lui sia infelice? Con lo stesso passo, tra poco, potrà andarsene non soltanto dal bar ma anche dalla sua vita, lasciandolo alle sue sceneggiature, alle sue ambizioni di romanziere, alle donne borghesi e compiacenti come Rossana.
Poi, mentre lei si avvicina, nota una cosa singolare: è sicuro che poco fa, a casa, quando Daniela è uscita per salire in macchina, lei aveva lo slip sotto il vestito; ricorda di aver persino notato che l’orlo in rilievo dello slip, che si scorgeva in trasparenza, non delimitava che una parte della natica; e di avere pensato che dovesse infastidirla mentre camminava.
Ora invece lo slip non c’è più; si può persino indovinare, davanti, sotto il tessuto leggero e teso del vestito, la macchia scura del grembo.
Dunque, pensa, lei si era già spogliata e si è rivestita in fretta, senza rimettersi lo slip, per venire da lui.
Dunque stavano già facendo l’amore.
Formula questa ipotesi e ancora una volta si accorge, con strano dispetto, che non sa immaginare il modo col quale i due amanti si stavano accoppiando nel momento in cui ha telefonato.
Già, lui non può raffigurarsela che in atteggiamenti casti, affettuosi, coniugali.
Forse perché ogni altra immaginazione gli sembrerebbe profanatoria; ma forse anche perché l’ama ma non la desidera.
Daniela lo saluta con un “ciao” molto naturale, e persino cordiale; si inerpica anche lei su uno sgabello e immediatamente gli parla senza lasciargli il tempo di spiegarsi: “Ma lo sai che mi fa piacere vederti qui? Il patto era che tu non ti saresti mai fatto vivo e invece hai mancato al patto e in fondo hai fatto bene.
Provo un’impressione strana.” “Quale?” ‘Che tu sia l’amante e lui il marito.” ‘Cioè qualche cosa di nuovo e di imprevisto nel confronto con qualche cosa di noto e di prevedibile?” “Diciamo pure cosi.” ‘E allora?” “Allora, nulla.
Qual è la cosa importante che volevi dirmi?” ‘Niente di preciso.
Volevo soltanto sapere come vanno le cose.” ‘Quali cose?” “Le cose qui, con lui.” ‘Vanno bene.
Ci amiamo.
E’ un vero amore.” ‘Ne sei proprio sicura?” “Sì, per quanto si possa essere sicuri di qualche cosa.” ‘Perché, se non ne sei proprio sicura, io avrei deciso di chiederti di rinunziare al patto.” ‘Cosa vuoi dire? Non ti capisco.
Se io l’amo, tu stai al patto.
Se non l’amo, non ci stai?” “Sì, sto al patto soltanto se il vostro è un vero amore.
Se non lo è, se è un capriccio, un’avventura, non ci sto.” ‘Ma perché? Che differenza c’è?” ‘Un capriccio, un’avventura mi costerebbero troppo.
Soffro troppo.” ‘Mi ami dunque tanto?” “Sì.” “Ma che ti fa? Sto con te cinque giorni su sette.
Che cosa dovrebbe dire lui?” “Ah, non lo so davvero e non mi importa di saperlo.” ‘Su, non essere cosi disperato, torna a casa.
Ci vediamo come sempre domenica sera.” “Domenica sera forse non ci sarò, ci sarò lunedi mattina.
Ho la valigia qui nella macchina, vado a passare il weekend da Rossana.” “Da Rossana? Fai bene, cosi non stai solo in casa.
Salutala tanto da parte mia.” “Allora è questo l’amore che dici sempre di provare? “Che ti prende adesso? Che hai?” “Ho che sei una mignotta senza cuore.” “Non sono venuta qui per farmi insultare.
Ciao.” Daniela scende senza fretta dallo sgabello e col solito passo di danza per cui pare sempre sul punto di scivolare senza cadere, attraversa il pavimento del bar, si dirige verso l’uscita.
Al colmo del furore, Marco le tira dietro la lingua.
Il barman lo guarda con occhi sbarrati.
Marco lo investe con violenza: “Cosa ha da guardarmi, lei?” “Ma io…” “Questo è un locale pubblico.
Già, non bisogna fare gesti osceni in pubblico.
Ma tirare la lingua non è un gesto osceno.
Lo fanno i bambini.
Quanto le debbo per il whisky?” Il barman è un uomo maturo, biondo e calvo, dalla faccia ovale e dai tratti simmetrici e immobili.
Dice senza batter ciglio: “Lei paga alla cassa.” Marco paga ed esce.
Sa di essere ubriaco e se ne rende conto accorgendosi di sperare che Daniela lo aspetti là fuori, all’ombra del parcheggio, presso la macchina: faranno l’amore in macchina, in gran fretta, come, appunto, due amanti furtivi, mentre il marito, ignaro, aspetta nella villa.
Ma nello spiazzo non c’è nessuno, nessuno tra le macchine, all’ombra delle pagliarelle.
E lui prova un dolore acuto, come se la folle speranza di trovare Daniela che lo aspetta per fare l’amore, potesse avere qualche fondamento.
Poi, sale sulla macchina e, per tutto il percorso fino a casa, preoccupato dalla propria ubriachezza, non pensa più nulla, bada soltanto a guidare.
Ogni tanto ricorda di aver insultato la moglie e si dice con la spavalderia che è propria dell’ebbrezza: “Si sarà offesa, magari ci lasceremo, meglio cosi.” Ma tutto il tempo, in una zona riposta e oscura della coscienza, sente che l’idea dell’abbandono lo spaventa, e si ripete: “Mi ha detto: ciao; non si dice ciao quando non si vuole più rivedere qualcuno.” L’ubriachezza, nonostante la sua volontà di controllarla invece di diminuire, aumenta.
Le macchine che lo precedono sembrano lontanissime con le loro luci rosse; e invece, tutto ad un tratto quando le sorpassa, si accorge che erano vicine.
Le macchine che gli vengono incontro gli sembrano vicine e invece restano a lungo lontane con i bagliori dei loro fari.
Lui bada a tenersi discosto dalle macchine mentre le sorpassa o viene sorpassato; ma ha continuamente l’impressione di potere entrare in collisione.
E, allora, pur tra tante precauzioni il disastro lo tenta.
Immagina l’urto, possibilmente frontale, lo schianto, il fracasso, il crollo dei cristalli e se stesso dentro la macchina riverso sul sedile, la faccia rigata di sangue, ferito a morte.
Soprattutto lo affascina il momento prima dell’urto, quando per un attimo capirà che sta per succedere l’irreparabile.
Si, l’irreparabile, non il suicidio, lo affascina Non è forse ugualmente irreparabile che abbia insultato Daniela? Tra questi violenti moti dell’animo e tuttavia guidando con abilità istintiva, giunge alla villa.
Parcheggia la macchina, entra in casa e, camm’nando al buio senza accendere lampade, urtandosi nei mobili, arriva alla camera da letto, si getta tutto vestito sulle coperte e si addormenta subito.

fine prima parte Il venerdì

2

Il giorno dopo è sabato; il litorale è gremito di gente venuta da Roma e dalle province.
Marco si sveglia tardi e, come si affaccia sulla terrazza, vede là sotto, oltre le dune, l’arenile già affollato di bagnanti.
Ombrelli multicolori sono piantati obliqui, qua e là, a fare ombra a folti gruppi familiari.
Nel mare calmissimo ma di un brutto colore verde torbido, si vedono i bagnanti incedere lentamente e come con schifo, passo passo, tra i banchi di alghe imputridite e di detriti biancastri che galleggiano sotto il pelo dell’acqua.
Come non pare esservi un mare abbastanza limpido per il bagno, cosi non sembra che ci sia un sole abbastanza caldo per asciugarsi e abbronzarsi: il cielo è pieno di nuvole stracciate e trasparenti, dietro le quali il disco solare, giallo e smorto, trascorre rapidamente come cercando di nascondersi e di non concedere neppure uno dei suoi raggi.
Marco guarda per un poco alla spiaggia, quindi rientra nella villa, va in cucina, si prepara il caffè e lo beve con qualche biscotto: di solito Daniela gli fa trovare la tavola apparecchiata con la teiera, il bricco del caffè, le tazze, il latte, il limone, i toast, il miele, la marmellata, il burro.
Non pensa nulla, l’idea che Daniela, offesa, lo lascerà, è ancora indolore, ma lui sa che, presto o tardi, si sveglierà e lo farà soffrire, un poco come avviene col mal di denti dopo che l’effetto dell’anestesia è cessato.
Intanto lava e ripone il bricco del caffè e le tazze, rimette al suo posto il pacco dei biscotti.
Quindi esce, sale nella macchina e si reca dal regista.
Durante tutta la giornata lavora alla sceneggiatura e parallelamente soffre all’idea, ormai sveglia e lucida, che Daniela, offesa, lo abbandonerà.
Il dolore dell’abbandono rende insieme intenso e irreale il lavoro del film: per non dare a vedere il dolore si sforza di mostrarsi zelante nel lavoro e più si sforza più gli pare che il lavoro lasci trasparire il dolore.
Ma la sera di sabato gli riserva una sorpresa.
Quando rientra in casa e si sente stringere il cuore andando da una stanza deserta all’altra, gli viene fatto, affacciandosi alla terrazza, di pronunciare ad alta voce il nome di Daniela.
Dice il nome non tanto per chiamarla, che sarebbe un’assurdità, visto che lei in quel momento sta a trenta chilometri da casa, nella villa dell’amante, quanto per dirlo alla notte buia e silenziosa, sua sola interlocutrice in quella solitudine.
Allora, con un sussulto quasi di paura, sente immediatamente la voce di Daniela che risponde, calma: “Sono qui.” Marco esce sulla terrazza e infatti Daniela è li, seduta nella sdraia, le lunghe gambe distese nella stretta guaina rossa, i piedi accavallati sotto i volanti.
Allora cerca di nascondere la propria gioia e le domanda con tono di moderata sorpresa: “Toh, sei qui? Ma si può sapere che cosa è successo?” Lei comincia subito a parlare come ansiosa di confidarsi: ‘E successo qualcosa che ci ha sconvolti a tale punto che abbiamo deciso, d’accordo, di anticipare il mio ritorno per meglio riflettere tutti due.” “Non capisco.
E successo qualche cosa per cui sei tornata a casa per riflettere.
Ma che cosa? Qualche cosa di negativo?” ‘Non proprio.
Certo qualche cosa di nuovo.” “Di nuovo?” “Si, qualche cosa che non era mai successo e che non avevamo mai preveduto che poteva succedere.’ ‘Ma che cos’è?” ‘No, non posso dirtelo.
Ti basti sapere che ho provato con lui qualche cosa che non avevo mai provato con nessuno.” “Nemmeno con me?” ‘Con te meno che mai.
Ma non farmi parlare.
Posso soltanto dirti che per tutti due è stato come esplorare un territorio sconosciuto.
E’ stata una scoperta e siamo tutti due sconvolti.” ‘Addirittura una scoperta? E che sarà mai!’ ‘Tu, certe cose non puoi capirle.” ‘Ah, si, e perché poi?” ‘Perché vuoi spiegare tutto, definire tutto, rendere tutto chiaro e razionale.
E invece non è cosi.
Tutto è oscuro e, se vogliamo, folle.” “Ma insomma che cosa è successo?’ “Non posso dirlo, è una cosa tra me e lui.’ “Va bene, non dirlo ma allora stiamo zitti e guardiamo al mare.” Ma Daniela è tornata con un giorno di anticipo non tanto per riflettere quanto per confidarsi.
E infatti, dopo un lungo silenzio, alla fine riprende: ‘Se mi prometti di non fare i soliti commenti pieni di sufficienza, allora te lo dico.” “Va bene, niente commenti.
Dunque che cosa è successo?” “Mi ha battuto.” “Ti ha battuto?’ “Si, battuto, picchiato, percosso.’ “Ma allora tu devi assolutamente smettere di vederlo.’ “Ma no, come il solito non capisci nulla.
Basta, non parlo più.” ‘Via, come non detto, parla.’ “Forse non mi sono spiegata bene.
E’ andata cosi.
Quando mi hai telefonato dal bar Mimosa dicendomi che volevi vedermi, io ero appena arrivata.
Lui, impaziente come il solito, mi era già saltato addosso e, insomma, stavamo già per fare l’amore.
Ma io non avevo tanta voglia.
Da qualche tempo non mi divertivo più tanto perché lui, con quel suo andare avanti indietro dentro di me, non la finiva più e io ad un certo punto mi distraevo e pensavo ad altro.
Cosi, in fondo, sono stata quasi contenta che tu mi abbia telefonato e, come ti sarai accorto, non ho avuto nessuna difficoltà a raggiungerti al bar.
Davvero, come ti ho detto ho avuto l’impressione che si fossero scambiate le parti e che tu fossi diventato l’amante e lui il marito.
Bene.
Quando sono tornata alla villa e sono entrata nel soggiorno, non mi sono accorta che lui, fuori di sé per l’impazienza, mi aspettava nascosto dietro la tenda.
Sono andata al divano, tutto ad un tratto lui si avvicina alle spalle e invece di abbracciarmi, farmi stendere e, poi, come le altre volte, prendere ad accarezzarmi dolcemente e, debbo dirlo, noiosamente, ecco mi acciuffa per i capelli, mi sbatte sui cuscini, mi applica una mano sulla faccia e mi preme con tutta la sua forza la palma sulla bocca e le cinque dita sul naso e sugli occhi quasi volesse accecarmi, soffocarmi.
Intanto mi spinge l’altra mano tra le gambe e mi afferra per il pube, come se volesse strapparlo.
La mano che mi manteneva la testa affondata nei cuscini mi imbavagliava; le dita quasi mi spingevano gli occhi fuori dalle orbite; l’altra mano mi torceva e straziava il sesso.
Soprattutto, lui faceva tutto questo con una violenza terribile, spietata, nuova in lui, che, finora, come ti ho detto, era stato, se vogliamo, fin troppo rispettoso e gentile.” “Allora?” ‘Allora, improvvisamente non so davvero cosa mi è successo.
Invece di morderlo, di graffiarlo, di dargli un calcio nello stomaco come avrebbe fatto qualsiasi donna al mio posto, ecco che prendo a baciargli quella stessa mano con la quale mi schiaccia la faccia sui cuscini.” ‘Ma come hai potuto farlo visto che, secondo le tue stesse parole, ti imbavagliava.’ ‘Si, mi imbavagliava, ma non tanto che non potessi leccargli gli interstizi tra le dita.
Ma lo sai perché?” ‘Cosa vuoi dire?” ‘Perché lo facevo? Perché sentivo con assoluta sicurezza che quell’uomo mi amava, veramente mi amava, proprio d’amore, si, di vero amore e questo per la prima volta da quando ci conosciamo che è ormai un anno.’ ‘Immagino che anche lui avrà avuto la stessa sensazione che tu lo amavi davvero, di vero amore.” “Infatti, l’ha avuta, me l’ha detto ‘l giorno dopo.
Subito dopo, però, si è vergognato, si è pentito della sua violenza.
Si è gettato ai miei piedi e mi ha chiesto perdono, promettendo che non l’avrebbe fatto mai più.
Anche io mi vergognavo, ma meno di lui, forse perché, dopo tutto, ero stata io a subire la violenza e lui non poteva immaginare che mi fosse piaciuta.
Cosi ci siamo giurati l’uno all’altro che sarebbe stato la prima e l’ultima volta.
Eravamo in buona fede, eravamo davvero pentiti, tanto è vero che lui, quella stessa notte, ha avuto verso di me un contegno cosi tenero e delicato che quasi mi pareva impossibile che fosse lo stesso uomo che poco prima era stato cosi brutale e spietato.” “Molto interessante.
Il giorno dopo, che cosa è successo perché tu sia tornata a casa cosi in anticipo?” “Il giorno dopo, che è oggi, abbiamo fatto la solita vita senza affatto parlare di quello che era accaduto la sera prima.
Siamo stati tranquilli, sereni, distesi; eravamo sicuri che non avremmo mai più fatto l’amore nel modo, diciamo cosi, violento.
Poi, poco prima di cena, lui si è seduto al pianoforte e ha preso a suonare.
Ha suonato quella nenia insistente, orientale, il Bolero di…
Come si chiama l’autore?” “Ravel.” “Ecco, bravo, Ravel, che è già cosi incalzante e lui lo suonava quasi con rabbia.
Mi avvicino, gli pongo un braccio intorno le spalle, cosi, per tenerezza.
D’improvviso, che è che non è, smette di suonare, fa fare un giro allo sgabello e con un solo strattone mi piega giù, bocconi, sulle sue ginocchia.
Non mi ero ancora vestita, avevo fatto or ora la doccia, e mi ero infilato un accappatoio, corto.
Lui mi tira su l’accappatoio, mi tiene giù la testa con una mano sul collo, e con l’altra prende a battermi.
Erano le stesse mani con le quali aveva poco fa suonato il pianoforte, lievi, delicate, sensibili, ma adesso parevano di ferro.” “Che intendi per battere?” “Quello che si fa qualche volta ai bambini per punirli di qualche cosa che non dovevano fare.” “Ho capito.
In buon italiano chiama sculacciare.’ “Si, lo so che si dice cosi.
Ma è una parola, come dire?, comica che non rende affatto la sensazione che provavo.” “E che sensazione era?” “Dico sensazione, ma dovrei dire anche sentimento.
La sensazione è stata prima di dolore, te l’ho già detto, come se la mano fosse di ferro.
Poi, però, il dolore, non so come, si è cambiato in un grande calore dolce che dal fondo della schiena mi arrivava su su fino alle guance.” “E il sentimento?” “Il sentimento, quello non si può descrivere.” “Perché?” “Perché è un sentimento d’amore.
L’amore non si descrive, si prova.’ “Se l’hai provato dovresti sapere descriverlo.” “Ma, non so, di sottomissione, di ubbidienza, di pentimento.
“Pentimento di che cosa?’ “Ecco il punto.
Di tutto e di nulla.
Lui mi puniva, io sapevo benissimo che non avevo fatto nulla di male eppure mi pareva giusto che mi punisse.
Tant’è vero che ad un colpo più forte degli altri, figurati, gli ho gridato: ‘Non lo farò più, ti giuro che non lo farò più’.” “E questo lo chiami amore?’ “Si, è amore perché, mentre lo facevamo, sentivo che l’amavo e che lui a sua volta mi amava.
Era un amore nuovo che non avevo mai provato prima con nessuno.
Senza volerlo, come ti ho detto, per puro caso, in fondo per merito tuo che sei venuto a cercarmi, abbiamo scoperto una maniera nuova di amarci.” “Lo sai che cosa avete scoperto?” “Eccoti, con le tue definizioni.
Non lo so e non voglio saperlo.
So soltanto che ci amiamo e mi basta.” “Avete scoperto tu il masochismo, lui il sadismo.” Lo vedi, non sei capace di capire certe cose e allora ricorri agli insulti.” “Non è un insulto, sono due maniere di amare complementari e dipendenti l’una dall’altra.” “No, è un insulto.
Si dice comunemente: sei un masochista, sei un sadico, per dire: sei un degenerato.
Io invece ho sentito che io non ero masochista e che lui non era sadico e che quello che facevamo era vero amore.
Un amore come questo, tra noi due, non c’era mai stato.” “Grazie a Dio!” “E’ inutile che fai dell’ironia.
Tu, certe cose, non puoi capirle.
Sei troppo intellettuale, troppo fatto sui libri.
Non sai che cosa è veramente l’amore.” “Che cosa è l’amore?” “E’ qualsiasi cosa, magari dire delle parolacce.
Tu ieri mi hai dato della mignotta ed era amore.
Lui, magari, uno di questi giorni, mi dirà anche lui la stessa parola e sarà di nuovo amore.” Ora, per la sceneggiatura a cui sta lavorando e che racconta la storia del rapporto edipico tra una madre e un figlio, Marco si è portato dietro al mare una piccola enciclopedia psicanalitica.
Adesso salta su dalla sdraia e corre nel soggiorno.
Il libro è là, nello scaffale, Marco lo prende, torna sulla terrazza, e alla luce della lampada infissa nella parete della villa, sfoglia in fretta e furia il volume, quindi legge ad alta voce: “l’importanza della coppia nel sadomasochismo supera ampiamente il piano delle perversioni.
Il sadismo e il masochismo occupano, tra le perversioni, un posto speciale.
L’attività e la passività che ne formano i caratteri complementari e opposti sono costitutivi della vita sessuale.’ Per la prima volta da quando ha stretto il patto con Daniela, Marco è quasi felice.
Gli pare di essere il più forte; di librarsi con la sua enciclopedia al di sopra del deliLio della gelosia.
Daniela tace.
Trafelato, lui conclude: “Come vedi, non è un insulto.
E soltanto il nome che bisogna dare alla vostra pretesa scoperta.
E questo nome è: sadomasochismo.” “Già, avremmo scoperto una perversione, eh! E allora spiegami perché subito dopo questa cosiddetta perversione, abbiamo fatto cosi bene l’amore e io ho provato tanta tenerezza e affetto per lui, e gli ho baciato le mani, e, se vuoi proprio saperlo, anche i piedi.
Si, mi sono buttata carponi e gli ho baciato i piedi.’ “E allora, tu dimmi perché sei tornata un giorno prima.
Cosa sei tornata a fare?’ “Sentivo il bisogno di riflettere, magari di confidarmi con te.
Ma ho fatto male, malissimo.
Tu mi hai disgustata con la tua freddezza, le tue definizioni.
Guarda, avevo intenzione di passare la domenica con te, ma ci ho ripensato e torno da lui.
Ciao, leggiti il tuo libro, ci vediamo domani sera.” In maniera del tutto imprevista, Daniela si alza impetuosamente dalla sdraia, corre sulla terrazza fino alla propria macchina parcheggiata dietro l’angolo della villa.
Marco non fa in tempo né a fermarla né a parlarle.
Con il solito dolore dell’abbandono, sente il tonfo dello sportello sbattuto con rabbia, quindi il rombo del motore che si accende, poi lo scricchiolio della ghiaia sotto le ruote e infine più nulla.
Segue un profondo disabitato silenzio.
Marco lascia cadere in terra il libro, siede di nuovo sulla sdraia, e guarda fissamente al mare.
La luna, che è piena, ha fatto il giro del cielo: poco fa era alle sue spalle, adesso pende davanti a lui, all’orizzonte, simile ad un enorme monile rotondo e luminoso sul vasto petto tenebroso della notte.
Per un momento, lui pensa di andare a prendere nel soggiorno la bottiglia di whisky e ubriacarsi.
Poi ci rinunzia, dicendosi che deve accettare il dolore o, meglio, la compagnia del dolore.
Infatti, l’ubriachezza vuol dire per lui completa, ottusa, solitudine; mentre nel dolore non è mai solo, anche se, come è il caso adesso, forse preferirebbe esserlo.
Da questa decisione di accettare il dolore e di apensarlo’ fino a farne un oggetto preciso e riconoscibile, il passo è breve.
Marco si accorge subito, allora, che il pensiero è di gran lunga più efficace dell’alcool per far passare le ventiquattro ore che mancano al ritorno di Daniela.
E intanto, prima di tutto, perché, dopo essere tornata in anticipo per confidarsi a lui, Daniela è ripartita con tanta rabbia per la villa del rivale? Evidentemente, pensa ad un tratto, perché lui l’ha davvero insultata dando un nome alla sua pretesa scoperta di una maniera nuova di amare.
Dare un nome e per giunta un nome scientifico a qualche cosa di misterioso, di ineffabile e di promettente: questo è stato l’insulto.
L’irreparabile che non è avvenuto quando l’ha chiamata mignotta, è invece scattato di fronte alla oggettiva e accettabile spiegazione freudiana.
Daniela l’ha abbandonato e adesso non gli resta che sperare nella sua già sperimentata volubilità.
Ma intanto lei è tornata dall’amante e forse sta già vendicandosi della sua freddezza didattica con il rapporto manesco che lei chiama amore, e a lui non rimane che l’arida, quasi comica, consolazione delle quattro righe dell’enciclopedia psicanalitica.
Si, di fronte ad Daniela infatuata, tutta la scienza del mondo crolla come un castello di carte; una sola percossa che le imprima sulla carne l’impronta della palma del pianista vale più di tutte le interpretazioni che Freud può darne.
E intanto l’idea dell’abbandono, simile ad una gelida lama affilata, penetra sempre più profondamente nel ventre molle della sua presunzione intellettuale.
Cosi, ora analizzando lucidamente il comportamento di Daniela e ora soffrendo dell’angoscia dell’abbandono, Marco passa la sera di sabato e buona parte della domenica.
Per fortuna, c’è il lavoro con il regista e cosi, tra analisi, angoscia e sceneggiatura, gli riesce di fare girare le ruote pesanti e apparentemente inamovibili del tempo.
Ma quando la sera della domenica rientra nella villa deserta e si dice senza sollievo e senza fierezza: “dopo tutto ce l’ho fatta ad arrivare fino alla notte”, improvvisamente gli viene un desiderio acuto di un rapporto d’amore affettuoso e illusorio, proprio quello che non ha con Daniela e, di ist’nto, si dirige verso il telefono.
Telefonerà a Rossana, si farà invitare a cena, farà l’amore con lei, magari dormirà con lei.
E Daniela? Alza le spalle con rabbia: al diavolo Daniela! Tende la mano, forma il numero di Rossana.
Il telefono squilla una volta, due volte, tre volte…
Poi, ad un tratto, due mani gli circondano gli occhi e la voce di Daniela gli chiede allegra: “A chi stai telefonando?’ Marco riesce a dominare il suo turbamento, rimette a posto il ricevitore, risponde con calma: “A Rossana.” “Che telefoni a fare a quella noiosa?” “Per invitarla, anzi invitarmi a cena.’ “Ma perché, visto che sapevi benissimo che tornavo stasera?’ “Non sapevo niente.
Sei partita infuriata.
Ce l’avevi con me.” “Non ce l’avevo con te.
A dirti la verità, ero offesa, sì, un poco.
Ma soprattutto, ero pentita di averlo lasciato prima di domenica sera.
Beh, non importa.
Muoio dalla fame, andiamo a mangiare.’ Cosi salgono ambedue nella macchina di Daniela e vanno a mangiare in un ristorante situato sul mare, a poca distanza dalla villa.
Daniela ha davvero fame e mangia con gusto parlando di cose insignificanti.
Marco la guarda, soffre, e non riesce a capire perché soffre.
Ad un tratto comprende: “Soffro perché l’amo ma non la desidero.’ E infatti è proprio cosi.
Lui non tanto l’ama d’amore quanto, letteralmente, l’adora alla maniera contemplativa, rispettosa e tutto sommato distante, di un devoto che si inginocchia davanti ad un’immagine sacra.
Come potrebbe baciare, accarezzare, possedere fisicamente quello che alla fine deve pur chiamare un simbolo? Si, Daniela è il simbolo di una bellezza inafferrabile e per questo adorabile, che è giusto contemplare da lontano piuttosto che cercare di imprigionare in un vano abbraccio.
Daniela, nonostante l’allegria e l’appetito che la distraggono, si accorge di questa sua angosciata e impotente contemplazione e gli domanda, affettuosa: “Che hai? Perché mi guardi in quel modo?” “Perché dovrei guardarti?” “Non lo so, forse perché oggi ho le guance molto rosse e invece, di solito, sono molto pallida.
Non è cosi?’ “No, non è cosi.’ “Sai perché te lo chiedo? Perché oggi, anzi poco fa, mi ha schiaffeggiato.
Ero pronta ad andarmene, già gli stavo dicendo: ‘Allora ci vediamo venerdi prossimo”, quando lui mi sbarra il passo e mi dice: ‘Non devi andartene”.
Gli rispondo con calma che è tardi; lui ribatte che debbo restare la notte con lui e tornare da te lunedi mattina.
Gli oppongo sempre con la stessa calma: ‘No, assolutamente no, devo andarmene, cosi è nel patto e me ne andrò.’ Allora, proprio nel momento in cui faccio per passare oltre e uscire, mi arriva un ceffone.
Non uno schiaffo, un ceffone di quelli che fanno rivoltare la testa.
Prima sulla guancia destra, poi sulla sinistra.
Sono scappata per il soggiorno, lui mi ha inseguita, e pur scappando mi sono resa conto che eravamo già in una specie di gioco, che già stavamo facendo l’amore.
E infatti, non scappavo perché avevo paura e magari l’odiavo; recitavo invece una parte che voleva che io prendessi gli schiaffi e scappassi.
E, alla fine, l’abbiamo fatto, l’amore, come il solito, anzi meglio del solito, benché in fretta perché volevo a tutti i costi tornare da te.
Ma che hai, insomma, perché continui a guardarmi in quel modo?” “Forse hai ragione tu: hai le guance rosse perché hai preso gli schiaffi.” “Torneranno bianche al più presto; non temere.
Se fossero stati schiaffi di odio, forse avrebbero lasciato il segno, ma erano schiaffi d’amore e l’amore, chissà perché, non lascia mai tracce.’ “Ma erano schiaffi, pur tuttavia.” “Sì, anzi, di’ pure ceffoni.’ “Basta, basta, basta ” “Ecco, lo vedi come sei! Via, non essere cosi arrabbiato, vi amo tutti due ma in una maniera diversa.
Per provartelo, una di queste notti, facciamo l’amore; è un pezzo che non lo facciamo.” “Quando vuoi che lo facciamo?” “Tu, con i tuoi programmi! Vuoi sempre programmare tutto, come le agenzie di viaggio con i loro volantini nei quali tutto è previsto, persino il momento di andare alla toilette.
L’amore deve venire all’improvviso, cosi, senza programrni Quando ci verrà la voglia lo faremo; sei contento adesso?” Marco non ha il coraggio di dirle che non tanto desidera fare l’amore con lei quanto che non lo faccia più con il pianista E che gli ha chiesto quando avrebbero fatto l’amore, non tanto per impazienza quanto per farle piacere e per recitare la parte che lei gli ha assegnato, del marito accecato da un desiderio incontrollabile.
Tuttavia, quella vaga promessa di fare l’amore una di quelle notti gli basta per passare alla meno peggio i quattro giorni fino a giovedi.
E vero, lui non la desidera anche se l’ama; ma vuole illuderla di essere desiderata perché sa che per lei amore e desiderio sono la stessa cosa.
Ma questo stato d’animo di attesa di qualche cosa che, come Daniela stessa, riveste un carattere simbolico, lo trasforma in automa.
Come un automa, e quasi meravigliandosi di esserlo, il lunedi, il martedi, il mercoledi, e tutta la giornata del giovedi, fa la solita vita: colazione, sceneggiatura, bagno, pranzo, siesta, sceneggiatura, cena, sonno”E oscuramente, quasi con spavento, gli pare di intuire che, se avverrà che facciano l’amore, come lei gli ha promesso, continuerà ad essere un automa anche durante l’amore.
E cosi avviene, infatti.
Durante la notte da giovedi a venerdi, lui si sveglia a metà, tende le braccia verso Daniela addormentata al suo fianco, la attira a sé.
Non si baciano, non s’ accarezzano; lui ha un’erezione forte; lei aiuta la penetrazione; lui ha quasi subito l’orgasmo; quindi, pur sempre come un automa, esce da lei, ricade sul fianco, si addormenta.
Il giorno dopo, che è venerdi, Marco si accorge che, nonostante l’orgasmo della notte, l’idea che la moglie la sera si recherà come al solito dal rivale lo fa soffrire esattamente come gli altri giorni.
L’amore della notte sbrigato in maniera automatica tra il sonno e la veglia non ha affatto attenuato il dolore della vigilia dell’infedeltà, anzi pare accrescere il senso acuto e impotente del carattere sfuggente di Daniela o, meglio, della sua bellezza.
C’è una specie di ironia nella parola stessa che designa l’amore fisico: lui, quella notte, ha “posseduto” Daniela.
E tuttavia non la possiede più di quanto possieda la donna danzante dipinta tanti secoli or sono sui vasi greci, alla quale cosi spesso la paragona.
Viene il momento della partenza di Daniela per la villa del pianista, il venerdi sera.
Marco sta seduto, come gli altri venerdi, sulla poltrona ai piedi del letto e aspetta che la moglie, finiti i preparativi, esca dal bagno.
E sicuro che quest’attesa durerà il tempo delle altre volte e non può fare a meno di meravigliarsi: dunque far l’amore non conta nulla? Dunque, è proprio vero, lei se ne andrà come gli altri venerdi? Con sua sorpresa, pochi minuti dopo che Daniela si è chiusa nel bagno, la porta si apre e lei, tutta nuda, appare sulla soglia: “Te ne prego, vieni un momento qui.” Marco si alza dalla poltrona con una sensazione contraddittoria: da una parte gli fa piacere che Daniela lo chiami, lo faccia partecipare alla sua toilette; dall’altra non si dissimula che lei gli chiede di aiutarla nei preparativi per il rituale adulterio settimanale.
Ma reprime l’istintiva ripulsa.
Perché non dovrebbe aiutarla, visto che non la desidera? E poi, la bellezza di lei forse non va contemplata in qualsiasi circostanza, anche la più sfavorevole? Entra nel bagno, Daniela sta in piedi di fronte allo specchio del lavandino, al quale però volta le spalle, torcendosi tutta per meglio guardarsi la schiena: “Ti prego, fammi il piacere, guarda qui dietro, mi fa male e non posso vedermi, lo specchio è troppo alto, dimmi che ho.’ Indica con la mano un punto della schiena tra l’insellatura delle reni e la fenditura delle natiche.
Marco guarda e vede che in quel punto la carne ha una macchia rossa scura, lunga e stretta, come di sangue rappreso sotto la pelle ancora intatta: “Sembrerebbe un’ematoma, un versamento di sangue.
Forse ti sei urtata senza accorgertene, contro un mobile.” Tocca con le punte delle dita l’ematoma e poi, d’improvviso, gli albeggia la verità: “E il segno di un percossa”.
La vista gli si oscura, il cuore gli dà un tuffo, si accorge che le dita con le quali tocca con delicatezza la macchia di sangue hanno preso a tremare.
Poi un pensiero gli attraversa e gli illumina la mente al modo che il lampo di un temporale attraversa e illumina il nembo: ricorda benissimo che la sera prima, al momento di coricarsi, Daniela ha girato nuda per la camera come gli avviene sempre prima di andare a letto e lui ha notato una volta di più la forma perfettamente sferica delle natiche, simili a quelle, appunto, delle danzatrici dei vasi greci.
Ora, sicuramente, la sera avanti, l’ematoma non c’era.
Un senso gelido di qualche cosa di nuovo e di sinistro lo fa rabbrividire: “Ma quando ti sei fatta questa contusione?” “Me l’ha fatta lui.” “Ma ieri sera la macchia non c’era.
E la notte l’hai passata con me.” “Si, è vero, ma sta’ a sentire.
Tu ed io abbiamo fatto l’amore stanotte, no? Poi, tu ti sei addormentato; a me invece l’amore mi aveva resa nervosa, anche perché tu eri venuto quasi subito e io no.
Cosi sono uscita dalla camera tutta nuda come ero e sono andata ad affacciarmi alla balaustra della terrazza, piegandomi verso il mare che non si vedeva, però, perché non c’era la luna.
Mentre guardavo, mi è sembrato che a poca distanza da me, tra l’uno e l’altro di quegli arbusti in vaso che sono sulla terrazza, ci fosse come l’ombra dritta e immobile di qualcuno.
Ma non c’era la luna, la notte era proprio buia e non ho capito bene se fosse l’ombra di una persona o quella di uno di quegli alberelli.
Mi è venuta una grande paura, ho pensato che fosse un ladro; ma un ladro non sta fermo in quel modo, e allora chi poteva essere? Tutto ad un tratto l’ombra si è mossa, ha alzato il braccio, e mi è arrivata sulla schiena, proprio dove adesso ho quella macchia, qualche cosa come una frustata, con forza terribile.
Era lui che era venuto durante la notte, proprio come un ladro e quello che avevo scambiato per una frustata era il colpo corto e duro di uno scudiscio.
Si, uno scudiscio, l’avevo già visto alla sua villa, ci scherzava sopra, mi diceva che l’aveva comprato per me, che un giorno o l’altro me l’avrebbe fatto assaggiare.
Ho provato un dolore forte, mi sono raddrizzata, gli ho detto con voce bassa e intensa: ‘Ma sei matto.
Che fai qui? Sei matto?’ Lui, come risposta, ha alzato di nuovo il braccio per darmi un’altra scudisciata e io allora sono scappata saltando dalla terrazza sulle dune, là sotto, un po’ per paura ma anche, debbo confessarlo un po’ per gioco.
Ho preso a scappare tutta nuda come ero, al buio, da una duna all’altra e lui dietro, raggiungendomi ogni tanto con il suo scudiscio ma per caso e mai con tanta forza come la prima volta che stavo piegata sulla balaustra e stavo ferma e lui aveva avuto il tempo di prendere la mira.
Scappavo, dovevo essere buffa, cosi nuda inseguita da quel pazzo con lo scudiscio.
Poi, ad un tratto, mi sono messa a ridere e allora ho capito che era davvero soltanto un gioco, uno dei tanti che facevamo e ho preso a correre direttamente verso il mare, gridando: ‘Acchiappami, se sei buono.’ Cosi sono entrata nell’acqua che era meravigliosa, tiepida come di giorno e, per un poco, sono scappata anche nel mare.
Poi lui mi ha acchiappata da dietro e siamo caduti insieme nell’acqua e allora abbiamo fatto l’amore ed è stata la volta, forse, che l’abbiamo fatto meglio e io ho sentito di nuovo che mi amava.
Sì, proprio così, soltanto un uomo veramente innamorato avrebbe potuto venire in piena notte ad appostarsi sulla mia terrazza e, soprattutto, mettere tanto amore nello scudiscio.” “Beh, che cosa vuoi che io faccia?” “Ecco, prendi questa pomata, mettine un poco in quel punto e massaggiami.” “Debbo spalmarne molta o poca?” “Poca, se no mi macchio il vestito.” “Ecco fatto.” aAdesso massaggiami, piano però.’ “Si, cosi.’ “Ti fa male?’ aNon tanto, ma non vorrei che mi restasse il segno.” “Non ti resterà, sta’ tranquilla, non l’hai detto anche tu che l’amore non lascia il segno?” “Grazie, va bene cosi, ma adesso vattene, devo fare la doccia.” ‘Marco esce in fretta dal bagno, attraversa la camera, passa nel soggiorno e va a chiudersi nell’altro bagno della villa.
Li, al buio, prende ad urlare.
E un urlo che ha insieme della protesta e del lamento; è propriamente quel richiamo animale che va sotto il nome di ululato.
L’urlo si alza fino ad una nota più alta e più cupa, quindi si abbassa, diventa gemito, e poi riprende di nuovo, ripigliando forza proprio nel momento in cui lui pensa che non ne abbia più.
Va avanti cosi per più di mezz’ora.
Poi Daniela bussa alla porta, lui smette di urlare ed esce dal bagno con la faccia ancora sconvolta.
“Allora io vado.” “Ciao, buon divertimento.” “Ci vediamo domenica e faremo l’amore.” “Sì, ciao.’ Per la prima volta dopo il patto del venerdi sera, lei gli tende le labbra e lo bacia sulla bocca: “E non essere cosi disperato, lo sai che ti amo.” Poco dopo, Marco esce anche lui, sale in macchina, e una volta sull’autostrada prende a correre in direzione della villa dell’affettuosa ed erotica Rossana che però è anche quella che porta al borgo dove abita il rivale.
Si dice che andrà da Rossana, cenerà con lei, farà l’amore, magari dormirà tra le sue braccia.
Non è un progetto che l’attragga molto, ma è il solo che, nella presente situazione, gli riesca di formulare.
Corre in questo modo per alcuni chilometri, non pensa nulla, passa attraverso zone balneari illuminate e zone buie di boschi e di macchia; ad un tratto, ad uno spiazzo nel quale si affaccia la baracca di un tiro a segno, sterza e va a fermarsi nel parcheggio.
Ci sono le solite cose dei tiri a segno di paese.
Il fondo è simile ad un presepe, gremito di fantocci e di oggetti da colpire; un trenino gira intorno al presepe, coi suoi vagoni che anche essi servono da bersaglio.
Due ragazze bellocce e vistose, l’una bionda e vaporosa, l’altra bruna e formosa, ambedue con vestiti sgargianti e scollati, porgono i fucili ai clienti e li ricaricano piegando la canna e lasciando cadere in terra il bossolo, tutto questo meccanicamente e svogliatamente, parlando sotto voce tra di loro.
Marco si fa dare un fucile e prende di mira un fantoccio, un clown dalla faccia rossa e bitorzoluta, col disco del bersaglio nella pancia, sulle ampie brache a scacchi.
Marco è un discreto tiratore ma indugia a sparare, non sa nemmeno lui perché.
Ad un tratto abbassa il fucile, lo posa sul banco e se ne torna alla macchina.
Guida senza eccessiva velocità, dibattendo con freddezza dentro di sé questo problema: perché uccidere quando, com’è il suo caso, si può benissimo, con procedimento legale, fare uscire dalla propria vita la persona che si vorrebbe uccidere? In altri termini più diretti: perché uccidere Daniela quando potrebbe farla sparire con un semplice divorzio? Si chiede se odia la moglie e risponde una volta di più che non soltanto non la od’a, ma, sia pure con quello strano amore privo di desiderio, l’ama.
Si, l’ama appassionatamente e forse l’amore è proprio il motivo per cui sta andando alla villa a prendere la pistola con la quale l’ucciderà.
Ucciderà anche il pianista? No, non vuole ucciderlo, vuole uccidere Daniela perché la ama e lei, in fondo, gli chiede di ucciderla e lui non gli rifiuterà quest’ultima prova d’amore dopo le tante che le ha già fornite.
Si, Daniela ha cercato tutta la vita il suo assassino e finalmente l’ha trovato in lui.
Dopo questa conclusione non pensa più nulla fino all’arrivo a casa.
Ferma la macchina sull’autostrada, scende a rompicollo il viale d’accesso, entra come un bolide nella camera da letto, va direttamente ad uno stipo: ecco la pistola nel cassetto, nera e piatta, posata su un fascio bianco di conti e di ricevute.
La tiene sempre a portata di mano, la villa è isolata, non si sa mai, c’è sempre il pericolo che un ladro cerchi di introdursi.
Poi risale all’autostrada e guida di nuovo automaticamente, senza pensare nulla, per i trenta chilometri che lo separano dalla località dove si trova la villa del pianista.
Qui, parcheggia la macchina di fronte al bar Mimosa e va in fretta al sentiero che, tra due palizzate di canne, porta alla spiaggia.
Appena giunge sulle dune, si volta a guardare e vede subito la villa, lassù, un grande rettangolo oscuro con una sola finestra illuminata.
Non c’è ancora la luna, ma se ne indovina la presenza perché la notte è chiara.
Inoltre quella gialla luce tranquilla della finestra illuminata gli permetterà di giungere alla villa senza difficoltà.
Pensa che forse in quel momento i due amanti stanno facendo il loro amore oltraggioso e manesco; forse l’uomo sta sculacciando Daniela.
Si dice che questa scena ridicola è probabilmente ciò che si nasconde dietro la luce cosi calma e rassicurante della finestra.
Ma si accorge che questa immaginazione non ha nulla di comico.
Al contrario, gli fa sentire di nuovo più preciso e più insopportabi e senso di un incubo che ormai dura da troppo tempo e che il colpo della pistola dissiperà.
Strisciando dietro i cespugli, arriva fino alla terrazza che è alquanto più alta delle dune, simile ad una specie di ribalta sospesa di fronte al mare.
Attraverso il vetro della finestra illuminata, può vedere adesso l’interno della stanza.
C’è una parete bianca alla quale è appeso un quadro senza cornice, molto colorato, del genere informale; c’è il nero pianoforte a coda sul quale il pianista ha suonato il Bolero ‘li Ravel.
Marco pensa che quella luce, appunto perché sembra cosi tranquilla, è sospetta, nasconde qualche cosa che tranquillo non è.
Poi, improvvisamente, cambia idea e decide che i due amanti in quel momento non fanno nulla di particolare, forse guardano la televisione; e si accorge che questa immaginazione di una felicità in qualche modo coniugale gli ispira un dolore acuto, quasi insopportabile.
Si, adesso salirà pian piano la piccola scala che porta dalle dune alla terrazza.
Busserà alla finestra.
Qualcuno gli aprirà, o l’uomo o Daniela.
Ma lui sparerà soltanto alla moglie.
Improvvisamente, mentre guarda alla facciata della villa, la finestra si apre e Daniela esce sulla terrazza, tutta sola, e viene ad appoggiarsi alla balaustra come per guardare alla notte, alla maniera di chi vuole rinfrancarsi con la tranquillità e il silenzio della natura.
Indossa il solito vestito rosso lungo e stretto, con i volanti intorno alle caviglie.
Allora lui capisce che non sarà mai capace di alzare la pistola e sparare.
La contemplazione inappagabile che lo fa guardare ad Daniela come al simbolo di una bellezza infinitamente sfuggente è ricominciata nel momento stesso che lei è apparsa.
Ma ora avviene qualche cosa di imprevisto.
Daniela si stacca dalla balaustra; lui si accorge che porta al braccio la grande borsa in cui mette la roba necessaria per il weekend; poi la vede dirigersi lungo la terrazza verso la propria macchina che sporge col cofano al di là dell’angolo della villa.
Daniela, è chiaro, sta andando via.
E appena arrivata e, per qualche motivo che lui non può indovinare, sta tornando a casa.
Marco la vede girare intorno alla macchina, aprire lo sportello, salire.
Poi il motore ha un breve ruggito che diventa subito un rombo sommesso e regolare.
La macchina retrocede nella marcia indietro, scompare.
Gli viene una gioia quasi incredula per una simile, insperata, complicità del destino.
Correndo da una duna all’altra, raggiunge il sentiero sabbioso tra le palizzate di canne, arriva allo spiazzo del bar Mimosa, si getta al volante della macchina, parte.
Guida, in questo ritorno, con lo stesso automatismo senza pensieri con il quale ha guidato all’andata.
Una volta alla villa, parcheggia la macchina accanto a quella di Daniela: è già arrivata grazie alla maggiore velocità; forse sta già contemplando lo spettacolo della notte ma non più dalla terrazza del rivale bensi da quella della loro villa.
Non si sbaglia.
Daniela è sulla terrazza, seduta sulla sdraia, visibile nella notte chiara per il rosso del vestito.
Marco si avvicina, si siede a sua volta accanto a lei.
Poi, vedendo che lei non parla e neppure si volta, chiede: “Ma si può sapere che cosa è successo?” ‘Ci siamo lasciati, mi ha schiaffeggiata appena sono entrata e io non l’ho sopportato.” ‘Scusa, ma non ti aveva schiaffeggiata anche le altre volte?’ ‘Si, mi aveva schiaffeggiata, ma quelli erano schiaffi d’amore.
Stasera, invece, erano schiaffi di odio.
L’ho sentito subito, non gli ho baciato la mano come le altre volte.
L’ho respinto, l’ho persino graffiato.” ‘Forse ti sei sbagliata.” ‘No, non mi sono sbagliata; l’odio, come l’amore, è qualche cosa che si sente.
Poi abbiamo avuto una spiegazione e lui, alla fine, ha ammesso che mi odiava e neppure da quel momento, forse da qualche tempo.
Allora abbiamo deciso di comune accordo che non era più possibile andare avanti cosi.” ‘Vi siete veramente lasciati?” “Si, definitivamente.
Per un poco è stato bello, poi non più.
A proposito, ti ho visto sulle dune.
Ti ho visto e ti ho persino guardato negli occhi.” “Mi hai visto? Perché non mi hai chiamato?” “Mi hai fatto paura, avevi degli occhi terribili.” ‘Infatti, volevo ucciderti, avevo la pistola in tasca.” “Lo sai che è strano? Guardando i tuoi occhi ho sentito che mi amavi.” Marco non dice più nulla.
Adesso si domanda che cosa è veramente successo tra Daniela e il pianista.
Forse le scudisciate della notte prima erano state scudisciate di odio.
Forse la loro storia era già finita senza che se ne accorgessero; e loro, nella loro esplorazione dei territori proibiti dell’amore, erano trascorsi loro malgrado in quelli dell’odio.
Forse, anche lui, non si era accorto di essere trapassato da un sentimento ad un altro diverso e opposto, fuori dalla verità dell’amore, tra i sofismi oscuri dell’odio.

Alberto Pincherle

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