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La luce del mattino dissipò la nebbia creata da alcool e orgasmo.

Mi guardai un attimo intorno; il letto di Nami, poco distante dal mio, implorava di essere rifatto. Ciondolai non molto allegramente verso la cucina, dedicando la solita breve carezza mattutina alla mia natica destra, e trovai mia sorella seduta sul divano, intenta a leggere un libro.
La solidità di quanto successo la sera prima mi colpì con violenza allo sterno: gay, bacio, eccitazione. Mi avvicinai a lei e l’abbracciai goffamente da dietro il divano, schioccandole un bacio sulla testa. Non parlammo molto di quanto mi aveva rivelato la sera prima, sapevamo che non ce n’era bisogno. Mi chiese semplicemente com’avessi fatto a intuire la sua omosessualità e le snocciolai una dopo l’altra le mie teorie, contandole sulle dita della mano:

– “Una persona raramente è ancora vergine a ventitré anni, nemmeno le più ferventi credenti ci arrivano… si sposano prima! No, non iniziare – frenai il suo impeto -, so che sei vergine, me l’avresti detto se così non fosse! Inoltre, al liceo i ragazzi facevano quasi a botte per chiederti di uscire, ma a malapena consideravi le loro proposte; quelle rare volte in cui lo facevi, rientrata a casa la sera dicevi sempre che non ti eri trovata bene.”

Continuai così per un po’, esplicandole l’elenco mentale di teorie (una più affascinante dell’altra), e finimmo per ridere quando mi domandò se mamma e papà lo avessero intuito.
La giornata passò tranquillamente, alternammo l’ozio a inconcludenti sessioni di studio scandite da continui “Ma quindi quella volta…” e anche “Allora avevi capito che…” e ancora “Non ci credo, non posso essere stata così palese…”. Risposi alle sue domande quasi meccanicamente, la mia mente stava indagando su quella nota stonata che avevo avvertito la sera prima, quando le diedi quel bacio a stampo sulle labbra, cercandone le motivazioni e analizzando i desideri che io stessa celavo nel subconscio.
La guardai, mi preoccupai. I capelli corvini e serici le cascavano in ciocche disordinate sulle spalle – quella mattina non li aveva raccolti, come sempre faceva, in una coda – e gli occhi, neri come la pece, erano incorniciati da una frangia ribelle. Le fissai per un secondo (che parve un’intera esistenza) le labbra carnose e d’impeto m’immaginai intenta a baciarle con passione, cercando di intuire quale sensazione quel consapevole contatto lascivo potesse scatenarmi nello stomaco.
Ornella, dabbasso, richiamò la mia attenzione; la zittii subito e cercai di concentrarmi nuovamente sullo studio, maledicendomi per le diapositive che la mia mente mi proiettava.
Cercai di distrarmi giocherellando con il cellulare e guardando i post di uno dei tanti social a cui ero iscritta: avevo paura di essere un libro aperto per Nami e di certo non volevo farle capire che, fino a pochi momenti prima, avrei volentieri indugiato in un’orgia tra me e la lussuria con il suo corpo nudo quale tema d’ispirazione.

Apollo continuò per un po’ a volare sul suo carro, ogni mattina; i giorni si susseguirono quasi uguali gli uni agli altri senza che riuscissi minimamente a dare risposta a sensazioni che erano andate intensificandosi con il passare del tempo. Più di una volta, da sola a casa, mi era capitato di concedermi del piacere immaginando mia sorella nuda. I sogni a occhi aperti più ricorrenti erano però quelli in cui io e lei ci legavamo in un amalgama saffica, incuranti dei preconcetti morali imposti dalla società; e “che vadano tutti a quel paese!”.
Da quasi insignificante briciola qual era, quel bacio (poco innocente) s’era evoluto in un impasto ben lievitato nelle mie mani. Ne ero quasi ossessionata. Scandagliavo in continuazione la mia mente in cerca di risposte, cercavo su internet spiegazioni scientifiche a quel che sentivo, ma la frustrazione permeava il mio stato d’animo. Mi sentivo sporca ma allo stesso tempo arsa dal desiderio. In alcuni momenti fui persino tentata di entrare in bagno con una scusa qualsiasi mentre lei era nella doccia – come più di una volta mi era capitato di fare prima di essere posseduta da una versione così perversa di me -, ma la parte razionale del mio cervello, quantunque in minoranza, m’imponeva di restare dov’ero. Non c’era nulla di sbagliato (forse) a immaginarla nuda, non era corretto (forse) compiere delle azioni, un tempo pure e innocenti, portando la malizia al guinzaglio.

Credo che Nami avesse intuito che c’era qualcosa che non andava in me, che stessi combattendo una lotta interiore, che fossi vessata dalla famosa Spada sulla testa. In parecchie occasioni mi chiese cos’avessi, desiderosa d’aiutarmi, a mio avviso. Ogni volta glissavo sull’argomento, dando la colpa alla stanchezza dovuta alla preparazione dell’ennesimo esame universitario o a qualche sciocca lite con gli amici. Qualcosa era cambiato per la seconda volta, tra me e lei, ma quasi mi rifiutavo di credere che desiderassi mia sorella quale amante.
Presi una decisione drastica, convinta che questa scelta avrebbe contribuito a farmi rinsavire: niente più giochi con la mia Ornella. Forse smettere di assecondare le sue pulsioni avrebbe fatto sì ch’iniziassi a vedere la cosa più lucidamente, inquadrandola per quello che doveva sicuramente essere: una piccola cotta innocente destinata a spegnersi come una fiamma coperta da un bicchiere. Si era accesa, mi aveva bruciata per un po’, ma la mia decisione di privarla dell’ossigeno l’avrebbe fatta spegnere definitivamente. Quanto mi sbagliavo.

La fine di luglio portò con sé un caldo estremo. In certi giorni era quasi impossibile indossare nient’altro che gli slip, tuttavia, stoica fino in fondo, m’imposi di restare ligia al dovere ed evitare in qualsiasi modo il benché minimo riferimento a una possibile lussuria. Quantomeno mia sorella, da sempre più pudica di me, non infieriva sulle mie indecisioni girando solamente in intimo. Né io le domandai perché non si vestisse in maniera più leggera visto il gran caldo, né me lo chiese lei. Era come se una sorta di consapevolezza fosse sorta tra noi due, una consapevolezza ignara di ciò ch’era realmente. Perché, ne sono convinta, lei non era assolutamente al corrente dei miei pensieri incestuosi nei suoi confronti. Di nuovo, quanto mi sbagliavo.
La mancanza di condizionatore in casa ci aveva obbligate a utilizzare un vecchio ventilatore che, da un po’ di tempo, aveva deciso di essere invidioso della Torre di Pisa. Quel pomeriggio afoso io indossavo solamente una semplice canotta sudata e dei pantaloncini. Avrei volentieri fatto a meno dell’intimo (quantomeno del reggiseno), ma stavo sempre più cercando di evitare qualsiasi tentazione. Inutile dire che tutti questi accorgimenti non stavano facendo altro che spingermi dalla parte opposta.
Nami uscì dalla doccia con solo l’asciugamano indosso. Il telo liso per l’avanzata età, bucato in un paio di punti, mostrava qualcosa che, secondo la mia razionalità, sarebbe stato meglio non vedere. I miei occhi si fissarono su quel lembo di pelle sul gluteo sinistro, messo in mostra dal “telo galeotto”, e Nami se n’accorse. La cosa che mi lasciò basita (tuttavia giustificabile con il fatto che non stava mostrando nulla di particolarmente erotico) fu che lei non s’affrettò a coprirsi meglio come avrebbe fatto la Nami che conoscevo, bensì si avvicinò a me per vedere cosa stessi leggendo. Avevo la sua pelle d’alabastro a pochi centimetri dal viso; mi sentivo calda al punto da far alzare la temperatura interna di parecchi gradi. Guardai verso l’alto, per evitare di essere troppo palese, e le sorrisi. Mi sorrise di rimando. Il telo consunto (che inconsciamente ringraziai tante e tante volte) era appoggiato sul suo seno, ne nascondeva l’intima natura ma non i contorni. Scendeva giù informe lungo il suo corpo, per poi adagiarsi dolcemente sui fianchi e lasciarle scoperti i polpacci.

Mi scrollai di dosso un pensiero erotico che m’aveva afferrato le viscere e feci finta di nulla, continuando a leggere; lei andò in camera a cambiarsi. Ritornò poco dopo, i capelli ancora umidi che le regalavano un misto di gocce d’acqua e sudore sulle clavicole e sulla schiena, sulle spalle e sul collo. Si sedette accanto a me sul divano, vestita di nient’altro che d’una semplice canotta, dei soliti pantaloncini che indossava dopo la doccia e, a sua insaputa, del mio desiderio. Mi domandai se avesse l’intimo, sotto quei semplici tessuti, ma nuovamente spinsi via quella domanda infiltratasi nella mia mente come un’ostinata goccia in una roccia.
Nami aveva un profumo buonissimo. Distese le lunghe gambe affusolate sulla sedia lì davanti al divano, lasciando le ciabatte sul pavimento. Era incredibile, mi dissi, come un tempo non avrei minimamente fatto caso a dettagli del genere, mentre ora dedicavo tutta me stessa a osservare ogni suo piccolo movimento, ogni minuscola smorfia. Continuai a leggere, probabilmente lo stesso paragrafo per diverse volte, mentre lei guardava la TV. La mia concentrazione era altalenante, il mio intelletto diviso tra ciò che leggevo (sempre più distante da me) e la vista delle sue cosce, delle ginocchia, dei polpacci e dei piedi scoperti.
Avevo bisogno di una doccia fredda e così ne feci una; devo dire che la cosa mi giovò, momentaneamente. Cenammo, telefonammo ai nostri genitori, guardammo un film e andammo a dormire a mezzanotte passata. Il buio della stanza invase lo spazio intorno a noi, aumentando a dismisura i confini della camera: Nami era a una distanza di due comodini da me, ma avrebbe potuto essere dall’altra parte dell’oceano. Un paio d’ore passarono come niente, ma il sonno non voleva arrivare. La mia mente era affaticata dalle continue immagini di mia sorella appena uscita dalla doccia, dalle sue gambe nude distese sulla sedia accanto a me, dal profumo della sua pelle. Cercai di captare un qualche segnale che potesse convincermi che Nami stesse dormendo: il silenzio più assoluto e l’immobilità dell’aria attorno a noi mi spinse a concedermi il lusso di credere che il mondo del raziocinio, per lei, aveva lasciato spazio a quello dei sogni.

Presi la decisione di fare ciò che da tempo rimandavo e che non avevo più il coraggio né la forza di posticipare. Non mi curai minimamente di coprirmi con il lenzuolo (troppo caldo per farlo) dal momento che il buio più totale già m’offriva la sua protezione. Cercando di muovermi il più silenziosamente possibile, mi liberai del reggiseno e degli slip (gli unici compagni che vegliavano sul mio corpo durante la notte) e, novella mirmidone, salpai alla conquista del mio personale Vello d’oro.
Tastai il mio corpo, le mani conoscevano ogni posto segreto capace di scatenare il piacere fisico che stavo cercando. Dita vogliose sfiorarono i fianchi seguendone la curva del bacino, della gamba ripiegata perpendicolarmente all’altra, della caviglia. Era conscia di ciò che serviva per accendermi, ma volevo godermi appieno il momento, arrivarci pian piano come chi corre la corsa campestre. Mi accarezzai la curva dolce della mandibola, le clavicole, lo sterno; sparsi un po’ di sudore lungo tutto il mio ventre, lì dove la valle tra le colline inizia a digradare dolcemente verso la caverna, giusto poco prima di arrivare a quel piccolo pozzetto centrale tanto capace di generare passione.
La mia orchestra iniziò così a suonare.

(Forti il contrabbasso e l’organo, nelle profondità del mio ventre, vibrarono sommessamente scuotendomi dalle fondamenta)

Decisi di indugiare un po’ su quelle piccole ciliegie che campeggiavano sulle due colline a est e ovest del mio corpo, desiderosa di farle svegliare totalmente e renderle mature e dolci e succose per un’ipotetica bocca vogliosa di assaporarle. Stuzzicai le due estremità che in breve s’intumidirono

(e i primi flauti, clarinetti e fagotti m’inondarono di una musica piacevole come una carezza, suggestiva e magnetica allo stesso tempo)

e sentii una voce dal profondo della caverna attirarmi a sé, richiamarmi con insistenza al punto di spingermi a stuzzicare piano con le dita: Sara, Sara, Sara, Sara. Percepii un movimento dal letto accanto. Non avevo abbastanza forza di volontà per obbligarmi a fermarmi. Nell’oscurità più completa avvertii gli occhi di mia sorella inchiodarsi su di me, in una visione che nelle illusioni più ottimistiche corrispondeva a realtà ma che ero sicura fosse solo immaginazione. Un movimento, un secondo e di nuovo il silenzio. Ripresi ad assecondare i bisogni del mio corpo, gocce salate di sudore crollavano dai capelli sul cuscino. Fremevo d’eccitazione

(e dopo arrivò il pianoforte, picchiando sui suoi tasti mi accompagnò sulla strada che avevo deciso di percorrere, suadente, deciso e al contempo dolce e soave; e io risuonai con lui)

e di passione. La mia intera anima era in subbuglio, alla mercè del mio corpo, sua schiava. Accarezzai con dita frementi i bordi esterni delle labbra meridionali, arrischiando un timido saluto all’interno della caverna. Assaggiai quell’esploratore coraggioso, desiderosa di tastarne il sapore e ciò mi convinse ch’era alfine arrivato

(e poi violini che si fusero con il resto degli archi per creare un canto sofisticato che mi desse un paio d’ali, giacché non ero più in grado di restare con i piedi per terra e volevo librarmi verso l’estasi)

il tempo di osare. I miei personali strumenti di piacere non incontrarono nessuna resistenza, due di loro scivolarono tranquillamente all’interno della caverna e furono benvenuti. Iniziarono a spingere ancora e ancora e ancora, insaziabili, causando una continua melodia, un ritmato sciacquettio impossibile da ignorare anche per una persona addormentata. Ci fu un altro movimento accanto a me, lo colsi appena ai margini della coscienza e non solo decisi d’ignorarlo, ma ciò mi spinse ad accelerare, a osare ancora di più. La frenesia s’impossessò di me

(e vennero le percussioni; oh, quant’erano forti le percussioni, com’erano possenti e vivaci e mistiche; potenti come il tuono s’inseguivano, una dietro l’altra, lasciandomi senza fiato)

e incurante del rumore che stessi provocando, dedicai a me stessa tutti gli sforzi di cui avevo bisogno. Strinsi le dita dei piedi, i muscoli si tesero fino allo spasmo, iniziarono i primi tremiti proprio nel momento in cui l’orgasmo si spargeva nel mio corpo e mi costringeva

(e il suo momento sopravvenne in prossimità dell’estasi: il soprano, la cui voce acutissima si levò alta e acuta nel luogo dove fisica e metafisica arrivano a sfiorarsi)

a un urlo ancestrale, violento e dal rumore silenzioso, quasi come se la mia voce fosse stata risucchiata via dal corpo con ciò che avevo appena liberato. Continuai a tremare per qualche altro secondo, incapace di credere a quanto abbondantemente avessi inzuppato il lenzuolo, quando sentii la sua voce provenire da un’isola remota, a me lontana; la percepii appena. Era Nami che mi stava chiedendo, con una nota di desiderio nella voce (ne ero sicura), se fossi venuta. Mugugnai il mio assenso con condiscendenza, quasi sorridendo inconsciamente e poi “caddi come l’uom che ‘l sonno piglia”.

— continua

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