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High Utility – Episodio 46

High Utility

Episodio 46

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I dieci minuti preventivati da Flavia per raggiungere la pizzeria al trancio “Sarno” crebbero fino quasi a venti a causa della telefonata imprevista, ma comunque soddisfacente, di Giada. Il problema era che sembrava che, quella sera, chiunque a Caregan avesse deciso di prendere una pizza, e all’interno del piccolo ristorante c’erano già sei persone in attesa di ordinare: i due pizzaioli erano all’opera e, mentre uno lanciava l’impasto in aria davanti ai clienti, l’altro distribuiva a pioggia cubetti di mozzarella che di campano non doveva avere nulla. Forse l’unica cosa napoletana all’interno della pizzeria, pensò Flavia, era la fotografia incorniciata del golfo e del vulcano partenopei, visto che anche i due cuochi erano uno egiziano e l’altro friulano.
La sua elucubrazione venne interrotta da una voce proveniente nella fila davanti a lei. – Flavia! Come mai da queste parti?
La ragazza tornò al presente, mettendo a fuoco la sua vista su Alessio, un paio di persone prima di lei. Si stupì lei stessa della felicità di incontrarlo. – Ehi, come mai da… eh… voglio dire: ciao!
Si scambiarono un paio di battute, scoprendo così che il ragazzo era in giro quella sera visto che i suoi ospitavano un gruppo di colleghi del padre a cena.
– E allora te la sei data a gambe? – domandò bonariamente lei, prendendolo in giro.
– Ho resistito un paio di volte in passato, ma questa ho inventato una scusa che avevo un appuntamento e me la sono squagliata. Ho intenzione di mangiarmi una pizza e poi andare al cinema. Tu?
Flavia sollevò le spalle. – Avevo un appuntamento anch’io, ma mi ha dato buca – rispose, modificando quel poco la verità in modo che non fosse proprio una bugia ma assumesse comunque un aspetto più interessante.
– Povero idiota… – commentò lui, passandola dalla testa ai piedi con lo sguardo e nascondendo malamente il proprio apprezzamento.
Lei trattenne un sorriso all’idea che lui avesse equivocato, credendo che un appuntamento romantico fosse sfumato. – Non era un ragazzo, ma una ragazza.
– Ah – rispose lui, equivocando palesemente di nuovo.
Flavia rise ponendosi una mano davanti al viso. – No, non era un incontro di quel tipo! È una mia amica con cui di solito passo il sabato sera – spiegò, senza aggiungere che passava anche parecchi pomeriggi in sua compagnia, nude e con quattro uomini, e che, comunque, aveva fatto con lei davvero quanto doveva essere sicuramente passato per la mente di Alessio, ma preferì non specificarlo.
Il ragazzo sollevò le spalle. – Beh, se sei sola, che ne dici se mangiamo insieme. Non mi fa impazzire l’idea di occupare da solo un tavolino da quattro qui dentro e ancora meno andare di fuori con quell’aria.
Lei fu tentata di rifiutare. Non le andava di lasciare sua madre a casa senza pranzo.
– Poi io pensavo di guardare un film dell’orrore, ma, se vuoi unirti anche lì, possiamo scegliere altro – concesse lui, ignaro della decisione di Flavia.
Ma la decisione di Flavia vacillò a quelle parole. – Orrore? – domandò, quasi balzando sul posto.
– So che ci sono un paio di commedie, questa se…
Flavia mosse le mani davanti a lui, come a fermarlo. – Che film dell’orrore volevi vedere?
Alessio sollevò le sopracciglia, confuso. – “La montagna della morte”: racconta di una spedizione su certi monti della Russia negli anni Sessanta o Settanta del secolo scorso…
Le sopracciglia rosse della ragazza si sollevarono ancora più di quelle del ragazzo, così come il tono di voce. – Volevo tanto andare a vederlo! – disse, eccitata. Ne aveva letto su Internet e voleva aspettare che divenisse disponibile il noleggio in formato digitale, ma poterlo vedere con qualcuno al cinema sarebbe stato certamente un’esperienza migliore.
L’espressione di Alessio fu di stupore di fronte a quella di Flavia, ma presto assunse la stessa. – Allora, abbiamo già organizzato la serata.
La ragazza gli diede un bacio su una guancia, felice. Gli chiese di ordinare per lui la pizza e la bibita e, adducendo la scusa che doveva fare un salto in bagno, si allontanò.
Raggiunta una posizione non visibile dalla folla, prese il telefono dalla tasca e compose il numero di Sam.
– Dimmi, amore – rispose la donna, dopo un paio di squilli.
– Ehm… mamma? Non posso portarti la pizza, ho… un impegno.
La voce di Sam si fece preoccupata. – Stai bene?
– Sì, sì: passo fuori la sera.
– Ah, va bene – concordò la donna, sebbene il tono lasciasse intendere che non era particolarmente soddisfatta di vedersi sfumare la capricciosa. Si aggiunse una punta di avversione quando domandò: – È la tua amica Alena, quella delle orge?
– No, no – la rassicurò lei, – è un amico, Alessio.
– Va bene, ma mi raccomando…
– …niente sesso.
– Ma quale sesso! Niente horror! Mi raccomando!
– Ma, mamma! Ho diciotto anni, non ho più paura.
La voce di Sam divenne canzonatoria. – Sì, certo: l’ultima volta che hai visto lo speciale di Halloween dei Simpson non hai dormito la notte!
– Mamma! – ribatté Flavia, offesa e divertita.
– Dai, divertiti, che la tua povera mamma si preparerà qualcosa di precotto e… – la donna finse di tirare su con il naso, – …lo salerà troppo con le sue lacrime per essere stata abbandonata dalla figlia che ama tanto.
– Mi fai sentire in colpa…
La donna rise. – Dai, sciocca, divertiti! E, mi raccomando…
– …niente sesso.
– Niente horror! Non ti voglio ancora nel mio letto perché hai paura! E non trattarlo troppo male, se lo porti a letto: non tutti sono portati al sesso come piace a noi.

Flavia, dopo essere davvero andata in bagno a darsi una rinfrescata e un po’ di lucidalabbra, tornò nel salone del ristorante, dove trovò Alessio che reggeva due piatti di alluminio da cui si sollevavano volute di vapore caratterizzate da un deciso profumo di basilico.
Il ragazzo indicò un tavolo che avrebbe, a stento, permesso di appoggiarvi sopra quattro piatti, nonostante in numero delle sedie attorno. – Va bene, lì?
– Perfetto – rispose lei, – Vado a prendere le bibite.
Quando fece ritorno dal bancone, appoggiò sul tavolo una bottiglietta di Coca Cola per sé e una cedrata per Alessio. Inspirò a pieni polmoni l’effluvio che saliva dalla sua pizza, soddisfatta.
– Napoli, eh? – constatò il ragazzo, dopo un sorso di bevanda. – Vedrò di ricordarmelo.
A Flavia tornò alle mente che Alessio, un paio di settimane prima, aveva ordinato per lei il suo dolce preferito quando si erano incontrati per caso al bar, sebbene gliel’avesse visto prendere solo una o due volte nel periodo che era stata la fidanzata di Luca. Sorrise al pensiero che qualcuno avesse tutto questo interesse per questi suoi piccoli particolari. Si chiese il ragazzo se avesse avuto tutte queste attenzioni anche con Giada, la quale, a differenza sua, di tanto in tanto gli permetteva di farsela…
– Tu, invece, pizza alla diavola, vedo – ribatté Flavia, consapevole che entro lunedì non se lo sarebbe comunque ricordato. Tagliò una fetta con quel coltello che a stento avrebbe fenduto la nebbia, scoprendosi ridicola. Sollevò lo sguardo verso Alessio, con un sorriso per stemperare l’imbarazzo.
Lui sorrise a sua volta, e non fu uno di quelli di circostanza: sembrava stesse per mettersi a ridere, ma non per la sua goffaggine, quanto per la felicità di essere con lei; invece di farlo, però, indirizzò la sua attenzione alla propria pizza. Probabilmente, più avvezzo di lei a mangiare al “Sarno”, conosceva quanto fossero affilate e inutili le posate, lasciandole ancora nella confezione di carta bianca, abbandonata sul tavolino accanto al piatto. Prese piuttosto la pizza, la piegò due volte, quindi in quattro, e la sollevò davanti a sé, la bocca aperta.
Davanti allo sguardo sorpreso di Flavia, lui la abbassò di nuovo sul piatto, confuso. – Dici che è troppo da rozzi?
– Cosa? – domandò lei, non capendo, troppo presa a contemplare la soluzione semplice ed efficace del ragazzo. Si scosse, sbattendo gli occhi. – No, non preoccuparti. Piuttosto, non hai paura di sporcarti?
– Paura? – sbottò lui, sogghignando. – Se mi lancio con un parapendio, non è di certo una pizza unta a mettermi paura!
A sentirlo introdurre quell’argomento, il sorriso di Flavia si espanse come la vela multicolore che Alessio usava per volare sopra Caregan. Il velo di agitazione che si era posato sulla sua anima all’idea di passare una serata con lui, temendo di non apparire interessante ai suoi occhi, volò via in una folata di eccitazione. – Ti va di parlarne? – domandò, con un interesse che forse solo le lezioni di sesso che sua madre le aveva impartito erano state in grado di risvegliare in lei. Inconsciamente, sentì il bisogno di abbandonare le posate e piegare a quarti la pizza, indifferente dell’olio che luccicava sotto le luci del piccolo ristorante.
– Cosa vuoi che ti dica? – domandò lui, sollevando le spalle e lasciando intendere che non aveva molto da dire. – È una passione che mi è nata anni fa e…
E nei dieci minuti successivi le loro pizze rimasero quasi tutto il tempo sui rispettivi piatti, raffreddandosi. Fu quella di Flavia, la quale quasi nemmeno si rese conto del sapore, a diminuire di dimensione, mentre quella di Alessio non venne nemmeno toccata, perso nelle correnti d’aria ascensionali che si sollevavano dalle rocce a vista delle montagne attorno a Caregan, accompagnato dal ricordo degli schiocchi della vela e dal senso di vuoto sotto di lui che riempiva il suo petto di un’emozione indescrivibile, di cui, aveva scoperto, non poteva fare più a meno.
Flavia lo guardava ma, al tempo stesso, dopo pochi attimi, aveva smesso di vederlo. Davanti ai suoi occhi si disegnava il blu del cielo e le nuvole al suo stesso livello, le cime delle Dolomiti come denti di fauci che cercavano di riportarla alla sua futile esistenza sulla superficie della terra e il fondovalle nascosto da ombre e una nebbia spessa, che sembrava nascondere qualcosa che non le sarebbe piaciuto scoprire. Si sentiva svuotata da ogni pensiero, finalmente libera, mentre le parole di Alessio scivolavano sulla sua pelle come avrebbe fatto il vento in quota, insinuandosi sotto i suoi vestiti. Chiuse le palpebre, sorridendo appena, e rilassandosi. Appoggiò una guancia ad una mano per sorreggersi, e lasciò che quella sensazione di benessere crescesse dentro di lei, cullandosi con le emozioni che le parole dei Alessio facevano nascere nel suo cuore, che si infondevano in ogni fibra del suo corpo.
Purtroppo, la narrazione non durò quanto il volo reale, e quando Alessio concluse spiegando l’atterraggio nei pressi della cava e delle attività successive per la sistemazione dell’attrezzatura, Flavia ebbe bisogno di fare uno sforzo per non esprimere con il corrucciamento delle sue labbra quella sensazione simile all’essere svegliata da un bel sogno.
– Sarà meglio se mangiamo la pizza, – disse lui, fissando la propria, appena sbocconcellata, – prima che diventino troppo fredde.
– Ehm, sì – convenne Flavia, che in quel momento, in realtà, aveva ancora troppe emozioni nel petto per trovare il posto per del cibo.
– E poi, tra venti minuti inizia il film – aggiunse il ragazzo, lanciando un’occhiata al grande orologio appeso su una parete del locale.
– Il film! – esclamò lei, ma fu più che altro educazione perché, dopo il racconto di Alessio, di vedere una pellicola horror gli importava poco. Scoprì che avrebbe preferito passare la serata con lui, il capo appoggiato su una spalla, a sentirlo di nuovo raccontare dei suoi voli in parapendio…

In realtà, come scoprì Flavia un’ora più tardi, “La montagna della morte” non si stava dimostrando affatto noiosa come aveva temuto mentre finiva gli ultimi bocconi di pizza e li mandava giù con la Coca Cola. Si era trovata davvero abbracciata ad Alessio, ma non era per essere di nuovo deliziata dalla sua esperienza nel volo, quanto come risposta istintiva di fronte ad un mostro che si era scagliato fuori dal bosco oscuro e piombato su una delle ragazze che, insieme ai suoi compagni, stava correndo nella neve, sotto una luna piena incredibilmente grande, dopo essere fuggiti da uno squarcio aperto in un lato della tenda.
Il contenuto del bicchierone di popcorn che Alessio aveva comprato all’ingresso era ormai sparso sul pavimento, dopo che la ragazza era balzata sul sedile quando era comparsa per la prima volta un’ombra scura tra i rami spogli del bosco che i protagonisti stavano attraversando per raggiungere un qualche posto su una montagna, scoprendo pochi istanti dopo che era in realtà un orso che, alla vista degli umani, dopo aver recriminato un po’ per il disturbo, aveva deciso di lasciar loro il passo libero. La seconda volta, gettando a terra proprio il bicchierone e strappando una risata di Alessio, che si era poi scusato, era stato quando la zip della tenda, la prima notte di campeggio, si era abbassata di colpo e aveva fatto il suo ingresso, ben poco gradito, un anziano cacciatore del luogo, il viso orribilmente segnato da anni di intemperie, che aveva consigliato, o più esattamente imposto, ai sette ragazzi di andarsene perché un paio di notti dopo i mostri sarebbero venuti a prenderli. “Sono solo ignoranti superstizioni”, aveva risposto, quasi ridendogli in faccia, quello che, dei sette, voleva apparire come il coraggioso compagno leader.
Ora, mentre una delle ragazze, Tasha o qualcosa del genere, spaccandosi i polmoni implorava disperatamente aiuto, le sue grida che scomparivano nella notte sotto il bosco, strappata dal gruppo in fuga precipitosa da un ignorante superstizione balzata fuori dal buio e subito scomparsa, gli altri sei scalpitanti nella neve macchiata di sangue, incerti se fingere una ricerca suicida o riprendere una fuga a rotta di collo altrettanto fatale, Flavia si ritrovò tra le braccia di Alessio, che la strinse a sé, rassicurandola con un sussurro appena riconoscibile nella musica che imperversava nella sala del cinema.
Quando lo guardò, nel riflesso artificiale delle nevi sovietiche, il volto di lui lasciava trasparire una soddisfazione per il lavoro del regista nel cercare… nemmeno di spaventarlo, quasi più di non farlo annoiare, di gettarlo in quel mondo irreale di mostri scontati e finali prevedibili.
La ragazza provò a simulare un po’ della sicurezza del suo amico, sedendosi compostamente sul suo sedile, fingendo di non avere dei popcorn sotto la suola delle scarpe, lasciando che il braccio di Alessio restasse sulle sue spalle. Anzi, quando lui, forse senza nemmeno accorgersene, forse pensando che lei si sentisse a disagio in quell’abbraccio, lo sollevò, Flavia prese la mano con la sua e gli chiese di lasciarlo lì. Lui le lanciò un’occhiata, sorridendole. – Se hai paura, possiamo andare.
Lei non aveva paura, era terrorizzata. Era come se il freddo dell’inverno di quella notte maledetta degli Urali uscisse al pari di una foschia invisibile dallo schermo e scivolasse tra i sedili, fino ad avvolgere le gambe e gelarle il cuore e l’anima ma, al contempo, solo il calore del braccio di Alessio le infondeva le energie per restare lì e non fuggire. – No, non preoccuparti – gli rispose, sussurrandogli in un orecchio, pensando a quando non aveva dormito tre notti per aver visto “L’esorcista”.
Lanciò un grido e nascose il viso nel petto del ragazzo quando i sei sopravvissuti trovarono Tasha su un albero, o almeno una parte di lei, per quanto la mancanza di abiti, pelle e alcune estremità rendesse il riconoscimento solo probabile.
– Mi domando se un chirurgo troverebbe qualche errore nella scena – ironizzò Alessio, accarezzando i capelli arancioni della ragazza. – Hai mai pensato di studiare chirurgia, Flavia?
– Vaffanculo – rimbrottò lei, la voce che si smorzava nell’addome del ragazzo, strappandogli una risata.
La ragazza passò buona parte del tempo al sicuro tra le braccia di Alessio, incerta se pentirsi di aver accettato la sua offerta di vedere un film dell’orrore, o felice per quel contatto fisico così piacevole. Provò un paio di volte a guardare lo schermo, ma constatò che la scena di Tasha, o quello che restava dopo il suo rapimento, era una delle meno disgustose della pellicola da quel momento in avanti, e passò l’ora successiva a chiedersi perché l’evoluzione non avesse creato un equivalente delle palpebre anche per le orecchie.
Alla fine, quando mancava più di mezz’ora alla fine, con tre soli sopravvissuti che si aggiravano per il villaggio di Vizai in piena bufera di neve, senza un’anima viva, Alessio le chiese se voleva andare.
Flavia, il volto piantato nella sua spalla sinistra, domandò se non preferisse vedere anche il finale, per quanto lei, in realtà, avrebbe preferito essere a mille chilometri dalla sala del cinema.
– Ah, volevo scoprire chi fossero i mostri, – rispose lui, senza nascondere una certa delusione, – ma è evidente che sono gli abitanti del paese che si trasformano in animali mannari… che miseria… Avrei scommesso nello Yeti o in esperimenti genetici segreti dell’esercito sovietico sfuggiti al controllo, ma, evidentemente, la maledizione di una Baba Yaga sembra essere sufficiente per il regista. – aggiunse, senza nascondere il suo giudizio sul film nell’intonazione della voce.
– Va bene, – rispose lei, e lo seguì all’esterno, nella piazza, cercando di non mettere una mano tra lei e lo schermo per non sembrare proprio una fifona totale. Continuava a non apprezzare la piadina, ma sul fatto di vedere solo commedie e film d’amore cominciava a comprendere le ragioni di Alena.
Alessio riaccese il suo telefonino e controllò l’ora. – Sono quasi le undici. – Sollevò lo sguardo sulla ragazza. – Vuoi fare qualcosa?
Lei prese la palla al balzo. – Credo che sarà meglio se vado a casa – disse, aggiungendo: – Però, confesso che il film mi ha terrorizzata.
– Effettivamente, – concordò lui, – nonostante la caduta di stile con i mannari, non era poi così male.
Flavia sorrise, nascondendo la convinzione che quel film l’avrebbe perseguitata fino al resto dei suoi giorni. Sarebbe stato meglio se Sam non ne fosse mai venuta a conoscenza, o “Lo speciale di Halloween dei Simpson” avrebbe smesso di essere il soggetto delle sue prese in giro … – Eh, sì, Alessio, io… confesso che adesso ho una paura matta a tornarmene a casa da sola.
Il ragazzo sollevò le spalle. – Nessun problema, ti accompagno io.
– Sei gentilissimo.

Si avviarono lungo le strade illuminate dai lampioni appesi agli edifici, con il concreto rischio di essere assaliti da qualche falena attratta dalle lampadine accese o un paio di gatti che, alla vista dei due ragazzi, attraversarono la via e scomparvero in qualche vicolo laterale. Flavia non fu sicura di vedere dieci persone nei venti minuti che passarono a camminare. Lei cercò di sondare un paio di cose sulla vita del ragazzo, e lui le raccontò senza problemi di com’era essere fidanzati con Giada, andando anche a chiedergli qualcosa sulle sue preferenze sessuali.
– Questo lei non me lo ha mai chiesto – disse lui, divertito, ma non aggiunse null’altro, lasciando la curiosità di Flavia insoddisfatta.
– Ho un po’ di freddo – si lamentò lei, stringendosi tra le braccia. L’aria non era così spiacevole, in realtà, ma magra com’era dava l’impressione che non possedesse un filo di grasso a proteggerla dal gelo. In ogni caso, Alessio si tolse la giacca leggera e gliela porse, scoprendo che la ragazza avrebbe potuto starci dentro forse anche tre volte.
Parlottarono del più e del meno, quando arrivarono al condominio della ragazza. Alessio guardò verso l’alto, studiandolo.
– Ci passo spesso davanti, ma non ho mai pensato tu abitassi qui – le disse.
– Già – rispose lei, sentendosi improvvisamente imbarazzata. Aprì bocca per dire qualcosa, poi la richiuse, umettandosi le labbra. Prese il telefono di tasca e controllò le notifiche, trovando la risposta di Sam.

Mamma
D’accordo, l’appartamento è tutto vostro. Ma niente sesso sul tavolo di cucina

La faccina che faceva la linguaccia al termine del messaggio quasi la rinfrancò, ma cercò di non farlo vedere ad Alessio, il quale la guardava sollevando le sopracciglia, come a chiederle se tutto fosse a posto.
Lei sorrise, imitando alla perfezione un certo disagio. – Mi… mi vergogno a dirlo, ma… Ehm, Alessio… ho paura a salire le scale da sola.
Prima ancora che lei gli chiedesse di accompagnarla fino al suo pianerottolo, lo sguardo di lui si ammorbidì, diventando quasi radioso. – Vuoi anche che ti rimbocchi le coperte? – ironizzò lui, ma la ragazza ebbe l’impressione che fosse quasi una proposta che avrebbe esaudito più che volentieri.
Lei stette al gioco. – Magari ti faccio anche controllare se nell’armadio non c’è qualche mio amante licantropo – ribatté, incapace di trattenere un’espressione maliziosa.
Alessio annuì, invitandola a entrare nell’androne del condominio e seguendola con una mano su una spalla. Flavia si avviò verso l’ascensore.
– Ah, niente scale? – domandò lui. – Ma così non c’è nessun divertimento.
Quando, giunto al piano dell’appartamento della famiglia Pozzobon, Flavia aveva spiegato, in punta di piedi e con le braccia attorno al collo di un Alessio stupefatto e altrettanto deliziato, come, invece, ci si potesse divertire anche in una scatola di metallo, non più grande di una vecchia cabina telefonica, senza mostri a tendere agguati, ma usando due bocche e altrettante lingue. Le porte che si aprivano sorpresero i due che si stavano ancora baciando.
– Sei brava, lo sai? – disse il ragazzo, soddisfatto, cercando di prendere fiato.
Flavia si sentì avvampare in un calore che la fece tremare, e non solo fisicamente. – Vuoi vedere cosa sono davvero brava a fare? – domandò lei, la voce che sembrava incapace di uscire dalla sua gola.
Alessio non rispose, quasi fosse stato contagiato dall’emozione che aveva preso la ragazza. Non sbattè nemmeno le palpebre, tanto che, se fosse passato qualcuno lungo il corridoio, vedendolo, avrebbe pensato stesse partecipando ad una funzione sacra a tal punto da averne catturato mente e anima.
Quando le porte si aprirono sul corridoio del suo piano, la ragazza lo prese per una mano, avviandosi verso la porta del proprio appartamento. La porta, come aveva chiesto via messaggio a sua madre, era aperta e la luce del salotto accesa. Sam era andata a letto, lasciandoli soli.

Continua…

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