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Beyond the White: Indian Target

By 17 Giugno 2022One Comment

La donna si stropicciò gli occhi. Aveva dormito sì e no due ore. Il thé le permetteva di tirare avanti. I files che consultava erano un mero tentativo di intuire la prossima mossa di Patil e dei suoi nuovi alleati stranieri.
“Come cercare un ago in un pagliaio”, pensò mentre beveva l’ennesimo thé.
-Trovato qualcosa?-, chiese Arjun. La donna scosse il capo senza guardarlo.
“Nulla. Niente. Dobbiamo aspettare che colpiscano, temo.”, il pensiero le provocò rabbia, e ansia. Il conflitto con il Pakistan stava venendo disinnescato con assoluta celerità, in un dialogo tra i due governi determinato a mantenere la situazione sotto controllo.
Le pareva stupefacente: molti avrebbero premuto per una nuova offensiva, specie in Kashmir.
Ma la verità era che l’India non poteva permettersela, un’altra guerra. A ben guardare, nessuno poteva permettersi aperte ostilità con il Covid che incalzava con ferocia.
L’Occidente di tutto ciò sapeva poco e niente: il governo di Delhi sapeva bene che un eventuale fuga di notizie avrebbe reso l’India una meta decisamente poco appetibile per turismo e commercio, due introiti di cui l’India aveva bisogno.
E anche quella era una cosa da considerare: quali sarebbero state le reazioni dell’America se dei cittadini statunitensi fossero stati uccisi come dei terroristi?
La donna sorrise senza gioia: l’India e il Pakistan erano in grado di far sparire occidentali pizzicati a contrabbandare, acquistare o consumare droga ma non potevano uccidere dei destabilizzatori stranieri! Che ironia! Il telefono suonò. Qualcuno rispose.
-C’è una chiamata per te.-, disse Arjun, reggendo l’apparecchio.
-Il capo?-, chiese la donna massaggiandosi piano la fronte per scacciare un mal di testa.
-No. È una donna. L’accento è indefinito. Dice che vuole parlare solo con te.-, rispose l’uomo.
Una ridda di ipotesi si fecero strada nella mente della giovane. Chi poteva essere?
-Se è una giornalista, giuro che…-, iniziò. Arjun scosse il capo.
-Ha detto solo una parola.-, disse, -Shaibat.-.
Quel nome! La donna sapeva che esisteva una persona, un trafficante d’informazioni che tutti dicevano essere una donna ma che nessuno aveva incontrato di persona. Shaibat, eminenza oscura del web, violatrice o violatore professionista di segreti informatiche, ombra sfuggente.
Improvvisamente, il cuore batte più forte. La donna espira, decide. –Passamela.-.
-Pronto?-, chiede una volta all’apparecchio.
-Turama Jindal, maggiore dei Gatti Neri, forze speciali indiane, attualmente impegnata in compiti di antiterrorismo e di sorveglianza.-, la voce è di donna. E sa troppo.
-Chi parla?-, chiede Turama. Non ama che qualcuno giochi con lei.
-Questa linea è sicura?-, chiede la donna in risposta. Turama fa un cenno. Arjun fa scattare un interruttore. Scrambler al massimo livello. Sì: ora la linea è definitivamente sicura. Gli fa cenno di uscire. L’uomo esegue. Chiude la porta.
-Ora sì. Chi parla?-, chiede l’ufficiale, -Non mi faccia sprecare tempo.-.
-Shaibat.-. Quel nome è come una lama rovente nella mente di Turama. La donna ricorda.
-Per ora le basti sapere che ho informazioni rilevanti su quello che sta accadendo. Gli occidentali che lei ha già incontrato due volte in circostanze drammatiche sono miei… associati. Non abbiamo nulla contro l’India né contro il Pakistan, ma siamo rimasti coinvolti in un più ampio disegno. Io ho passato gli ultimi giorni a raccogliere prove, su ambo i lati della barricata, e ora ho un’idea di come agire per evitare la catastrofe incombente.-, la donna chiamata Shaibat fa una pausa strategica, studiata. Turama ascolta. È surreale: una supercriminale informatica di massimo livello, ricercata in più paesi dell’Asia e dell’Europa per illeciti della massima gravità le sta letteralmente offrendo aiuto per evitare un possibile conflitto aperto con il Pakistan…
-Nonostante le mie informazioni e risorse, non posso agire da sola, soprattutto non senza supporto. Maggiore Turama, so che lei dovrebbe catturarmi o eliminarmi per ordine del suo governo, ma entrambe sappiamo che la situazione trascende tali ordini.-, altra pausa. Studiata.
-Le comunico ora data, ora e luogo di un incontro. Venga lei, da sola e disarmata. Le concedo due uomini di copertura ma al minimo segnale di altri dei suoi il nostro accordo salta.-, conclude Shaibat. La donna ascolta, pensa. Considera. No, non surreale, semplicemente folle.
-Perché?-, chiede Turama, -Perché ora? Perché io?-.
-Domande giustificate, maggiore. Io credo che lei abbia già alcune risposte, ma se desidera sapere la verità, tutta la verità, le suggerisco di venire all’incontro. Due miei associati saranno di copertura, come per lei. Le regole del gioco le conosce, no?.-.
-Sì.-, ammette la soldatessa, -Ma comprende… il comando ne dovrà essere informato.-.
-No. Condizione irrinunciabile è che nessuno venga informato di niente. S’inventi quel che vuole ma lei deve, sottolineo deve, evitare di informare chiunque al di fuori di due uomini di sua più totale e completa fiducia i quali dovranno a loro volta evitare fughe di notizie.
Se vengo a sapere che non ha rispettato questa condizione non avrò remore a lasciarvi nella merda.-, nessuna galanteria da parte di Shaibat nel chiarire l’ultimo punto. Turama sospira.
-Non mi lascia scelta.-, ammette con rabbia appena assopita.
-No. Perché nessuno di noi ne ha, ora come ora.-, risponde Shaibat. C’è qualcosa nella voce che rende quell’ultima frase sincera, totalmente. Timore? Rassegnazione?
-Mi dica dove incontrarci.-, Turama Jindal decide. Decide di saltare il fosso.
Perché di fatto, scelte non ce ne sono più. Per nessuno.

-Spero siate riposati.-, la voce di Patil non tradiva alcuna emozione ma l’uomo non si faceva illusioni. Lui e Nô si erano scambiati a lungo effusioni, fino ad addormentarsi l’una nelle braccia dell’altro. E avevano dormito finché qualcuno non aveva bussato alla loro porta.
Di sicuro, qualcuno aveva visto. Patil? Sicuramente sapeva, anche senza vedere.
Dalima Kothil, impeccabile nel suo sari, pareva più che lieta di lasciare al suo secondo le redini del briefing preparatorio.
-Il nostro prossimo bersaglio è Shira Panchari, una rarità nel panorama politico indiano: donna, laburista, di casta media, apparentemente integerrima e irreprensibile.-. continuò Patil. L’uomo annuì. Bevve un sorso di chai. Il thé, pesantemente aromatizzato, gli ridiede energia. Si concentrò sulla foto. La donna, pelle chiara, occhi castani, capelli neri come l’ala del corvo, sorrideva all’obiettivo, apparentemente l’immagine della purezza e della donna indiana alla ribalta dopo secoli di maschilismo feroce.
-Peccato che Shira non sia così pura come dicono, vero?-, chiese John Kingsword. L’uomo lo fissò. Pareva stanco, come se non avesse riposato. L’uomo squadrò John con calma.
Osservò anche Dalima. Nessuno dei due pareva riposato. Nel caso di Dalima non significava molto, ma facendo due più due… L’uomo comprese. Ed ebbe una conferma dall’occhiataccia di Patil verso il biondo, che sorseggiava il suo thé senza apparenti preoccupazioni.
-Esatto.-, continuò l’indù. Fece un cenno all’operatore dietro al portatile collegato al proiettore. Altre foto. Due, tre. Sempre Shira, sempre impeccabile.
-La nostra cara Shira è una gran bastarda. Nessun compagno, nessun marito. Una donna single, direste voi. Almeno in apparenza.-, altro cenno, altra foto.
E l’uomo annuì. Capì. Tutto.

Anche Nô capì. La donna che Shira Panchari stava abbracciando con trasporto tutt’altro che professionale o amichevole era una giapponese. A stima, la giovane intuì che doveva essere alta quasi come lei e altrettanto snella di corporatura. Forse aveva qualche anno in più.
-Sempre la nostra Shira con l’amichevole Kumi Hotsushiki, una giapponese convertita all’induismo dallo spiccato talento teatrale. Il suo astro in patria é… leggermente calante.-.
Nô capì, comprese. Prima ancora di sentire su di sé lo sguardo di Patil e Dalima.
-Volete che sia io ad avvicinarla e a ucciderla prendendo il posto di Kumi.-, disse.
-Sarebbe ideale. D’altronde siete pressoché identiche. Ci vorrà giusto qualche ritocco a livello facciale, nulla di eccessivamente invasivo.-, gli occhi di Patil dardeggiarono da Nô all’uomo e da lui a lei di nuovo, -Kumi ha in programma una tappa in Yemen. Una breve visita a Shira, un banalissimo appuntamento privato, una tentazione a cui la nostra cara, irreprensibile ms. Panchari non saprà davvero dire di no…-, il tono di Patil si fece più basso, sino a spegnersi nell’ovvia conclusione. Nô non ritenne opportuno parlare.
-Non può essere fatto. Shira Panchari saprà che non è Kumi. Insomma, un approccio di questo tipo richiede tempo, informazioni e soprattutto una totale conoscenza del comportamento della persona a cui sostituirsi.-, replicò l’uomo. Anche se gli altri non lo vedevano, Nô sapeva che Qi si preoccupava per lei. Dentro di sé, in un punto così a fondo da non avervi mai ammesso nessuno, lo riteneva semplicemente commovente. Ma non poteva permettersi certe emozioni, e neppure lui. Gli lanciò un’occhiata. Erano in ballo e dovevano ballare.
-Naturalmente non siamo digiuni d’informazioni, tutt’altro. Se avessimo tempo, studieremmo un altro modo ma il livello di guardia delle autorità è elevatissimo e qualunque altra possibilità ci richiederebbe troppo tempo in ambito di risorse e avrebbe ben poche possibilità di successo e ancor meno possibilità di estrarvi dalla zona a lavoro fatto.-, Patil fece l’ennesimo cenno. Altra foto, di Kumi Hotsushiki. La giovane era un’attrice di teatro Kabuki e aveva tentato di sfondare nel cinema. Ruoli minori in produzioni meno che marginali.
Un marito che non la capiva, una famiglia che pareva giudicarla, nessuna figlia. Tradimenti da parte del coniuge, depressione, antidepressivi, sino al viaggio in India. Nel 2015.
Altro cenno e altre foto. Pellegrinaggi nei luigi di culto, atti devozionali, Kumi fotografata durante la tradizionale abluzione nel Gange.
-Tutto quello che dovrai fare sarà prepararti. Confido che tu abbia qualche esperienza, seppur remota, di recitazione teatrale, vero?-, chiese Dalima Kothil. Nô annuì.
Il teatro di cui portava il nome era stato a lungo la sua vita, una Via che le aveva permesso di raggiungere il cuore del suo essere.
-Allora non avrai problemi.-, tagliò corto l’indiana.
-Il nostro ruolo, invece?-, domandò James Crowain.
-Copertura se necessario e recupero.-, rispose Dalima Kothil. L’inglese annuì.
Nô guardò le immagini. Kumi. Lei doveva diventare Kumi. E farlo in fretta.

Dalima se ne accorse subito. Il viso di Patil le era noto. Ora che i gregari erano fuori scena, poteva parlare francamente. Lo fronteggiò con un cipiglio duro e deciso.
-Si può sapere che hai?-, chiese. Patil la fissò con odio. Assoluto.
-Secondo te? Te la lecco da mesi e tu la dai al primo stronzo! E non l’hai fatto solo con lui!-, ringhiò l’indiano. La donna sospirò. Si avvicinò di un passò. Il ceffone partì in automatico.
Patil incassò al viso. Lo vide stringere i pugni, desiderare di colpirla, di punirla.
-Sei davvero così cieco?-, chiese, -Lo faccio per noi! Per il piano. Quel tizio aveva dei sospetti. Dovevo dargli qualcosa a cui pensare!-.
-Ma ti è piaciuto farti scopare come una puttana.-, sibilò Patil. Annullò la distanza e la prese per il collo. Lei sfilò la pistola, puntando al ventre dell’indiano. Fece scattare il cane. Sparando all’anca lo avrebbe centrato senza problemi.
-Un sacco. Ma non l’ho fatto per questo, mettitelo bene in testa. L’ho fatto perché questi tizi non sono coglioni. Sanno che qualcosa non quadra, lo vedono. E se l’ha visto quel Kingsword, puoi star certo che anche la bella giapponesina e gli altri lo avranno capito.-, il tono di Dalima non tradiva emozione alcuna. Patil respirava con rabbia mista a desiderio di controllo.
-Kingsword per ora ha il suo bel pensare. Ma non durerà a lungo. Se quest’ultimo colpo funziona, abbiamo ciò che ci serve per passare alla prossima fase.-, Dalima sorrise, fiduciosa, in controllo della situazione, -E tu potrai liberarti di loro.-.

Patil non era uno sprovveduto, ma il desiderio di uccidere di persona quel Jhon Kingsword era semplicemente enorme. Annuì.
-D’accordo.-, disse. Lasciò la presa sul collo di Dalima Kothil. La donna sorrise. E lui la tirò per il vestito verso di sé. La baciò con assoluta, totale furia.
-Ma adesso…-, la donna lo baciò di nuovo, lui si strappò da quell’abbraccio, costringendola in ginocchio. Se ne fregò della pistola, come di tutto il resto, -… dovrai ripagarmi, puttana.-.
Dalima trovò il suo sesso già eretto. Lo estrasse.
-Molto poco cortese, Patil.-. Lo prese in mano. Lo manipolò appena. L’uomo gemette.
-Dovevi solo chiedere.-, la bocca di Dalima non pronunciò altre parole per i successivi due minuti, al termine dei quali Patil venne a spruzzo in gola alla donna.

-Questo colpo è azzardato.-, disse l’uomo. Guardò la cimice. staccata. Iniziò a calcolare. James Crowain aveva fatto la stessa cosa con l’altra. Tre minuti da quel momento di totale comunicazione. Nessuna telecamera a guardare. L’inglese le aveva staccate, ma non avevano comunque molto tempo. Gliel’aveva comunicato a gesti nel corridoio.
-Per usare un eufemismo. Ma ne ho visti di peggiori.-, rispose l’ex SBS.
-Beh, io no. E ti ricordo cosa facevo prima di iniziare questa nuova attività.-, disse lui.
-Sei preoccupato.-, intuì James. Non era una domanda e l’uomo non rispose.
-Nô sa badare a sé stessa.-, disse l’ex commando, -Non temere: se la caverà.-.
-Già. Ma poi? Abbiamo già ucciso due politici di rilievo. Dubito che il Governo Indiano soprassederà sulla cosa con tanta facilità. E dubito anche che Dalima sia dalla loro parte.-, disse l’uomo. James annuì. Era vero: difficile che gli indù accettassero un’ingerenza tale nelle loro questioni interne. Ma che alternative avevano.
-In città avremo più movimento.-, disse l’uomo, -Dobbiamo contattare Shaibat e Poretti. Abbiamo bisogno di riprendere l’iniziativa. Ci hanno mossi come pedine.-.
-Due minuti e venti.-, disse James, -Sì. Dobbiamo svicolarci. Potrebbe non essere facile. Ma perché non chiedere ai servizi indiani?-, chiese.
-Con quali qualifiche? Siamo cani sciolti. E i cani sciolti vengono abbattuti.-, rispose l’uomo.
-Allora scavalchiamo i servizi. I Gatti Neri sono stati creati sul modello del S.A.S. britannico. Potremmo provare a contattarli.-, propose James. L’uomo parve pensoso.
-E se Shaibat lo stesse già facendo?-, chiese dopo qualche minuto.
-Allora lo sapremo presto, credo.-, disse James, -Un minuto. Riattacchiamo la corrente.-.

Il locale di sorveglianza aveva registrato il guasto. Lanhim, un ex poliziotto indiano, aveva visto che l’inglese dormiva. Nessun suono, nessun’altra immagine. Loop della telecamera? Non avrebbe saputo dirlo: si era assentato per andare al bagno. Controllò le cimici. Funzionanti.
Evidentemente nulla da segnalare. Lanhim sorrise. Era abbastanza pigro e voleva solo che quel turno finisse per poter andare a dormire.

Turama Jindal odiava assecondare Shaibat ma si rendeva perfettamente conto di non avere altre possibilità. L’intelligence indiana non riusciva a venire a capo della faccenda e, complice la situazione dovuta al Covid-19, le fonti umane utili erano difficili da reperire.
Di fatto, perdere tempo avrebbe solo concesso un vantaggio al nemico, forse terminale.
Ma chi era il nemico? La donna se lo chiedeva da diverso tempo.
Shaibat aveva parlato di un complotto, ma come poteva lei essere sicura che l’hacker non mentisse in merito? Come poteva riporre tanta fiducia in lei? Aveva scelta?
Avrebbe potuto temporeggiare, regalando ai nemici, quali che fossero, la possibilità di agire senza ostacoli. Scartò l’ipotesi in un respiro. Non era da lei.
Perché prima di tutto, Turama era una patriota, fiera di essere indiana e una combattente.
Determinata a fare sì che il suo paese restasse grande, e integro. A ogni costo.
Contro tutto e tutti? Anche contro il sistema che serviva? Se l’era chiesto a lungo mentre andava verso il punto concordato. Con la premessa che la corte marziale e il congedo con disonore potessero essere le sole ricompense di tanta perseveranza, ricompense forse ottimistiche in confronto a ben più nere e cupe possibilità?
La verità era quella: anche facendo il suo dovere al meglio avrebbe ottenuto qualche riconoscimento dappoco, una sicura nota di demerito da parte di qualche bastardo invidioso della sua posizione… L’inevitabile caduta era rimandata, non scongiurata né evitabile.
Ma finché non fosse avvenuta, la donna nota come Turama, avrebbe continuato a lottare.
Localizzò il punto. Chhatrapati Shivaji, stazione ferroviarria, residuo coloniale dell’Inghilterra che fu. Angolo sinistro. L’occhio allenato di Turama localizzò, isolò. Donna.
Donna avvolta nelle classiche vesti da turista. Abiti appariscenti ma non troppo, altezza nella media, capelli lunghi neri, americana? No. Gli occhi erano palesemente orientali. Giapponese? Thai? Parlava inglese senza accento, osservava, faceva foto, indossava diligentemente la sua mascherina. La turista perfetta, non fosse stato che per il modo in cui si guardava attorno.
Troppo paranoica e prudente per ingannarla, troppo per non dare a vedere cosa fosse.
-Ci siamo.-, disse Turama al micorofono.
-Ricevuto.-, rispose Arjun. Era in copertura da qualche parte. Tra la folla di pendolari.
Sicuramente l’aveva vista, la teneva sott’occhio, vegliava su di lei. Uno spirito benigno contro i Rakshasa del tempo attuale. Forse, basterà. O forse no.
Contatto. Per un breve, brevissimo istante, gli occhi dell’orientale la trovano. È un contatto quasi causale, non voluto, apparentemente. In realtà, Turama sa.
Contatto avvenuto. E ora non c’è più ritorno.
Turama si avvicina, chiude la distanza.

Shaibat annuisce. Ha visto l’indiana. Fa appena un cenno con la mano, come a schermarsi il viso dal sole mentre scatta l’ennesimo, inutile selfie. Neroko Tsubikome, mimetico a suo modo tra i turisti giapponesi poco distanti, annuisce. Saluta quello che pareva un perfetto estraneo e scompare alla vista. Nella direzione opposta, intenta a dare qualche rupia a un mendicante storpio, Miryam Goldmann, avvolta in vesti indù con pure un tikka rosso sulla fronte per meglio confondersi, annuisce. Chiude l’elemosina e lascia che la folla la assorba.
Shaibat ora sa di dover agire. Alla svelta. Trova l’indiana.
-Scusa?-, chiede. Esempio perfetto di turista americana all’estero, -Bagno?-.
-Non so. Mai stata a Mumbai.-, risponde Turama. Parola e controparola, frase e controfrase.
Ma non basta. Non del tutto. Shaibat annuisce.
-Peccato. È una bella città.-, inizia. L’indiana sorride, un sorriso che non arriva alle labbra.
-Io preferisco Kochi.-, fine della farsa. Shaibat annuisce di nuovo. Serietà assoluta ora.
-Andiamo a bere qualcosa.-, dice l’indiana. La segue. Si perdono nella folla.

Erano emersi dalla folla, riconoscendosi quasi a istinto. Uomo, donna, uomo, uomo e uomo.
Le coperture, appunto. Neroko, Miryam Goldmann, Frank Horst, Arjun e un altro commando dei Gatti Neri, nessun segno distintivo apparente.
Avevano seguito con discrezione le due donne, sino al bar. Poi oltre il bar. Sino all’hotel.
Una bustarella di migliaia di rupie aveva assicurato loro la massima discrezione da parte del personale. Costi previsti. Costi pagati.
E ora, nella stanza adibita a zona briefing, c’erano tutti loro. Shaibat e i suoi da un lato, Turama e i suoi dall’altro. La tensione era ancora palpabile.
-Chi siete?-, la domanda da Turama è prevista. Anche il silenzio che segue, è previsto.
-I buoni. Almeno in confronto a molti, troppi malvagi, signora Jindal.-, risponde Shaibat.
-Tutti si credono buoni, almeno finché non viene provato loro quanto sbagliano.-, è la risposta non del tutto innocente dall’indiana. Un sorriso criptico fa capolino sul viso dell’hacker.
-Più che giusto. E a questo punto mi permetto di essere più chiara: abbiamo tutto l’interesse a cooperare. Noi abbiamo bisogno di voi e voi di noi.-.
-Noi chi?-, altra domanda. Shaibat sospira. Sa che la risposta è inevitabile e verrà data.
-Noi.-, nessun’esitazione da Frank Horst, -Siamo indipendenti.-.
-Agli ordini della C.I.A.?-, chiede Turama. Cenno di diniego da Neroko.
-No. Agli ordini di noi stessi. E ora…-, il giapponese si muove lento verso il laptop, lo attiva, connette il proiettore. Lancia il filmato, -…Vi verrà chiarito tutto.-.

L’uomo espira piano. Riprende consapevolezza. Esercizi, riscaldamento, flessioni, addominali, stretching, CQC in solitaria, poi riposo. Ancora e ancora.
L’ultimo riposo l’ha visto perdere cognizione del tempo, scivolare nel sonno improvvisamente. Si alza, lentamente. Merda, doveva essere stanco. Guarda l’ora. È sera. Fa mente locale. Quanto ha dormito? Almeno tre ore. Forse anche più.
Gli altri? Si veste. Esce dalla stanza. Piove, lo nota ora. Monsone? Forse.
Incrocia alcune guardie. Poi lo vede. John Kingsword. Pare osservare la pioggia.
-È bella, vero?-, chiede l’uomo. John annuisce, senza voltarsi.
-Era così bella anche allora.-, dice l’uomo, -Ma io ero diverso, e ci badai meno.-.
-E ora ci badi di più?-, chiede lui. L’uomo scuote il capo.
-No. Ci bado differentemente.-, ammette. John Kingsword annuisce. Nessuna cimice?
Non lo può sapere. Ma al punto a cui sono…
-Dalima ha le idee molto chiare. Il suo piano ha senso, eliminare l’opposizione su ambo i fronti.-, dice John. L’uomo ascolta, recepisce.
-Te l’ha detto lei?-, chiede. Cenno di assenso. Una confessione troppo limpida? Forse.
-Incredibile quantitativo di confidenza e fiducia da parte della nostra Dalima.-, dice l’uomo.
-Mera autoconservazione selettiva.-, precisò John, -Forse incrinata dalla situazione.-, aggiunge.
L’uomo annuisce. L’altro sorride a tutta bocca. L’uomo intuisce. Sorride a sua volta.
Passi dietro di loro. Pesanti. Non è Patil.
-Riunione operativa tra dieci minuti, signori.-, voce indiana, inglese oxfordiano. Pressione.
L’uomo annuisce. L’uomo capisce. La situazione si è complicata.

-Due allarmi in meno di venti minuti l’uno dall’altro.-, la voce di Dalima Kothil pareva priva di emozione, o talmente pregna di esse da non poterle palesare, -Troppo per essere coincidenza.-. Nô notò la tensione. Viso, collo, spalle. Un corpo in tensione anche a dispetto dell’apparente rilassatezza che cercava di proiettare mantenendo un’espressione calma.
-Di cosa stiamo parlando?-, movimento. Dall’ingresso ovest della sala, entrarono gli altri membri del gruppo, tutti altrettanto tesi.
-Allarmi.-, Patil di contro pareva una statua di mogano. Nella tensione della stanza, l’indiano pareva assolutamente a suo agio.
-Chi?-, chiese James Crowain. Il commando pareva già sul chi vive, sprofondato in una valutazione della situazione tattica da cui forse non era mai realmente uscito.
-Un altro allarme. A nordovest.-, segnalò Patil.
-Penso sia ora di evacuare la zona.-, disse John con un ghigno, -Sono convinto che abbiate un modo per farlo.-, occhi negli occhi con Dalima Kothil.
La donna, Nô lo vide subito, non distolse lo sguardo da quel confronto.

Esercito Indiano, forze speciali. Gatti Neri, tre squadre divise su sei elicotteri.
Turama Jindal scese dal Viper mentre questo ancora non aveva toccato terra. Atterrò con una flessione delle ginocchia, posizione di copertura. Arjun, poco distante, garantiva copertura a sua volta. Altri team, in altri punti, stavano posizionandosi in punti prefissati.
Penetrazione aggressiva in territorio ostile. Da manuale. Preparazione all’avanzata.
Assoluta, totale padronanza della scienza dell’offensiva lampo. Elicotteri di copertura, sbarchi rapidi. Nessuna reazione ostile, nessuno sparo. Avanzarono, infransero il perimetro, testuggine nera perfettamente coordinata. Andarono dentro, a battersi.
Trovarono solo il vuoto.
-Merda!-, ringhiò Arjun. Turama Jindal espirò, la frustrazione talmente elevata da non essere esprimibile a parole. Entrò nelle varie stanze con cautela, ricevendo rapporti tramite intercom. Giudizio unanime: nessuna resistenza, nessun nemico, nessun prigioniero. Niente.
Dalima Kothil e Patil Rabhoungham erano spariti, insieme agli occidentali e a chiunque altro.
La donna si contenne dal mostrarsi sopraffatta dalle emozioni. Espirò di nuovo. Inspirò.
-Chiamate la scientifica, catalogate tutto quel che trovate.-, ordinò. Mise l’MP5 in sicura.
Il suo telefono suonò. Telefono criptato, ufficialmente inesistente. Estrasse e rispose.
-Sono scappati, vero?-, la voce di Shaibat pareva soffusa di sottile provocazione.
-Sì.-, sibilò Turama. La thailandese parve assorbire la notizia.
-Le avevo detto che sarebbe accaduto. Ma lei non mi ha voluto dare retta, e ora abbiamo perso l’unico vantaggio che ero riuscita a strappare.-, Turama fece per rispondere, ma la donna continuò, -Nel caso le sfuggisse, stiamo operando contro un nemico ben equipaggiato e ben addestrato. Ha già colpito e lo farà di nuovo.-, altra rabbia, a sommarsi al resto.
-Lei cosa propone?-, chiese la soldatessa mentre girava per le stanze. Nulla: tappeti e arazzi erano ancora in posizione, i mobili erano ancora lì, come anche alcuni fogli. Bruciati.
“Hanno fatto tabula rasa alla svelta.”, pensò, “evidentemente i nostri esploratori hanno innescato dei sensori di prossimità.”.
-Propongo che lei e la sua squadra ve ne andiate da lì. Ora.-, disse Shaibat.
La risposta di Turama le morì in gola. Vide un bagliore, era appena visibile nelle trame di un arazzo appeso al muro raffigurante un’antica scena di battaglia. Bagliore intermittente.
-Fuori! Tutti fuori!-, urlò nell’intercom. Individuò la finestra. Agì di prepotenza: si lanciò verso di essa, sparò tre colpi con il mitra all’anca e poi la sfondò di peso.
L’esplosione la assordò.

Dalima Kothil gettò il detonatore. Guardò la villa collassare.
-Questo ci darà del tempo.-, disse. James Crowain annuì in modo impercettibile.
Era sicuro che avrebbe permesso loro di guadagnare tempo, la domanda era: a che prezzo?
-La nostra operazione rischia di saltare.-, disse l’inglese.
-No.-, ribatté la donna mentre si faceva strada verso i veicoli, -È solo da modificare.-.
-Abbiamo appena perso la base.-, fece eco Nô.
-Una base. Non la base. Non è mica l’unica. Pensate veramente che io non abbia qualche altro rifugio?-, chiese la donna. Patil, a poca distanza, pareva uno spettro, marciava senza parlare.
Ma James vide. Ogni tanto li guardava, lanciava occhiate, odiose.
Il momento della resa dei conti si avvicinava, inutile negarlo e pericoloso credere il contrario.
James sospirò. Alla fine era inevitabile. Non era forse quella l’umana natura?
Scambiò uno sguardo con l’uomo. Anche lui sapeva. Anche lui aveva capito.

Il mondo di Turama Jindal si riallineò al momento presente in slow-motion, in modo confusionario. Le orecchie parevano tappate. Suoni e urla ovattati. Si alzò. La mimetica in nero aveva tenuto, anche se a fatica. L’onda d’urto l’aveva catapultata oltre il giardino, facendola atterrare prona a terra. Sentiva in bocca il sapere del sangue. Sputò. Si tastò le costole. Nessun danno a lungo termine. Le orecchie non ne volevano sapere di riprendere a funzionare secondo norma. Il cuore le batteva ancora con furia. Si controllò in cerca di ferite. Tastò collo, braccia, addome, petto schiena e gambe. Illesa? Pareva di sì. Un miracolo. Si voltò.
-Arjun?-, chiese. Statica. Istanti di orribile incertezza. Poi una risposta. Chiara. Netta.
-In linea. Due dei nostri non sono usciti in tempo.-, rispose l’uomo. Turama incassò.
-Manda dentro qualcuno a cercare i corpi. Poi raggiungimi al Viper.-, la donna cercò l’MP5. L’arma le pendeva dalla cinghia a tracolla. Arma inutile. I nemici non erano là.

Il viaggio proseguì. Su vari mezzi. La rete di dacoit al servizio di Dalima Kothil fece filtrare il gruppo tra foreste, piantagioni di thé e città. Un vero e proprio esodo che li vide in viaggio per ore. Nô non tenne il conto di quante. Non importava davvero: sapeva dove stavano andando.
Verso la prossima eliminazione. Quella che lei avrebbe dovuto portare a termine.
-Dove siamo diretti?-, la domanda venne da Jhon Kingsword. Sguardi tra Patil e Dalima.
-Verso un altro rifugio, più vicino al bersaglio.-, rispose infine Patil.
A Nô non sfuggì la completa assenza di emozioni nello sguardo dell’indiano. Gli occhi erano freddi, inespressivi, come morti. In realtà, Nô aveva già visto uno sguardo simile. Nei rettili.
-E ti aspetti che la polizia indiana e le autorità non cercheranno di intercettarci?-, chiese Jhon.
Nessuna simpatia neppure da parte sua. Dalima sorrise, conciliante.
-No. Non faranno nulla.-, assoluta certezza. Nô capì. Putredine, a ogni livello. Corruzione.
La polizia indiana non era famosa per l’efficienza, ma riuscire a comprare i commissariati richiedeva fondi. Molti. Da chi venivano? Domande dentro domande. Nô se ne era fatte molte.
E ora, tutte quante le domande avevano iniziato ad avere risposte. Salvo che le risposte erano traballanti, e che lei ora sapeva, con assoluta certezza, che la risposta a quella domanda poteva essere letale. Dalima Kothil aveva corrotto la polizia e forse anche i Servizi indiani? Allora non poteva garantire ciò che aveva loro promesso.
Gli occhi di Nô per un singolo istante intercettarono quelli di Dalima.
Erano occhi da manipolatrice spietata. Occhi da predatrice del vertice capace di uccidere con le parole prima che con le armi. Nô distolse lo sguardo. Intuì.
Ora doveva decidere cosa fare con quell’intuizione. Decisione che le richiese poco meno di qualche secondo. Decisione terminale.

Rifugi, contatti, risorse. Jhon Kingsword sa, capisce. Intuisce.
Contatti, rifugi, risorse. Chiaramente nascoste, ben al di là delle possibilità d’individuazione da parte dei Servizi Indiani. Tutto molto, molto ben celato. Tipico di operazioni negabili al massimo livello, no? Ma fin dove? La paranoia di Dalima e dei suoi doveva essere assurta a una virtù pratica… Oppure le cose erano molto, molto diverse da come gli erano state presentate, e quella donna sensuale ma letale aveva tentato di abbindolare tutti loro.
Jhon non dubitava: prima o dopo, il loro tempo sarebbe venuto, la loro utilità sarebbe finita.
Per allora, avrebbero dovuto organizzare una contromossa. O diventare concime.

Mentre si stabilivano nel nuovo alloggio, l’uomo considerò la situazione, molto attentamente.
Contattare Shaibat, uscire dall’equazione, riprendere il controllo. Priorità.
Tornare a casa, vivi. Tutti quanti. Un proposito assoluto, totale.
L’alloggio era spartano, un condominio sotto falso nome, irrintracciabile.
Apparentemente perfetto, no? No.
Perché nulla, assolutamente nulla era a prova di infiltrazioni. E la loro utilità scemava con ogni assassinio effettuato. Il tempo era contro di lui. Nulla di nuovo.
Doveva esserci qualcosa che poteva fare: sicuramente ormai Shaibat si era mossa.
Forse, in modo più palese di quanto sospettasse. Si affacciò a una delle finestre.
Droni? Nessuno. Osservatori? Nessuno. Cecchini? Apparentemente nessuno.
Apparentemente. Non sicuramente. L’uomo retrocedette dalla finestra, in un movimento fluido, senza sbavature. Improvvisamente l’uomo pensò a una possibilità. Remota, ma fattibile…

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