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Beyond The White: spettri e spade (1)

By 1 Maggio 2020No Comments

Colpi singoli. Tuoni nell’ambiente ristretto. Impatti multipli su un bersaglio a cinquanta, trenta e cento metri. Ancora e ancora. Cacofonia bellica definitiva, conclusivo inno alla distruzione.
L’uomo spara gli ultimi due colpi con metodica, assoluta, analitica precisione.
Lascia l’arma sulla base di fuoco dopo aver inserito la sicura come da manuale, arretrando di un passo mentre l’esaminatore, un nero con il cranio lucido e i baffetti neri spruzzati di grigio, esamina i bersagli. Non dice nulla. Per due lunghi, lunghissimi minuti.
Altri boati, vicini e lontani, altri proiettili, altri bossoli che rimbalzano a terra.
Rumore di caricatori cambiati, sicure inserite, sicure tolte, spari.
L’esaminatore continua a non parlare. Maglietta nera a mezza manica, jeans e lo sguardo da esperto, che valuta, che studia, che esamina e comprende. Fino al verdetto definitivo.

-Mica male.-, si limita a dire, -Colpi precisi e puliti, quasi privi di dispersione.-.
C’è un’emozione ora. Rispetto. E forse anche altro. Curiosità.
-Dove hai imparato a sparare così bene?-. L’uomo sorride, enigmatico.
-In giro.-, risponde evasivo. Nessun commento da parte dell’altro.
 In realtà ricorda perfettamente dove ha imparato e perché. La genesi, la forgiatura.
-Beh, fammi qualche altro colpo con questa.-, appare, a seguire queste parole, la pistola. M1911 posata sul banco, accanto al fucile d’assalto M4A1 con calcio in polimeri. Dotazione fieramente statunitense e terribilmente a basso prezzo rispetto ad altro hardware.
 L’uomo annuì. Impugnò. Sparò di nuovo, mirando con assoluta e totale calma al bersaglio. 
Ricordando…

Il deserto del Mojave era un luogo arido. Per non deviare su Las Vegas, qualcuno doveva avere buoni motivi. Per viverci, un uomo doveva essere pazzo. Completamente.
Oppure disperato, morto dentro prima ancora che fuori. Incurante del costo per un simile ardire. Il giovane era un po’ tutte e tre le cose.
Trovò la casa distante dalle strade, isolata. C’erano staccionate, cartelli, avvertimenti decisamente minacciosi. E recinzioni. Filo spinato.
Era palese che chiunque ci vivesse non volesse alcun disturbo. Alcuna visita. Da nessuno.
Ma l’uomo se ne fregò. Una pallottola o una lama non l’avrebbero ferito come… quella cosa.
Come la sensazione di aver attraversato il confine tra la terra dei morti e quella dei vivi.
Per questo non si fermò. Per questo avanzò sino alla porta, incurante del calore, delle minacce e della consapevolezza che probabilmente sarebbe stato rifiutato, respinto. Bussò alla porta.
Nulla. Bussò di nuovo. Ancora nulla. Attese. Un minuto, due, tre. Il sudore prese a scendere a rigagnoli lungo la fronte. Attese ancora. Infine bussò un’ultima volta.
-Chi è?-, chiese una voce rauca e decisamente scontrosa.
-Redjack? Jack Ramson?-, chiese lui in risposta, senza essere intimorito.
-Non ho niente da dirti!-, ringhiò la voce. Il giovane annuì tra sé e sé.
-Sono io che ho qualcosa da dire a te.-, disse. Un rumore basso, un altro.
Poi la porta si aprì. E lui si trovò a guardare la canna di un revolver.
Molto, molto da vicino. Dietro quella c’era il viso dell’uomo, solcato da rughe e cicatrici, incorniciato dai capelli grigi, un occhio coperto da una benda nera e l’altro bruciante di un fuoco verde smeraldo, richiamo di abissi oscuri scolpiti nella memoria. Il giovane non distolse lo sguardo.
-Vattene.-, sibilò Jack Ramson, -Non voglio vedere nessuno.-.
-Sei l’unica persona che può aiutarmi.-, disse il giovane.
-A fare cosa? A crepare?-, la mano dell’uomo eseguì un movimento fulmineo, abbassando il cane del revolver, -Vattene ora, ragazzino.-.
-No.-, rispose lui. Per un istante gli parve di vedere qualcosa, un’emozione diversa sul viso di Redjack. Poi l’uomo sospirò.
-Non ho nulla da dirti. Vattene.-, e con quelle parole, l’altro chiuse la porta.
Il giovane annuì. Si sedette sulla soglia. Passò un minuto, un ora, un giorno.

Al secondo giorno, Jack riaprì la porta. Lo fece entrare, dandogli da bere e da mangiare.
-Ok, ragazzino. Che diavolo vuoi, si può sapere?-, chiese.
-So che sei un veterano di guerra. Vietnam. Forze Speciali.-, disse lui, -Voglio capire.-.
-Capire cosa? Mi hai preso per uno di quei rammolliti che vanno ai talk show?-, chiese lui.
-Voglio capire come fare. Come uccidere, come diventare… così.-, disse il giovane.
-Tu non vuoi essere così. Non vuoi, fidati.-, l’occhio del vecchio divenne improvvisamente sottile, come quello di un gatto, -Non vuoi sapere com’é. Non ne hai idea. Vattene.-.
-Ti sbagli.-, rispose il giovane. Anche nei suoi occhi bruciava qualcosa. Volontà. Assoluta.
-Io lo so cosa vuol dire perdere quello che ci fa sentire vivi. So bene cosa significa.-, sibilò.
-Non sai un cazzo! Non hai visto il tuo migliore amico morirti tra le braccia. Non hai idea di cosa voglia dire!-, il ringhio del veterano pareva il ruggito di un drago.
-No, è vero. Ma so cos’è l’abisso.-, sibilò lui, -E ho bisogno che tu mi insegni.-.
-Cosa cambierebbe, me lo dici?-, chiese Jack versando un ennesimo bicchiere d’acqua.
-Tutto. Per me e per la mia città.-, disse lui.
-Ti credi Gesù? Pensi veramente di poter salvare tutti?-, chiese ghignando il vecchio.
-No.-, rispose lui, -Ma credo che le metastasi vadano rimosse.-.
Quella frase parve colpire Redjack come poche altre cose.
-Le metastasi… puoi rimuoverle. Ma torneranno sempre. E non cambierà nulla davvero.-, rispose dopo una pausa di lunghi minuti.
-Può essere.-, rispose il giovane, -Ma devo almeno tentare.-.
-Parli dell’abisso. Ma ne sai qualcosa? Su, dimmi, giovane. Mostrami l’abisso.-, disse lui.
E lui lo fece. Parlò dei suoi amici, di quella giovane, di un passato che non si accingeva a lasciarlo, della catena tremendamente corta che lo costringeva a ricordare come una moviola.
Parlò della perdita della speranza, del dolore, della dannata rabbia che l’aveva pervaso e che pareva continuare a esistere, come un cancro. Parlò di tutto questo.
Redjack, l’uomo che aveva visto l’inferno in Cambogia, Laos e Vietnam, il veterano di innumerevoli campi di battaglia, annuì quando lui smise di parlare.
-Hai scelto proprio un bel modo per andare a morire, ragazzino. Tu da solo contro il mondo? Risparmiamela. Non c’è partita e lo sai.-, disse.
-Ma cosa ti costa?-, chiese lui, -Non mi pare tu abbia poi molto da fare a parte ricordare.-, lo sguardo del giovane inquadrò, cercò, analizzò la sala e la casa. Jack Ramson sospirò.
-I ricordi non sono niente. Sono araldi della tenebra, memento della perdita, nemici della speranza. E tu mi chiedi di portarti dentro a questo vortice? Di renderti come me? Sei pazzo.-.
-Forse.-, ammise lui, -Ma la mia pazzia deve avere un significato. Altrimenti cosa mi differenzierebbe dai miei amici… e da lei, eh?-, chiese.
-Nulla.-, ammise il veterano con un sospiro, -Ma nulla ti differenzia in ogni caso. Indipendentemente dalla strada che scegliamo, la vita è questo. Un gioco a perdere.-, disse.
-Per noi, forse. Ma per coloro le cui vite verranno cambiate dalle nostre azioni…-, ribatté lui.
Silenzio. Attonito, assoluto, totale silenzio.
-Lo fai perché speri che nessuno debba mai più soffrire ciò che hai sofferto? Davvero?-, chiese Jack, un’ombra di stupore sul viso frammista a vero e proprio disprezzo. Il giovane scosse il capo, provocandogli un’espressione di sorpresa.
-Lo faccio perché non rimane nient’altro. L’abisso si è fagocitato tutto il resto, ha divorato la speranza, annientato l’aspettativa, ridotto a nulla il futuro. Resta solo l’adesso.-, disse.
-Già. E l’adesso è tutto ciò che abbiamo. Sicuro di volerlo buttare così?-, chiese Jack.
Il giovane annuì. Il silenzio passò su di loro per un lungo, lunghissimo, ennesimo istante.
-Cominceremo domani.-, disse infine il veterano.

I proiettili scavano buchi nei bersagli. Miryam Goldmann non guarda neppure i proiettili.
Non guarda nulla. Abbraccia l’intera scena. Consapevolezza ambientale, la chiamava il suo istruttore. Lei agisce. Spara. L’esaminatore nel suo caso era un tizio dai lineamenti asiatici.
Tale Mako, così aveva detto di chiamarsi. Esibiva lo stemma dei S.E.A.L. tatuato sull’avambraccio. Uno tosto, ex forze speciali. Un bruttissimo cliente.
Altri boati, altri proiettili a bersaglio. Altra attesa del giudizio. Mako chiama i bersagli.
Colpi singoli e double-tap. Precisione notevole, quasi assoluta. La Beretta ha molto meno rinculo della Desert Eagle che Miryam userebbe normalmente.
-Può bastare.-, dice l’esaminatore dopo averla vista cercare un caricatore aggiuntivo.
I bersagli si avvicinano. Fori netti, colpi precisi, precisissimi. Mako annuisce, soddisfatto.
-Come te la cavi con i calibri d’assalto?-, chiede posandole davanti un Abakan, arma d’assalto discendente del leggendario AK-47. Miryam Glodmann sorride. Pura spavalderia.
-Guarda e impara.-, dice. Sblocca la sicura con un movimento fluido e apre il fuoco.
Pensando che non può permettersi errori.

-Steelfang.-, disse Marco Poretti. Sugli schermi apparvero alcune immagini, uomini e mezzi, un marchio a forma di testa di lupo color grigio metalizzato.
-Un’agenzia di contractors. Servizi di sicurezza e tutto quanto.-, disse Shaibat, -E un discreto quantitativo di affari di dubbia moralità.-. Il gruppo riunito era ristretto, limitato. Jhon, Nô, Neroko e Christine stavano ancora facendo ritorno dal Messico.
-Mi pareva che questa fosse una prerogativa delle agenzie come questa…-, osservò l’uomo.
-Certo. Fino a un certo punto sì.-, ammise Shaibat, -Ma il traffico di eroina afghana e lo sfruttamento di miniere di diamanti in africa solitamente non implica il massacro di interi villaggi.-, altre immagini sugli schermi. Villaggi bruciati, contadini e pastori uccisi in Afghanistan, provincia di Paktika. Campi al rogo e fosse comuni in Africa, Nigeria e Sudan.
-Attualmente, la forza combattente della Steelfang consiste in pochi effettivi selezionati tra il meglio del meglio reperibile sul mercato. Ex Forze Speciali.-, proseguì Marco Poretti.
-Gente in gamba.-, mormorò Antonia DuLac, -E immagino che assaltare la loro sede principale sia fuori questione.-. Cenno di assenso da parte di Shaibat, supportato da nuove foto.
Paesaggi “civili” e grattaceli in lontananza.
-La sede principale è in Hannover, ma il loro consiglio direttivo si riunisce in Svizzera.-, disse Shaibat, -Stiamo ancora cercando la posizione precisa.-.
-Già. Intanto il reclutamento della Steelfang ha aperto i battenti.-, rincarò la dose Marco.
-L’occasione perfetta per infiltrarli.-, disse l’uomo con un sorriso feroce.
-Non da solo.-, lo corresse Miryam Goldmann. L’uomo annuì.
-Intanto io e gli altri cercheremo di scoprire dove si riunisce il consiglio direttivo.-, dichiarò Oleg Kazamov. Shaibat scosse il capo.
-Non proprio, Oleg. Tu ed Helmut infiltrerete a vostra volta la Steelfang. Colpiremo i loro affari in due diversi punti.-, disse, -E costringeremo i loro capi ad un’affrettata e angosciante rimpatriata.-. Lo sguardo della thai si posò su Antonia DuLac. La baronessa agganciò i suoi occhi coi propri, senza soggezione o paura. Tra le due donne passò alta tensione.
-Che la nostra esimia Baronessa sarà lieta di suggellare.-, disse.
-Bien sur.-, sussurrò appena Antonia.

Oleg Kazamov posa l’AK con un sorriso. Sa di aver fatto un buon lavoro.
L’esaminatrice, una bionda con cresta alla moicana, sorride. Incoraggiante possibilità.
-Bene. Direi che con il tiro ci siamo.-, decreta. Ci sarebbe mancato!
Ex Spetsnaz, Oleg era stato uno dei migliori nel tiro a lunga-media-corta distanza durante l’addestramento che aveva preceduto il suo battesimo del fuoco.
Sorride pensando che l’infiltrazione era iniziata bene.

Helmut Khöl espira. Spara. L’M4 rincula contro la sua spalla. Ma il tedesco non si fa cogliere impreparato. Termina il caricatore e, lasciando pendere l’arma dalla cinghia a tracolla, estrae la pistola. Tiro dinamico. Avanza sparando in movimento, pura meccanica dell’arte del combattimento. L’ultimo bersaglio crolla. L’esaminatore richiama i bersagli. Un tizio sui cinquant’anni, muscoli e tatuaggi, cicatrici sul viso e sulle braccia. Un veterano, Khöl lo aveva inquadrato subito.
-Colpi precisi. Bene. Ex-Bundeswhar, giusto?-, chiede. Khöl annuisce, sugli attenti.
Disciplinato e marziale. Un residuo della sua passata fedeltà all’esercito tedesco.
Almeno prima della morte di sua sorella, l’ultima persona rimastagli.
-Direi che può bastare.-, decreta l’istruttore. Khöl annuisce.

L’uomo si guarda rapidamente attorno. Individua Miryam poco distante, vestita con una maglia a maniche corte che differiva dalla sua solo nel colore e nelle scritte. L’israeliana osserva davanti a sé, conscia dei dintorni e della situazione.
Insieme a loro altre quattro reclute. Due uomini e due donne.  Solo loro erano stati in grado di superare l’esame. Selezioni durissime alla Steelclaw.
La sala é spoglia, salvo per il tavolo davanti a loro e la bandiera della compagnia. Un vessillo sobrio e trasudante ferocia atavica. L’uomo non può dire di amare quell’atmosfera.
L’uomo che salì sul palco gli piace anche meno. Un tizio coi capelli bianchi e il viso scavato. Il braccio destro scintillante d’acciaio e titanio. Una protesi che arrivava fino alla spalla. Nessun tentativo di nasconderla. Nessuna vergogna. Comprensibile.
-Benvenuti nella Steelclaw, reclute. Ora siete volontari. Nel corso della vostra carriera qui sarà possibile per voi assurgere a gradi più elevati, nello specifico, aiutante, sergente, sergente maggiore, maggiore, luogotenente e tenente, seguito da  tenente colonnello e comandante operativo. Nessuno di voi potrà tuttavia andare oltre il grado di sergente maggiore senza previa consultazione del consiglio direttivo. Certo, ovviamente tutto questo se sarete ancora vivi…-, le parole vengono dette con un ghigno tutt’altro che simpatico.
Classico, normalissimo umorismo da truppa. Patetico ma funzionale. Ricorda che nessuno vive in eterno. Tutti cadono prima o dopo. E nessuno salva nessuno.
Soprattutto, nessuno salva nessuno da sé stesso. Ma l’uomo quello lo sa bene.
Si ricorda con precisione assoluta il momento in cui l’ha capito.

Jack Ramson lo mise sotto. Crudelmente. Corsa, esercizi, tiro con la pistola d’ordinanza del vecchio, con il revolver, con l’M16A1 di Jack. Smontare e rimontare le armi. Manutenzione.
Corpo a corpo con coltelli veri. Lame nude baluginanti  nel torrido calore del Mojave.
E, dopo tutto quel calvario, l’ultima, terribile prova.
In quei giorni, Jack gli aveva detto di badare a una capretta. Lui l’aveva fatto.
La capretta era divenuta… amichevole. A suo modo. Il giovane non era mai stato granché con gli animali ma quella capra… era diverso. Le aveva pure dato un nome, Betsy.
 Così, il quarto giorno, Jack lo sorprese.
-Uccidila.-, disse dandogli un coltello. Baionetta dell’esercito U.S. Decisamente adatta al lavoro.
Ma lui sentì una certa esitazione. Eppure sapeva che non poteva esitare.
La capra lo guardò, legata al palo, belò, forse intuendo ciò che stava per accadere, forse pregando. Forse no. Jack, Redjack, ex-MACV/SOG, osservava la scena da lontano.
L’uomo si mosse. Arrivò davanti alla capra. La guardò. Eccolo. Il tributo. L’unico.
Il suo battesimo. Era orribile. Ma necessario. Strinse la baionetta fino a sbiancare le nocche.
Affondò il pugnale. La capra lamentò, gorgogliò. Sangue a schizzi. Non si fermò. Pose fine.
Poi, quando l’animale giacque immobile, riuscì ad alzarsi. Era sporco di sangue.
-Ben fatto. Pranzo assicurato.-, disse Jack, -Ma non l’ho fatto per crudeltà gratuita.-.
-È per insegnarmi.-, capì il giovane. Jack annuì.
-Il corpo a corpo è estremamente intimo, è come fare sesso, e ogni volta è diverso, sebbene uguale. Uccidere da distanza è facile…. È da vicino che la cosa diventa problematica. Per quello che ti tocca ricordare.-, disse lui. S’interruppe tossendo. L’uomo notò che nello sputo del veterano c’erano striature rosso cremisi. Sangue. Ebbe il buon senso di non fare domande.
-Benvenuto nella grande famiglia dei killer, ragazzo.-, nessun tono sprezzante ora. Solo consapevole e assoluta coscienza della nuova realtà. E anche il giovane annuì.
-Ora dovrai cucinarla, lo sai vero?-, chiese Jack. Lui annuì. Il vuoto chiamava. Incalzante.

-Il vostro compenso sarà di diecimila dollari a ora in zona gialla, detta di vigilanza. E di ben trentamila per ora in zona rossa.-, dichiara la bionda agli astanti. Oltre a Helmut e Oleg solo un tizio ce l’ha fatta. Un nero muscoloso, dall’accento bizzarramente francese. Forse proveniente dalla Legione Straniera, -Cure mediche e spese associate sono a nostro carico. Potrete inviare il vostro stipendio su un conto a vostra scelta. In caso di decesso, sarà inviato al vostro parente più prossimo, salvo diverse indicazioni da parte vostra.-.
-Tutto chiaro?-, domanda la bionda. Ora Oleg può sentire il suo accento. Slavo, balcanico.
Bosnia? Kosovo? Albania? O altro? Quale dei tanti abissi di ferocia a malapena suturati dalla tanto fragile coalizione NATO? Sarajevo? Sniper Alley? Impossibile sapere, ininfluente.
-Tutto chiaro, signora!-, esclamano in coro i tre in perfetto inglese. Lei annuisce.
-Imbarco alle 13.00.-, dice, -Sono le 10.00. Gli alloggi sono sulla sinistra fuori da questa sala. Doccia e pranzo, avete dieci minuti per entrambi. Dopodiché presentatevi allo studio medico per le vaccinazioni. Destinazione Afghanistan.-, decreta. Un ultimo istante di silenzio.
-Rompete le righe.-, ordina. Ultimo attenti e la compagine si disgrega.
Oleg osserva per un istante la bionda, che pare ricambiare. Il russo annuisce. Sorride anche.
E lei sorride di rimando. Contatto…
Il russo comprende, intuisce, che l’infiltrazione sarà profonda.

Pur notando l’attenzione dell’uomo, Miryam si era imposta di comunicare il minimo con lui.
Accordo preso in precedenza: dovevano sembrare degli estranei. Fin lì aveva funzionato.
Si siede sulla branda e si toglie la maglietta. È sudata. Si toglie anche i pantaloni, via le calze, il reggiseno vola a terra, raggiunto dal tanga. Nuda, si avvicina alla doccia. Apre l’acqua.
La regola rapidamente. Calda, bollente. Poi fredda. Getti che investono la pelle frizionandola.
Lavaggio rapido, essenziale, che non fornisce alcuno spunto per eventuali piacevoli divagazioni erotiche. Si riveste con il cambio fornito dalla Steelclaw.
 Esce incrociando uno dei mercenari. Un biondo. Probabilmente norvegese o svedese a giudicare dalla fisionomia e dal saluto, l’accento nordico che pesa sul suo inglese.
Ricambia senza concedergli spazio per aperture. Meno intrusioni nella sua privacy avrà, meglio sarà. Raggiunge la mensa. Individua l’uomo. Seduto da solo a uno dei banchi si mangia il rancio. Zuppa di qualche tipo. Sicuramente a basso costo. Comunque Miryam si avvicina appena. -Si può?-, chiede. Educata ma non sottomessa. Lui annuisce.
-Miryam Tamari.-, dice presentandosi con il nome di copertura.
-Alexander Maxwell.-, si presenta lui a sua volta. Stretta di mani. Lei batte appena sul tavolo mentre mangia. Lui batte a sua volta.
-Solito rancio, eh?-, chiede lei. Lui annuisce. –Che facevi prima di questo?-, chiede.
-Esercito israeliano. Mossad, prima di un brutto affare interno…-, risponde lei, -Tu?-.
-Forze Speciali americane. De oppresso liberi!-, dice con una certa fierezza. Miryam annuisce.
-È vero quello che si dice delle israeliane?-, chiede lui con un sorriso sornione.
Lei sorride a sua volta. Altri battiti sul tavolo appena percettibili ma nondimeno notati.
-Ossia?-, chiede senza smettere di sorridere. Ultima sequenza di battiti.

-Che a letto ti fanno sputare sangue.-, risponde lui ghignando. Lei sorride. Annuisce.

L’uomo sorride a sua volta. Messaggio recepito.
“Camera senza telecamere o cimici. Possibili meccanismi di sorveglianza. Evitiamo ulteriori contatti verbali.”, decifra il codice con rapidità dovuta alla ripetizione ossessiva.
-Quanto ci tieni a scoprirlo, Alexander?-, chiede lei. Faccia decisamente interessata.
-Tu decidi il quanto… Io ti dico il quando.-, risponde lui.
-Partiamo fra tre ore. Non credo ci siano molte occasioni visti i controlli.-, dice Miryam.
-Non qui, vero. Ma in Africa…-, la voce dell’uomo diviene più sottile, sibillina, -Sicuramente ci saranno possibilità. È un luogo magico e selvaggio.-.
-Ne parli come se ci fossi stato.-, osserva lei. Non è un dialogo previsto, ed è meglio così.
-No. Ma un mio amico sì. È tornato cambiato.-, corregge lui, -E desidero andarci a mia volta.-.
-Ci aspetta sicuramente un lavoro infernale… Parliamo della Nigeria.-, nota l’israeliana.
L’uomo annuisce. Lo sa, lo sanno entrambi. Lei si alza. Rancio finito.
-Arrivederci, Alexander.-, dice con un sorriso. Lui annuisce. Osserva la zuppa mentre la finisce.
Ricordando di come fosse finito il suo addestramento presso Jack Ramson.

Pioveva. Scrosci di tempesta. Il deserto non vedeva mai la pioggia. Era impossibile.
Eppure ora pioveva sul deserto. Non sarebbe durata a lungo, ma era comunque un evento epocale. Era notte. Le tre o le quattro. L’ex Berretto Verde osservò il giovane.
-Sei stato un buon allievo, ragazzo.-, dice, la voce stanca.
-Solo perché tu sei stato un ottimo insegnante.-, risponde lui. Nessuna soggezione. Sono quasi uguali, ora. Jack sospira. Prende il bicchiere e versa una generosa dose di Glenfiddich.
Poi fa lo stesso con il bicchiere del giovane. Bevono senza brindare.
-Ragazzo, quando sei arrivato hai parlato di abissi. E non dubito che tu conosca baratri che io non ho mai visto. Ma sicuramente non conosci gli altri abissi. E penso che l’ultima lezione sia questa.-, la tosse squassò il vecchio. Non si curò di nascondere il catarro striato di sangue.
-Cancro?-, chiese il giovane.
-Anche. O forse no. Il fottuto Agente Arancio. Ci dicevano che non era letale, che non c’era pericolo. E invece…-, il gesto della mano di Jack fu fatalismo puro.
-I miei compagni di squadra sono morti. L’ultimo due anni fa. La mia famiglia, ciò che rimane, mi odia. Non vogliono neanche sapere chi io sia. Pensano che sia come quel tizio, quel tenentino di May Ly… Un assassino di bambini e donne.-, altra tosse, altri spasmi.
-Ma non lo sono. Sono stato un patriota. E non intendo morire come un cazzo di rottame.-, la mano compì un gesto. Il revolver ricomparve. Jack lo porse al giovane.
-Vuoi che io ponga fine.-, dice lui. Non era una domanda.
-Battesimo del fuoco. Rito di passaggio. La tua ultima prova. E l’unico pagamento che richiedo.-, precisò l’uomo.
-Porre fine.-, nessuna domanda. Non ancora, forse mai. Non servivano.
-Al petto, mi raccomando. Come ti ho insegnato. Colpo singolo al petto o alla testa, mai più in basso.-, lo esortò il vecchio. Il giovane prese il revolver, aprì il tamburo. Caricò i colpi.
Un rito da consumarsi lentissimo. Il vecchio sospirò.
-Dall’altra parte ci sono altri baratri?-, chiese il giovane. Jack sorrise.
-E cos’altro? I baratri ci sono sempre. Scegliti un incubo e rimani fedele ad esso.-, il giovane abbassò il cane. Clack! Il vecchio non chiuse gli occhi. Lo guardò. Apprezzava, riconosceva.
La pioggia smise, improvvisamente. Il dito sul grilletto del giovane strinse. Millimetri al limite.
-La casa è minata. Non lascerò niente dietro di me. Una volta morto, usa il telecomando che ti ho dato. Esci, portati a cento metri e fai detonare le cariche. Cancelleranno tutto, inclusa la memoria del dolore.-, sospira Redjack.
-Perché Redjack?-, chiese il giovane. Accigliarsi improvviso. Il vecchio non si aspettava la domanda, ma il giovane la fece nondimeno, -Che significa?-.

-Jack il rosso. È dovuto al colore dei capelli… o almeno, un tempo.-, ammise l’altro.
Il giovane annuì. C’era altro da dire? Non lo sapeva.
-Ultime parole?-, chiese. Si sforzò di non far tremare la mano. Non era facile.
Jack Ramson, ex MACV-SOG, patriota e soldato, scosse il capo. Il giovane annuì.
Premette il grilletto. Colpo preciso al cuore. Prendendo con sé il revolver e il controllo, si prese anche i soldi lasciati dal vecchio. Uscì dalla casa.
Era l’alba, un’alba bellissima e terribile come nessun’altra mai. Da qualche parte, un’aquila urlò il suo saluto al guerriero. Arrivato a duecento metri, il giovane annuì. Guardò verso la casa, tributando un muto ringraziamento al vecchio.
Fu una comunione silenziosa, una lode e una preghiera a un dio che l’uomo non riusciva più a venerare, da moltissimo. Poi pigiò il clacker. 
La detonazione disintegrò la casa e tutto ciò che c’era dentro. Lui non se ne curò. Era finita. Ed era appena iniziata. Ci sarebbe voluto qualche giorno e una ragazza in lacrime, ma presto, la sua città avrebbe visto nascere qualcosa di grande, qualcosa che nessuno avrebbe mai potuto dimenticare.

Oleg sospira. L’infiltrazione é profonda. La vulva della bionda che l’aveva atteso in camera lo é anche di più. Poche parole. Nomi detti tra baci infoiati, la confessione della sua ninfomania.
Poi solo sesso, solo godimento. Solo lui dentro di lei.
Quanto era che Oleg Kazamov non faceva sesso? Quand’era stata l’ultima volta?
Un buon due anni fa. E nonostante ciò, l’uomo se la cava, prendendo Sofia (così si chiama la bionda) con foga sulla branda, poi nella doccia. Lei gode più volte, sussurrando imprecazioni in serbo. Lui le stringe i seni e le natiche, viola lo sfintere di lei con le dita. Lei s’inarca.
Geme ancora, impreca. Probabilmente qualcuno li sente. Sicuramente non importa.
Oleg Kazamov le affonda dentro spietatamente, la invade, la riempie senza pietà.
La viola, riprendendosi due anni di astinenza. Sofia è una sirena antiaerea. Impossibile che non la sentano, ma non importa. Sotto il getto scrosciante e bollente della doccia la giovane s’inginocchia. Pochi istanti e riceve il seme di Oleg su viso, collo e petto. Sorride. Anche Oleg sorride, pensando che quello è l’unico momento di piacere che avrà da questa missione.
Il resto sarà… spiacevole.

L’uomo sogna il bianco. È bianco puro, assoluto. La costante della sua follia, l’incubo che, fedele alle parole di un morto, si è scelto e al quale resterà fedele sino in fondo.
Sono passati due anni dalla fine del Consiglio dei Sedici e quel bianco è rimasto, l’abissale richiamo di un dolore e di una rabbia terribili compressi nel suo essere sino a plasmare queste energie e dar loro se non un senso quantomeno una pacificazione.
Ma il bianco è rimasto, a dispetto di tutto. È lì e preme, chiama. L’uomo apre gli occhi.
C-130 Hercules, in volo verso l’ennesimo inferno in terra. Nigeria.
-Dove siamo?-, chiede a Miryam, seduta accanto a lui.
-Stiamo per atterrare.-, risponde lei. Come lui indossa pantaloni 5.11, giubbotto tattico nero come i suddetti, uniforme 5.11 nera, elmetto e guanti. Le armi sono AN-94 Abakan e pistole M1911. Nessun’ottica o mirini termici, inadatti al clima e all’umidità dell’Africa. Solo un membro della squadra ha una mitragliatrice. M60, un rimasuglio di guerre passate. Un rottame se confrontato con le mitragliatrici odierne.
-Allora ragazzi. La missione è semplice. C’è un focolaio di guerriglia quaggiù. Ci pagano profumatamente per fare sì che il focolaio sparisca nel nulla.-, la voce dell’ufficiale in comando pareva amplificata dalla convessità del vano di carico.
-Niente prigionieri. Nessuna pietà. Per nessuno. Sono tutti nemici.-, sottolinea l’ufficiale.
È l’uomo con la protesi. Oltre a loro ci sono altri quattro trooper. Troppi da affrontare da soli.
Eppure l’uomo sa, intuisce, che questa missione non è ciò che appare essere.

Miryam Goldmann ha un dono. Il saper fiutare il marcio. Quel dono l’ha resa scomoda nel esercito d’Israele, scomoda nel Mossad e l’avrebbe sicuramente resa scomoda anche lì.
Ma quella missione le puzzava, molto. Non c’erano gruppi di ribelli di cui si parlasse in Nigeria.
Almeno, non che se ne parlasse. E questo per l’agente del Mossad significa che c’é qualcos’altro. Petrolio, forse un nuovo giacimento. Forse non condivisibile da parte della popolazione o dello stato. E qui subentra la Steelfang con i suoi soldati a pagamento, con i suoi spettri emersi dal sottosuolo, dalle legioni maledette. Anime dannate, portatori di fuoco.
Latori della devastazione. In nome di cosa? Di chi?
La missione non le piace. Non le piace per niente. E a uno sguardo dell’uomo, l’israeliana capisce che neanche a lui piace. Per nulla. La decisione è silenziosa, assoluta nella sua tranquillità, agghiacciante. Il tutto proprio mentre l’ufficiale chiede se ci sono domande.
-Elementi nemici in zona?-, chiede una donna dalla voce roca.
-Almeno una ventina, ma sono poco e per nulla addestrati. Realmente non sono una minaccia. Noi sbarcheremo a un presidio dell’esercito nigeriano per poi dirigerci in zona operativa tramite dei mezzi forniti da loro.-, pausa studiata ad arte dal capomissione, -Ci pagano più che profumatamente per questa missione, signori e signore. Facciamo un lavoro rapido e pulito.-.
-Waw.-, rispondono tutti, incluso l’uomo e Miryam.

L’ufficiale annuisce, apparentemente compiaciuto, consapevole. Lieto.

L’atterraggio è rapido. Dislocati su due pickup con annessa mitragliera.
Teknike, come le chiamano da queste parti. Mezzi da quarto mondo per guerre da fine di tutti i mondi possibili e non. Miryam balza su quella davanti, l’uomo su quella dietro.
Caldo feroce, aria secca priva di umidità. Condotte petrolifere costeggiate, bottiglie d’acqua passate da soldato a soldato, idratazione essenziale. L’uomo sa che tutti loro hanno il camelbak sulla schiena pieno di acqua fino a tre litri ma sa anche che quello non é semplicemente un atto di cortesia, pare quasi di più, un rito propiziatorio.
Una libagione al dio sbagliato. L’uomo lo sa bene. Nella sua mente ha già deciso come agire e sa che anche Miryam lo ha fatto.
Deve, anzi devono, solo aspettare il momento migliore. E pianificare un modo per lasciare la Nigeria a missione compiuta, ma quello non sarebbe stato un problema.

Zona operativa. Un villaggio. Pochi uomini, donne e bambini. Nessun’arma in vista.
L’uomo capisce. L’uomo comprende. L’uomo sa. Si posiziona.
I contractors imbracciano le armi, tolgono le sicure. Massacro annunciato.
Colpi in canna. Il panico inizia a diffondersi. Un giovane si sbraccia, una donna cade in ginocchio. Neanche un colpo e già tutti sanno, già si aspettano la strage.
Bang!
Il capomissione crolla, il petto trapassato dal calibro 50. della pistola di Miryam. La Desert Eagle era una scelta disponibile all’armeria e lei non aveva fatto complimenti, evidentemente.
Indecisione, confusione, istanti persi. L’uomo non esita. Colpi rapidi con l’Abakan Double-tap zona petto-testa. I nemici più vicini cadono come pere. Gli altri tardano a reagire, colti dal fuoco incrociato. Colpi diretti al collo e alla testa.
 Colpi letali. Nessuna pietà. Nessuna redenzione per quella gente. Probabilmente, a parti invertite farebbero lo stesso. Qualcuno tenta di opporre resistenza. 
Troppo tardi: l’uomo e Miryam avevano preparato quel piano con largo, larghissimo anticipo.
Non avrebbero permesso a quei mastini della guerra di violare la pace di quel luogo.
Colpi precisi, senz’anima. Urla di dolore, tentativi di reazione. Inutili.
Ed è tutto finito in un tempo brevissimo. Cinque  o meno 
-Voi… chi siete?-, domanda una donna avvolta in boubou multicolore.
-Siamo spettri.-, dice l’uomo, -E siamo spade.-. Non c’è altro da dire. Non è neppure sicuro che avrebbero capito, in effetti è meglio per loro che rimangano ignari.

-Dobbiamo chiamare Marco. Farci recuperare.-, mormora Miryam. Armeggia con le tasche del battle-dress fino a estrarre un cellulare. Chiama. Poche frasi essenziali.
-Un elicottero è in volo da Ajuba.-, riferisce lei dopo aver chiuso la chiamata.
-Allora andiamocene.-, dice l’uomo.
-E le armi?-, chiede l’israeliana. Giacciono nel fango e nella polvere. L’uomo non le guarda.
-Lasciale lì. Mal che vada potranno usarle loro per difendersi.-, dice.
-Un’altra banda di predoni?-, chiede Miryam. L’uomo scuote il capo.
-No. Ma questa non è una scelta che spetta a noi, ma a loro.-, dice. I due si allontanarono nel vento caldo dell’Africa. Nessuno al villaggio osò fare una mossa finché non li videro sparire.
Poi, solo poi, lentamente, la gente del villaggio prese ad avvicinarsi ai morti.

 

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